Lo spirito del Nord

Il nome poteva quasi far paura: attraverso le Fiandre. Il suono rendeva l'idea di questo attraversamento, Dwars door Vlaanderen. Non è facile attraversare un luogo, pensate le Fiandre. Quasi un bosco di notte. Dove gli alberi e l'oscurità sono i settori in pavé e le vie che diventano evocative, come Mariaborestraat che è onomatopea e bici in piegamento. E tra quelle vie, quei tratti e quelle pietre si scompone il ciclismo, quasi un disegno futurista, una proiezione di colori e modi di viverlo: dai tifosi che corrono da una parte all'altra, alle bandiere che sventolano anche arricciate e ripiegate dal vento, alle birre e alle voci che parlano una lingua straniera di cui, nel tempo, hai imparato i termini chiave per seguire la corsa, per sapere cosa accade. Possiamo dirlo in molti modi, noi parliamo di uno spirito: lo spirito del Nord.

Uno spirito che è nel modo di attraversare le pietre, perché si potrebbe scrivere un libro sul dinamismo di un ciclista sulle pietre. O in un'idea: quella di Pidcock che attacca e prova a far la corsa dalla testa. Di Campenaerts che è lo spirito dell'attacco, dell'invenzione anche bizzarra, quasi dell'impossibile o del buffo. È lo spirito che serve per attraversare questi posti, che passano dalla dolcezza all'aspro in pochissimo. Questione di cielo grigio, di vento, di qualcosa di cupo che non sai spiegare ma attrae. Chiara Consonni conosce la lingua delle Fiandre, non quella che si parla, quella che serve per decifrarla e magari per vincere.

Guardate la sua volata, guardate chi ha battuto e l'apparente leggerezza che ci ha messo. Qualcosa che contrasta con la forza sui pedali in volata. Era lì, era sempre lì in questo inizio stagione, ma mancava sempre qualcosa. Quello spirito delle Fiandre di cui parlavamo si capisce così: tenendo duro e buttandosi nella mischia, sprigionando velocità che è fatica, certamente, ma anche capacità di darle un senso, di non appesantirla. Bastano le mani a gesticolare o l'espressione del volto e Consonni parla senza parlare.
Lo spirito è anche quello di Mathieu Van der Poel che fremeva già ai novanta chilometri dall'arrivo e, diciamocelo, non aspettavamo altro. Vederlo in azione è sempre bello, se poi quell'azione sa di ritorno anche di più. Si è detto più volte che, quando fa le cose lui, hanno un gusto particolare, hanno dentro un che di differente. Sarà questo spirito del Nord che nasce qui ma come vento non ha casa e lo porti ovunque. Puoi scoprirlo o averlo già dentro e ritrovarlo: manifestazione, apparizione. Avrebbe potuto risparmiarsi, fare attenzione, vincerla sì, ma vincerla diversamente. Lo ha fatto con tutto quello che ha, con tutto quello che è. Attaccando e rispondendo. Sollecitando anche la risposta degli altri, facendo esplodere la corsa perché basta uno scatto per movimentare una gara di ciclismo. Se poi a scattare è uno come lui, gli altri devono mettersi sull'attenti.

Lo spirito del Nord è quello che ti fa tirare fuori la parte più umana di te, quella delle sensazioni lasciate libere. Lo stesso accade in Pogačar e in Benoot. Lo spirito del nord è quello che ti fa vedere la bellezza ovunque sia, in ogni momento. Anche in una volata persa. Le mani di Benoot che battono mentre guarda van der Poel sono di questo spirito, di questo vento freddo che fa sudare.
Siamo rimasti a vedere e avremmo voluto non finisse perché la realtà fa per forza torto all'immaginazione. Ed è finita ma prosegue lo stesso. Domenica c'è il Fiandre. L’attraversamento continua.


