Davide Formolo: «Avrai, avrai, avrai»

Il cellulare di Davide Formolo squilla alle diciannove: «Ti stavo aspettando». Non abbiamo tempo di dire granché, perché Davide riprende subito a parlare, una sorta di confidenza a cui tiene tanto: «Ma sai che sono proprio felice? Tutti mi dicevano: ''Così diventi papà'' e io rispondevo che sì, sarei davvero diventato papà. In realtà non puoi capirlo fino a quando non accade e ti vedi lì quell'esserino che piange appena nato. Un'emozione fortissima. Sono contento di essere qui, a casa, con Mirna, mia moglie, e Chloe, la nostra piccola. L'abbiamo chiamata così. In questo momento non potrei immaginarmi da nessun'altra parte. Non riuscirei mai a pensare di partire per qualche gara. Per fortuna adesso non ce ne sono, per fortuna adesso posso stare qui con loro». Davide Formolo era alla Vuelta a Espana fino alla penultima tappa, se è tornato un giorno prima è stato perché voleva vederla nascere la sua bambina: «Tre giorni prima di partire per la Vuelta, il ginecologo ci aveva detto che la bimba era ''bassa'' e sarebbe nata entro dieci giorni. Mi aspettavano tre settimane di Vuelta; il mio lavoro è importante ma come puoi perderti la nascita di un figlio? Non c'è nulla che valga tanto. Sono stato abbastanza agitato in questa Vuelta: appena finiva la corsa correvo ad accendere il cellulare, controllavo se c'era qualche messaggio di mia moglie. Lo stesso facevo nel pieno della notte o al mattino. Pensavo di trovare una foto sua con la bimba, pensavo che non sarei mai riuscito a tornare in tempo. Poi c'è questa situazione, quella legata alla pandemia, e i voli sono bloccati: per tornare a casa da Madrid ho dovuto fare scalo ad Amsterdam e poi a Nizza. Non ce l'avrei mai fatta ad essere a casa in tempo, ma volevo perdermi meno tempo possibile di mia figlia. Invece lei mi ha aspettato. C'ero anche io quando è nata».

Davide Formolo è un mulino di parole, a volte squillanti, a volte increspate dall'emozione: «In questi giorni ci stiamo scoprendo a vicenda. Per noi è la prima volta e non sappiamo tante cose. Ma anche per Chloe sono i primi giorni. Ha un pianeta da scoprire, per lei è tutto nuovo. È bello stare ad osservarla». Davide che è cresciuto in Valpolicella: «Fossi rimasto nelle mie terre, forse avrei fatto il contadino. Sono cresciuto lavorando la terra, con mio nonno e mio zio. Dopo la scuola, al pomeriggio andavo nei campi. Però, appena avevo un momento libero prendevo la bici e via, pedalare». Il legame con papà Livio è un legame fatto di tutte quelle cose che hanno condiviso. «Mi accompagnava a nuoto, andavamo assieme in bicicletta o a camminare nei boschi. Ha sempre tenuto al fatto che facessi sport perché gli piaceva vedermi mentre mi divertivo. Il Giro d'Italia? Ma io fino a diciassette, diciotto anni nemmeno sapevo cosa fosse il Giro d'Italia. Ho iniziato a correre, sono arrivati i risultati e va bene così ma io non mi sono avvicinato alla bicicletta per quello. Adesso che abito al mare, per esempio, non vedo l'ora venga il momento di immergermi con la tuta da sub. Lo devo a papà, a tutto quello che mi ha fatto scoprire». Racconta di essere testardo, nella vita come nel lavoro: «Può essere un bene o un male. A scuola ricordo che dividevo le materie fra quelle che mi interessavano e quelle che non mi interessavano. Delle prime sapevo tutto, delle seconde nulla. E potevano così dirmi che non era giusto, io andavo avanti per la mia strada. Sai quante volte, magari in prossimità di una gara, non guardavo più i libri e pensavo solo a correre?».

Correre, già. «Questa situazione non mi spaventa per il ciclismo. Il fatto di aver portato a termine questa stagione deve rassicurare; se ce l'abbiamo fatta quest'anno, possiamo farcela sempre. Le bolle hanno resistito, siamo stati messi nelle condizioni di lavorare al meglio. Questa situazione mi spaventa per gli sponsor che saltano, per le squadre che chiudono, e per tutte le persone che rischiano il lavoro. Ma il ciclismo è forte, il ciclismo resiste. Dobbiamo crederci di più. Questo sì''. Il ciclismo è forte ma non solo: ''Penso a Tadej Pogačar: lui vive tutto con la spontaneità di un ragazzo di vent'anni. Il ciclismo è cosa semplice, alla fine. Dobbiamo solo spingere due pedali. L'importante è fare il massimo e spingere al meglio su quei pedali. Cerchiamo di non appesantire le realtà che viviamo: lavoriamo bene e, quando possibile proviamo a dare spettacolo. Le persone lo meritano ed è giusto farlo. Però anche loro devono capire una cosa. Quando sono in gara mi concentro sulla corsa e non mi accorgo molto di quello che accade intorno. Tuttavia ci sono tanti tifosi che vengono a sbraitarti nell'orecchio mentre sei a tutta e questo non fa molto piacere. Anche adesso: rispettiamo le distanze di sicurezza, è importante per tutti. Si tornerà alla normalità ma sforziamoci di fare ciò che è necessario, per ora».

Il giorno più bello per Davide Formolo, da quando è atleta, è uno di quei giorni di cui si non si parla neanche tanto rispetto ad altre sue vittorie: «L'anno scorso ho vinto al Catalunya. Eravamo in ritiro da tanto e saremmo tornati in altura dopo quei giorni. Per me non era un momento facile, così ho chiesto alla squadra se mia moglie fosse potuta venire con noi. Bene, quel giorno io vinsi proprio nei momenti in cui Mirna arrivava in aeroporto a Barcellona per ripartire con la nostra squadra. Sono quelle coincidenze strane, tanto belle quanto rare. Riprovassimo, qualcosa del genere, non accadrebbe più». E al giorno in cui si ripartirà per le gare, Davide Formolo pensa mai? «Nella mia vita ho imparato a ragionare per priorità e necessità. Quando parto mia moglie mi manca, la bambina mi mancherà tantissimo, ma la vita da atleta dura poco e bisogna dare tutto affinché sia la migliore possibile. Ho scelto io questa vita, devo onorarla. Poi si torna a casa e la famiglia è qualcosa di unico ma bisogna ripartire. Anzi, bisogna sgommare, come dico io. C'è ancora tempo e questi attimi mi piacciono troppo per pensare ad altro».

Foto: Claudio Bergamaschi


Gianluca Brambilla: «Se il Monte Grappa el ga el capeo»

«Tornassi indietro, tornassi a quel 2010, e avessi la possibilità di parlare con il Gianluca Brambilla di allora, non gli direi molte cose. Gli raccomanderei di continuare a darci dentro, a spingere sui pedali, a far fatica e di avere cura dell'animo con cui si fa quella fatica. Lo dico perché l'entusiasmo è rimasto lo stesso ma tante cose sono cambiate. All'epoca non conoscevo quasi nulla di alimentazione e, forse, ero carente anche sulla conoscenza degli aspetti specifici dell'allenamento. Eppure andavo, eccome se andavo. Tutte queste nozioni mi hanno migliorato, ne sono certo, ma mi hanno reso anche meno ''leggero''. Ed essere ''leggeri'' in ciò che si fa, di quella leggerezza che non toglie ma aggiunge, è importante». Gianluca Brambilla racconta così i suoi inizi e parla del suo carattere: «Qualcuno mi dice che, alle gare, sembro abbastanza chiuso, antipatico. A dire la verità non sono neanche timido, sono un estroverso però serve tempo e conoscenza per aprirsi, per raccontarsi, per svelarsi completamente per come si è. Te lo insegnano le circostanze della vita che non ci si può fidare di tutti, che la confidenza è cosa rara. Non credo sia un difetto questo. Il mio più grosso difetto è non saper aspettare: sono la classica persona che vuole tutto e subito. La mia compagna mi dice spesso che Asia, mia figlia, deve aver preso da me».

