Il repertorio completo del Cobra - TRENTINO 2021 - DAY 6

Le corse di ciclismo sono un mestiere. Non a caso quelli che partecipano si chiamano professionisti. Non vuol dire semplicemente dedicarsi a tempo pieno a correre in bicicletta, vuol dire costruire il repertorio completo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Come un muratore, che sa preparare la malta della giusta densità. Come un panettiere, che a forza di impastare sa dosare il quantitativo d’acqua senza bisogno di misurarla. Così è il corridore, che dopo una carriera iniziata nelle giovanili a entrare nelle fughe, a chiudere i buchi, a prendere batoste, a sbagliare e pagare le conseguenze, a guidare la bicicletta in discesa e in gruppo, ma soprattutto a studiare l’avversario e gli avversari, arriva al giorno giusto, nel momento giusto e sa esattamente cosa fare.

Oggi il Cobra ha sciorinato il repertorio completo. Ha eseguito esattamente il piano tattico, è entrato nella fuga giusta, innescata dal compagno di squadra Trentin. Ha marcato le ruote che andavano marcate. Si è fatto trovare pronto quando è scattata l’azione decisiva. Ha mangiato, ha bevuto, ha recuperato rimanendo coperto, perché Remco aveva un’altra cilindrata e avrebbe potuto staccarlo dovunque.

Poi ha buttato fuori tutto quello che aveva nelle gambe sullo strappo di Povo. Si è imbevuto dell'energia positiva del pubblico pazzo di gioia a bordo strada. Ha retto le continue accelerazioni del fenomeno belga, che ha letteralmente divorato le pendenze, stroncando le velleità del temibile francese Cosnefroy. Poi si è accucciato a ruota, Sonny sapeva di aver dato tutto, di essere con la spia in rosso, sapeva che se avesse tirato anche solo cento metri, Remco poteva andargli via, anche in pianura, anche sul falsopiano. Non si è fatto irretire dalle scenate dell’avversario, che voleva i cambi. La corsa è corsa, Sonny sapeva di essere più veloce e sapeva che se voleva entrare nel rettilineo finale, negli ultimi 250 metri prima di piazza del Duomo, non doveva lasciare andar via l’avversario.

Ha recuperato pazientemente dallo sforzo della salita, poi ha aspettato il momento. Ed eccolo il mestiere, un’accelerazione prima dell’ultima curva, sui sampietrini insidiosi, per prenderla davanti, poi l’allungo. Mentre Remco scaricava tutti i watt Sonny aveva ancora una cambiata da fare, un colpetto con le dita e la volata, la volata che aspettava da tutta la vita, davanti al pubblico impazzito. Remco fuori dalla foto, lui sulla linea del traguardo a braccia alzate.
Il repertorio del corridore, interpretato alla perfezione. Remco è stato grandioso, ma il repertorio deve ancora costruirlo. Il tempo è dalla sua parte, le stigmate del campione, nonostante il gestaccio di frustrazione dopo il traguardo, le ha tutte.
Ma oggi era la giornata di Sonny Colbrelli, la giornata europea del corridore di ciclismo.

Foto: Bettini


Il morso del Cobra

Lasciatecelo dire: vedere Sonny Colbrelli correre come ha corso oggi, a pochi giorni dagli Europei in Trentino, lascia spazio all'immaginazione. E poco conta che si tratti soltanto del Benelux Tour, dovremmo tornare a entusiasmarci senza fare le pulci a ogni emozione.

Sonny Colbrelli solletica l'immaginazione come ogni ciclista che parte da solo in fuga quando al traguardo mancano ancora molti chilometri e gli altri si stanno studiando. Come ogni "uomo da solo al comando". La sua maglia è verde, bianca e rossa, avrebbe detto molti anni fa Mario Ferretti. Noi lo abbiamo pensato, ve lo diciamo.

Il Cobra che parte ai cinquanta chilometri dall'arrivo di Houffalize insieme al compagno Mohorič e allo svizzero Hirschi e forse potrebbe anche starsene tranquillo e sfruttare la superiorità numerica per portare a casa il risultato. Invece no, si volta verso il compagno di squadra e gli dice: "Uno scatto per uno e lo stacchiamo". Gioco di logoramento.