Semplicemente Biniam Girmay

Se ci pensate attentamente, ciò che distingue la normalità dal talento è la semplicità. La semplicità nel fare tutto così bene. La semplicità nel correre in gruppo, nel muoversi e nell'imparare a limare, nonostante queste siano le prime volte che ti trovi a correre al Nord.
Il far sembrare normale elementi chiave che ad altri non riescono così facili, appunto, così bene. E può essere anche che il nodo sia in quel suo modo di essere che poi è una delle prime parole che aveva imparato a dire in francese: "Tranquillo", che presto è diventata una delle sue parole preferite, uno stato dell'anima che lo distingue.
E bisogna essere tranquilli che poi non è così diverso dall'essere semplici. Queste sono terre dove ci vogliono anni per imparare: i muri, le stradine, quei tranelli che in una corsa del Nord spuntano ovunque, sotto forma di strappi in pavé, di tratti accidentati, fuorigiri da gestire, e gli spartitraffico, e lo scegliere la ruota giusta, e le folate di vento che ti travolgono di lato o ti possono frenare quando ti arrivano in faccia, e il sapere ascoltare i consigli dei compagni e della propria ammiraglia.
Ciò che distingue Biniam Ghirmay è proprio la caratteristica di chi, se non è un campione, poco ci manca. Se per un attimo pensiamo non sia un fuoriclasse, beh, allora forse stiamo guardando un altro sport.
La semplicità (o la tranquillità, apparente almeno) nello scollinare il Kemmelberg sempre attento, davanti, senza sprecare un briciolo in più di energia, mentre magari Wout van Aert mette al servizio della gente lo spettacolo, sgasando a più non posso; mentre Pedersen invece le energie le dilapida. Oppure c'è Démare che fa paura a vederlo passare i muri nelle primissime posizione.
L'attenzione e il colpo d'occhio: come quando dopo l'ultimo passaggio sul Kemmelberg, dopo una serie di scatti e contro scatti, Biniam Girmay si infila dentro l'attacco decisivo in un gruppetto che comprende Stuyven, Laporte e Van Gestel: fortuna o talento, o del saper scegliere il momento giusto.
L'idea, quella dei campioni navigati, dei furbi dove per furbi si intende talento al servizio dello sport. L'idea di iniziare lo sprint in quarta ruota, partendo prima degli altri nonostante il vento che colpisce: «Perché ho anticipato? Non lo so, ero fiducioso... woah, ancora non ci credo!»
Anticipare, perché si sa che quello è un modo per sopravvivere e dove sopravvivere significa vincere la Gent-Wevelgem a 22 anni, e fare la storia, perché di questo oggi parliamo quando troviamo Biniam Girmay davanti a tutti sulla linea del traguardo.
La semplicità nel rispondere alle domande, la tranquillità dietro un sorriso che non riesce a trattenere, lui che vorrebbe vincere la Roubaix e il Tour, che pare un pensiero tanto banale detto da un corridore, quanto tutt'altro che fuori luogo.
Quella mezza risata a fine gara, alla domanda: «E ora cambio di programma? Tra una settimana c'è il Fiandre, ti vedremo anche lì?».
«Non penso. Sono in giro da tre mesi. Mi manca mia moglie e le mie figlie e ora voglio solamente tornare a casa». E poi ti aspettiamo al Giro, Bini, per continuare questo racconto.


Di forza e talento

Due scenari completamente differenti, un esito simile, più o meno: la vittoria dei due personaggi più attesi. Due scenari differenti, due modi differenti, esiti simili: la vittoria della forza, intesa come singola e di squadra. La vittoria del talento. Siccome non guasta mai lo rimarchiamo.
Due mondi ciclistici differenti: da una parte la Coppi & Bartali, la fuga di giornata, lo scatto per riprendere la fuga di giornata, poi far parte di quella fuga, essere ripreso, avere lo stesso la forza di sprintare e di vincere: primo successo stagionale e una bella mortazza come premio. E no, non può mai ottenere la ribalta in maniera tradizionale uno come Mathieu van der Poel.
Dall'altre parte, o meglio più in su, ad Harelbeke, l' E3 o quello che volete voi, con quel nome che cambia continuamente. Una corsa che è un veloce ripasso in chiave Ronde.
Si dà il via a quelle due settimane di gare che sono il momento più atteso per una buona fetta di appassionati. Le classiche del Nord. Le corse delle pietre e dei muri. Di quelle strade che si allargano e poi si restringono, curve e controcurve, di quei nomi duri ma che ormai abbiamo imparato a memoria. Di quelle curve sbagliate dove a volte finisci lungo nei campi e c'è sempre un tifoso con una bandiera fiamminga che ti fa una foto o prova a darti una mano a rialzarti. Di gruppetti con corridori sparpagliati ovunque come se fosse un giro la domenica nei campi dietro casa.

Col gruppo a tutta che rilancia e se sei dietro è come una sberla all'improvviso, poi quegli strappetti e alcuni persino senza pavé, che sembra quasi una bestemmia. Poi quando mancano ottanta chilometri all'arrivo - circa un paio di ore - l'attacco (di van Aert) , sul Taaienberg, non un posto normale, ma iconico per i fiamminghi, fra tutti i "bergen", il "berg" di Boonen.
E allora c'è chi finge e chi fa sul serio: si studiano volti e gambe, sensazioni e azioni. Si dice: "questo va su facile" (Girmay), mentre "quello va su elegante che pare non far fatica" (van Baarle). "Quello fa un po' di scena" (Mohorič), sembra al limite, sembra si stia staccando. Poi resta lì, dove lì, però, non è la ruota di van Aert, né quella di Laporte.
La forza e il talento: c'è il Patenberg con van Aert che accelera e stacca tutti tranne Laporte, fedele gemello di questo inizio di stagione. C'è la parata fino all'arrivo che non piace a tutti, ma tant'è. Oggi da Montecatini fin su nelle Fiandre hanno vinto la forza e il talento. Tanto basta.