In fondo stimiamo sempre le qualità che non abbiamo e sarà per questo che Gianluca Brambilla, quando parla di Vincenzo Nibali, si sofferma proprio sulla calma del siciliano quale aspetto saliente: «Sembra assurdo ma è lui a tranquillizzare noi. Vincenzo è calmo in ogni situazione, lucido razionale. Quando so che mi attende una gara, io vorrei partire subito. Vorrei allenarmi oggi e correre domenica. Devo entrare subito nell'ingranaggio della gara, altrimenti non sono tranquillo. Non va bene. Quest'anno, a malincuore, ho dovuto abbandonare il Giro d'Italia prima della terza settimana, ho provato a stringere i denti ma non ci sono riuscito, così l'ho seguito da casa. L'ho stimato tanto e sono più che mai dalla sua parte. Voglio dirlo ancora una volta. Le critiche che ha subito sono ingiuste, profondamente ingiuste. Lui sa reagire bene. Sono sincero, io non credo di saperlo fare. Non ci sono storie, qui si vedono i campioni». C'è di più, c'è il piacere di essere dove si è e di fare ciò che si fa: «Credo che il ritiro al Teide quest'anno sia stato uno dei più bei ritiri della mia vita. Ero con Giulio Ciccone, Antonio e Vincenzo Nibali. Non ti so spiegare molto, ti so dire che sono stato bene e questo spiega già tutto. Ogni squadra, ogni realtà, gestisce i ritiri in maniera diversa. Sai, in primavera, quando è stato chiuso tutto, sapevo che a fine anno mi sarebbe scaduto il contratto. Volevo dimostrare il mio valore ma non potevo farlo. Eravamo chiusi in casa, con i rulli, senza un traguardo da immaginare, una corsa da inventare. Guarda che è difficile. Non sai più da che parte girarti. Ora le cose sono diverse ma quel periodo me lo ricordo bene e non me lo scorderò facilmente».

Non serve un'ulteriore domanda perché Gianluca riprende a parlare dopo un attimo di riflessione: «Sono felice. Ho rinnovato con la Trek Segafredo per altri due anni. E sai il bello? Forse, in questa stagione, non ho reso come avrei voluto ma la squadra ha capito, la squadra mi ha dato fiducia sapendo quanto valgo. Ricordandoselo. Questo non è un caso, questo viene da un metodo di lavoro: siamo sempre tutti in contatto, anche se non corriamo. Ci conosciamo. Questo ti invoglia ancora di più a dare tutto. Così quando non stai bene, quando non riesci a fare la gara che vorresti, ti affianchi ai più giovani, li consigli e speri che ti ascoltino». Gianluca Brambilla, da ragazzino, giocava a calcio e studiava alla ragioneria: «Se ci ripenso oggi credo non sarei mai riuscito a fare il ragioniere. No, decisamente no. Credo la mia sia stata la scelta giusta. Ricordi quando nel 2016 ho vestito la maglia rosa al Giro d'Italia? Ecco, quando sali sul podio, lungo quegli scalini, ti passa davanti tutto ciò che hai fatto per essere lì. Ripensi a quando vedevi il Giro in televisione e ti dici: ''Vai Gianluca, vai che fra tanti quella maglia la indosserai tu. L'avresti mai detto?''. Pensi a chi ti vuole bene e ti commuovi perché vedi che li hai resi orgogliosi ed è una sensazione che non si può spiegare ma tutti la proviamo in qualche circostanza della vita. Soprattutto pensi a tutti i sacrifici che hai fatto, a tutto ciò a cui hai rinunciato. Se hai la mia fortuna, non rimpiangi nulla. Proprio nulla».

Ogni mattina, ma anche mentre parla con noi, anche se è quasi il tramonto, Gianluca Brambilla si affaccia alla finestra di casa e guarda verso il Monte Grappa. Un'abitudine o forse qualcosa in più: «Al Monte Grappa vado spesso in bicicletta, per allenarmi. Potrei dire che è la mia salita. A parte questo, però, è una veduta che mi appaga. Sarà anche per quel vecchio detto: ''Se il Monte Grappa el ga el capeo o che fa bruto o che fa beo''. Si tratta di un modo di dire anche abbastanza sciocco ma quella nuvola sulla cima del Grappa la controllano tutti, qui a Marostica».

Foto: Claudio Bergamaschi


Sulla strada - La storia di Andrea fedi

«Quando racconto quello che mi è successo faccio fatica a far capire quello che ho passato». Inizia così la storia di Andrea Fedi. Simile alle altre, diverse da tutte. Non c'è riscatto, né resurrezione, almeno a leggere il suo racconto, almeno da un punto di vista strettamente agonistico: la bici, una volta abbandonata nel 2017, la lascerà in garage senza mai più toccarla. Nel vero senso della parola. C'è un cambiamento così veloce al proprio modo di vivere che sembra appartenere all'esistenza di qualcun altro – non dice proprio così Fedi, ma il senso è quello.

Un balzo, un cambio che lo porta da un'altra parte, dopo aver annusato il vertice del ciclismo e aver sognato di diventare campione: ciò per cui ti batti quando sei ragazzino e inizi a pedalare, a fare sacrifici, a crescere più in fretta degli altri tra privazioni e sacrifici: «Però c'è un compromesso: fare il ciclista è il mestiere più bello del mondo».

Perché c'è l'adrenalina delle corse, c'è la sfida contro te stesso, c'è la semplice passione che diventa come un corso d'acqua che passa e raccoglie tutto e poi si ingrossa fino a sfociare da qualche parte.
C'è la strada che nasconde un'insidia dietro l'altra. «Quello che mi ha portato a smettere è stato veloce, repentino». Travolto, trascinato come se invece di essere lui quel fiume, ne fosse stato colpito. Passa professionista tra belle speranze. Un secondo posto a Plouay, mica la Corsa del Prosciutto – e non ce ne voglia lo stesso Fedi che a San Daniele, patria del prosciutto, vinse una delle classiche più celebri del panorama Under 23.

Il secondo anno da professionista inizia col botto: prima nei risultati, poi quello che mette fine alla sua carriera facendogli iniziare un calvario dal quale scende solo una volta deciso di mollare per sempre la bici. Quarto a Camaiore, vince il Lagueglia pochi giorni dopo con un'azione che sarebbe potuta diventare un marchio di fabbrica, ma che invece resterà solo qualcosa da raccontare come inizio della fine, almeno quella in bicicletta.

«Passano venti giorni dalla mia vittoria a Laigueglia, cado alla Coppi & Bartali e picchio il ginocchio sinistro. Risultato? Una lesione tendinea che però non mi viene diagnosticata in tempo e che mi rovina il ginocchio e mi distrugge la carriera. L'ho trascurata; sono entrato in un circolo vizioso condizionato in parte della squadra, in parte da tutti quelli che mi stavano attorno. In parte da me. Era la stagione in cui dovevo dimostrare chi ero. I risultati stavano arrivando e tutti mi mettevano pressione, io stesso mi mettevo pressione. “Non puoi mollare adesso, non puoi mollare adesso”, mi ripetevano e mi ripetevo come un mantra. E io ho insistito sul dolore, sulla botta, che poi proprio una semplice botta non era».