Lo svizzero non riesce a reggere la frustata di Colbrelli che, ai venticinque dal traguardo, sceglie la solitudine e saluta la compagnia. Hirschi subisce il gioco di Mohorič, un perfetto alleato del fuggiasco: dapprima rallenta il ritmo, provoca, innervosisce, poi, al rientro del gruppetto guidato da Tom Dumoulin rompe i cambi e favorisce l'assolo. Un assolo sudato, senza un attimo di tregua, col cuore in gola, perché dopo venticinque chilometri di fuga vuoi vincere.

"Non avevo mai fatto qualcosa di simile in vita mia. Me lo ricorderò sempre. Spero solo di recuperare per domani". Fra meno di ventiquattro ore avremo la risposta, ma non è ciò che più ci interessa. Già, perché quando Colbrelli decide di inventare non si ferma molto facilmente e giornate così possono solo contribuire ad accrescere l'immaginazione.
La sua e la nostra, perché tra pochi giorni c'è l'Europeo. Non dimentichiamolo.


Quando tutto cambia

Ci sono giorni in cui tutto cambia. Lo scenario, le sensazioni, le gambe. E allora inizi a salire (e poi inevitabilmente a scendere, e poi di nuovo salire) e c'è la pioggia che cambia tutto.
E ci sarebbe da raccontare di un'impresa. Perché partire a 61 km dall'arrivo non è che sia roba che si vede tutti i giorni, figurati in una Vuelta che sin qui aveva lasciato (un po') a desiderare.
E ci sono da raccontare gli opposti: come Roglič e Bernal. Sono loro che si cimentano nell'azione, che se non l'avete vista, cari lettori, vi invitiamo in qualche modo a rimediare.
Perché in salita si andava forte, ma c'era la pioggia che se ti alzavi di sella scivolava pure la ruota dietro. Perché mentre Roglič e Bernal andavano, Eiking saltava, ma non naufragava, cadeva persino in discesa, ma si rialzava: a cedere con onore non sono bravi tutti, lui lo è stato, come è stata un'audace maglia rossa.
E allora ci sarebbe da raccontare di Rochas che spinge forte per Martin per provare a inseguire una chimera rossa, ma mentre si risale verso i Laghi di Covadonga, salita simbolo della Vuelta, Martin, stoico e non ce ne voglia, si infrange. Ha dato tutto.
Ci sarebbe Poels che rischia tutto in discesa per Haig, una discesa che dava i brividi con tutte quelle foglie a terra; Mäder che più se ne mette dietro e più soldi darà in beneficienza; la Movistar che all'improvviso torna a essere la buona, cara, vecchia Movistar e non si sa bene cosa dovrebbero fare; Meintjes che non andava così forte da almeno mezzo secolo; Adam Yates con il viso solcato da pioggia e fatica che più che ricordare il gemello, sembrava il nonno; Kuss imbrigliato: il giorno che proverà a fare il capitano forse sarà meno forte di così. A sensazione.
Ci sarebbe da raccontare di quando a Roglič sudavano pure le sopracciglia in salita, che si è dovuto togliere gli occhiali e lasciava trasparire in mondovisione tutta la sua fatica. E poi il suo opposto, Bernal in maglia bianca che stamattina lo aveva detto: "Oggi ci provo: o tutto o niente". E oggi è andata così, c'ha provato, ciclisticamente così bello, poi è saltato, ma se la vittoria di Roglič ha un sapore particolare il merito è (anche) di Bernal.
E allora ci sono giorni in cui tutto cambia, la classifica, i protagonisti, da una curva all'altra, da un metro all'altro. Resta l'impressione di una giornata indimenticabile, grazie a Roglič e alla sua irresistibile accelerazione nel finale e ai 61 km di cavalcata. Grazie a Roglič e ai suoi opposti. A Bernal che cede, a Martin naufrago, alle crepe della nave di Eiking che non affonda.


Il cammino di Santiago o fare la prima mossa

Forse nemmeno Eiking immaginava di trovarsi alla vigilia dell'ultima settimana - o meglio, degli ultimi 5 giorni di corsa, in maglia rossa. In carriera fino adesso ha ottenuto come miglior risultato tra Giro, Vuelta e Tour un 77° posto proprio in Spagna nel 2016. E da una Vuelta fu cacciato per motivi disciplinari - era il 2017, ma questa è una storia che abbiamo già raccontato.
Forse Roglič, ma anche una Movistar di nuovo tirata a lucido come non si vedeva da tempo (ah, i cari bei vecchi tempi!), mai si sarebbero immaginati di dover inseguire un norvegese a cinque tappe dal termine. O comunque non Eiking, ecco.