Speciale, la storia di chi si vede meno

Ci viene da pensare che le vittorie di Francesca Pellegrini, al Piccolo Trofeo Binda, e di Elisa Balsamo, al Trofeo Binda, siano collegate da una storia. Una storia semplice, dal titolo delicato: Speciale. Ovvero la storia di chi si vede meno.

Ce lo hanno detto a pochi metri dal traguardo parlando di Francesca Pellegrini e del gioco di squadra. Chi l'ha vista crescere ci ha spiegato che di solito si impara a fare gioco di squadra e che nelle categorie giovanili, forse, si fa meno gioco di squadra, perché chi è forte prova a vincere e gli altri, coloro che restano staccati, magari si arrendono. Lei no, lei l'ha sempre fatto, senza che nessuno glielo chiedesse: aiutava il gruppo a rientrare sulle attaccanti e poi arrivava sfinita. Si parlava delle altre, le stesse che lei aveva riportato sotto. Pellegrini si notava poco, eseguiva le tattiche di squadra ed era contenta così. Il pensiero è che certe cose, Francesca, le avesse viste seguendo il ciclismo in televisione e le applicasse di spontanea volontà. «E oggi ha vinto così: è speciale, come chi si vede meno».

Pochi minuti dopo sul traguardo di Cittiglio, avrebbe vinto Elisa Balsamo che, in fondo, somiglia a Francesca Pellegrini. Per il modo di guardare le cose. Tutti l'aspettavano stamattina alla partenza e lei non ha deluso, con il suo senso del dovere e con quell'incredulità che abbiamo imparato a conoscere. Perché Elisa Balsamo non è abituata ad essere Elisa Balsamo come tutti la immaginano. Lei è e resta una ragazza che «talvolta ha nostalgia del Monviso quando guarda fuori dalla finestra della sua nuova casa». Ci ha detto così. E allora non sorprende che sia Longo Borghini a invitare il pubblico ad applaudire ancora più forte. Mentre lei guarda un punto indefinito e pensa. Sul podio con Sofia Bertizzolo e Soraya Paladin.
Ma “Speciale, ovvero la storia di chi si vede meno”, ha, in realtà, più storie. Tutte che convergono lì, davanti, come un auspicio. Per esempio quella di chi ha spalmato una crema riscaldante sulle gambe delle ragazze del Piccolo Trofeo Binda questa mattina e l'ha spalmata fino all'ultimo, fino all'assorbimento completo, fino a che non si vedeva più. Ha persino detto alle ragazze di non metterla sulle mani «perché altrimenti fate fatica a toccare il freno».

Oppure quella di Martina Sanfilippo che oggi ha attaccato sin dalle prime battute di gara, forse sbagliando, forse risparmiandosi avrebbe fatto meglio, ma è inutile ripensarci. Sta di fatto che nel finale presa dai crampi ha dovuto fermarsi, ritirarsi. «Sali in auto» ha detto il direttore sportivo. «Posso andare lo stesso all'arrivo in bici?» ha risposto lei. Poi non ce l'ha fatta, ha dovuto fermarsi e salire davvero in ammiraglia. L'ha fatto con dispiacere, reale. Sarebbe voluta arrivare con le proprie gambe, per lei e solo per lei. Anche fuori gara, anche senza essere vista da nessuno. Come, senza che nessuno lo abbia saputo, la prima domanda che ha fatto riguardava Chiara Sacchi, la sua compagna, con un problema meccanico a inizio gara.
E ancora parliamo di quel direttore sportivo che ha urlato «Ce la fai, rientri» a un'atleta di un'altra squadra e, quando gli abbiamo chiesto quanto spesso si faccia, ha risposto: «Spesso. Si è staccata da diversi chilometri ed è sempre qui. Se lo merita. Non so se rientrerà ma era giusto dirglielo». Oppure ai genitori che sfregavano le mani sulle spalle delle figlie per scaldarle.
Tanto altro e, poi, quasi a sera, ancora Elisa Balsamo e Francesca Pellegrini. La prima è un modello della seconda, ma sorpresa, perché «ho bisogno io stessa di modelli e mi fa strano pensare di poter essere un modello per qualcuno». Speciali, come chi si vede meno.


La Sanremo ci racconta l'adrenalina

Sedetevi tifosi, appassionati, suiveur, insomma, chiunque abbia assistito alla Milano-Sanremo di oggi, che proviamo a raccontare l'adrenalina. Sedetevi perché ne avete bisogno anche voi dopo quello che si è visto dalla Cipressa in poi.