I problemi si sommano, «arrivano a cascata» - puntualizza Andrea con il tono di chi ormai ha saputo mettersi alle spalle quei momenti, di chi ha saputo trovare in una nuova vita un presente e un futuro a cui aggrapparsi, per guardare col sorriso a quello che è stato il suo passato.
«Mesi di riabilitazione che parevano infiniti. Era marzo quando mi feci male, sono rientrato alle gare ad agosto e senza risolvere nulla. Ho continuato a fare riabilitazioni su riabilitazioni, ma il ginocchio aveva perso elasticità, non lavorava più bene. Poi ho affrontato l'inverno tra 2016 e 2017 mettendomi il cuore in pace, ma con l'idea di ripartire bene, facendo solo fisioterapia in un centro specializzato a Forlì. Da qui iniziano le frustrazioni».
I medici gli ripetevano: “Andrea il ginocchio è a posto”. «Ma io, come salivo in bici, avevo un dolore tremendo. Non riuscivo a saltarne fuori. Ho girato mezzo mondo per salvare la carriera. Consulti con dottori, specialisti, osteopati, e tutti mi dicevano: “questo è un ginocchio un po' problematico ma per lo sport che fai tu non ci sono complicazioni”. E le frustrazioni continuavano».

Andrea Fedi non riusciva a spiegare a chi gli stava intorno quello che stava succedendo. Come un film che nessuno ha mai visto, un sogno, in questo caso un incubo, che in quanto tale appartiene solo a te stesso e dal quale non riuscire a venirne fuori. Un rompicapo. Uno spettro che fa capolino. «Dalla squadra, ai familiari, al procuratore, alla mia ragazza. Io tornavo a casa e dicevo: “non riesco ad allenarmi, non riesco più a gestire questa situazione, non riesco più a sostenere e a combattere contro questa frustrazione”». A maggio 2017, Andrea decide di smettere. «Non ce l'ho più fatta. Non ho retto la pressione. Come essersi liberato di un macigno di due tonnellate che pesava sulle spalle».

Più leggero, dopo essersi scrollato di dosso quei pensieri che nel giro di poche settimane da granellini di polvere divennero blocchi di zirconio. Capace finalmente di mandare giù il boccone, dopo aver eliminato quel groppo in gola che rischiava di strozzarlo, Andrea stacca da tutto e tutti e vola in America. «È stata la mia salvezza. Vedete, io amo il ciclismo, ma c'erano tanti, troppi interessi dietro la mia scelta, nascosti dietro la mia vita: contratti, sponsor, procuratori, squadra. Però amo anche viaggiare e allora l'unico modo per immaginarmi lontano da questo mondo era staccare completamente. Andai a Los Angeles, affittai un'auto e iniziai a fare il turista». Fuggire dalla strada e cercare catarsi e purificazione sulla strada. «Avevo bisogno di stare lontano da tutte le persone che altrimenti avrebbero continuato a dirmi: ”ma che hai fatto? Perché hai smesso?”»

Ma quel viaggio non poteva che ricondurlo prima o poi al ciclismo. Andrea ricarica le batterie, riprende contatti con quel mondo che aveva rifiutato e rientra dalla porta di servizio. «La mia vita è sempre stata il ciclismo. E dopo quel periodo di stacco volevo ritornare, ma non come corridore. Avendo sempre avuto la passione della meccanica presi contatto con Citracca e iniziai a lavorare come autista e meccanico». Ora lavora per la Bardiani CSF Faizanè Pro Team, si occupa del magazzino, dei fornitori: poche settimane fa ha fatto il suo primo Giro d'Italia in ammiraglia come meccanico. Un'esperienza fantastica, la definisce.
È di nuovo raggiante Andrea Fedi, nel raccontare la sua nuova vita. «E da qui cambia tutta la prospettiva nel valutare un ragazzo che corre in bici. Quando sei tu a correre, quando sei sotto i riflettori, non ti accorgi di tante cose. Solo ora vedo i sacrifici e le rinunce. Solo adesso sto vivendo una vita normale. Se tornassi indietro non so se riuscirei a rifare di nuovo la vita del corridore. Sin da bambino cresci facendo il ciclista, quindi sei abituato a correre, sei mentalizzato e stimolato per arrivare, per vincere, hai fame di successi e quindi riesci a sopportare tutto. Ma quando vedi com'è l'altra vita ti fai una domanda alla quale sai anche come rispondere: ma come sono riuscito a fare tutto questo?».

Oggi Andrea, oltre a essere meccanico è anche padre, felice, nonostante quando ci ha risposto al telefono stava ancora aspettando l'esito del tampone, dopo aver passato le ultime settimane a casa in quarantena, perché positivo. «Però la verità è che non potrei stare meglio. A casa, con un bimbo appena nato, con la mia famiglia, finalmente mi godo un po' anche loro». Oggi a casa, da domani ancora sulla strada.

Foto: Bardiani-CSF-Faizanè


Fausto Masnada: «Quel giorno allo Stelvio...»

Se chiedete a Fausto Masnada di parlarvi del suo carattere, vi parlerà del suo nervosismo: «La prima parola che mi viene in mente è proprio "nervoso", una sorta di caratteristica primordiale. Sono così dalla nascita, per qualunque situazione che non riesco a controllare come vorrei. A questo bisogna aggiungere il fatto che ho una spiccata competitività: se giochiamo a carte e perdo, mi arrabbio, se faccio un allungo su una salita e non riesco a passare per primo mi vengono i nervi. C'è un lato del mio orgoglio che trabocca». Un nervosismo da tenere a freno come un ronzino imbizzarrito da domare: «Devo fare i conti col fatto che il mio è un lavoro e questo aspetto deve essere tenuto a bada, frenato. Lo sfogo alla sera, quando torno in camera. Quando sono da solo. Non devono essere gli altri a farne le spese. Sto lavorando molto su me stesso per trovare quella tranquillità interiore che mi permetterebbe di gestire questi scatti di nervosismo. Ci vorrà tempo ma è un lavoro da fare giorno per giorno, soprattutto nelle situazioni che li suscitano».

Il 22 ottobre, al Giro d'Italia, si scalava lo Stelvio: Fausto Masnada, come tutta la Deceuninck-Quick Step, era accanto alla maglia rosa, il portoghese João Almeida: «Dall'ammiraglia è arrivata la comunicazione: "State accanto ad Almeida, sta pagando". Quando lo abbiamo affiancato, João era preoccupato e molto nervoso. È normale, perfettamente normale. Il problema è che queste situazioni vanno gestite e serve lucidità. Come ho iniziato a fare il ritmo mi ha detto di accelerare, poi di rallentare, poi nuovamente di rallentare ed ancora di accelerare. A quel punto ho avuto uno scatto di nervoso anche io: "Basta. Ora non si parla più. Si tira dritto e si arriva assieme al traguardo, i Laghi di Cancano sono ancora lontani e questo tira e molla peggiora solo la situazione". Da quel momento non ha più parlato nessuno sino a dopo il traguardo. João è un ragazzo molto intelligente, ha capito che se ho reagito così è stato per il bene di tutti ed alla sera è venuto a ringraziarmi. Perché dico questo? Perché mantenere la lucidità è fondamentale per noi stessi e per i nostri compagni. Quel giorno sono stato io a supportare Almeida ma nei giorni prima Ballerini e Keisse avevano fatto lo stesso. Quando si indossa la maglia rosa si è sempre più stanchi, João ha gestito la situazione in maniera invidiabile dimostrando una forte maturità». Un approccio collettivo ai problemi che risente dell'impronta data dalla dirigenza della squadra: «In Androni ho imparato cosa volesse dire correre fra i professionisti, seguendo una tattica di squadra e non andando allo sbaraglio, ognuno per proprio conto. Alla CCC devo il passaggio nel WorldTour: ho preso una strada diversa ma la loro fiducia è rimasta immutata ed è difficile trovare chi crede in te anche quando prendi altre vie. Loro lo hanno fatto e gli sono riconoscente. Il WorldTour mi ha permesso di lavorare con professionalità sempre più raffinate e di vivere gare sempre più prestigiose. La Deceuninck-Quick Step ha aggiunto ancora qualcosa: la comprensione dell'importanza del gruppo e della serenità nel lavoro». Ovvero? «La prima cosa in Deceuninck è l'affiatamento dei compagni, controllano che si vada tutti d'accordo e se qualcosa non va intervengono in prima persona per parlare e risolvere. Parlare è importantissimo. Poi c'è la serenità dell'ambiente: le pressioni si avvertono solo in gara, prima e dopo si lavora seriamente ma nel contempo si ride e si fanno battute. Lavori meglio, ottieni risultati e in più ti diverti».