Forse Mas e López hanno in serbo qualcosa per i due arrivi in salita che rimangono tra Lagos de Covadonga e Altu d'El Gamoniteiru, mentre Roglič ha un tesoretto niente male da spendere l'ultimo giorno nella crono di Santiago de Compostela; e non ci sarà Pogačar a fargli venire gli incubi, né si presume ci saranno avversari capaci di un clamoroso ribaltone come quello de La Planches des Belles Filles al Tour. «È il campione olimpico contro il tempo - si mormora in gruppo con fare sincero - chi mai potrebbe fargli paura?». Già.

Nemmeno Martin, uno che fa dell'imprevedibilità il suo archetipo, che nella sua ciclosofia racconta: "pedalo, dunque sono", e che quando corre, corre spesso in coda, ma poi risale sempre, curvo sulla bici come se sembrasse dover cercare qualcosa per terra. Forse qualche risposta.

Dicevamo: nemmeno Martin (Guillaume, e alla francese, mi raccomando) probabilmente si aspettava di essere lì, secondo, grazie a una fuga, lui che in fuga ci sta sempre bene, che quella fuga da gentile concessione giorno dopo giorno si sta trasformando in pesante fardello per chi deve inseguire, e chi deve inseguire sembra non abbia forza/voglia/fantasia: eventualmente scegliete voi la parola giusta. A Mas non gli sono uscite benissimo in questi giorni: «Il percorso non era abbastanza favorevole da permettere una lotta tra i favoriti», verrebbe da pensare l'opposto, ma tant'è.
E forza, intesa come condizione, gambe, detto terra terra, fantasia, sembra ciò che manca totalmente alla Ineos in questo momento: Bernal fatica a rispondere agli scatti, Adam (Yates) qualche punturina la molla qua e là, ma ha provocato giusto un po' di bua - nulla di che. Carapaz si è fermato, Sivakov è ormai carbone da locomotora.

Spazio ci sarà per provare qualcosa dopo una settimana che ha raccontato belle storie - Cort Nielsen, Storer, Bardet, Majka, il confronto tutto adrenalina Jakobsen-Sénéchal, Aru eccetera - come in uno di quei romanzi di Kent Haruf dove sembra non succedere mai nulla, ma da cui non riesci proprio a staccarti. Però è lì su, dove si sogna la vittoria, ci si dimena e si dibatte, dove osano le aquile, che è stata calma piatta come una giornata al mare. È in classifica che ci si aspetta qualcosa: se non oggi, domani.

Il cammino verso Santiago è ancora lungo, ma non troppo: è tempo anche che qualcuno faccia la prima mossa. Il resto - magari quei fuochi d'artifici che aspettiamo da giorni - arriverà di conseguenza.

Foto: ASO/Luis Angel Gomez / Photo Gomez Sport


Campionesse

Izabela Jankova cammina per la giungla mobile di Daolasa, tra un tendone l’altro. Alcuni stanno già sbaraccando, buona parte degli atleti del cross-country è in aeroporto, tanti non vedono l’ora di tornare a casa. Ma la domenica è il grande giorno del downhill e lei, Izabela, si è appena laureata campionessa del mondo juniores. Indossa la maglia iridata, quella particolarmente larga che si infila per la prima volta sul podio, e tiene in mano la minuscola bici che l’organizzazione fornisce come (curioso) premio.

Viene dalla Bulgaria e questo le crea diverse difficoltà: la federazione praticamente non esiste, è qui in camper col padre e un’amica austriaca e non ha nemmeno una squadra. Esatto: la campionessa del mondo – ha dato dieci secondi a tutte sulla Black Snake – non ha nemmeno una squadra. Spera che questa vittoria le dia visibilità, che qualche sponsor le consenta di ingaggiare almeno un meccanico.

Addentrandosi nel paddock del Mondiale, Evie Richards è molto indaffarata nel tendone della Trek Factory Racing. Ieri nel cross-country ha vinto la sua prima medaglia d’oro tra le grandi e non è chiaro perché sia ancora qui. È in ciabatte e maglietta, di ciclistico ha solo i pantaloncini: sono quelli di campionessa del mondo di ciclocross U23. Sta chiedendo a tutti i meccanici se vogliono espresso o cappuccino, così corre di là (il gazebo della Trek è in realtà cinque gazebo diversi, in tutto lunghi una cinquantina di metri) e glieli porta. Immaginate la scena: la neo-campionessa del mondo che si divincola tra i comuni mortali per portare il caffè.