Quasi 300 km con la fuga di giornata con Tonelli e Rivi, gli ultimi superstiti che meritano una menzione per tutti gli altri, che pareva non volessero farsi più riprendere: d'altronde è il destino di chi scappa.
Quasi 300 km ma ne bastano poco più di una ventina per mettere in pari ogni giudizio. Per trasformare gli sbadigli in cuori che battono all'impazzata. Per far pendere l'idea generale verso la più semplice delle sentenze: ma che bella Milano-Sanremo abbiamo visto?

Il mare che attende il gruppo a Sanremo è sul nervoso andante, oggi. Le tonalità spingono decise verso il grigio, i saggi di qui dicono sia così perché il mare lavora continuamente con le onde, su e giù, dentro e fuori; si consuma, riflettendo la luce soffusa di un sole pallido che riempie l'aria di bianco panna. Si consuma, come le gambe dei corridori in una corsa che pare facile, ma che ti cuoce.

«È una corsa così lunga che abbiamo avuto tempo di scherzare in gruppo e a un certo punto ho detto: se mi seguite in discesa lo fate a vostro rischio e pericolo», racconterà a fine corsa il vincitore.

Il gruppo, quando scende dal Turchino, vede il mare ma non si fa domande, sa che manca ancora tanto prima di conoscere il destino. Si sente quel vento, però, che spinge forte da dietro, di fianco da ovunque: i marinai dicono che sulle navi non bisognerebbe mai fischiare perché così risvegli Eolo che rischierebbe di farti naufragare.

Credono che, fischiando, si possa evocare una tempesta, e oggi, il mare di Matej Mohorič è in burrasca. Una Cipressa fatta dal gruppo a testa bassa come si è vista di rado e poi un Poggio (ma quanto ci siamo divertiti sul Poggio?) di scatti, rallentamenti, di mal di gambe, dove fischiavano al vento i ciuffi di Pogačar, dove van der Poel inseguiva tutti, dove Turgis c'era, ma magari non lo notavi, dove a un certo punto Kragh Andersen pareva andarsene via, dove van Aert, invece, pensava di poter controllare meglio, ma le gambe, spesso, chi va in bici lo sa, non mantengono le promesse fatte la sera prima al centro di comando.

Tempesta, adrenalina pura, è la discesa di Mohoric che rischia tutto - anche di più: pazzo! avremmo voluto urlargli da bordo strada, lungo quei tornanti infami che caratterizzano la discesa del Poggio.
Allunga, va, costruisce, a un certo punto potrebbe pure distruggere tutto. Ma lui racconta che è stato tutto calcolato: un nuovo reggisella che gli permette di prendere più rischi, una discesa provata e riprovata, salvo due intoppi: azzardi del mestiere del discesista. «Un lungo e poi una sbandata su un tombino, è stato l'unico momento in cui ho temuto di non farcela». Glaciale: ci lascia a bocca aperta e vince.

A noi invece tocca sederci e riprendere fiato, far scendere l'adrenalina e stavolta chiedere scusa alla Sanremo se a volte dubitiamo di lei.

Weird oppure bizzarro, e i milanesi che volevano spianare il Turchino

Metti una mattina presto al Velodromo Maspes-Vigorelli. Operai a lavoro. Cielo grigio e un po' di vento. Noi dentro ad annusare l'aria di un luogo sacro. Incrociamo quattro ragazzi, scopriremo subito essere olandesi, che hanno avuto la nostra stessa idea. E hanno la nostra stessa reazione: sgranano gli occhi davanti a quello che gli si mostra davanti. Sono qui in Italia per la Milano-Sanremo, ci dicono, «e una tappa qui al velodromo era dovuta».

Uno di loro prende e va sulle sue gambe. Goffo e ingobbito simula un pistard in piena azione – chissà nella sua testa chi era quel corridore - e prova a lanciarsi correndo a piedi fino in curva. Si ferma, sembra ansimare - in effetti le pendenze non sono mica male fino alla balaustra. Urla: «Weird!», bizzarro diremmo noi. Poi si gira e fa un segno con il pollice come dire “ok”.

Gli diciamo che è arrivata la notizia che al via della Milano-Sanremo ci sarà anche van der Poel, sgranano di nuovo gli occhi, ripetono «Weird!», e poi ci danno appuntamento a domani, saranno sul Poggio a tifare. Con la presenza di van der Poel, avranno uno stimolo in più nella lunga attesa prima che i corridori giungeranno sul bitorzolo occhiuto che guarda Sanremo. Loro lì dalla sera prima per un momento che durerà si e no qualche secondo. Tutto sul Poggio che, come da copione, deciderà e sconquasserà la corsa nei folli e adrenalinici quindici minuti finali.

Weird, davvero, bizzarro. Vigilia particolare. In una laterale dietro il velodromo ci sono bici parcheggiate su un cartello che recita “vietato appoggiare le biciclette”. Trasgressione. Attraversiamo Milano perché il così detto Quartier Generale è situato dall'altra parte della città rispetto alla partenza di domani che avverrà, per la prima volta, proprio dal Vigorelli.