All'inizio di questa stagione, proprio questo aspetto è stato messo a repentaglio dalla pandemia: «Tutto è più difficile quando si lavora in bolle, si dorme in camere singole ed anche i contatti esterni sono limitati. Io ho sofferto molto questa situazione. Sai, ero arrivato a sviluppare una vera e propria fobia da contatto. Un'ansia abbastanza invadente per ogni risultato dei tamponi, l'incubo di non poter gareggiare. Ero teso per quello, non per i risultati delle gare. Vivo a Montecarlo e qui le restrizioni sono state inferiori, così in questi giorni sono riuscito a rivedere qualche amico e anche Giulio Ciccone. Del resto, io al ciclismo sono arrivato proprio grazie ad un amico che mi convinse a gareggiare con lui. Lui ha smesso ed io corro ancora. Pensa te com'è la vita! L'aspetto di condivisione mi interessa molto. Credo anche molto al fatto che quest'anno abbia reso il ciclismo più forte. Capisci cosa intendo? Un poco come quando si passa un momento brutto e se esce. Poi credi più in te, sai che se hai passato quel periodo puoi farcela altrettante volte. Il ciclismo deve ricordare questo». A Masnada piace raccontarsi, lo fa volentieri: «Non avessi fatto questo lavoro probabilmente mi sarei inventato qualcosa nel mondo della comunicazione social. Raccontare una storia, far conoscere un dettaglio, anche un marchio. Deve essere piacevole».

Quando le parole tornano sulle corse, l'orgoglio di Fausto Masnada prende forma. Un orgoglio molto particolare perché è l'orgoglio di chi ha fatto qualcosa per gli altri e ne è fiero: «Sono fiero di ciò che ho fatto al Giro. Ti rendi conto? Ho lavorato per la maglia rosa, sono stato il treno della maglia rosa. Come posso non esserne felice? Se mi dicessero in questo istante che l'anno prossimo avrò lo stesso privilegio, metterei la firma. Dal punto di vista personale sono soddisfatto del decimo posto di quest'anno. L'idea è quella di lavorare per un piazzamento nei primi cinque in una grande corsa a tappe. Per questo durante l'inverno farò lavori specifici sulla posizione e sui materiali da cronometro. Non posso trascurare questi aspetti. Proprio mercoledì ho ripreso gli allenamenti cercando di allineare quantità del lavoro alla qualità». Questo inverno, probabilmente, tornerà a lavorare anche con Remco Evenepoel ma su di lui, Masnada, ha già molto da raccontare: «Se parlassi delle qualità tecniche e tattiche di Remco scadrei nel banale: dove ha gareggiato, ha quasi sempre vinto. A me, più di tutto, ha sempre colpito la sua umiltà, davvero un ragazzo alla mano. Quando è stato annunciato il mio arrivo in Deceuninck è stata la prima persona a scrivermi, a cercarmi, per un "in bocca al lupo". Un messaggio inaspettato che mi ha fatto felice. Non che a Remco Evenepoel serva il mio augurio di buona fortuna ma a chi si pone con queste delicatezze nei tuoi confronti non puoi che augurare il meglio. Sono certo sarà formativo lavorare con lui. Non vedo l'ora».

Foto: per gentile concessione di Fausto Masnada


Alberto Bettiol: «Ti racconto questa»

«Ti racconto questa: sai a che ora sono andato a letto la sera prima del giorno in cui ho vinto la Coppa d'Oro? Alle quattro del mattino. Eravamo in questo albergo a far baccano con i miei compagni e il sonno non veniva mai. Sono andato a letto a quell'ora ed il giorno dopo ho vinto. Non lo dico per vantarmi. Lo dico perché oggi una cosa di questo tipo non accadrebbe più ed è un peccato». L'intervista con Alberto Bettiol scorre fluida, all'ora di cena di una gelida serata di novembre, tra la sua parlata toscana, qualche risata e diversi aneddoti. Ogni racconto, anche se giocoso, scherzoso, contiene un insegnamento. Ed è questa la migliore forma di leggerezza, quella che è in grado di riflettere profondità schivando la pesantezza.

«Ci sono gli sponsor che investendo vogliono risultati e i direttori sportivi che, forse poco consapevoli, si rifanno sui ragazzi. Parliamo di bambini di otto, dieci, anni che fanno i rulli o che ricevono in regalo biciclette in carbonio e pedali da professionisti. A cosa serve quella bicicletta ad un bambino che deve fare dodici chilometri? Così si bruciano le tappe e quei ragazzi divenuti allievi non vivranno più quegli entusiasmi che, per esempio, io ho vissuto. La mia prima bicicletta in carbonio, l'ho avuta da juniores, a sedici anni, e per assurdo pesava di più di quella in alluminio perché era un carbonio grezzo ma a me sembrava di aver sotto una Ferrari. Quando ho avuto il mio primo potenziometro, il mio primo srm, da professionista mi sentivo una divinità in terra. Molte volte sono anche i genitori che, credendo di fare del bene, esasperano ogni situazione. In realtà si arriva a casi gravi, a ragazzi che diventano anoressici o bulimici per inseguire le brame genitoriali. Io dico sempre di dover ringraziare i direttori sportivi e le persone che hanno consigliato il mio babbo quando ero piccolo. Hanno sempre detto che avevo delle capacità ma hanno evitato ogni esasperazione. Anche la società, oggi, va in una direzione opposta con la continua ricerca dei risultati. Ma che senso ha il protocollo cerimoniale nelle gare dei più piccoli? Ai bambini non interessa, i bambini di quel risultato si ricordano per pochi minuti, poi vogliono andare a giocare a basket, a calcio, a passeggiare in compagnia nei prati. Il bello in quell'età è proprio questo. Per me il ciclismo era la possibilità di andare lontano da casa, di stare fuori a dormire, di festeggiare con gli amici la fine dell'anno o il capodanno, di stare insieme, di fare gite. Mi sembra che tutto questo si stia perdendo nonostante i tanti volontari che investono soldi propri per aiutare i ragazzini, per portarli alle gare. Nonostante la loro dedizione».

Lugano, dove abita ora Bettiol, è lontano da quel condominio di Castelfiorentino in cui tutto è cominciato: «Noi abitavamo al terzo piano, al secondo c'era il presidente della società locale di ciclismo. Avessi abitato in un altro condominio forse questa storia non sarebbe mai iniziata. Papà mi ha accompagnato ad iscrivermi alla società ma ho continuato anche a fare altri sport. C'era lo studio, c'erano gli amici e tante altre cose che, in quel momento, venivano prima del ciclismo. Può essere che una passione diventi un lavoro ma è un percorso per cui serve tempo. Un percorso graduale in cui i dubbi e i ripensamenti sono all'ordine del giorno, giustamente direi». A Castelfiorentino, in realtà, Bettiol ci è ritornato a fine stagione, lì ha festeggiato il suo compleanno: «Puoi immaginare la gioia di mamma, saranno stati più di cinque o sei anni che non ero a casa con loro il giorno del compleanno. Solitamente ero in vacanza in paesi caldi. Quest'anno non si può ma comunque mi sono regalato delle belle giornate». La sorella della mamma di Alberto Bettiol è insegnante e ha sempre insistito perché Alberto studiasse: «Mi ero anche iscritto all'università ma poi la mia facoltà richiedeva la presenza, quando ho siglato il mio primo contratto, mi sono fermato. Avevo un lavoro, avevo una sicurezza economica. Forse a mia mamma quella scelta non è piaciuta sul momento ma non si poteva fare altro. Ma anche lì: non sai quante volte mi sono chiesto se davvero volevo fare questo. Anche al passaggio a professionista, tante volte mi sono detto: vale la pena fare così tanta fatica per arrivare novantesimo? Sono davvero convinto di quello che sto facendo? Ma io non voglio fare solo questo, io voglio studiare, voglio imparare. Cosa sto facendo? Sono ancora qui perché ho stretto i denti e perché ho trovato persone che mi hanno aspettato con una rara pazienza. Una pazienza che oggi manca. Ai giovani lo dico sempre: il problema non è passare professionisti, il problema è fare i professionisti e restare sempre professionisti». Il ciclismo di Bettiol è medicina «per non pensare a questa situazione, per sentire ancora una parte di normalità» e routine da cui, ogni tanto, staccare la spina: «Riposo, per me, è anche solo la consapevolezza di svegliarsi la mattina e non dover scegliere maglia, guanti, calze, casco e orario per uscire. Ogni tanto staccare è salutare».