Valentina Höll è sostanzialmente l’opposto di Izabela Jankova. Viene da una delle nazioni in cui le ruote grasse sono una religione, l’Austria, ed è già un fenomeno mediatico. Da junior (nel downhill non esiste la categoria U23: nessuno riesce a spiegarsi il perché) ha vinto qualunque cosa più volte, mentre il primo anno tra le élite è difficoltoso. Sta parlando col massaggiatore della sua squadra quando si avvicina un bambino che, evidentemente non conoscendola, non le chiede un autografo, bensì se può allungargli la banana lì sul tavolo. La frutta avanzata viene distribuita tra i presenti e Valentina gli passa la banana con un sorriso.

Poco dopo sopraggiunge uno scooter, uno di quei cinquantini che fanno molto rumore e pochi chilometri all'ora. Chi lo guida, porta un casco da bici. Deve portare Valentina da qualche parte, le dice «dai sali», ma la giovane austriaca preferisce rispondere alle ultime domande dei giornalisti. Anche oggi non ha avuto una giornata brillante (è caduta e non è nemmeno entrata nella top-10), ma non vuole scomparire. È nelle sconfitte, e nell’andarsene in motorino, più che nelle vittorie, che si vede una campionessa.


La serenità de "La Roja" norvegese

E nemmeno oggi sono riusciti a strappargliela via. Oggi che tra caldo e salite c'era tutto per scalfire anche il più duro dei colossi. C'era terreno per fare del male, ma si è preferito puntare su una velocità costante, non blanda, certo, quello no per carità, i corridori vanno su a ritmi asfissianti che non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo.
Nemmeno oggi sono riusciti a fargli del male o a strappargli quel sorriso dal volto. A scalfirne tutta la tranquillità che trasmette; chilometro dopo chilometro ondeggiava, vero, ma teneva duro, resisteva, battezzava le ruote giuste.

Anche quattro anni fa alla Vuelta lo videro barcollante: fu espulso prima dell'ultima tappa perché, secondo il suo ex diesse Marc Madiot, arrivò al mattino ancora ubriaco dalla sera prima.
«È allucinante quello che è successo - disse Eiking giorni dopo - ero uscito con Ludvigsson a bere due birre. Prima di me lo avranno fatto in migliaia di noi. Se non fossi stato in scadenza di contratto non sarebbe mai successa una cosa del genere».

Questo è un momento d'oro per i norvegesi, anzi è il Momento, e giorno dopo giorno Odd Christian Eiking acquisisce quella consapevolezza di cui sembra intriso tutto il loro ciclismo. Corre col sorriso, si stacca, sì, ma si stacca il giusto, in un mondo dei Grandi Giri che si trasforma, qui alla Vuelta, in un lungo tenere il ritmo, mandare via la fuga e poi volata finale anche in salita.
A EIking non dispiace; anzi probabilmente in questi giorni si sveglia al mattino - sobrio, possiamo giurarci - e spera che tutto continui ad andare così: Jumbo Visma a fare l'andatura e poi qualche scattino verso il traguardo.

Domani sarà un altro giorno complicato, salite da bere tutto d'un fiato. Magari come quella Bière des Amis che si è scolato qualche giorno fa al termine dell'ennesima fatica: perché quando sei leader di una corsa sembra tutto così amplificato.

Su quella birra c'è scritto in grande "non condividere". Un'idea che Eiking sta facendo sua pensando alla maglia rossa che porta.

Foto: ASO/Luis Angel Gomez


Qualcosa di magico

Qualcosa di magico avvolge Nino Schurter. Lo si percepisce sempre: quando si passa davanti al gazebo della sua squadra, il Team Scott-SRAM, persone affacciate da mezz’ora gridano ogni volta che vedono un’ombra muoversi; quando online si legge il suo nome, scritto universalmente N1NO; quando viene annunciato di fianco a "nove volte campione del mondo" e questo rende tutti felici, al punto che si applaude come avesse vinto un atleta di casa.

Qualcosa di magico ha avvolto la prova di oggi di Marika Tovo. La sua famiglia e le persone a lei vicine si sono alzate alle cinque del mattino per arrivare puntuali in Val di Sole, fissare un cartello col suo nome, tifare più forte possibile. Mentre saliva per i tornanti dell’ultimo giro, sua madre li ha percorsi di corsa uno a uno per incitarla, facendosi largo tra il pubblico.