Bizzarro, weird, davvero. Domanda: «Ma cosa intende lei per spianare il Turchino?». Risposta: «Portarlo letteralmente al livello del mare». Alcuni milanesi ci raccontano questa storia: qualcuno sosteneva che la presenza del Turchino fosse la causa della nebbia in Val Padana e in effetti c'è un video su YouTube che testimonia la teoria. A fine anni '70, in un programma che andava in onda sulla Rai condotto da Enzo Tortora, un personaggio che potremmo definire bizzarro sosteneva che abbattendo il Turchino la nebbia sarebbe scomparsa. Oggi il Turchino – vorremmo ben vedere – è ancora lì. Fa ancora parte del percorso. La nebbia in Val Padana c'è sempre, un po' meno di una volta, è vero. Pure la Milano-Sanremo resta lì, solida, nonostante tutto.

Bizzarra la vigilia, defezioni una dietro l'altra. Alaphilippe, Ewan e Stuyven fra i nomi più interessanti. Poi, invece, appare quello di van der Poel che destabilizza la vigilia degli appassionati e che si affiancherà a quelli di van Aert, Pogačar, Pedersen e diversi altri.

Diversi come gli scenari. Si prende da lontano la Milano-Sanremo. La si critica per un copione prestabilito, poi man mano che si avvicina ci si immaginano scenari di ogni genere. E Se Pogačar attaccherà sulla Cipressa? E se Roglič gli va dietro? E se arrivano tutti assieme? E se c'è vento a favore oppure contro? E se qualcuno spianerà il Poggio? L'importante è che nessuno spiani il Turchino. A 150 km dall'arrivo ci sembrerebbe un po' troppo, pure in un ciclismo bizzarro e spettacolare come quello di queste ultime stagioni.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ van Aert
⭐⭐⭐⭐ Pogačar, Pedersen
⭐⭐⭐Kragh Andersen, van der Poel
⭐⭐ Laporte, Coquard, Démare, Matthews, Ganna, Mohorič
⭐ Pidcock, Hayter, Philipsen, Jakobsen, Kristoff, Roglič, Consonni, Garcia Cortina, Aranburu, Kwiatkowski, Sagan, Covi, Bouhanni, Nizzolo, Sénéchal, Van Avermaet, Turgis, Bettiol


Cos'è stata la Parigi-Nizza

La Parigi Nizza è stata le gambe di quello lì che pare un supereroe della Marvel e che a un certo punto della corsa ha smesso i panni da Capitan Belgio e si è vestito con la maglia verde come dovesse essere il suo costume ufficiale. «Cercherò di indossarla pure al Tour e portarla fino a Parigi».

Ieri ha deciso ci fosse da salvare Roglič che nel suo caso era come se fosse l'umanità in affanno, ha messo in gioco i suoi poteri, lo ha guidato, lo staccava, persino, in un tratto lungo il Col d'Èze tanto che doveva rallentare, ma poi grazie alla sua azione lo aiutava a ricucire su Yates portandolo al successo nella classifica finale che riparava quello che a un certo punto pareva essere l'irreparabile. «[Quando ci sono di mezzo io] alla Parigi-Nizza vince chi ha un compagno di squadra vicino. Quattro anni fa è successo con il Team Sky, oggi con la Jumbo Visma. Io ero solo e loro in due, ma mentirei se dicessi che sono partito per vincere la maglia gialla. Sono scattato per vincere la tappa». Testo liberamente tratto dalle dichiarazioni di Simon Yates a fine gara.
La Parigi-Nizza è stata vento, di quello che divide il gruppo in una parola più lunga, ma composta da meno corridori, gruppetti come diminutivo, se cercassimo un vezzeggiativo non troveremmo nulla, ma ci stupiamo una volta ancora a vedere Quintana così a suo agio nel saltare di ruota in ruota tra i passisti e in mezzo alle folate.

La Parigi-Nizza non è "La corsa verso il sole", ma è stata pioggia e malanni. A Nizza dicono che c'è il sole tutto l'anno, ma pare come i corridori arrivati fradici e infreddoliti al traguardo abbiano un'opinione differente. Come biasimarli. C'è stata una tappa in cui alla partenza non si sono presentati in 18: sempre Radio Gruppo sostiene ci sia “un'epidemia di bronchite”.
La Parigi-Nizza è stata Pedersen tirato a lucido, che scollinava persino le montagne quando un anno fa - di questi tempi – a volte si staccava sui cavalcavia. È vero, fidarsi di alcuni è bene fino a un certo punto, ma forse è meglio tenere le orecchie dritte. Toccherà, nelle classiche del Nord, annoverare il suo nome tra quelli dei corridori da battere. D'altra parte non sono tantissimi quelli che si possono vantare di essersi lasciati dietro van Aert in uno sprint dopo una tappa impegnativa e con l'arrivo che tira verso l'alto. Questo serve a ricordare anche come Pedersen non fu campione del mondo per caso.