Alberto Bettiol è un ragazzo estroverso: «Rido, scherzo, mi racconto molto ma c'è una linea di confine. Per gli affetti e le cose a cui tengo di più ho una cura particolare, queste cose le sanno in pochi, in pochissimi». Quella cura che, forse, è più difficile da preservare dopo la vittoria al Fiandre, l'anno scorso: «Mi dicono tutti che ho fatto un'impresa, che è una vittoria importantissima e mi elogiano. L'altra parte di quella vittoria, però, non la vede nessuno. Ho perso quell'irriconoscibilità, quel silenzio attorno che certe volte è necessario. Non solo sono più controllato in gruppo ma anche nella vita di tutti i giorni. Se Alberto Bettiol non pubblica nulla sui social per qualche giorno sono tutti a chiedersi che fine abbia fatto, cosa sia successo. Sono senza dubbio di più i lati positivi di quelli negativi ma esiste anche l'altro lato della medaglia. Io mi concentro su di me, sulla mia persona. Io sono più importante, poi viene il resto: è l'unico modo per affrontare la situazione». La prima volta in cui Bettiol ha rivisto integralmente quella gara è stato il 7 aprile di quest'anno, nel corso di una replica: «Non amo particolarmente rivedermi. Volevo invece tornare in quei luoghi a passeggiare da solo, a piedi. A guardarmi attorno, incontrando la gente, quella gente, che ha un legame così viscerale col ciclismo. Alcuni erano lì quel giorno. Cosa ho fatto quel giorno, l'ho capito quando sono tornato nelle fiandre quest'anno. L'avevo intuito dall'atteggiamento del pubblico alle gare, da tutte le telefonate arrivate a mamma, papà e a mio fratello, dalla Rai ad attendermi in aeroporto al ritorno. Pensa che, la sera stessa, telefonarono a mio papà per fare delle riprese a casa mia. Lo dico sempre: se il Fiandre lo avesse vinto Sagan, Alaphilippe, Gilbert o Cancellara non sarebbe stato così. Invece lo ha vinto Bettiol e nessuno se lo aspettava. Questo è speciale».

E la pressione? Come si gestisce la pressione che una vittoria del genere comporta? «L'unica pressione che mi resta addosso è quella che mi metto io. A me gli appuntamenti importanti, caricano. Se so che devo correre il mondiale mi gaso, faccio tutto il possibile per arrivarci al meglio, torno dagli allenamenti arrabbiato se non riesco a correre come vorrei e, stai tranquillo, che non sbaglio. Quello che dicono gli altri è relativo. Di più. Quello che dicono gli altri è spesso condizionato da quello che diciamo noi. A me fanno sorridere le colpe date alla stampa. Voi scrivete quello che diciamo noi. In un certo senso invidio i giovani che fanno dichiarazioni mirabolanti. Beati loro che hanno tutte queste sicurezze. Io non ci riesco. Io posso dire che mi impegnerò al massimo, che farò il possibile ed anche di più, ma non mi metterò mai, da solo, fra i favoriti di una corsa. Non mi appartiene caratterialmente e credo sia un bene».

Lo è, Alberto. Lo è.

Foto: Claudio Bergamaschi


Enrico Battaglin: «Sono nato qui»

I luoghi in cui Enrico Battaglin è cresciuto sono gli stessi in cui vive anche adesso e questo torna molte volte nel suo racconto: «Sono cresciuto tra Colceresa e Marostica. Quando mi guardo attorno e vedo questi luoghi ripenso a quando ero ragazzino. Le domeniche d'inverno, quando non corro, mi piace andare in centro a Marostica con mia moglie, sedermi al tavolino di un caffè e fare colazione. Oppure andarci al pomeriggio e fare un aperitivo. Noi, lì, senza troppi pensieri, senza preoccupazioni». Sono proprio questi i luoghi in cui ogni tanto fantastica, spaziando tra passato, presente e futuro: «La mia è una famiglia di contadini. Mio nonno coltivava i campi e aveva animali. Mio papà ha lavorato in ditta ma ora che è in pensione ha ripreso a coltivare mais e a curare i campi. Quando posso mi piace dargli una mano. Chissà, magari un domani. Non so se riesco a spiegarlo a parole ma c'è una soddisfazione particolare in quel prodotto che raccogli dalla terra, è qualcosa di tuo. Lo raccogli, lo depositi nelle cassette, lo guardi e sai che è opera tua. Che il tuo sudore e la tua fatica hanno dato la possibilità a quella frutta o a quella verdura di essere lì, matura, in quei cesti». E sono questi paesaggi, questa terra e queste persone a mancargli quando è via: «Il mio tempo, in questi giorni, è per Arianna, mia moglie, per i miei nipoti, Mattia e Luca, e per il mio cane Leo. Non ho fatto vacanze, sono stato solo un giorno al mare, a Caorle, ma nulla di che. C'è un gusto molto intenso nell'essere qui con loro».

Una condivisione che è mutata nel tempo e lo ha reso l'uomo che è oggi: «Sino a due anni fa vivevo con i miei genitori. Nel 2018 mi sono sposato e sono andato a vivere con mia moglie. Un passo importante che mi ha reso felice. Credo di aver imparato molto in questo periodo, proprio come persona. Non ero capace di fare molte cose, ho dovuto imparare e penso che questo mi abbia fatto bene». Quest’inverno Enrico Battaglin ha lavorato tanto, a marzo, però, sembrava tutto finito: «Ci siamo trovati a fronteggiare qualcosa che non conoscevamo e questo paralizza. Siamo ancora in un momento difficile ma sappiamo come muoverci e questo deve essere un motivo per sperare. Quando dico che la situazione attuale è diversa da quella di questa primavera intendo proprio questo». Questa consapevolezza nello scorrere del tempo lo rende sereno: «Come torno in Bardiani? Intanto più vecchio, dici poco? A parte gli scherzi, sono già passati cinque anni. Lavorerò con molti giovani e mi piacerebbe lasciare loro qualcosa di quello che ho appreso nel WorldTour. Molte volte basta poco, un consiglio da niente e la tua strada è più semplice. Io vorrei fare questo per loro, altrimenti a cosa serve il tempo che passa?». I giovani gli stanno particolarmente a cuore e la sua riflessione al proposito è profonda: «Si inizia sempre per gioco, poi da Under23 intuisci che potrebbe essere qualcosa in più. Quando passi di categoria sei orgoglioso ma devi restare con i piedi per terra. Se ti illudi e molli un poco la presa rischi di buttare tutto all'aria. Quando sono passato io professionista eravamo più o meno tutti allo stesso livello, oggi in gruppo ci sono ragazzi molto giovani che hanno caratteristiche fuori dal comune. All'estero, poi, "maturano" prima atleticamente e anticipano scelte che noi magari facciamo più tardi. Ed è bello ma anche rischioso: appena vediamo qualcuno particolarmente bravo tendiamo tutti a fare paragoni col passato perché, in fondo, siamo alla ricerca del fenomeno. Forse dovremmo essere più cauti con le parole, faremmo del bene a tanti ragazzi».