Qualcosa di magico passava nella mente di Evie Richards quando ha realizzato che nessuno l’avrebbe più presa. Davanti ai microfoni si copre la faccia, piange, abbraccia tutti. Si collega via telefono con qualcuno per dire i primi grazie, i primi ciao da campionessa del mondo: ha dato un minuto a tutte. Una volta ricomposte le emozioni, pronuncia un paio di frasi fortissime: «Quando sono felice, vado più forte. Durante il Covid è stata dura, ma dopo le Olimpiadi per la prima volta non ho dovuto fare la quarantena al rientro. Ho visto amici e famiglia, è stato bellissimo. Quando sono felice lontano dalla bici, in sella sono ancora più forte».

Qualcosa di magico avvolge tutte le persone che vivono nel bosco una gara di mountain bike. La polvere alzata dalle ruote dei corridori rende l’aria onirica. Se si è fortunati, i raggi di luce entrano trasversali agli alberi, creando un gioco di ombre e luci senza uguali. Le persone portano qualcosa con cui fare casino, una maglietta del fan club o portano semplicemente qualcuno a cui vogliono bene.

Qualcosa di magico avvolge la Val di Sole questi giorni. Potrebbe essere il Mondiale, certo, con tutte le maglie assegnate, il fascino dell’iride. Potrebbero essere tutte le diciassette medaglie d’oro assegnate, mai così tante. Potrebbe essere che – parafrasando Peter Sagan – se qualcosa deve proprio accadere, beh, se accade in un bosco pieno di biciclette è meglio.

Foto: Michele Mondini


Moto Continuo

La Black Snake ha bisogno di manutenzione. È la più affascinante e temuta pista del circuito di downhill, ma non si cura da sola. Un funzionario dell’Unione Ciclistica Internazionale, parlando metà spagnolo metà inglese, cerca di dare istruzioni a volontari del posto riguardo le fettucce che contrassegnano il tratto più difficile della pista: The Hell.
Appena dopo il primo intertempo il problema è di tutt’altra natura: il ramo di un pino a centro pista (sì, un ostacolo niente male) minaccia di staccarsi ed è a cinquanta centimetri dalla testa dei rider. In quel segmento, la traiettoria più seguita prevede un salto di circa tre metri, spiccando il volo da una roccia appuntita. Guardandolo da sotto si prende paura.
L’addetto alla pista affila l’accetta con un cacciavite, sta per sfruttare un momento di calma apparente per andare a potare l’albero. Ma eccoli che già scendono: bestemmia e indietreggia. Missione compiuta qualche minuto dopo, quando un paio di colpi ben assestati fanno cadere ciò che impacciava la vista dei rider.

Il finale della Black Snake è sabbia e polvere. Sono in due coi rastrelli per livellare le buche, togliere lo sporco non necessario. Attorno a loro, si sta assegnando la maglia iridata nell’E-MTB. La corsa femminile è stata dominata in lungo e in largo da Nicole Göldi, la più giovane in gara, nonostante un problema al motore elettrico all’imbocco dell’ultimissima salita. Cos’è successo lo ha spiegato lei stessa: «Mi si è spento. Per qualche secondo ho dovuto fare accendi-spegni-accendi-spegni, poi per fortuna il motore è ripartito». Osservata da fuori la scena stava per diventare drammatica: considerato il peso di una bici elettrica spenta, Göldi riusciva a malapena a pedalare.

Chi non si stanca mai è Ella Myers, una giovanissima ciclista canadese. Ieri nel cross-country juniores è arrivata nella top 30, risultato di cui è molto felice. Oggi tutto il Team Canada è con le gambe all’aria: chi si riposa in vista delle gare di domani, chi si riprende dalle gare di ieri. Lei proprio non ce la fa a stare ferma: ha risalito la Black Snake e incita i canadesi che escono a bomba dal cancelletto di partenza. «Scusami ti devo lasciare», dice dopo due chiacchiere «sono qui in Italia ancora per pochi giorni e non ce la faccio proprio a stare ferma».

Foto: Giacomo Podetti


Ci sono vittorie e vittorie

Ci sono vittorie che volano via col tempo, quasi effimere e vittorie che lasciano il segno, e per capire il perché siamo particolarmente contenti di quella di Florian Sénéchal oggi, basta scoprire la storia che coinvolge lui e il suo ex compagno di squadra ai tempi della Cofidis, Loïc Chetout.