La Parigi-Nizza è stata Daniel Felipe Martínez che non è solo una sorta di "corridore forte quasi dappertutto", ma da alti e bassi. Uno da vampata improvvisa e poi da luce spenta. Dall'anno scorso è un corridore affidabile, se c'è da aiutare un compagno, con il physique du rôle per l'alta classifica, Poi, siccome il destino in parte lo si crea, in parte, quando si sale su una bici, segue il caso, una foratura prima dell'ultima salita non gli permette di imitare Yates. E chissà che le cose non sarebbero andate diversamente per tutti con anche lui davanti. Nel suo caso la Parigi-Nizza non restituisce tutto quello che si è dato: ma quando mai la vita lo fa?

13/03/2022 - Paris Nice - Etape 8 - Nice / Nice (115,6km) - Simon YATES (TEAM BIKEEXCHANGE-JAYCO) - S'impose sur la derniere etape

La Parigi-Nizza sono le fughe di Gougeard che non vanno a segno, mentre quella di McNulty, sì, oppure il colpo risolutore di Burgaudeau, che in bici pare un Alaphilippe che c'ha dato dentro con la palestra e a 23 anni regala la prima vittoria World Tour della stagione alla TotalEnergies di Sagan: chi l'avrebbe mai detto?
La Parigi-Nizza è Simon Yates. Ogni tanto gli prendono quelle giornate che se facessimo un confronto col gemello Adam, saremmo senza pietà. La butta giù dura su quel colle sopra Nizza, rischia di vincere tutto, ma non fa i conti con l'eroe dei fumetti preferito e più letto a casa Roglič e di nome Wout van Aert - che speriamo non abbia preso troppo freddo in vista della Milano-Sanremo.

La Parigi-Nizza è stata ancora Roglič. Nel bene - la vittoria in punta di fioretto sul Turini - nel male, nel senso di sofferenza, di lato oscuro della sua forza, perché chi continua a fare paragoni con Pogačar è ancora più impietoso di chi lo fa tra i due gemelli della periferia di Manchester, perché al giovane sloveno gli viene tutto facile, mentre l'altro ha il suo campo, i suoi meriti, i suoi limiti.

Ieri ha rischiato di perderla come, ma forse peggio dello scorso anno, affaticato da una giornata fredda, tirata, nella quale riusciva persino a sbagliare indumenti: «Al via ero stanco e infreddolito, mi sono vestito troppo e ho finito per cuocermi da solo. Quando mi sono svestito era ormai troppo tardi».
Poi il finale - lieto per lui - è quello che conosciamo. I meriti anche che vanno gettati addosso al supereroe di giornata e di cui Roglič ci illustra le peculiarità. «Cosa penso di Wout van Aert? Che è metà umano e metà motore. Lui può tutto e per me è un onore correre accanto a lui e imparare ogni giorno qualcosa». Tutto questo, ma forse anche di più, è stata la Parigi-Nizza.


Tornare a casa

La mattina di San Benedetto del Tronto è tutto uno scorrere di valigie sul lungomare. Per alcuni è il giorno in cui si torna a casa, per molti solo quello in cui si cambia corsa, senza nemmeno passare da casa. E, quando ci si saluta, si aggiunge sempre dove si andrà, si sa mai che ci si ritrovi. Ma anche se non dovesse essere così, sembra importante sapere dove saranno le persone che ti hanno aperto una transenna o indicato una strada. C'è chi parte subito e chi aspetta. Fra questi, chi trasporta le transenne che vanno a costruire i villaggi di arrivo, alcuni fra loro a San Benedetto sono arrivati ieri sera, dopo le undici. Chissà dove avranno cenato, chissà quante ore avranno dormito, visto che sin dal mattino presto quelle transenne sono legate ben salde a cambiare forma alla città.
"Se togli tutto questo da una piazza che hai visto solo così, farai fatica a riconoscerla" ci dice un vecchio suiveur. Sarà, sta di fatto che stasera forse anche loro finiranno presto e se qualcuno non abita molto lontano a casa arriverà prima.
Ma la casa di un ciclista non è solo quella che raggiungerà stasera o quella cui penserà su un altro volo. I ciclisti sono spesso lontani da quella casa, ma hanno radici profonde. Pensate che una domande a cui rispondono più volentieri è proprio quella relativa al loro paese, a quello che faranno quando torneranno lì. E talvolta sembra che a loro basti parlarne per tornare a casa.
Così, lontano, la casa di un ciclista è il luogo in cui si sente totalmente se stesso, che spesso più che un luogo è un modo di fare. Se è un luogo è in realtà l'attraversamento di un luogo, lo spostamento. La casa di un Tonelli, Boaro e Arcas è, in realtà, l'andare via di casa, dove casa è il plotone, la pancia del gruppo che protegge, che contiene. Per chi è bravo a limare, la casa è in uno spazio talmente stretto che ai più sembra invivibile. Ma non è lo spazio, è la capacità di starci dentro, di conoscerlo e gestirlo. Non a caso chi guarda la preparazione della volata dal traguardo ha continuamente la percezione di una caduta, come se ogni minimo sbandamento fosse un contatto. Chi è fuori, non conosce quello spazio, quella casa.
Casa è fatica, quella fatta per imparare a viverci, quella fatta per continuare a costruirla, a trovarsi bene come nei tempi migliori. Quella di Damiano Caruso che è un uomo al servizio sempre, oggi per Phil Bauhaus. E chi ha casa nella fatica ha un modo particolare di viverla, con dignità, col sorriso, anche se non ce la fa più.
Phil Bauhaus ha casa anche nel cognome. Un eco di qualcosa di lontano. L'ha nello sprint e in quella capacità di vivere la velocità come uno sprinter. La volata è l'apoteosi del concetto, è una casa che dura poche frazioni di secondo, un sentirsi a proprio agio che svanisce in qualche frazione di tempo. Perché non si fa il velocista, si è velocisti ed è questo essere a fare casa. Vale lo stesso per Tadej Pogacar che ha scherzato (chissà poi quanto) sulla possibilità di inventarsi qualcosa sulla Cipressa alla Milano-Sanremo. La sua casa è fantasia, qualcosa di bizzarro come il ciuffo che esce dal casco, quasi una ribellione agli spazi fermi, calmi.
Le valigie hanno lasciato posto ai primi camion che ora si spostano lentamente lungo l'arrivo. Si torna a casa. Ovunque sia, qualunque sia.