Se parla di Steven Kruijswijk, Battaglin ripensa a quella tappa del Giro d'Italia 2016, a quella caduta mentre l'olandese era in maglia rosa e al Giro che fugge via: «Sono situazioni in cui non vorresti mai trovarti. Non sai nemmeno cosa dire perché a parole è sempre tutto più facile mentre nei fatti per superare certe batoste c'è solo il tempo. Consolare qualcuno è sempre difficile, farlo in una lingua che non è la tua è molto più complesso. Cerchi gli sguardi. Cerchi di smorzare quel senso di colpa che chi cade può avere con un cenno, un gesto. Cosa puoi fare? Ricordo come fosse ora quella sera, a cena. Non riuscivamo a parlare, occhi bassi, tanta delusione». Qui subentra la conoscenza tra capitano e gregari: «Sembra facile, in realtà è un finissimo lavoro di conoscenza che si perfeziona negli anni. Ogni uomo è diverso, ogni capitano è diverso e vuole cose diverse. Per conoscersi bene servono un paio di anni di lavoro spalla a spalla. Accade come per i treni: un treno vincente è un treno con meccanismi affinati, l'esperienza lo conferma». Gli anni in Lotto Jumbo gli hanno fatto conoscere anche Primoz Roglič: «A me hanno sempre sorpreso i suoi valori. Perché è arrivato tardi al ciclismo altrimenti sono convinto potrebbe aver già vinto un Giro, un Tour e forse anche una Vuelta in più. Impara molto velocemente: nei primi tempi aveva più difficoltà a muoversi in gruppo, cadeva o restava nelle retrovie. Ora è davvero abile. Ci sono sempre stati buoni corridori fra gli sloveni, in questi anni è avvenuta l'esplosione». Sarà per quell'umiltà che lo caratterizza, sarà per come ha vissuto la sua carriera da ciclista, sarà per quella terra che lo ha cresciuto ma Enrico Battaglin preferisce raccontare ciò che farà per avverare i sogni degli altri, i suoi sogni li tiene nascosti, in disparte, e li racconta abbassando la voce, quasi per non fare rumore: «Ho già vinto tre tappe al Giro d'Italia, mi piacerebbe tornare a vincerne una. Quest'anno mi mancava così poco. Di sicuro quando vedrò il calendario segnerò diversi giorni con un cerchio rosso. Mi piace buttarmi, provare, inventare. Poi c'è quel sogno nel cassetto da tanto: inventarmi qualcosa alla Milano-Sanremo, magari arrivare in via Roma a braccia levate. C'è e lo custodisco gelosamente, tornando a visitarlo ogni tanto».

Foto: Claudio Bergamaschi

Diego Rosa: «Guardo al lato buono della realtà»

«Sai, ci lamentiamo tutti per questa situazione e lo capisco benissimo. Davvero. Il 23 settembre sono diventato papà per la seconda volta. Da quel giorno non mi sono staccato da mio figlio un attimo. Si chiama Noah. Mi piace tenerlo in braccio, tenerlo vicino. Anche adesso, mentre parlo con te. Con Elia non avevo potuto, ero sempre fuori per lavoro. Elia quando tornavo a casa dai ritiri piangeva, sembrava non mi riconoscesse. Sto vivendo dei momenti stupendi. Penso a quello che accade fuori da qui e mi spiace perché è brutto, bruttissimo. Poi penso a questa casa, a quei due piccolini che sono qui a giocare, e mi dico: ma cosa potevi volere di meglio dalla vita?». Diego Rosa è un ragazzo abituato a cercare il lato buono delle cose e questa volta il lato buono, per lui, è davvero grande. Ha maturato questa abitudine perché, del resto, fare diversamente non cambia la realtà: «Noi non abbiamo il potere di cambiare questa situazione. Dobbiamo seguire le regole ma non possiamo fare altro. Dovrà passare del tempo e provare ad essere sereni, per quanto possibile, offre a questo tempo la possibilità di trascorrere meglio. Per questo dico sempre di guardare il mondo con serenità, perché in questo modo gli si offre una possibilità di essere sopportabile anche in momenti bui».

Questa forma di serenità diventa sicurezza nei fatti e nelle parole: «A me piace essere schietto. Alcuni mi dicono che vedo solo il bianco ed il nero delle situazioni e non so captare il grigio. Forse è vero e forse, in alcuni frangenti, questo mi penalizza. Ma, alla fine, sono convinto che sia necessario. Forse è anche un aspetto caratteriale che appartiene ai ciclisti, altrimenti avremmo scelto un altro mestiere. Seguo molto l'istinto e le mie scelte sono difficilmente comprensibili razionalmente. Seguo l'istinto per scegliere e per esprimermi. Quando, a inizio stagione, alla Parigi-Nizza, continuavamo a correre nonostante la pandemia ero esterrefatto. Mi sembrava una recita. Perché fingere una normalità che non c'è? Questo non è quel lato buono delle situazioni, questo significa ingannarsi consapevoli di sbagliarsi. Bisogna anche avere il coraggio di fermarsi e cercare a bocce ferme un punto da cui ripartire».

Questa continua ricerca non gli ha impedito di avere paura. Una paura che in questa stagione si è ripresentata in molteplici forme: «A dirti la verità, quando ci dicevano che saremmo tornati a correre, non ci credevo e avevo paura. Ma non tanto per le gare, sia chiaro. Ci si può anche fermare per un anno, si può anche vivere un anno senza ciclismo. Le cose essenziali nella vita sono altre. Il problema è che molte squadre non avrebbero retto un anno senza corse e, probabilmente, avrebbero chiuso. E chi pensa al futuro di tutti coloro che ci lavorano? Non parlo tanto di atleti. Noi siamo comunque dei privilegiati. Parlo del personale. Ci sono squadre che hanno sessanta, settanta persone al loro interno. Se chiudono due squadre restano "a spasso" più di centoventi persone. Questo è drammatico. Noi atleti sappiamo che il ciclismo sarà una parentesi della nostra vita e che, si spera il più tardi possibile, ma verrà il giorno in cui appendere la bici al chiodo. Ma loro? Mi conforta il fatto che per arrivare a fare questo lavoro hanno dovuto stringere i denti tante volte, sottoporsi a tanti sacrifici, fare molte rinunce. Sono abituati a resistere. Li invito a stringere i denti ancora una volta, a tenere duro. Tutto questo finirà».

Paura che può essere anche mancanza: «All'inizio, pur di tornare a fare il nostro lavoro abbiamo passato in secondo piano tanti aspetti: la mancanza di pubblico, per esempio. E, se non si può fare altrimenti, va bene così. Ma poi te ne accorgi, ti accorgi di quanto le persone ti manchino. Al Tour de France salivamo sul palco a salutare un pubblico che non c'era. Alla "Strade Bianche" sono arrivato staccato. Di solito sull'ultimo strappo c'è tantissima gente ad applaudire, ad incitare. Questa volta no. Questa volta c'era un silenzio spettrale. Un silenzio che mi ha fatto parecchio male, che mi ha fatto sentire ancora più solo».

Al Tour de France, Diego Rosa si è trovato diverse sere a parlare con i propri compagni: «Ad un certo punto, siamo arrivati ad avere un vero e proprio terrore dei tamponi. Noi eravamo davvero in una bolla ma con il regolamento del Tour sarebbero bastati l'autista del bus, un massaggiatore e magari un D.S. positivi per andare a casa tutti. Io ho lasciato il Tour dopo alcune tappe per una brutta caduta e la frattura della clavicola, ma, dei giorni che ho vissuto, ricordo questo. Ci dicevamo che dovevamo essere fortunati, che se la sfortuna avesse deciso di affiancarci, sarebbe stata la fine. Difficile correre così, molto difficile».

