Con Rohan Dennis non ci si annoia mai

Rohan Dennis è un cavallo pazzo. Rifiuta l'oblio anche mentre dorme. Ce lo immaginiamo girarsi e rigirarsi nel letto per paura che le ore di sonno possano togliere forza al suo estro. Nasce nuotatore, ispirandosi all'istinto killer di Kieran Perkins, aspira alla trasformazione vincendo su pista e poi mutando forma abilmente, cronoman prima e persino scalatore. Già, scalatore... perché come chiamereste voi uno che spiana in quella maniera Stelvio e Sestriere? Alla sua ruota Geoghegan Hart ha costruito il successo al Giro d'Italia, inutile girarci intorno, ma non c'è molto da stupirsi, ai cavalli pazzi vanno sempre attribuite imprese leggendarie.

E lui voleva entrare nella leggenda, proprio come il capo tribù indiano. Nel 2016 afferma: «Se uno come Wiggins è riuscito a vincere un Tour de France, allora ci posso riuscire anche io». Ognuno conosce i propri limiti e di lui si sa che, nonostante sia un corridore eccentrico e a volte permaloso, in bicicletta ha sempre dimostrato di essere professionale, maniaco dei dettagli e capace di allenarsi ai limiti del fachirismo.
Spesso cerca situazioni complicate come girasse con un lanternino in mano e un grosso cartello scritto sulla testa: “Eccomi situazioni complicate!”, ma è solo il lato umano e perciò debole del suo carattere.

La sua carriera è una di quelle che andrebbe analizzata con dovizia, la sue uscite, la sua mentalità, le sue scelte lo fanno sembrare un po' matto, benevolmente assurdo. Soffre di una sindrome particolare, l'essere bizzarro come tutti gli australiani (ancora ne dobbiamo scoprire uno “normale”), ma con lui si tocca l'estremo. Rifiuta il conformismo? O è solo la sua realtà vista da fuori che appare a tratti indecifrabile?

Episodi? Ci vorrebbe un'infinita sequenza di byte per esprimerli tutti. Sportivamente parlando si manifesta come un'eccellenza anche se i suoi colpi di testa a volte hanno fatto dimenticare ciò che di buono ha costruito nell'arco della sua carriera. Titoli mondiali a squadre ai tempi della BMC, un Record dell'Ora firmato nel 2015 fermando la distanza a 52,491 km. «Stanco ma distrutto», disse quel giorno, quasi come se non avesse avuto nemmeno tempo di goderselo.
È uno di quelli capaci di vincere tappe in tutti e tre i Grandi Giri (un club allargato, è vero, ma pur sempre qualcosa da ricordare nel tempo) più svariate altre corse di grande livello, titoli su pista e su strada. Nel 2015, al Tour, conquista la maglia gialla dopo aver vinto la crono alla media record (e tutt'ora imbattuta) di 55.446 km/h su un percorso ricco di curve e insidie. È stato quinto ai Giochi di Rio nella cronometro per soli otto secondi dopo aver perso tempo decisivo a causa di una foratura. Non fosse esistito il 2020 come lo conosciamo, il podio a Tokyo non glielo avrebbe tolto nessuno - Dennis stesso permettendo.
Curve e insidie: Dennis è anche quello della fuga misteriosa dal Tour nel 2019. Alla vigilia della cronometro di Pau abbandona la corsa. Sparisce. Si dilegua in ammiraglia a un centinaio di chilometri dal traguardo di Bagnères de Bigorre. L'addetto stampa della sua squadra, la Bahrain, raccontava tempo fa in un'intervista di come sia stato quello l'episodio più difficile della sua (lunga) carriera. «In un primo momento eravamo sconcertati: il ragazzo era muto, non parlava, ma arrabbiarsi non serviva a niente; tuttavia, noi non sapevamo nulla, non capivamo come mai si fosse ritirato all’improvviso. Una volta salito sul bus, era inconsolabile: era confuso e deluso, piangeva ma non apriva bocca». Solo poco tempo prima al Giro di Svizzera teneva testa a Bernal, che avrebbe vinto il Tour, in salita.

Passate alcune settimane da quell'episodio in Francia, Dennis vince l'oro mondiale nella cronometro e facendo parlare di sé non tanto per la prestazione (o meglio, non solo, un podio che ha visto Dennis davanti a Evenepoel e Ganna, trovate di meglio?), quanto per l'aver corso su una bici con adesivi neri a coprirne il nome del costruttore. «È bello vincere, ma quando avrò 65 anni non sarà tra le prime 10 cose migliori che sono successe nella mia vita» dirà a fine corsa in una conferenza stampa tenuta dentro una chiesa adibita a incontro tra media e corridori. Dennis spiegherà la situazione vissuta in quei mesi indicando la sua testa con un dito e raccontando di quanto quel periodo fosse stato difficile non solo per lui, ma soprattutto per quelli che gli stavano attorno.
Tempo dopo, infatti, Dennis entrerà nei particolari parlando a una televisione australiana: raccontò di aver avuto una crisi di nervi durante quel Tour a causa dell'ambiente in cui correva e che per colpa di quei momenti stava per divorziare da sua moglie. «Non volevo diventare l'ennesimo dato statistico di uno sportivo divorziato».

A inizio 2020, prima di spianare lo Stelvio come un gatto delle nevi, scappa dal lockdown e lo fa in “grande stile”, à la Dennis, con tanto di post sui social che recitava più o meno: “Giorno 34, mi sono stufato e sono uscito di casa. Covid-19 puoi baciarmi il sedere”. Tempo prima Dennis si era affidato a uno psicologo dello sport, David Spindler, che come prima cosa gli fece chiudere tutti i suoi profili social. «Aveva bisogno di azzerare lo stress e divertirsi: gli ho detto di cancellare i suoi profili sui social network, intanto. Leggeva tutto quello che si diceva di lui, offese e cattiverie incluse. Gli ho fatto capire che i social network non importano poi molto e che il divertimento, di cui aveva assolutamente bisogno, lo avrebbe trovato altrove». Quell'altrove che in questo fine 2020 è sembrato trovarlo al Giro, ma mai dare nulla per certo, lo abbiamo detto, con Rohan Dennis non ci si annoia mai.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Paolo Mei, la voce del Giro

Ogni volta che Paolo Mei prepara la valigia e parte per raccontare una nuova corsa, si ricorda delle parole del suo collega Stefano Bertolotti: «Stefano mi ha sempre detto che, in fondo, la nostra è una piccola missione. Per vedere gli eventi che presentiamo le persone magari prendono un permesso dal lavoro o spostano i loro impegni. Qualcuno viene a vederci per evadere da un momento difficile o per staccare la spina dalle difficoltà. Abbiamo il dovere di restituire serenità, leggerezza, di farli divertire. Volendo potrei essere talmente tecnico da stufare tutti. Non avrebbe alcun senso. Noi siamo lì per loro. Lo speaker non deve mai porsi al centro, al centro c'è la storia che racconti, ci sono le persone che ti ascoltano. Tu sei un tramite. Se vuoi essere al centro dell'attenzione forse hai sbagliato qualcosa». Come in ogni missione conta tutto, anche il più piccolo gesto. Se hai la consapevolezza di essere lì, sul palco, per gli altri, sai che ogni attenzione é importante: «In questo Giro d'Italia, una sera mi ha scritto Filippo Ganna. Era la sera prima di una cronometro. Mi ha chiesto se fosse possibile far trasmettere due canzoni prima della sua partenza: parliamo di Engeltje e Kind Van De Duivel di Jebroer. Un gesto davvero piccolo ma importante. Che ne sappiamo? Magari un pezzetto di quella vittoria viene anche da quella musica, ci pensi? Magari una sensazione positiva viene da quelle note. Sono stato felice». E mentre parla degli atleti, Paolo Mei restituisce tutto il senso di gratitudine per un lavoro che è, in realtà, una passione.

«Sono un uomo fortunato, sono un appassionato di ciclismo che vive della sua passione. Certo c'è la tenacia, c'è la determinazione e la professionalità ma c'è anche tanta fortuna. Fare ciò che ti piace è una delle più grandi fortune che possano capitarti. Sono arrivato per caso a questo lavoro, un incidente nel 2002 ha bloccato la mia carriera da atleta. Amo alla follia andare in bicicletta. Sono appena tornato da un giro di sei ore in montagna, in gravel. C'è un raro benessere in bicicletta. All'inizio parlare con un microfono in mano era poco più di un gioco, come cantare, poi le circostanze della vita mi hanno portato qui. Il mio passato da atleta mi consente di vivere gli atleti stessi con una intensità particolare, li capisco, li capisco molto bene. Con alcuni ho un rapporto da amico, con altri da fratello, per alcuni sono il fratello maggiore che consiglia, altri con i loro piccoli gesti mi hanno reso un uomo felice». Il pensiero va al Giro d'Italia del 2011 e a Michele Scarponi: «All'ultima tappa, gli sono andato vicino e gli ho detto scherzando: "Bravo eh. Neanche un cappellino mi regali, grazie". Io stavo scherzando, lui si tolse la maglietta e me la regalò. Andò in conferenza stampa in canottiera. Capisci cosa significhi questo a livello umano? Parliamo della costruzione di un rapporto umano che passa attraverso tante delicatezze. Per esempio io chiedo sempre ai ragazzi se se la sentono di rispondere alle mie domande sul palco. Mi sembra giusto, mi sembra un gesto di rispetto verso di loro».

Il lavoro di Paolo Mei è basato sul contatto umano, il pubblico è il suo universo: «Di base sono un intrattenitore più che un giornalista. A me interessa prendere il pubblico per mano, tenerlo quasi in ostaggio, catturarlo e accompagnarlo per tutta la durata della presentazione. Per fare questo mi sono inventato un modo tutto mio di svolgere la professione. Non ho modelli, non li ho mai avuti. Non avrei mai pensato di fare questo lavoro e, come ho iniziato a farlo, ho provato a colorarlo di una personale interpretazione. All'inizio presento sempre l'evento in maniera allegra. La musica giusta aiuta tantissimo, è un vestito cucito addosso all'evento. Poi cerco di interagire con gli spettatori, cerco di capire cosa desiderano vedere. Cerco di portarli con me». Per fare questo c'è un ingrediente essenziale: «Il pubblico, per seguirti, deve fidarsi di te e per fidarsi di te deve capire che sei competente, che conosci quello che stai raccontando. Se si fida poi ti segue. Se si fida puoi prenderlo per mano». Quella particolare intesa resta addosso a chi racconta, sotto forma di sensazione e talvolta commozione: «Ogni lavoro impone un bilancio. Io lo faccio in ogni momento della giornata, mi interrogo e mi chiedo se e dove sbaglio. Certe volte come sali sul palco ti accorgi che il pubblico non interagisce. Il pubblico ha un carattere esattamente come le persone. Certe volte il pubblico è timido, certe volte estroverso. Forse questo è anche il bello ma tu comunque ci pensi, provi e riprovi. Ci sono istanti bellissimi che non ti scordi più, quando il pubblico diventa parte di te, quando il pubblico si sente forte. Se ripenso alla tappa Cosenza-Matera del 2011 o alla tappa di Feltre dello scorso anno ho ancora i brividi. Quell'entusiasmo ti resta appiccicato addosso. Quell'entusiasmo fa parte di te».


Claudia Cretti: «Ho imparato a sognare»

Claudia Cretti ricorda bene il pomeriggio in cui i suoi genitori le posero una domanda: «Claudia sei sicura di voler tornare a correre in bicicletta? Perché non fai qualcos'altro? Possiamo cercare assieme un lavoro. Ci pensi?». Era già passato diverso tempo da quel 6 luglio 2017 quando Claudia cadde rovinosamente durante la settima tappa del Giro d’Italia femminile. Il gruppo era in provincia di Benevento, in discesa, e la velocità era folle: 90 km/ora. Da lì la corsa in ospedale, tre settimane di coma e due operazioni alla testa: «Qualche giorno prima telefonai a mamma, le dissi: ''Mi sento bene, le sensazioni sono davvero buone. Perché non vieni a vedermi a Napoli? Quella tappa te la vinco”. Sappiamo come siano andate le cose». Claudia oggi è felice e racconta quei momenti con una serenità che può sorprendere l'interlocutore: «Sono sincera, a me spiace molto di più per i miei familiari che, a livello psicologico, hanno sofferto molto più di me. Non si può neanche immaginare cosa voglia dire per un genitore arrivare di corsa in ospedale e temere che un medico esca da una stanza dicendo che la figlia non c'è più. I miei genitori hanno avuto questa paura, la stessa dei miei fratelli e delle persone che mi vogliono bene. Ho i brividi solo a pensarci».
Lei, da quando è tornata ad essere cosciente, ha avuto subito quell'idea: «La bicicletta è sempre stata il mio tutto, la mia vita. Senza bicicletta mi sarei sentita persa, non potevo rinunciarci. Per ora non posso correre tra le professioniste e ho intrapreso questa strada nel paraciclismo. Sai che è la mia spinta vitale? Mi sono posta dei traguardi e provo a raggiungerli. Spesso non si pensa a quanto questo possa fare la differenza». La differenza, a dire la verità, la bicicletta nella vita di Claudia l'ha fatta sin da piccola: «Tutto è iniziato quando sono andata con i miei genitori a vedere una gara di mio cugino. Mentre tornavo a casa continuavo a ripetere a mio papà che volevo diventare una ciclista. Lui non era molto convinto ma io so essere testarda. Al pomeriggio vedevo il Giro d'Italia e rimanevo incantata dalle imprese di Marco Pantani; l'apice fu la sua vittoria a Montecampione, non lontano da casa mia. Insistetti talmente tanto che, la notte di Natale, papà mi regalò un paio di scarpette da ciclista fucsia, il mio colore preferito. Avevo nove anni». La voce si rompe quando, parlando dei suoi idoli di infanzia, Claudia Cretti ricorda Alex Zanardi: «Alex è unico. Lo ho conosciuto ed è un vulcano di vita. Ride e scherza sempre. Sarà difficile uscire da questa situazione, per lui è la seconda volta, ma io sono sicura che ce la farà, deve farcela. Non può mollare, ce lo ha insegnato lui, no?». Ma cosa significa non mollare? «Vuol dire che quando le gambe ti fanno male, quando tutto ti fa male devi trovare il coraggio di continuare ad insistere ancora. E non sai quante volte succede nella vita di tutti i giorni».
Sono tante le persone che le sono state accanto, Claudia vuole citarne due in particolare, Ana Covrig e Francesca Porcellato: «Quando mi hanno trasferita nel secondo ospedale, Ana veniva quasi tutti i giorni a trovarmi. Quanto tempo abbiamo passato assieme, quante cose ci siamo dette. Francesca è speciale. Mi ha insegnato tantissimo, mi ha raccontato di lei e mi ha dato tanta forza». Ci sono tutte le cose che sono cambiate e che Claudia sta affrontando, fuori e dentro il ciclismo, e quelle emozioni che, dopo l’incidente, hanno iniziato ad uscire e a lasciarsi scorrere. Si è iscritta a un corso di inglese per tornare a parlarlo come una volta ed è sicura che, un domani, dopo la carriera ciclistica finirà l'università. Qualche mese fa, al Giro delle Marche, a Recanati, è tornata in sella fra le professioniste: «Certe emozioni non puoi neanche raccontarle, sono troppo belle. Magari non succederà, magari non potrò più correre con loro ma io voglio credere che un giorno questo sarà possibile. Io ci credo». Per il domani invece c'è un sogno immenso ma è bello così, altrimenti che senso avrebbe? «Voglio arrivare alle Olimpiadi, voglio arrivarci meritandomi quel posto con i risultati nel paraciclismo. Per me è tutto più difficile perché non sono abituata a questo modo di correre. In volata io era protetta dalla squadra, ora devo spingere sui pedali dal primo all'ultimo istante. Ma ci sono diversi segnali che mi danno la voglia di sognare. Per esempio quando incontro i bambini e mi guardano come solo loro sanno fare, mi fanno domande e poi scoppiano in quell'applauso. Ecco, io lì mi vedo nel futuro. Mi immagino alle Olimpiadi durante l'inno o durante la sfilata. E mi commuovo».


Miriam Vece, il mondo dei velodromi, la paura e il coraggio

Miriam e la paura si sono conosciute bene. Forse, proprio conoscendo la paura, Miriam ha capito che c'è sempre almeno una possibilità di salvarsi o di essere salvati. Spesso, poi, la salvezza dalla paura non viene nemmeno da un eroe coraggioso, da un cavaliere senza macchia e senza paura. Spesso dalla paura ti salva chi ha paura quanto te, chi riesce a sentire la tua paura e a starti sempre più vicino: «Ero alla Sei Giorni di Fiorenzuola, qualche anno fa. A portarmi su nel keirin c’era Davide Arzeni. Io tremavo per l’ansia e per la paura, è normale. Si tratta di una adrenalina molto forte. Anche Davide però tremava mentre mi spingeva. Forse il suo tremore era anche più forte del mio. Io posso raccontarti le mie sensazioni, posso spiegarti il perché, posso narrarti il più piccolo sussulto nel mio stomaco. Questo posso farlo. Non riuscirei mai a spiegarti il suo. Mi ha commosso. Sai perché? Per quanto riusciva a starmi vicino, per quanto riusciva a condividere il mio sentire. Davide era me in quel momento. Senza dire una parola, solo con la forza della vicinanza». Senza parole, certo, perché come tutte le sensazioni e la maggior parte delle condivisioni spiegare non serve a nulla. Quante volte vorremmo essere capiti in un nostro timore o in un nostro volere e per questo cerchiamo di spiegare o di chiedere? Spesso non serve. Sì, perché per capire certe cose devi farti parte dell'altro e provare ad ascoltarle. Ascoltare le sensazioni prima delle parole. Lì capirai come stare vicino a qualcuno, lì capirai cosa desidera veramente la persona a cui sei accanto.

Miriam Vece in pista è arrivata proprio grazie a chi ha saputo ascoltare un istinto, un talento non ancora pienamente palesato. Quel giorno, quel primo giorno, Miriam ha pianto e ha avuto paura. Qualcuno però stava ascoltando oltre. Per fortuna, perché poi il velodromo è diventato il mondo di Miriam: «Nel velodromo c’è una sorta di vita parallela che accomuna tutti coloro che sono all’interno della struttura. Si condivide tutto. Con le compagne, ma non solo. In gara non deve essercene per nessuna, ma finita la gara si esce assieme. A Berlino, l’ultima sera siamo uscite tutte assieme: russe, messicane, olandesi. Tutte assieme. Ti senti meglio quando puoi condividere». Chi ha più anni di te, chi è più grande di te, ha questo dovere: spronarti affinché tu possa seguire la strada in cui credi perché lì e solo lì avrai la felicità che chi ti vuole bene desidera per te: «Ai primi ostacoli mi ero sempre fermata. Come accadeva qualcosa che mi faceva male, che mi faceva soffrire o mi mortificava, cambiavo strada convinta che quella intrapresa non facesse per me. È successo anche con la pista, sai? Cosa si può pretendere, d’altra parte? Tanti allenamenti, sacrifici, notti insonni e pasti saltati perché le prime volte, da junior, divorata dalla tensione, non riuscivo neanche a mangiare i giorni prima della gara. E poi magari ti qualifichi, fai la prima batteria e ti eliminano. Me lo sono chiesta tante volte: siamo sicuri che questo sia il mio futuro?».

Oggi Miriam ha risposto a quella domanda e sa bene cos'è giusto. Anche quando ha paura: «Una volta, in una partenza del keirin, sono incappata in una brutta caduta. Quella abilità, quella di fiutare la partenza giusta, è rimasta nel mio DNA, ma la mente mi riporta sempre a quei momenti e ho paura. Razionalmente non riuscirei a fare ciò che faccio. Si va a sessanta chilometri orari e posso assicurarti che tra i manubri spesso non c’è più di un centimetro. Alcune atlete sono molto brave a buttarsi in tutti gli spazi. Io, ironizzando, le chiamo “assassine”. Sono incredibili. Bello da vedere, ma posso assicurare che quando si è lì si ha paura. E quel ricordo torna sempre». In camera sua ci sono tutte le medaglie che la pista le ha consegnato: «Sono tutte qui, sai? A volte le guardo e penso che ne vorrei di più. Poi guardo meglio, ci penso un attimo e mi dico che per ora possono bastare». Questo è molto bello ma non sono solo quelle ad averle dato la forza di affrontare le paure che le si sono presentate e continueranno a presentarsi alla sua mente. Le paure, Miriam, le ha sconfitte perché non é restata sola a viverle e perché ha capito che lasciare quel mondo per la paura non la avrebbe salvata dalla paura stessa, che si sarebbe ripresentata in altre forme ed in altri mondi, l'avrebbe solo resa infelice: «C’è un rapporto troppo stretto con la bicicletta. Me ne sento parte. Per quante volte nei periodi di crisi abbia pensato di gettarla in qualche angolo e lasciarla lì, non saprei mai vivere senza la bicicletta. È un futuro che non riesco nemmeno a pensare. O forse non voglio proprio pensarci».

Foto: Bettini


Adam Hansen e l'ultimo ballo di un formidabile genio

Chissà a cosa pensa Adam Hansen mentre pedala per l'ultima volta nella sua corsa preferita «Il Giro d'Italia, dove la gente a bordo strada ti adora: qui ho trovato i veri tifosi del ciclismo». Fanno ventinove grandi Giri totali disputati con quello che sta correndo: chissà se ci penserà o gli verrà in mente qualcosa di bizzarro, geniale, struggente.

Chissà se penserà a quella volta sullo Zoncolan nella quale pedalava urlando di gioia in una delle salite più dure del mondo, abbracciato a un tifoso italiano che lo riprendeva con una GoPro; o se gli verrà in bocca il sapore di quella birra presa al volo e scambiata con una borraccia sul Monte Grappa o all'improvviso avrà il ricordo di quello scatto sull'Alpe d'Huez nel quale si vede lui, tranquillo, con una birra in mano come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo.
Chissà se penserà ai suoi trentanove anni che lo hanno portato a fare una scelta di vita, nemmeno troppo inconsueta per uno così. «Alla fine di questo Giro, mi darò al Triathlon». Avrà la possibilità, Hansen, di staccare il cordone da quel mondo riluttante alle innovazioni. Lui studia, sperimenta, analizza, sceglie, ma l'UCI poi gli mette sempre delle regole che lui, fine ricercatore, cimentandosi nell'Iron Man potrà agilmente superare. «Non essere più vincolati dai paletti della Federazione Ciclistica Internazionale per me è fantastico» racconta a José Been sulle colonne di Cyclingtips. «Sarò come un bambino in un negozio di dolciumi. Potrò sbizzarrirmi con l'aerodinamica; potrò scegliere i miei sponsor, fare tentativi di ogni genere per la posizione in bici e per quella del manubrio».
Perché Hansen, oltre a realizzare scarpe da ciclismo ultraleggere, a stampare mascherine chirurgiche nel periodo del lockdown («C'era carenza, mi pareva una buona idea») in quello che è un vero e proprio laboratorio tecnologico nella sua casa di Frýdlant nad Ostravicí in Repubblica Ceca prova ogni sorta di innovazione perché la sua testa non sa mai stare ferma e viaggia più veloce delle sue gambe.
«Utilizzando il software Leomo testo le diverse posizioni in sella, in particolare per le prove contro il tempo. Se l'UCI non mi faceva fare nulla, con il Triathlon potrò davvero scatenarmi».
È l'uomo dei record, Adam Hansen: venti grandi giri consecutivi corsi e conclusi, uno pure con una frattura alla mano, costruisce lacci elettrici per le scarpe come fosse in Ritorno al Futuro: «Al posto di un sistema a cricchetto, un motore elettronico». Ha vinto una tappa al Giro in quello che sembra un secolo fa, è stato (lo sarà ancora per qualche giorno) un perfetto uomo squadra, pilota per velocisti e involucro umano per gli altri capitani.
Cyclist Magazine lo definisce: «Un programmatore di grande talento» tanto da tenere lezioni alla James Cook University del Queensland e aver sviluppato un software per quella che ancora per poche settimane sarà la sua squadra.

Vegano, d'inverno molla la bici e si dà allo sci di fondo, al trekking, all'escursionismo, gioca in borsa e investe nel settore immobiliare, ha persino raggiunto un campo base sull'Everest a 5.430 d'altezza, e si prepara alle corse mangiando verdura. «Noi ciclisti professionisti in realtà siamo tutti vegani» sostiene. «Durante la gara la nostra principale fonte di energia sono i carboidrati provenienti dai gel o dalle barrette energetiche».
Dice che il suo segreto è quello di pensare poco alle corse. «Gli altri interessi mi aiutano a mantenere l'equilibrio: sarei diventato matto in poco tempo se l'avessi vissuta come un'ossessione». Si definisce versatile e crede che la deriva presa dai suoi colleghi non possa portare a nulla di buono. «Molti corridori dimenticano che esiste una vita oltre alla bicicletta, certi ragazzi mi spaventano un po'. Penso che bisognerebbe inventare un programma per aiutare i ciclisti ad adattarsi al mondo reale». Paradossale.

Fra pochi giorni Adam Hansen smetterà di pedalare in gruppo, ma già ci mancherà. Trovatene un altro così.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Daniel Felipe Martínez non è una fisarmonica

La vita di Daniel Felipe Martínez non assomiglia all'elogio di una triste fisarmonica. In lui non c'è, come scriveva Gabriel García Márquez a proposito di quello strumento “un’adolescenza dissipata, oscura, fitta di albe turbolente. I suoi migliori anni si sono dipanati nell’angolo anonimo, greve di vapori di una taverna tedesca”. Malinconico come una fisarmonica lo è piuttosto il luogo da cui proviene.

Soacha, dove nasce Dani Martínez ventiquattro anni fa, è diventata nota per il dramma legato alle “Madri di Soacha”. Nel 2008 in un paese a nord della Colombia venne ritrovata una fosse comune con quattordici corpi. Erano ragazzi spariti tempo prima da quella zona povera nei sobborghi di Bogotà, uccisi perché apparentemente coinvolti nella guerra del narcotraffico. Era tutta una messinscena, una copertura portata avanti da diversi anni per far vedere che la lotta al terrorismo funzionava. Erano i “falsos positivos”. Così riporta La Stampa: «I ragazzi venivano sequestrati o reclutati da un intermediario con la falsa promessa di un lavoro. Poi erano portati a settecento chilometri di distanza, vicino alle roccaforti delle Farc, e consegnati ai militari. Lì venivano freddati e fatti passare per guerriglieri. Con montature piene di incongruenze: l’uniforme immacolata non aveva traccia dei fori di proiettile; gli stivali, simbolo dei guerriglieri, erano infilati nei piedi sbagliati; ai cadaveri veniva messa una pistola in mano, sempre nella destra, anche ai mancini. Human Rights Watch stima che i casi di «falsos positivos» siano stati oltre tremila».

Martínez ha dodici anni all'epoca, vuole giocare a calcio e sogna di diventare l'attaccante della sua squadra del cuore, l'Atlético Nacional. «Mamma se vuoi regalarmi qualcosa, regalami un pallone» diceva. Si immagina vestito di biancoverde mentre simula le urla dei suoi tifosi raschiando il fondo della gola; lo stadio Atanasio Girardot è lo scenario e a ogni marcatura parte il grido: “Dani! Dani! Dani!”. Nella sua illusione tutti provavano per un attimo a dimenticare gli orrori che la Colombia viveva in quei decenni.

Perché a Soacha nel 1989 – Martínez non era nemmeno un pensiero – Escobar fece uccidere Luis Carlos Galan, candidato presidente. E poi c'è tutto quello che conosciamo: sequestri, ritorsioni, e ancora omicidi legati a corruzione e narcotraffico. Questo è il contesto.
Dani Martínez è ancora un bambino quando si ammala. Lo ricoverano a causa dei “nacidos” ovvero una sorta di foruncoli causati da batteri che gli si formano in tutto il corpo come una mappa delle stelle. Viene curato con antibiotici che gli fanno perdere moltissimo peso. Sua mamma dirà: “E dove sono finite le sue guance?”, racconta un giornale colombiano.

E Daniel Martínez anche a causa di quel problema si mette a fare sport per recuperare il tono muscolare, mentre a scuola si distingue come studente modello. È il primo della classe e oggi racconta che se non avesse fatto il corridore avrebbe studiato Marketing Internazionale all'Università. Lavora come commesso in un negozio e arrotonda vendendo a scuola i dolci che i genitori gli regalano. Con i pesos guadagnati un po' alla volta, si comprerà l'attrezzatura per correre in bicicletta andando a sostituire la sua vecchia monareta, una sorta di piccola Graziella che gli aveva dato suo fratello maggiore.

Ma prima di salire su una bicicletta l'episodio che cambia la sua vita. Insieme al suo amico di sempre, con il quale combinavano guai da ragazzini e grazie ai quali si riuscivano a tirare fuori dai veri problemi legati alle gang e alla droga, devono presentarsi l'ultimo giorno utile per iscriversi alla scuola calcio di quartiere. Il suo amico, però, manca l'appuntamento. Martínez è talmente deluso che scappa via piangendo. Suo fratello lo porterà a correre in bicicletta quella sera, e da lì, Dani Martínez non smetterà mai più di intonare la sua musica iniziando a trovare conforto e ispirazione proprio da chi, prima di lui, andava in bici. Quel qualcuno era proprio Yeyo, suo fratello. Hanno solo una bici e Yeyo la presta al piccolo Dani il giorno delle gare. Dani abbassa il sellino e poi batte tutti nelle kermesse di quartiere.

La sua prima gara vera e propria, invece, è un disastro. Partecipa a un criterium vicino Bogotà con un mezzo imprestatogli da un autista di autobus appassionato di ciclismo che nei suoi viaggi aveva sentito quel ragazzino blaterare di ciclismo per ore e ore, finendo per diventarne un suo tifoso – e pare lo sia ancora. La sua corsa termina dopo poche centinaia di metri. Cade, Martínez non è abituato a una bici di quel genere: ha persino i cambi!
E da lì prosegue dritto per la sua strada, un cammino che lo porta a vincere ogni settimana un trofeo sempre più importante, e con i soldi guadagnati facendo lavoretti, oltre alla bici si compra una divisa dell'Astana: Alberto Contador è il suo secondo idolo, dopo il fratello maggiore.
Lo chiamano Correcaminos, Dani, l'uccello che noi conosciamo come Roadrunner, “Beep beep”, il nemico di Willy il Coyote. Ed effettivamente è difficile da prendere quando va via. Piccolo, ma non uno scricciolo come tanti altri scalatori colombiani; teso come una corda di violino, ma sempre sorridente, Dani Martínez è uno dei corridori più riconoscibili in gruppo.

Gomiti larghi e appuntiti, schiacciato sulla sua bici, appena arrivato in Europa ha corso per un periodo in Italia con la squadra di Luca Scinto. In sordina rispetto ad altri suoi connazionali giudicati dotati di maggiore talento, Martínez ha sempre avuto la nomea di corridore perfetto per le corse a tappe. E lo dimostra la capacità di vincere sia a cronometro che in salita – proprio come Contador.

Nel 2018, mentre si allena sulle strade italiane a inizio stagione, un'automobile lo butta a terra. Martínez reagisce mandando a quel paese il guidatore che scende dalla macchina e lo massacra di botte: finirà in ospedale con un trauma cranico.

Oggi Dani Martínez è un puzzle quasi completo, porta con sé i diversi episodi della sua vita ed è uno dei più forti corridori in gruppo. Vola in salita e plana a cronometro, ma prima di vincere il Criterium del Delfinato e poi una tappa al Tour poche settimane fa, durante il lockdown ha vissuto un momento drammatico. Stava pedalando per la prima volta fuori di casa dopo due mesi. Non ce la faceva più di rulli, Zwift e tutto il resto: aveva bisogno di ributtarsi in strada, riassaporare l'avventura, l'aria, il vento. Salendo verso l'Alto de Las Palmas, un po' per far fatica un po' per godersi la vista panoramica sopra Meddelin, inizia a stare male. Vertigini, freddo, vedeva tutto nero: stava andando in ipotermia. Pensava di doversi fermare e chiamare sua moglie per farsi venire a prendere e invece resta in sella per altri settanta chilometri e torna a casa. Da lì, di nuovo, non si è mai fermato come quando suo fratello lo portò in bicicletta per la prima volta. «Non puoi pedalare e preoccuparti allo stesso tempo. Non avresti pace e tranquillità per fare ciò che ti piace di più» ama ripetere. Più che nostalgico e malinconico come una fisarmonica, è calmo come una vista su quella sua meravigliosa terra.

Foto: Bettini


Alessandro Tonelli spiega la fuga

Se vi capita di scorgere la lista di partenza di una qualsiasi corsa e di leggere "Alessandro Tonelli" fra gli iscritti, allora già sapete che lui, molto probabilmente, andrà in fuga. Solo di recente è successo alla Milano-Sanremo, ha proseguito poi alla Tirreno-Adriatico come fossero azioni collegate l'una all'altra, ma in realtà accade così tante volte da non riuscire nemmeno ad avere un dato certo. «Ma non è che io vada in fuga tanto per fare» esordisce così Alessandro Tonelli, ventottenne della provincia di Brescia, per la precisione di Bornato, come spiega qualsiasi guida che parla di quella zona e come sottolinea lui, fiero, «Nel cuore della Franciacorta dove si produce il famoso vino».

«Andare in fuga è l'unico modo che ho per vincere» ribadisce. Al Giro d' Italia di due anni fa, l'unico al quale abbia partecipato fino a oggi, il ragazzo della Bardiani-CSF-Faizanè ci provò almeno tre o quattro volte: non è sicuro nemmeno lui del numero preciso, mentre ce lo racconta.
Tuttavia, Alessandro Tonelli è un ragazzo pratico; lo capisci dal primo scambio di parole: per lui le fughe non sono mai un romantico sogno d'evasione, quanto un concreto atto verso la libertà. E quando ci sei dentro non è che hai tempo di pensare ad altro, se non alla corsa. Un gioco macabro con il gruppo che ti insegue, acqua che prova a spegnere il fuoco, una partita a scacchi a dimensione umana e dove i muscoli e le gambe muovono le pedine. «E la testa fa la sua parte. Perché la fuga, se vuoi che arrivi, devi saperla gestire, devi batterti con il gruppo, provare a ingannarlo, ma non tutti ci riescono e soprattutto, il bello o il brutto dipende dal punto di vista, è che la fuga non sempre va all'arrivo». Che sia quello il suo fascino? Che sia quello il motivo che ci spinge a raccontare più spesso e volentieri l'ultimo del gruppo oppure le storie di anarchici fugaioli, piuttosto che cannibali e tiranni? «Io da sempre vado all'attacco: era così da ragazzo, è così adesso. L'unica corsa che ho vinto tra i professionisti, nel 2018, l'ho vinta dopo un fuga».

Puoi metterci tutta la forza che hai, puoi sbizzarrirti con tutta la tattica che vuoi, ma «Il destino di una fuga alla fine lo decide il gruppo. Due anni fa al Giro gli attacchi da lontano non arrivarono quasi mai, lo scorso anno sono arrivati praticamente tutti. Classifica generale e squadre dei leader ne condizionano il buon esito». Lo abbiamo definito macabro, ma appare quasi ingiusto: sembra di avere il proprio destino stretto nelle mani di qualcun altro, ma non c'è solo questo. «Prendere la fuga non è mai semplice. A parte nelle tappe che sai che finiranno in volata e allora va via una fuga all'inizio che verrà ripresa, andare all'attacco diventa questione di gambe. Di colpo d'occhio, di tempismo. In fuga ti ritrovi anche signori corridori. Alla Tirreno-Adriatico ero con van der Poel e Visconti, alla Milano-Sanremo eravamo i bresciani: Cima, Frapporti e io. C'è stata una tappa alla Tirreno dove ci sono voluti settantacinque chilometri per portare via, di forza, la fuga».

E per una volta che non va in fuga Alessandro Tonelli rischia di lasciarci la pelle e non è un modo di dire. Siamo in Cina al Tour of Qinghai Lake. È la sesta tappa. Il gruppo sbanda a causa di una folata di vento «Fa un'onda, come si dice in gergo, e io, che ero all'estremità del plotone, mi trovo sbalzato contro un paletto: da cinquanta chilometri orari a zero nel solo impatto. Svengo, non ricordo più nulla e mi risveglio in ospedale. Dieci costole rotte, la scapola fratturata e uno pneumotorace. Resto in Cina per quarantatré giorni: una quindicina di ospedale a Xining a quasi 2.500 metri di altitudine. Il problema era che non potevo tornare a casa in Italia, senza aver pienamente recuperato. E allora avevo una badante che mi aiutava a cambiarmi e a mangiare, una traduttrice dal cinese all'inglese per riuscire a farmi capire almeno dai dottori, e per fortuna dopo qualche giorno anche mia sorella: la Cina è lontana e avevo bisogno dell'affetto di un familiare» racconta sereno, cosciente che quell'episodio, inevitabile, fa parte oramai del suo bagaglio d'esperienza.

E quanto Alessandro Tonelli sarebbe voluto andare in fuga da lì! «Ma non potevo» afferma con una mezza risata, prima di farsi serio «Dovevo pensare a stare bene fisicamente; semplicemente perché il ciclismo è solo una parentesi della nostra esistenza, mentre il corpo devi mantenerlo tutta la vita e quindi la mia preoccupazione maggiore era quella di non aver subito alcuna conseguenza fisica da portarmi dietro per sempre. E così mi consigliarono, una volta guarito, di scendere verso Pechino per iniziare a recuperare e allora mi sono goduto il resto dei miei giorni in Cina come turista infortunato e quello che ho visto... le differenze tra loro e noi. Ho girato il mondo e non ho mai visto tante contraddizioni. Sono avanti dal punto di vista tecnologico, ma tutte le informazioni che arrivano a loro sono filtrate. Hanno Google e i vari Social bloccati perché il governo decide quali informazioni dare e quali no. Non hanno WhatsApp, usano WeChat e i mendicanti in giro per la strada lo sfruttano per chiedere l'elemosina. Sì, avete capito bene: fanno l'elemosina col telefonino; anche i poveri hanno il conto in banca collegato a WeChat e tramite il QR Code chiedono i soldi» E poi ci racconta del cibo: «Solo pollo e riso» e di come per strada trovi, testualmente «Gente che rutta e scatarra: e per loro è una cosa del tutto normale!». E poi ancora: « Oppure una volta ero al ristorante a fare colazione, la sala vuota, il posto davanti a me libero: un signore si è seduto al mio tavolo come se nulla fosse» racconta divertito.

E se viaggiare diventa «uno dei fattori che più appagano le mie scelte di vita», stare tutto il giorno al vento contribuisce a fargli amare un mestiere che non fa sconti. «Non sono un vincente, non lo sono mai stato e allora mi devo far piacere altre cose, altre situazioni: come amare la fatica oppure pedalare in solitudine sulle montagne intorno alla mia zona. Perdermi a osservare la natura - cosa che faccio anche nel tempo libero facendo trekking con gli amici di sempre». E poi si torna lì: la fuga. «Sono sempre stato un attaccante e quindi non mi disturba stare sempre in fuga, anzi, per certi versi faccio meno fatica davanti che in gruppo. E poi l'ho scelto io, perché amo spostare i miei limiti e provare fino a dove posso arrivare con il mio fisico e con la mia mente». Sognando che prima o poi una fuga con lui dentro possa andare fino all'arrivo, magari al Giro d'Italia. “Le antiche arene sono un cerchio chiuso dal quale nulla può scappare” scriveva Elias Canetti. Diteglielo a uno specialista della fuga come Tonelli, e vediamo.

Foto: Bettini/per gentile concessione dell'Ufficio Stampa Bardiani


Luigi Sestili: «Non ho mai smesso»

«Alle scuole medie, a Tolfa, eravamo dieci ragazzi e sette ragazze. Al sabato i ragazzi andavano a giocare a pallone e io restavo in classe con le ragazze. Mi prendevano in giro ma non mi interessava: a me non piaceva giocare a calcio, perché avrei dovuto giocarci solo per conformarmi? Preferisco essere controcorrente». Luigi Sestili racconta questo aneddoto per parlare del suo modo di essere, un’indole che permea ogni scelta. E allora va bene correre in bicicletta ma bisogna anche studiare: da qui l'iscrizione a ingegneria. Va bene essere professionista ma serve anche essere professionali: «ho trovato maggiore professionalità in alcune squadre del dilettantismo che del professionismo; che senso aveva continuare se poi comunque non sarei mai potuto arrivare dove volevo?» Va bene avere uno stipendio e una sicurezza economica ma non è l’unica cosa a contare. «Quando ho smesso di correre ho provato una forte amarezza, la prima sensazione è stata quella. Una sorta di dolore. Successivamente ho capito che avrei dovuto fare qualcosa per riscrivere la mia storia. Non lo avessi fatto, sarei finito in depressione. Credo che atleti si resti: non ho mai smesso di andare in bicicletta e le migliori idee per il mio lavoro sono arrivate proprio mentre pedalavo. Ho pensato che il racconto del ciclismo passa dalle storie di tutti gli atleti. Del primo parlano tutti, ma del secondo? Del momento in cui si accorge di essere secondo? Di tutti gli altri? Nel ciclismo provo a portare un approccio filosofico alla fotografia. Forse anche per questo, al termine del mio primo Giro d’Italia si era diffusa quella voce: “Lui è quello che fa le foto strane”. Un orgoglio per me».

C'è il ricordo di quegli anni in bici che ancora oggi provoca una lieve malinconia: «Ho seriamente creduto che il ciclismo potesse essere il mio lavoro: da dilettante ho vinto diverse gare. Da ragazzino mi addormentavo con Bicisport nel letto, sognando di finire su quelle pagine, e quando ho vinto il Prestigio Bicisport ero la persona più felice del mondo. Ho sempre creduto nella consapevolezza e al mio passaggio tra i professionisti ho capito che, nelle squadre in cui militavo, non c'erano le prospettive per correre le migliori gare, per essere alla pari con i più forti ciclisti del mondo, non c'era la professionalità richiesta. Sono stato lasciato a casa e, mentre aspettavo di essere contattato da un altro team, ho ripreso l'università, studiando Scienze Motorie. Un periodo davvero brutto. Più capivo che le possibilità di tornare a correre si assottigliavano, più il mio umore scendeva. Sono stato a un passo dalla depressione. Mi ha salvato un caro amico, l'ingegner Simonetti. Mi propose di raccontare su una sorta di blog ante litteram i miei allenamenti con foto e video. Non avevo gli strumenti adeguati e qualitativamente quelle foto erano davvero scarse però erano un modo per evadere. Per ritrovare un posto nel mondo. Ero davvero perso, non sapevo come indirizzare la mia vita».

Qualcuno lo nota, è Tony Lo Schiavo di Bicisport: «Mi propose di collaborare con la compagnia editoriale e per farlo fissammo un appuntamento con il direttore. Fu un colloquio davvero significativo. Appena mi sedetti, la domanda chiave: “cosa vuoi fare nel tuo futuro?” Dissi che non sapevo, che, forse, terminati gli studi avrei optato per l'apertura di un centro medico assieme a mia sorella. Feci capire di avere poche idee ed anche abbastanza confuse. Da lì quella sua risposta: “Scusa, allora cosa sei qui a fare? Se non ti interessa lavorare con noi, perché ti sei presentato oggi?” Fu una scossa di cui avevo bisogno. Decisi che avrei lasciato il ciclismo e mi sarei messo a scrivere, a raccontarlo. Grazie a quei colleghi avevo l'opportunità che cercavo. Ho imparato tanto e, per diversi mesi, ho anche pensato di essermi messo alle spalle quel passato ingombrante. Tutto crollò un pomeriggio».
Ilario Biondi e Claudio Minardi, fotografi della rivista, lo accompagnano nella sala fotografi e, pensando di fare cosa gradita, gli mostrano l'archivio fotografico che lo riguarda: «Vidi tre, quattro foto. Poi scappai con le lacrime agli occhi. Non riuscivo ad accettare quelle foto che mi ritraevano in sella. Il mio passato era ancora lì, tutto ciò che avevo fatto per superarlo non era servito a nulla. Tutto questo mi fece riflettere: ero arrivato ad avere un contratto a tempo indeterminato ed uno stipendio di tutto rispetto. Quella reazione significava, però, che non ero apposto con me stesso. Avevo avuto diverse idee che avrei voluto provare a sviluppare e le avevo proposte in redazione: non ne accettarono una. Ci rimasi male. Non dormii qualche notte e poi capii. Volevo avere la libertà di sviluppare la mia professione in maniera libera ed innovativa, quella era la via. A Bicisport non potevo farlo, dovevo rischiare. Presentai una lettera di dimissioni e mi licenziai».

Una sfida ma Sestili non teme le sfide. «Il mio direttore sportivo è stato Olivano Locatelli. Un sergente di ferro. Locatelli gridava, ci strigliava, non sempre per colpe nostre. Io gli ho sempre tenuto testa, ho sempre detto chiaramente il mio pensiero anche quando sarebbe convenuto tacere. Ho subito aspri rimproveri e sono andato in fuga, vincendo, per dimostrare il contrario. Sono così, in bicicletta come con una macchina fotografica al collo. Prendersi dei rischi vuol anche dire darsi delle possibilità. Mi sono iscritto a un corso di fotografia, ben sapendo che da solo sarebbe stato tutto più difficile. Provare a competere con le agenzie è difficile, pressoché impossibile. Se vuoi lavorare devi fare qualcosa di diverso. Devi dimostrare che qualcosa di diverso può essere fatto. Io faccio foto degli arrivi dove non le fa nessuno, di spalle. Al podio, non mi concentro sulla premiazione ma sul volto dell'atleta. In quel volto, finalmente solo, si condensa tutto. Il palco lo fotografano tutti, che senso ha? Ogni gara è una sfida, una prova, un test. Anche un rischio. Se sei solo e sbagli foto rischi di non avere il prodotto che dovresti vendere. Non è facile come dirlo. Ma è una grande soddisfazione. Le aziende mi cercano per questo, per questa vena narrativa. Per il mio intento: raccontare ogni piccola sfumatura del ciclismo. Penso ogni minuto a come fare una foto, programmo e invento. Vedrete qualche novità già al prossimo Giro d'Italia. Mi sento vivo».

Vivo e sicuro perché al suo fianco c'è papà: «Ho un ottimo rapporto con i miei genitori. Papà è speciale, è un amico. Lui sa tutto di me e non potrebbe essere altrimenti. Lui c'è sempre stato, è sempre stato dalla mia parte. Con discrezione e delicatezza, mi ha lasciato prendere la mia strada anche quando non la condivideva. Ogni sua critica è stata costruttiva. Se sono l'uomo che sono lo devo a lui. A tutti i pomeriggi in cui mi portava agli allenamenti pur essendo impegnatissimo con il lavoro, a tutte le nostre chiacchierate in auto ma anche al nostro modo di capirci senza parlare. Quest'anno temevo che la situazione attuale non ci consentisse di essere assieme in corsa. Quando ho saputo che anche lui potrà essere al Giro con me, mi sono emozionato».
Poi ci sono le parole per gli altri, quelle che Luigi Sestili indirizza a ogni ragazzo: «Siate consapevoli delle vostre capacità e di ciò che volete diventare. Disegnate la vostra strada, ascoltate i consigli di tutti ma date retta a quelle poche persone che davvero vi vogliono bene. E se siete convinti di qualcosa, andate fino in fondo. La gente, spesso, parla a vuoto. Voi credeteci e lottate per i vostri ideali mettendoci sempre la faccia».


Non avere paura

Certe volte le parole filtrano dagli occhi; lì dentro si può vedere tutto. Ieri pomeriggio, gli occhi di Vittoria Bussi riflettevano le strade di Imola, il tempo e alcune delle parole che ci siamo detti quando era ancora inverno. Così, negli intervalli di quelle lancette a scandire i secondi, mi sembrava di risentire la sua voce quando le chiesi se non la spaventasse l'idea della solitudine: ''Sai, tutti abbiamo paura di restare soli. Per questo la cronometro spaventa: perchè sei solo. Io ho imparato a convivere con la solitudine nelle notti trascorse in ospedale ad assistere papà quando lui non poteva parlare, non poteva dire niente. Notti lunghissime, l'alba non arrivava mai. In un silenzio che silenzio non è, perchè il silenzio dell'ospedale è intriso dei rumori tipici dell'ospedale. Su una sedia, con i miei fogli, a rivedere appunti di matematica. Notti di angoscia. In quel momento ho dovuto imparare a restare sola, per quanto mi facesse paura. Per questo oggi la solitudine non mi spaventa più. Per questo oggi so affrontare la solitudine. Ho imparato, pur non volendo ho dovuto imparare. Le cronometro sono solo pezzi di vita in cui sei solo. In tanti pezzi di vita si resta soli. Non bisogna averne paura''. Ci fu un giorno in cui Vittoria Bussi morì di paura: era il 2009 e lei era in Inghilterra per motivi di studio, Vittoria ha studiato matematica all'università. Le arrivò una telefonata, una di quelle che nessuno vorrebbe mai ricevere: ''Papà è ricoverato in terapia intensiva, ha avuto un'emorragia celebrale. Fatti coraggio!''

Vittoria è tornata in Italia per papà. È stata al suo fianco fino al 2012 con tutto quello che aveva e oggi continua a vivere per lui: ''Mi reputo atea, non credo, ma sono convinta che la tragica vicenda di papà mi abbia lasciato uno degli insegnamenti più importanti che un padre può lasciare a una figlia. Mi ha fatto capire quanto è importante la vita. Lui amava follemente la vita e la malattia non gli ha dato la possibilità di vivere. Io, da quel giorno, è come se vivessi per due, anche per lui. Ho abbandonato le scelte a lungo termine, ho scelto di fare ciò che avrei voluto fare da sempre, senza rimpianti o rimorsi. Io voglio godermi la vita. Ho un'energia diversa, come se avessi due persone dentro di me. Io vivo per due''. E non importavano nulla le parole della gente, anche di coloro che le volevano bene: Vittoria aveva deciso, Vittoria voleva vivere più forte che mai, voleva essere più viva che mai. ''Mia madre mi adora, ma allora non capì subito. Tu pensa a una donna già distrutta dalla perdita del compagno di una vita che si ritrova la figlia che impazzisce e butta alle ortiche una carriera accademica. Come poteva capirmi?''Così è arrivata al ciclismo e lo ha fatto con la chiarezza e la schiettezza che la contraddistingue: «Purtroppo, almeno all’inizio, ho trovato poca comprensione per le persone ancor prima che per gli atleti. Per questo ho deciso di fare una mia squadra. Ma sono sempre stata chiara, non ho litigato con nessuno: ho detto chiaramente ciò che mi piaceva e ciò che non mi piaceva. Bisogna essere espliciti, senza sotterfugi. Credo sia un dovere di ogni essere umano».

Il suo ciclismo è quello dei volti che le hanno fatto del bene e di una condivisione viscerale. In primis con il suo compagno, Rocco. Quell’ora, quel Record dell’Ora, è una cosa loro: «Lui non mi ha mai abbandonato. Anche quando ho stravolto la mia vita brancolando nel nulla, ha affrontato tutti i sacrifici con me, rinunciando a tante cose in prima persona. Certe volte spingendomi lui stesso a fare le scelte che volevo. Il Record dell’Ora non è solo mio, è nostro. Quel giorno lui ha veramente pedalato con me: non avevo alcun contatto con l’esterno, lui era in pista. Non lo vedevo ma sentivo la sua voce. Mi tenevo a galla con quel suono. Quelle corde vocali erano il mio tutto». Vittoria mi ha raccontato che, quando la chiamò Dino Salvoldi per convocarla al mondiale dello scorso anno, era in cucina: «Avevo già gli occhi pieni di lacrime ma non si piange al telefono. Ero felice, di una felicità rara. Aspettavo solo che si concludesse quella chiamata per piangere, per piangere a dirotto. Piangere di gioia». Non sappiamo, ma ce lo faremo raccontare, cosa è accaduto quest’anno quando Salvoldi l’ha chiamata. Sappiamo però cosa è accaduto ieri: Vittoria Bussi è fra le prime dieci al mondo. E abbiamo tutti meno paura.

Foto: Bettini


Tim Merlier: il ritratto della tranquillità

Tim Merlier cresce all'ombra di van der Poel e di van Aert. Non ha il talento del primo, né la tenacia del secondo, eppure, che sia strada oppure cross, da un po' di tempo il suo nome inizia a farsi sentire sempre più forte. Era un sibilo inizialmente. Un discorso da bar tra appassionati di ciclismo, qualche messaggio scambiato sui forum, poi arrivano i primi piazzamenti, le prime vittorie pesanti, come il tricolore belga del 2019 che da quelle parti ha un fascino a volte difficile da comprendere.

Pochi giorni fa il successo in una irriconoscibile Bruxelles che con tutta quella pioggia sembrava un villaggio di gnomi fatto di cera e sciolto nel fondo di una bottiglia. Passa qualche giorno e vince a Senigallia, alla Tirreno-Adriatico, città altrettanto interessante, e di sicuro più luminosa, e Merlier, che arriva dal solito monotono paesello delle Fiandre orientali tutto grano e pavé, si guarda indietro continuamente sparato a settanta chilometri orari, sgrana gli occhi, e lascia il segno. Come abbiamo sgranato gli occhi noi per quanto bella è stata la sua progressione in volata.

Tim Merlier viene dal fango. Probabilmente preferisce mettersi una bici sulle spalle saltando barriere, ma il mestiere su strada lo sa fare egregiamente – e quanto volte glielo ha ripetuto Mario De Clercq, suo compaesano e leggenda del ciclocross. Merlier darebbe la vita per gli altri e si sente frustrato quando un capitano non vince: tempo fa raccontava dell'imbarazzo vissuto nel cross serale di Diegem quando van Aert gli cadde davanti e lui non riuscì ad evitarlo. Lo aspettò per aiutarlo: «Mai avuto un compagno di squadra così in gamba» disse van Aert.

A inizio carriera correvano assieme: i due hanno subito legato. «Sì posso dire che siamo migliori amici» sosteneva tempo fa van Aert, eppure, vittima dell'assurdo, Merlier indossa oggi la stessa maglia di club di van der Poel – si fa per dire la stessa maglia, l'olandese veste quella da campione nazionale, ma queste sono sottigliezze - il più grande dei rivali del suo amico. Forse qualcosa più di rivali: lo yin e lo yang del ciclismo contemporaneo, guerra e pace, uomo e donna. Agli antipodi, ma assolutamente necessari. Due che se potessero farebbero a meno anche di incrociare gli sguardi.

E lui sta in mezzo a prendere qualcosa dell'uno e dell'altro come un fedele rampollo, anche se poi è van Aert a invidiare una caratteristica fondamentale del carattere dell'amico: «La tranquillità che irradia. Sembra che se ne freghi, ma invece è semplicemente fatto così. È sempre in ritardo, ma è la sua forza: non subisce la pressione. A maggio del 2019 si allenava con una maglia nera perché era senza squadra. Pensate che la cosa lo abbia scalfito in qualche maniera? Un mese dopo ha vinto il campionato belga!».

E poi c'è quella sua capacità di stupirsi, che ha qualcosa di fiabesco. Dopo essersi laureato campione belga (su strada), due mesi dopo ancora non se ne rendeva conto. Tirava fuori la maglia dalla lavatrice e sorrideva. La stendeva e pensava non fosse nemmeno la sua. Usciva per l'allenamento: casco, occhiali, maglia tricolore e si ritrovava a guardare il suo riflesso nella finestra per capire se era vero quello che gli stava succedendo. «Semplicemente non ci si abitua, questo è ciò che lo rende così divertente. Io campione del Belgio: immagina. Per anni ho pensato che un giorno avrei potuto diventarlo nel ciclocross. Ma questo... questo batte davvero tutto».

Tim Merlier è un figlio del fango, non un Golem, forse un sassolino, un pezzo di terra che rotola, e in breve tempo diventa strada. Da anni gli dicono «faresti meglio a fare ciclismo su strada, sei più tagliato per quello» e lui risponde: «Io ho due biciclette. Una per il cross e una per la strada. Mi piacciono entrambe, mi diverto: non vedo perché dovrei cambiarle». E chi siamo noi per convincerlo del contrario?

Da un po' di tempo Merlier divide la sua vita con Cameron, la figlia di Frank Vandenbroucke, troppo talentuoso, troppo veloce ad andarsene. «Grazie a lei ho imparato a puntare la sveglia presto la mattina». Quando invece torna a casa, Tim Merlier aiuta sua madre nel bar di famiglia a Wortegem-Petegem, nella piazza vicino la chiesa, a un tiro dal traguardo di Oudenaarde che caratterizza il Giro delle Fiandre. Serve caffè e frittelle nonostante lo status di corridore che da quelle parti equivale a essere una star. «Quando ho vinto il campionato belga hanno iniziato a chiedermi interviste, a dedicarmi prime pagine sulle gazzette, ma io sono rimasto sempre quel ragazzo tranquillo che ama versare il caffè nel bar di sua madre». Quella madre alla quale, poco dopo il lockdown, chiese di organizzare una corsa nel suo paese: «Ho corso così poco con questa maglia che mi sembrava una buona idea» racconta placido a una televisione belga. Se van der Poel è genio e van Aert carisma, Tim Merlier è il ritratto della tranquillità.

Foto: Bettini