Capovolgimenti

Alla partenza di Sefro, Giulio Ciccone e Julian Alaphilippe hanno visto la bicicletta in maniera diversa dal solito. Che a un ciclista piaccia la bicicletta non è, poi, un mistero, che un ciclista, passando davanti a una bicicletta, possa dire "ma che bella" non è assurdo ma nemmeno così scontato. Sì, perché per lui pedalare è un lavoro e, quando diventa un lavoro, le cose possono cambiare. Invece no. Loro guardavano quella bici e commentavano, come fanno molti tifosi dietro le transenne. Passavano la mano sul manubrio, come fa qualunque ragazzo quando va a comprare la bicicletta nuova, quasi che toccarla permettesse di vederla meglio. La bicicletta non si guarda solo, si tocca anche. Quando vedi due professionisti farlo, come lo hanno fatto Ciccone e Alaphilippe qualcosa si capovolge.

"I muri rallentano i ciclisti e se vanno più lenti li vedi meglio, per questo la gente va sui muri". Ce lo hanno detto mentre osservavamo quanto poco bastasse alla gente per saltare su una salita. Quanta poca salita servisse per fare ciclismo. Ovvero per fare grida, scritte sulla strada, birra e anche qualche spinta. E c'è chi dice che qualche ciclista, tempo fa, ebbe la lucidità per dire: "Grazie, oggi mi serviva". I muri non sono piacevoli, non per i ciclisti almeno. Per la gente sì, non solo perché può succedere qualcosa, ma perché c'è lentezza, c'è modo di vedere meglio, nonostante tutti vogliono andare veloce, nonostante anche quegli applausi e quelle grida sono una spinta ad andare veloci. Una realtà capovolta.

Evenepoel di capovolgimenti ne sa qualcosa. Lui che ha attaccato e si è trovato in coda, lui che ha girato la testa e chiunque può immaginare cosa abbia pensato, cosa abbia detto. Lì vicino c'era una casa, c'era un balcone. Chi aspetta il ciclismo ha pazienza. Sa tenere gli occhi fissi verso un luogo per tanto tempo perché il gruppo che passa è un attimo e se ti distrai, se giri la testa, se perdi quell'attimo non ha più senso. Beh chi guardava da quel balcone, da quella casa, ha avuto qualche secondo in più. Chi guardava da quella casa, quasi fuori dal percorso, ha visto qualcosa in più. Ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Essere nel posto sbagliato, non è stato così sbagliato questa volta. Capovolti.

La fuga stessa per Warren Barguil è un capovolgimento. Perché è la sua realtà a cambiare attraverso la fuga e perché ce lo dice subito: "Non ho mai creduto di poter vincere un Tour de France". Sì, perché oggi che Barguil è tornato a vincere si è tornati a parlare della sua generazione, dei corridori francesi che con lui hanno condiviso talento e fantasia. A molti fa piacere, a lui no. Lui prende ciò che accade per quello che è. Scattare è questo, scattare è prendere un momento e proiettarlo in avanti. Mentre tutti aspettano il momento giusto, chi scatta lo cerca.
A scattare si impara, perché potresti fare altre scelte. Chi scatta a cento chilometri dall'arrivo tendenzialmente viene ripreso: chi vince, spesso, va via all'ultimo. Barguil ieri ci aveva provato e aveva patito proprio la stessa sorte. Oggi la fuga non volevano proprio lasciarla andare via e proprio lui è tornato in fuga. Ha vinto. Si potrebbe dire molto, noi ci fermiamo qui, mentre Barguil va via e tutto ciò che è capovolto sembra perfettamente a proprio agio.


Un marchio di fabbrica

Quando uno degli allenatori più conosciuti del ciclismo americano lo notò, Brandon McNulty, da Phoenix, Arizona, era un ragazzo già alto, ma estremamente magrolino. Longilineo con gambe lunghe da fenicottero, aveva appena diciassette anni e, come (quasi) tutti i suoi coetanei, non era per nulla formato fisicamente. Lasciava, però, sulla strada prestazioni da far strabuzzare gli occhi.

Stracciò la concorrenza in una gara a cronometro di categoria: si dice che macinò una media di 380 watt per 30 minuti, con una normale bici da corsa, numeri superiori a chi prima di lui, Phinney e Van Garderen, venivano considerati tra i migliori talenti del ciclismo americano. Un tecnico della nazionale di atletica dopo aver visto quei dati pensò che il misuratore di potenza fosse rotto.

Attirò l'interesse di importanti squadre del Vecchio Continente, ma scelse di rimanere a correre con squadre americane per crescere con calma, senza lo stress e la tensione dei circuiti europei, e lo fece per altre tre stagioni rifiutando la fretta che a volte si mette addosso a chi, precocemente, mostra già di saperci fare nel proprio campo.

Suo padre, ingegnere del software, lo ha sempre definito come «all'apparenza timido, quasi schivo, ma in realtà è perché è un tipo super concentrato». I tecnici che lo hanno avuto per le mani: «il miglior talento del ciclismo a stelle e strisce dai tempi di Greg Lemond». A chi chiedesse un confronto con Adrien Costa - considerato il più forte corridore della sua generazione ma che abbandonò il ciclismo prima di passare professionista e di perdere una gamba in un incidente in montagna - si vedeva rispondere sempre la stessa cosa: «McNulty diventerà più forte».

Piccolo intermezzo per capire qual è sempre stato il suo terreno di gioco fino a questo 2022: le prove contro il tempo. A cronometro ha messo assieme, tra il 2015 e il 2019, 4 podi su 5 partecipazioni ai Mondiali (bronzo e oro tra gli juniores, argento e bronzo tra gli under 23). Meticoloso: prima di conquistare il titolo nel 2016 a Doha invitò a casa sua i compagni di nazionale Garrison e Stites. I tre occuparono per diversi giorni il garage di casa McNulty e con stufe calde e allenandosi con asciugamani bagnati cercarono di simulare l'afa che avrebbero trovato in Qatar. «Sono arrivato a un punto in cui pensavo di morire», raccontò McNulty all'epoca, ma lo disse, pare, accompagnando tutto con una fragorosa risata.
Vinse quel titolo iridato tra gli junior con un tempo che gli sarebbe valso il podio anche tra gli Under 23 davanti a gente come Asgreen, Cavagna, Pedersen e Ganna. Ma i tecnici con lui continuarono a usare la cautela: «Solo perché un bambino va forte come un adulto, non vuol dire sia già maturo». Fine intermezzo.

Passato nel World Tour nel 2020, McNulty in queste prima settimane di corsa sembra aver dato una definitiva sistemata allo scossone che ti prende quando fai il salto di categoria. Ha già conquistato tre corse, tutte allo stesso modo: attaccando da lontano e su tracciati duri.

E se la prima volta può sembrare un caso e la seconda ti fai qualche domanda, la terza, ieri alla Parigi-Nizza, la prendi come fosse diventato il suo definitivo marchio di fabbrica: «Mi piace vincere arrivando in solitaria» ha detto. Quasi 60 km al Trofeo Calvia, ma siamo letteralmente alle prime gare di stagione; quasi altri 30 un paio di settimane fa alla Faun-Ardèche Classic: partito dopo che a fare la selezione si erano messi Alaphilippe e Roglič.

Ieri, il classe '98 della UAE Team Emirates, verso Saint-Sauveur-de-Montagut, tappa con qualche colle da spezzare le gambe (chiedere a van Aert per esempio) e disputata sempre nella regione dell'Ardèche («mi viene da pensare che salite e discese di questa zona si adattino particolarmente alle mie gambe») ha fatto sfoggio delle sue armi migliori: doti sul passo, coraggio, capacità di guida, piacere nel stare faccia al vento in solitaria.

Ha attaccato subito dopo il via con altri corridori e a 39 dall'arrivo se n'è andato tutto solo con una sparata irresistibile. Così come da solo è arrivato. A fine tappa ha detto: «E pensare che stamattina ero convinto di non partire».