Poi ci sono le parole per i suoi figli, quelle che suonano come un auspicio di futuro: «Io vorrei solo che si realizzassero per ciò che sono e che desiderano. Senza lasciarsi intrappolare troppo dalle voci della gente. Credo non ci possa essere desiderio più bello da esprimere per un figlio. Che possa percepire chiaramente la sua essenza e che possa avverarla. Con tutta la tenacia che serve. E certe volte ne serve davvero tanta».

Foto: Claudio Bergamaschi


Thomas Voeckler, lupo di mare

Thomas Voeckler ha l'animo da lupo di mare. Qualcosa che viene dall'infanzia: i genitori di Voeckler, appassionati di navigazione, gli hanno fatto solcare le acque sin da ragazzo. Un ragazzo nato in Alsazia, a Schiltigheim, e cresciuto in Martinica, terra di cui porta il vessillo in quel soprannome, T-Blanc, che dai bordi di una nave ha esplorato l'Atlantico e sperimentato uno dei più grandi dolori della vita: la perdita del padre, risucchiato dalle acque. La vocazione è spesso il riflesso di esperienze vissute e forse per questo la vocazione di Thomas Voeckler non poteva che essere la ventura. Che è avventura e disavventura ma resta movimento costante tra gli estremi. Cambia il mezzo, la bicicletta, ma non lo spirito. Lo chiamano "baroudeur": vocabolo che riassume il suo modo di correre, il piglio sfrontato, combattente anche contro ogni logica, e che, per significati letterali, lo ravvicina al campo militare perché "baroudeur" è anche il soldato di ventura. Termine che riporta alla fiducia e ad un altro francese d'antan, Jean René Bernaudeau. È lui a chiedergli di aspettare, ai tempi della crisi de "La Boulangère", di avere pazienza che ci saranno altri sponsor, di non firmare altri contratti. Così sarà: la nuova casacca di T-Blanc sarà quella di Direct Énergie e poco importa se il contratto di Cofidis sarebbe stato economicamente più vantaggioso. La fiducia è una cosa troppo seria.

Thomas Voeckler è un istrione, un attore dai mille volti, il francese perfetto. A tratti collerico, irascibile, non certo l'atleta più stimato in gruppo o più amato dal pubblico europeo. Di certo il più amato dai suoi connazionali che in lui vedono il sunto dell'essenza d'oltralpe. Anche nelle mille smorfie, nella polemica cercata, esagerata, a volte, permetteteci di dirlo, inutile. Soprattutto, però, nell'animo con cui fronteggia le corse e "la corsa" per eccellenza, il Tour de France. Se il Tour, come scriveva Gianni Mura, è una "chanson de geste", Voeckler ne è il volto caratterizzante. Sin da quel 17 luglio del 2004 a Plateau de Beille, quando un ragazzo di venticinque tagliò il traguardo con la maglia gialla aperta sul petto, un sorriso da guancia a guancia e un pugno levato in aria. Quel giorno Voeckler perse oltre cinque minuti da Lance Armstrong, arrivò stremato ma custodì la maglia gialla per una manciata di secondi. I francesi provano una particolare simpatia per i volti più umani. Simpatia che è accostamento, compassione nel senso etimologico del termine, che è "patire assieme". I volti umani sono quelli che conoscono la sconfitta, il dolore e anche la beffa. Somigliano più a quel ragazzo che non "all'americano". Umano può essere chi perde, se la sconfitta matura in una certa maniera. C'è un manierismo del perdere. Voeckler è particolarmente umano, e per questo amato, perché corre allo spasimo, non c'é ragione, c'è istinto puro, volontà di manifestarsi al centro della scena, e qui torna l'attore, e di suscitare qualcosa in chi assiste. E lì non puoi mentire, perché il pubblico capisce.

Quando torna in maglia gialla nel 2011, Voeckler non è più un ragazzo e la strada che ha fatto lo ha temprato e gli ha insegnato ma l’indole è radicata. A tre giorni da Parigi, in Francia si scomodano ciclisti d’altri tempi e si crede davvero che T-Blanc sia l’uomo giusto per riportare la Grand Boucle in patria. Del resto se uomo giusto c’è, Voeckler ne è il ritratto perfetto, un’apoteosi di orgoglio, grinta e vanità. Ma la strada vive d’altro e quel giorno Thomas Voeckler è uno sconfitto, un perdente. Un perdente irrazionale su una salita contro cui non può far nulla se non digrignare i denti, mandare a quel paese qualche moto di ripresa e prendersela anche con qualche tifoso. Irrazionale e spietato. Questa irrazionalità di Thomas Voeckler è il suo bene e la sua condanna per tutti gli anni che da lì lo separeranno dal suo ritiro, avvenuto nel 2017. È l’amara constatazione che non sempre dare molto ti consente di ottenere molto. Che certe volte la logica imporrebbe anche qualche calcolo e risparmiarsi tornerebbe utile per il risultato. Non solo. Risparmiarsi tornerebbe utile anche a te, in termini di tranquillità e di benessere. Basterebbe farsi ragionieri della vita e minimizzare i rischi, massimizzando i risultati. Basterebbe esserne capaci. Basterebbe evitare di dare anche quello che non si ha, per senso del dovere o della coscienza. Basterebbe. Ma sarebbe davvero vivere? Voeckler dice di no e noi non ce la sentiamo di contraddirlo perché forse questa volta ha proprio ragione.

Foto: Bettini


Di Eva Lechner e della libertà

Ci piace ricordare chi notava una profonda similitudine tra uomini e cavalli: «Il cavallo avrebbe una tale forza che, se non intendesse sottomettersi, nessuno riuscirebbe a domarlo. Ad un certo punto però si arrende e accetta questa sorte. Noi siamo così: l'uomo, per natura, è indomito ma deve vivere e vivere con gli altri e per questo cede. Noi crediamo a tante cose di cui in realtà non sappiamo il vero significato, ci crediamo perché ci sono indispensabili per continuare ad esistere in questa società». Ci piace ricordarlo perché parlare di Eva Lechner, in fondo, significa parlare di questo: «La mia è una continua ricerca di libertà. I cavalli rappresentano perfettamente questa libertà di cui mi nutro come pane. Già da ragazza li amavo e ne avrei voluto uno ma i cavalli costavano troppo e in famiglia non potevamo permetterceli; avevamo un pony. Il giorno in cui lo abbiamo venduto è stato il giorno della mia promessa a me stessa: "Quando sarò grande, mi comprerò un cavallo!" Quel giorno é arrivato nel 2009 quando ho comprato il primo cavallo: oggi ne ho cinque». E non è il solito discorso, tanto vero quanto inflazionato, legato alla bicicletta che fa sentire liberi. Non vi stiamo raccontando solo di questo. La libertà nella storia di Eva Lechner ha qualcosa in più. Perché Eva Lechner della libertà ha capito qualcosa in più.

La libertà di Lechner è una libertà densa. Colma di tutto ciò che le appartiene ed anche di ciò che, apparentemente, ne è l'opposto. Di rinunce, ad esempio, che non sono quasi mai l'opposto della libertà, anche se all'inizio possono sembrarlo. Sono il suo prezzo, semmai, ma questo è il senso della conquista: «La mia famiglia non aveva molte possibilità economiche e all'inizio usavo la bicicletta di mia sorella. Per avere una bicicletta tutta mia, una mountain-bike, quell'estate andai a lavorare. Era una Giant argento con la marca scritta in blu. Avevo sedici anni». Perché la libertà, in fondo, a parte la bellezza, l'importanza, non ha molto di diverso da tutte le altre cose che possiamo desiderare nella nostra vita. Vive di un delicato gioco di equilibri come ogni fatto, qui. Forse sembra differente perché scorre in ogni dove, la si può cercare ovunque, la si può inventare o "costruire" ovunque, e gli uomini, nella loro tracotanza, la bramano ansiosamente e la vorrebbero tutta, ma proprio tutta, senza nulla in cambio. Eva Lechner potrebbe raccontare di tutto questo ed in un certo senso lo fa.