Lo ha raccontato lo stesso Chetout a GCN France dove attualmente l'ex corridore basco lavora. Rimase senza contratto a fine 2019 e Sénéchal ne parlò con la Quick Step proponendo di pagare metà dell'ingaggio direttamente dal suo stipendio. Alla fine non se ne fece nulla: la Quick Step era già in parola con Sam Bennett e completarono la rosa con l'acquisto del velocista irlandese.

Florian Sénéchal non è solo forte sul pavé o veloce abbastanza da vincere, oggi, una delle volate più strane degli ultimi tempi, dove la Quick Step ha demolito il gruppo tra pianura, un leggero vento trasversale, rotonde che facevano perdere la ruota e anche la bussola un po' a tutti, Jakobsen compreso. «Non avevo gambe e allora ho urlato alla radio "Vai Florian, fai tu lo sprint"» racconta Fabio a fine tappa.

Veloce abbastanza, Florian oggi, da battere Trentin e Dainese. Veloce abbastanza da salvare la vita a Fabio Jakobsen lo scorso anno al Giro di Polonia. Quando Fabio fu vittima di quel grave incidente, il suo compagno di squadra era lì in quel momento e il suo intervento fu tempestivo, forse decisivo: «Non ricordo molto di quel giorno - racconta Jakobsen - solo che che stavo soffocando nel mio stesso sangue. Ero paralizzato, Florian vide il panico nei miei occhi; la gente intorno era terrorizzata, lui mi sollevò leggermente la testa in modo che il sangue potesse scendere».

Mentre Jakobsen era in convalescenza, e non si sapeva neppure quando avrebbe ripreso una vita normale, Sénéchal non ha mai fatto mancare la sua vicinanza, andando a trovarlo ogni volta che poteva a casa sua in Olanda. Più che compagno di squadra: amico fraterno.

Oggi, mentre Fabio Jakobsen arrancava e si staccava nel rettilineo sotto le furibonde trenate dei suoi compagni di squadra, Sénéchal restava a ruota coperto, pronto a lanciarsi verso la volata.
Oggi non ha vinto Jakobsen, ma per Fabio fa lo stesso. Oggi ha vinto Sénéchal ed è stata una bellissima vittoria, per lui, per Fabio, per noi, per tutti.


Limiti

Salendo con l’ovovia di Daolasa, il sottofondo non è cicale o freni a disco. È più fastidioso e stride col resto del paesaggio. Sono i fischietti degli steward: quando passa un atleta, nelle prove generali del downhill, un sibilo ne annuncia l’arrivo. La Black Snake si sviluppa nel bosco sotto l’impianto e tra salti, rocce, paraboliche e radici si arriva in fondo distrutti.

Se si arriva. Ogni duecento metri circa, volontari della croce rossa assistono eventuali cadute. Mentre chiacchiero con la mental coach della nazionale italiana di downhill, Elisabetta Borgia, uno juniores austriaco vola per terra. Non si vede, si sente però: da terra si lamenta dal dolore. Uno steward perde qualche secondo di troppo a fissarlo e avvisa in ritardo il rider successivo dell’ingombro, tanto che quest’ultimo – un atleta svizzero – deve inchiodare e cade a sua volta.

Continuando a scendere – la prova di cross-country femminile juniores è appena cominciata – si vede, sdraiato in disparte, lo svedese Oliver Zwar. Una persona lo sta toccando in tutte le giunture, caviglie e spalle, per verificare che sia intero. Un tecnico degli Azzurri, Simone Tartana, rivela che un discesista italiano ha cartellato (si dice così in gergo, quando si cade male) e gli è stata asportata la milza.

Sta arrivando la prima medaglia italiana in questi Mondiali. Lo si capisce dall’ottima posizione in cui Sara Cortinovis inizia l’ultimo giro – sembra addirittura possa attentare ai primi due posti, occupati da due francesi – ma soprattutto dall'entusiasmo delle sue amiche. Sono arrivate in zona traguardo con una bandiera e diverse trombette, sono di Bergamo ma in bici non ci vanno manco per sogno, pensano che Sara sia solare e testarda.
Cortinovis tenta lo sprint per l’argento, ma sceglie probabilmente la parte sbagliata, quella vicina alle transenne. Ha meno spazio ed è bronzo. Quando le chiedo della volata finale, è in pace con se stessa: «Sì forse ho sbagliato, ma ero al limite».