«La mia quotidianità è anche una quotidianità di rinunce. Vado poche volte al cinema e vedo poco i miei amici. Mi dispiace? Certo che mi dispiace. Dico di più: certe volte mi sveglio al mattino e avrei voglia di fare tutto tranne che di uscire in bicicletta. In inverno fa freddo, spesso piove, magari non stai bene o hai preoccupazioni che ti tolgono energie. Lì devi lottare con te stesso. Devi dirti che questa è stata una tua scelta, che oggi è il tuo lavoro e hai il dovere di continuare a farlo al meglio senza lasciarti influenzare da tutto quello che ti frulla in testa. Questo dovere, per te, è ancor più forte perché questo lavoro lo hai scelto, cercato, voluto. Perché, alla fine, sai che quando riesci a varcare la soglia di casa e inizi a pedalare ti torna in mente il motivo per cui lo fai. Torni a sentirti bene, meglio di prima, e sei sicura che scelta migliore non avresti mai potuto fare». Una libertà totale sarà difficilmente possibile e forse gli uomini, indomiti per natura, continueranno a soffrirne e a dibattersi come cavalli con le redini al collo e l'anima altrove, in qualche prateria ai confini dell'azzurro. Per l'uomo sarà però sempre possibile la libertà di scegliere ciò che vuole diventare, consapevole di tutto ciò che questa scelta gli toglierà ma fiero di quello che questa stessa scelta gli porterà. Perderà qualcosa ma avrà qualcos’altro. Del resto non esiste prateria che non si disperda nell'orizzonte.

Foto: Bettini


Con Rohan Dennis non ci si annoia mai

Rohan Dennis è un cavallo pazzo. Rifiuta l'oblio anche mentre dorme. Ce lo immaginiamo girarsi e rigirarsi nel letto per paura che le ore di sonno possano togliere forza al suo estro. Nasce nuotatore, ispirandosi all'istinto killer di Kieran Perkins, aspira alla trasformazione vincendo su pista e poi mutando forma abilmente, cronoman prima e persino scalatore. Già, scalatore... perché come chiamereste voi uno che spiana in quella maniera Stelvio e Sestriere? Alla sua ruota Geoghegan Hart ha costruito il successo al Giro d'Italia, inutile girarci intorno, ma non c'è molto da stupirsi, ai cavalli pazzi vanno sempre attribuite imprese leggendarie.

E lui voleva entrare nella leggenda, proprio come il capo tribù indiano. Nel 2016 afferma: «Se uno come Wiggins è riuscito a vincere un Tour de France, allora ci posso riuscire anche io». Ognuno conosce i propri limiti e di lui si sa che, nonostante sia un corridore eccentrico e a volte permaloso, in bicicletta ha sempre dimostrato di essere professionale, maniaco dei dettagli e capace di allenarsi ai limiti del fachirismo.
Spesso cerca situazioni complicate come girasse con un lanternino in mano e un grosso cartello scritto sulla testa: “Eccomi situazioni complicate!”, ma è solo il lato umano e perciò debole del suo carattere.

La sua carriera è una di quelle che andrebbe analizzata con dovizia, la sue uscite, la sua mentalità, le sue scelte lo fanno sembrare un po' matto, benevolmente assurdo. Soffre di una sindrome particolare, l'essere bizzarro come tutti gli australiani (ancora ne dobbiamo scoprire uno “normale”), ma con lui si tocca l'estremo. Rifiuta il conformismo? O è solo la sua realtà vista da fuori che appare a tratti indecifrabile?

Episodi? Ci vorrebbe un'infinita sequenza di byte per esprimerli tutti. Sportivamente parlando si manifesta come un'eccellenza anche se i suoi colpi di testa a volte hanno fatto dimenticare ciò che di buono ha costruito nell'arco della sua carriera. Titoli mondiali a squadre ai tempi della BMC, un Record dell'Ora firmato nel 2015 fermando la distanza a 52,491 km. «Stanco ma distrutto», disse quel giorno, quasi come se non avesse avuto nemmeno tempo di goderselo.
È uno di quelli capaci di vincere tappe in tutti e tre i Grandi Giri (un club allargato, è vero, ma pur sempre qualcosa da ricordare nel tempo) più svariate altre corse di grande livello, titoli su pista e su strada. Nel 2015, al Tour, conquista la maglia gialla dopo aver vinto la crono alla media record (e tutt'ora imbattuta) di 55.446 km/h su un percorso ricco di curve e insidie. È stato quinto ai Giochi di Rio nella cronometro per soli otto secondi dopo aver perso tempo decisivo a causa di una foratura. Non fosse esistito il 2020 come lo conosciamo, il podio a Tokyo non glielo avrebbe tolto nessuno - Dennis stesso permettendo.
Curve e insidie: Dennis è anche quello della fuga misteriosa dal Tour nel 2019. Alla vigilia della cronometro di Pau abbandona la corsa. Sparisce. Si dilegua in ammiraglia a un centinaio di chilometri dal traguardo di Bagnères de Bigorre. L'addetto stampa della sua squadra, la Bahrain, raccontava tempo fa in un'intervista di come sia stato quello l'episodio più difficile della sua (lunga) carriera. «In un primo momento eravamo sconcertati: il ragazzo era muto, non parlava, ma arrabbiarsi non serviva a niente; tuttavia, noi non sapevamo nulla, non capivamo come mai si fosse ritirato all’improvviso. Una volta salito sul bus, era inconsolabile: era confuso e deluso, piangeva ma non apriva bocca». Solo poco tempo prima al Giro di Svizzera teneva testa a Bernal, che avrebbe vinto il Tour, in salita.

Passate alcune settimane da quell'episodio in Francia, Dennis vince l'oro mondiale nella cronometro e facendo parlare di sé non tanto per la prestazione (o meglio, non solo, un podio che ha visto Dennis davanti a Evenepoel e Ganna, trovate di meglio?), quanto per l'aver corso su una bici con adesivi neri a coprirne il nome del costruttore. «È bello vincere, ma quando avrò 65 anni non sarà tra le prime 10 cose migliori che sono successe nella mia vita» dirà a fine corsa in una conferenza stampa tenuta dentro una chiesa adibita a incontro tra media e corridori. Dennis spiegherà la situazione vissuta in quei mesi indicando la sua testa con un dito e raccontando di quanto quel periodo fosse stato difficile non solo per lui, ma soprattutto per quelli che gli stavano attorno.
Tempo dopo, infatti, Dennis entrerà nei particolari parlando a una televisione australiana: raccontò di aver avuto una crisi di nervi durante quel Tour a causa dell'ambiente in cui correva e che per colpa di quei momenti stava per divorziare da sua moglie. «Non volevo diventare l'ennesimo dato statistico di uno sportivo divorziato».

A inizio 2020, prima di spianare lo Stelvio come un gatto delle nevi, scappa dal lockdown e lo fa in “grande stile”, à la Dennis, con tanto di post sui social che recitava più o meno: “Giorno 34, mi sono stufato e sono uscito di casa. Covid-19 puoi baciarmi il sedere”. Tempo prima Dennis si era affidato a uno psicologo dello sport, David Spindler, che come prima cosa gli fece chiudere tutti i suoi profili social. «Aveva bisogno di azzerare lo stress e divertirsi: gli ho detto di cancellare i suoi profili sui social network, intanto. Leggeva tutto quello che si diceva di lui, offese e cattiverie incluse. Gli ho fatto capire che i social network non importano poi molto e che il divertimento, di cui aveva assolutamente bisogno, lo avrebbe trovato altrove». Quell'altrove che in questo fine 2020 è sembrato trovarlo al Giro, ma mai dare nulla per certo, lo abbiamo detto, con Rohan Dennis non ci si annoia mai.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto