Adam Hansen e l'ultimo ballo di un formidabile genio

Chissà a cosa pensa Adam Hansen mentre pedala per l'ultima volta nella sua corsa preferita «Il Giro d'Italia, dove la gente a bordo strada ti adora: qui ho trovato i veri tifosi del ciclismo». Fanno ventinove grandi Giri totali disputati con quello che sta correndo: chissà se ci penserà o gli verrà in mente qualcosa di bizzarro, geniale, struggente.

Chissà se penserà a quella volta sullo Zoncolan nella quale pedalava urlando di gioia in una delle salite più dure del mondo, abbracciato a un tifoso italiano che lo riprendeva con una GoPro; o se gli verrà in bocca il sapore di quella birra presa al volo e scambiata con una borraccia sul Monte Grappa o all'improvviso avrà il ricordo di quello scatto sull'Alpe d'Huez nel quale si vede lui, tranquillo, con una birra in mano come se stesse facendo la cosa più naturale del mondo.
Chissà se penserà ai suoi trentanove anni che lo hanno portato a fare una scelta di vita, nemmeno troppo inconsueta per uno così. «Alla fine di questo Giro, mi darò al Triathlon». Avrà la possibilità, Hansen, di staccare il cordone da quel mondo riluttante alle innovazioni. Lui studia, sperimenta, analizza, sceglie, ma l'UCI poi gli mette sempre delle regole che lui, fine ricercatore, cimentandosi nell'Iron Man potrà agilmente superare. «Non essere più vincolati dai paletti della Federazione Ciclistica Internazionale per me è fantastico» racconta a José Been sulle colonne di Cyclingtips. «Sarò come un bambino in un negozio di dolciumi. Potrò sbizzarrirmi con l'aerodinamica; potrò scegliere i miei sponsor, fare tentativi di ogni genere per la posizione in bici e per quella del manubrio».
Perché Hansen, oltre a realizzare scarpe da ciclismo ultraleggere, a stampare mascherine chirurgiche nel periodo del lockdown («C'era carenza, mi pareva una buona idea») in quello che è un vero e proprio laboratorio tecnologico nella sua casa di Frýdlant nad Ostravicí in Repubblica Ceca prova ogni sorta di innovazione perché la sua testa non sa mai stare ferma e viaggia più veloce delle sue gambe.
«Utilizzando il software Leomo testo le diverse posizioni in sella, in particolare per le prove contro il tempo. Se l'UCI non mi faceva fare nulla, con il Triathlon potrò davvero scatenarmi».
È l'uomo dei record, Adam Hansen: venti grandi giri consecutivi corsi e conclusi, uno pure con una frattura alla mano, costruisce lacci elettrici per le scarpe come fosse in Ritorno al Futuro: «Al posto di un sistema a cricchetto, un motore elettronico». Ha vinto una tappa al Giro in quello che sembra un secolo fa, è stato (lo sarà ancora per qualche giorno) un perfetto uomo squadra, pilota per velocisti e involucro umano per gli altri capitani.
Cyclist Magazine lo definisce: «Un programmatore di grande talento» tanto da tenere lezioni alla James Cook University del Queensland e aver sviluppato un software per quella che ancora per poche settimane sarà la sua squadra.

Vegano, d'inverno molla la bici e si dà allo sci di fondo, al trekking, all'escursionismo, gioca in borsa e investe nel settore immobiliare, ha persino raggiunto un campo base sull'Everest a 5.430 d'altezza, e si prepara alle corse mangiando verdura. «Noi ciclisti professionisti in realtà siamo tutti vegani» sostiene. «Durante la gara la nostra principale fonte di energia sono i carboidrati provenienti dai gel o dalle barrette energetiche».
Dice che il suo segreto è quello di pensare poco alle corse. «Gli altri interessi mi aiutano a mantenere l'equilibrio: sarei diventato matto in poco tempo se l'avessi vissuta come un'ossessione». Si definisce versatile e crede che la deriva presa dai suoi colleghi non possa portare a nulla di buono. «Molti corridori dimenticano che esiste una vita oltre alla bicicletta, certi ragazzi mi spaventano un po'. Penso che bisognerebbe inventare un programma per aiutare i ciclisti ad adattarsi al mondo reale». Paradossale.

Fra pochi giorni Adam Hansen smetterà di pedalare in gruppo, ma già ci mancherà. Trovatene un altro così.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


Daniel Felipe Martínez non è una fisarmonica

La vita di Daniel Felipe Martínez non assomiglia all'elogio di una triste fisarmonica. In lui non c'è, come scriveva Gabriel García Márquez a proposito di quello strumento “un’adolescenza dissipata, oscura, fitta di albe turbolente. I suoi migliori anni si sono dipanati nell’angolo anonimo, greve di vapori di una taverna tedesca”. Malinconico come una fisarmonica lo è piuttosto il luogo da cui proviene.

Soacha, dove nasce Dani Martínez ventiquattro anni fa, è diventata nota per il dramma legato alle “Madri di Soacha”. Nel 2008 in un paese a nord della Colombia venne ritrovata una fosse comune con quattordici corpi. Erano ragazzi spariti tempo prima da quella zona povera nei sobborghi di Bogotà, uccisi perché apparentemente coinvolti nella guerra del narcotraffico. Era tutta una messinscena, una copertura portata avanti da diversi anni per far vedere che la lotta al terrorismo funzionava. Erano i “falsos positivos”. Così riporta La Stampa: «I ragazzi venivano sequestrati o reclutati da un intermediario con la falsa promessa di un lavoro. Poi erano portati a settecento chilometri di distanza, vicino alle roccaforti delle Farc, e consegnati ai militari. Lì venivano freddati e fatti passare per guerriglieri. Con montature piene di incongruenze: l’uniforme immacolata non aveva traccia dei fori di proiettile; gli stivali, simbolo dei guerriglieri, erano infilati nei piedi sbagliati; ai cadaveri veniva messa una pistola in mano, sempre nella destra, anche ai mancini. Human Rights Watch stima che i casi di «falsos positivos» siano stati oltre tremila».

Martínez ha dodici anni all'epoca, vuole giocare a calcio e sogna di diventare l'attaccante della sua squadra del cuore, l'Atlético Nacional. «Mamma se vuoi regalarmi qualcosa, regalami un pallone» diceva. Si immagina vestito di biancoverde mentre simula le urla dei suoi tifosi raschiando il fondo della gola; lo stadio Atanasio Girardot è lo scenario e a ogni marcatura parte il grido: “Dani! Dani! Dani!”. Nella sua illusione tutti provavano per un attimo a dimenticare gli orrori che la Colombia viveva in quei decenni.

Perché a Soacha nel 1989 – Martínez non era nemmeno un pensiero – Escobar fece uccidere Luis Carlos Galan, candidato presidente. E poi c'è tutto quello che conosciamo: sequestri, ritorsioni, e ancora omicidi legati a corruzione e narcotraffico. Questo è il contesto.
Dani Martínez è ancora un bambino quando si ammala. Lo ricoverano a causa dei “nacidos” ovvero una sorta di foruncoli causati da batteri che gli si formano in tutto il corpo come una mappa delle stelle. Viene curato con antibiotici che gli fanno perdere moltissimo peso. Sua mamma dirà: “E dove sono finite le sue guance?”, racconta un giornale colombiano.

E Daniel Martínez anche a causa di quel problema si mette a fare sport per recuperare il tono muscolare, mentre a scuola si distingue come studente modello. È il primo della classe e oggi racconta che se non avesse fatto il corridore avrebbe studiato Marketing Internazionale all'Università. Lavora come commesso in un negozio e arrotonda vendendo a scuola i dolci che i genitori gli regalano. Con i pesos guadagnati un po' alla volta, si comprerà l'attrezzatura per correre in bicicletta andando a sostituire la sua vecchia monareta, una sorta di piccola Graziella che gli aveva dato suo fratello maggiore.

Ma prima di salire su una bicicletta l'episodio che cambia la sua vita. Insieme al suo amico di sempre, con il quale combinavano guai da ragazzini e grazie ai quali si riuscivano a tirare fuori dai veri problemi legati alle gang e alla droga, devono presentarsi l'ultimo giorno utile per iscriversi alla scuola calcio di quartiere. Il suo amico, però, manca l'appuntamento. Martínez è talmente deluso che scappa via piangendo. Suo fratello lo porterà a correre in bicicletta quella sera, e da lì, Dani Martínez non smetterà mai più di intonare la sua musica iniziando a trovare conforto e ispirazione proprio da chi, prima di lui, andava in bici. Quel qualcuno era proprio Yeyo, suo fratello. Hanno solo una bici e Yeyo la presta al piccolo Dani il giorno delle gare. Dani abbassa il sellino e poi batte tutti nelle kermesse di quartiere.

La sua prima gara vera e propria, invece, è un disastro. Partecipa a un criterium vicino Bogotà con un mezzo imprestatogli da un autista di autobus appassionato di ciclismo che nei suoi viaggi aveva sentito quel ragazzino blaterare di ciclismo per ore e ore, finendo per diventarne un suo tifoso – e pare lo sia ancora. La sua corsa termina dopo poche centinaia di metri. Cade, Martínez non è abituato a una bici di quel genere: ha persino i cambi!
E da lì prosegue dritto per la sua strada, un cammino che lo porta a vincere ogni settimana un trofeo sempre più importante, e con i soldi guadagnati facendo lavoretti, oltre alla bici si compra una divisa dell'Astana: Alberto Contador è il suo secondo idolo, dopo il fratello maggiore.
Lo chiamano Correcaminos, Dani, l'uccello che noi conosciamo come Roadrunner, “Beep beep”, il nemico di Willy il Coyote. Ed effettivamente è difficile da prendere quando va via. Piccolo, ma non uno scricciolo come tanti altri scalatori colombiani; teso come una corda di violino, ma sempre sorridente, Dani Martínez è uno dei corridori più riconoscibili in gruppo.

Gomiti larghi e appuntiti, schiacciato sulla sua bici, appena arrivato in Europa ha corso per un periodo in Italia con la squadra di Luca Scinto. In sordina rispetto ad altri suoi connazionali giudicati dotati di maggiore talento, Martínez ha sempre avuto la nomea di corridore perfetto per le corse a tappe. E lo dimostra la capacità di vincere sia a cronometro che in salita – proprio come Contador.

Nel 2018, mentre si allena sulle strade italiane a inizio stagione, un'automobile lo butta a terra. Martínez reagisce mandando a quel paese il guidatore che scende dalla macchina e lo massacra di botte: finirà in ospedale con un trauma cranico.

Oggi Dani Martínez è un puzzle quasi completo, porta con sé i diversi episodi della sua vita ed è uno dei più forti corridori in gruppo. Vola in salita e plana a cronometro, ma prima di vincere il Criterium del Delfinato e poi una tappa al Tour poche settimane fa, durante il lockdown ha vissuto un momento drammatico. Stava pedalando per la prima volta fuori di casa dopo due mesi. Non ce la faceva più di rulli, Zwift e tutto il resto: aveva bisogno di ributtarsi in strada, riassaporare l'avventura, l'aria, il vento. Salendo verso l'Alto de Las Palmas, un po' per far fatica un po' per godersi la vista panoramica sopra Meddelin, inizia a stare male. Vertigini, freddo, vedeva tutto nero: stava andando in ipotermia. Pensava di doversi fermare e chiamare sua moglie per farsi venire a prendere e invece resta in sella per altri settanta chilometri e torna a casa. Da lì, di nuovo, non si è mai fermato come quando suo fratello lo portò in bicicletta per la prima volta. «Non puoi pedalare e preoccuparti allo stesso tempo. Non avresti pace e tranquillità per fare ciò che ti piace di più» ama ripetere. Più che nostalgico e malinconico come una fisarmonica, è calmo come una vista su quella sua meravigliosa terra.

Foto: Bettini


Alessandro Tonelli spiega la fuga

Se vi capita di scorgere la lista di partenza di una qualsiasi corsa e di leggere "Alessandro Tonelli" fra gli iscritti, allora già sapete che lui, molto probabilmente, andrà in fuga. Solo di recente è successo alla Milano-Sanremo, ha proseguito poi alla Tirreno-Adriatico come fossero azioni collegate l'una all'altra, ma in realtà accade così tante volte da non riuscire nemmeno ad avere un dato certo. «Ma non è che io vada in fuga tanto per fare» esordisce così Alessandro Tonelli, ventottenne della provincia di Brescia, per la precisione di Bornato, come spiega qualsiasi guida che parla di quella zona e come sottolinea lui, fiero, «Nel cuore della Franciacorta dove si produce il famoso vino».

«Andare in fuga è l'unico modo che ho per vincere» ribadisce. Al Giro d' Italia di due anni fa, l'unico al quale abbia partecipato fino a oggi, il ragazzo della Bardiani-CSF-Faizanè ci provò almeno tre o quattro volte: non è sicuro nemmeno lui del numero preciso, mentre ce lo racconta.
Tuttavia, Alessandro Tonelli è un ragazzo pratico; lo capisci dal primo scambio di parole: per lui le fughe non sono mai un romantico sogno d'evasione, quanto un concreto atto verso la libertà. E quando ci sei dentro non è che hai tempo di pensare ad altro, se non alla corsa. Un gioco macabro con il gruppo che ti insegue, acqua che prova a spegnere il fuoco, una partita a scacchi a dimensione umana e dove i muscoli e le gambe muovono le pedine. «E la testa fa la sua parte. Perché la fuga, se vuoi che arrivi, devi saperla gestire, devi batterti con il gruppo, provare a ingannarlo, ma non tutti ci riescono e soprattutto, il bello o il brutto dipende dal punto di vista, è che la fuga non sempre va all'arrivo». Che sia quello il suo fascino? Che sia quello il motivo che ci spinge a raccontare più spesso e volentieri l'ultimo del gruppo oppure le storie di anarchici fugaioli, piuttosto che cannibali e tiranni? «Io da sempre vado all'attacco: era così da ragazzo, è così adesso. L'unica corsa che ho vinto tra i professionisti, nel 2018, l'ho vinta dopo un fuga».

Puoi metterci tutta la forza che hai, puoi sbizzarrirti con tutta la tattica che vuoi, ma «Il destino di una fuga alla fine lo decide il gruppo. Due anni fa al Giro gli attacchi da lontano non arrivarono quasi mai, lo scorso anno sono arrivati praticamente tutti. Classifica generale e squadre dei leader ne condizionano il buon esito». Lo abbiamo definito macabro, ma appare quasi ingiusto: sembra di avere il proprio destino stretto nelle mani di qualcun altro, ma non c'è solo questo. «Prendere la fuga non è mai semplice. A parte nelle tappe che sai che finiranno in volata e allora va via una fuga all'inizio che verrà ripresa, andare all'attacco diventa questione di gambe. Di colpo d'occhio, di tempismo. In fuga ti ritrovi anche signori corridori. Alla Tirreno-Adriatico ero con van der Poel e Visconti, alla Milano-Sanremo eravamo i bresciani: Cima, Frapporti e io. C'è stata una tappa alla Tirreno dove ci sono voluti settantacinque chilometri per portare via, di forza, la fuga».

E per una volta che non va in fuga Alessandro Tonelli rischia di lasciarci la pelle e non è un modo di dire. Siamo in Cina al Tour of Qinghai Lake. È la sesta tappa. Il gruppo sbanda a causa di una folata di vento «Fa un'onda, come si dice in gergo, e io, che ero all'estremità del plotone, mi trovo sbalzato contro un paletto: da cinquanta chilometri orari a zero nel solo impatto. Svengo, non ricordo più nulla e mi risveglio in ospedale. Dieci costole rotte, la scapola fratturata e uno pneumotorace. Resto in Cina per quarantatré giorni: una quindicina di ospedale a Xining a quasi 2.500 metri di altitudine. Il problema era che non potevo tornare a casa in Italia, senza aver pienamente recuperato. E allora avevo una badante che mi aiutava a cambiarmi e a mangiare, una traduttrice dal cinese all'inglese per riuscire a farmi capire almeno dai dottori, e per fortuna dopo qualche giorno anche mia sorella: la Cina è lontana e avevo bisogno dell'affetto di un familiare» racconta sereno, cosciente che quell'episodio, inevitabile, fa parte oramai del suo bagaglio d'esperienza.

E quanto Alessandro Tonelli sarebbe voluto andare in fuga da lì! «Ma non potevo» afferma con una mezza risata, prima di farsi serio «Dovevo pensare a stare bene fisicamente; semplicemente perché il ciclismo è solo una parentesi della nostra esistenza, mentre il corpo devi mantenerlo tutta la vita e quindi la mia preoccupazione maggiore era quella di non aver subito alcuna conseguenza fisica da portarmi dietro per sempre. E così mi consigliarono, una volta guarito, di scendere verso Pechino per iniziare a recuperare e allora mi sono goduto il resto dei miei giorni in Cina come turista infortunato e quello che ho visto... le differenze tra loro e noi. Ho girato il mondo e non ho mai visto tante contraddizioni. Sono avanti dal punto di vista tecnologico, ma tutte le informazioni che arrivano a loro sono filtrate. Hanno Google e i vari Social bloccati perché il governo decide quali informazioni dare e quali no. Non hanno WhatsApp, usano WeChat e i mendicanti in giro per la strada lo sfruttano per chiedere l'elemosina. Sì, avete capito bene: fanno l'elemosina col telefonino; anche i poveri hanno il conto in banca collegato a WeChat e tramite il QR Code chiedono i soldi» E poi ci racconta del cibo: «Solo pollo e riso» e di come per strada trovi, testualmente «Gente che rutta e scatarra: e per loro è una cosa del tutto normale!». E poi ancora: « Oppure una volta ero al ristorante a fare colazione, la sala vuota, il posto davanti a me libero: un signore si è seduto al mio tavolo come se nulla fosse» racconta divertito.

E se viaggiare diventa «uno dei fattori che più appagano le mie scelte di vita», stare tutto il giorno al vento contribuisce a fargli amare un mestiere che non fa sconti. «Non sono un vincente, non lo sono mai stato e allora mi devo far piacere altre cose, altre situazioni: come amare la fatica oppure pedalare in solitudine sulle montagne intorno alla mia zona. Perdermi a osservare la natura - cosa che faccio anche nel tempo libero facendo trekking con gli amici di sempre». E poi si torna lì: la fuga. «Sono sempre stato un attaccante e quindi non mi disturba stare sempre in fuga, anzi, per certi versi faccio meno fatica davanti che in gruppo. E poi l'ho scelto io, perché amo spostare i miei limiti e provare fino a dove posso arrivare con il mio fisico e con la mia mente». Sognando che prima o poi una fuga con lui dentro possa andare fino all'arrivo, magari al Giro d'Italia. “Le antiche arene sono un cerchio chiuso dal quale nulla può scappare” scriveva Elias Canetti. Diteglielo a uno specialista della fuga come Tonelli, e vediamo.

Foto: Bettini/per gentile concessione dell'Ufficio Stampa Bardiani


Luigi Sestili: «Non ho mai smesso»

«Alle scuole medie, a Tolfa, eravamo dieci ragazzi e sette ragazze. Al sabato i ragazzi andavano a giocare a pallone e io restavo in classe con le ragazze. Mi prendevano in giro ma non mi interessava: a me non piaceva giocare a calcio, perché avrei dovuto giocarci solo per conformarmi? Preferisco essere controcorrente». Luigi Sestili racconta questo aneddoto per parlare del suo modo di essere, un’indole che permea ogni scelta. E allora va bene correre in bicicletta ma bisogna anche studiare: da qui l'iscrizione a ingegneria. Va bene essere professionista ma serve anche essere professionali: «ho trovato maggiore professionalità in alcune squadre del dilettantismo che del professionismo; che senso aveva continuare se poi comunque non sarei mai potuto arrivare dove volevo?» Va bene avere uno stipendio e una sicurezza economica ma non è l’unica cosa a contare. «Quando ho smesso di correre ho provato una forte amarezza, la prima sensazione è stata quella. Una sorta di dolore. Successivamente ho capito che avrei dovuto fare qualcosa per riscrivere la mia storia. Non lo avessi fatto, sarei finito in depressione. Credo che atleti si resti: non ho mai smesso di andare in bicicletta e le migliori idee per il mio lavoro sono arrivate proprio mentre pedalavo. Ho pensato che il racconto del ciclismo passa dalle storie di tutti gli atleti. Del primo parlano tutti, ma del secondo? Del momento in cui si accorge di essere secondo? Di tutti gli altri? Nel ciclismo provo a portare un approccio filosofico alla fotografia. Forse anche per questo, al termine del mio primo Giro d’Italia si era diffusa quella voce: “Lui è quello che fa le foto strane”. Un orgoglio per me».

C'è il ricordo di quegli anni in bici che ancora oggi provoca una lieve malinconia: «Ho seriamente creduto che il ciclismo potesse essere il mio lavoro: da dilettante ho vinto diverse gare. Da ragazzino mi addormentavo con Bicisport nel letto, sognando di finire su quelle pagine, e quando ho vinto il Prestigio Bicisport ero la persona più felice del mondo. Ho sempre creduto nella consapevolezza e al mio passaggio tra i professionisti ho capito che, nelle squadre in cui militavo, non c'erano le prospettive per correre le migliori gare, per essere alla pari con i più forti ciclisti del mondo, non c'era la professionalità richiesta. Sono stato lasciato a casa e, mentre aspettavo di essere contattato da un altro team, ho ripreso l'università, studiando Scienze Motorie. Un periodo davvero brutto. Più capivo che le possibilità di tornare a correre si assottigliavano, più il mio umore scendeva. Sono stato a un passo dalla depressione. Mi ha salvato un caro amico, l'ingegner Simonetti. Mi propose di raccontare su una sorta di blog ante litteram i miei allenamenti con foto e video. Non avevo gli strumenti adeguati e qualitativamente quelle foto erano davvero scarse però erano un modo per evadere. Per ritrovare un posto nel mondo. Ero davvero perso, non sapevo come indirizzare la mia vita».

Qualcuno lo nota, è Tony Lo Schiavo di Bicisport: «Mi propose di collaborare con la compagnia editoriale e per farlo fissammo un appuntamento con il direttore. Fu un colloquio davvero significativo. Appena mi sedetti, la domanda chiave: “cosa vuoi fare nel tuo futuro?” Dissi che non sapevo, che, forse, terminati gli studi avrei optato per l'apertura di un centro medico assieme a mia sorella. Feci capire di avere poche idee ed anche abbastanza confuse. Da lì quella sua risposta: “Scusa, allora cosa sei qui a fare? Se non ti interessa lavorare con noi, perché ti sei presentato oggi?” Fu una scossa di cui avevo bisogno. Decisi che avrei lasciato il ciclismo e mi sarei messo a scrivere, a raccontarlo. Grazie a quei colleghi avevo l'opportunità che cercavo. Ho imparato tanto e, per diversi mesi, ho anche pensato di essermi messo alle spalle quel passato ingombrante. Tutto crollò un pomeriggio».
Ilario Biondi e Claudio Minardi, fotografi della rivista, lo accompagnano nella sala fotografi e, pensando di fare cosa gradita, gli mostrano l'archivio fotografico che lo riguarda: «Vidi tre, quattro foto. Poi scappai con le lacrime agli occhi. Non riuscivo ad accettare quelle foto che mi ritraevano in sella. Il mio passato era ancora lì, tutto ciò che avevo fatto per superarlo non era servito a nulla. Tutto questo mi fece riflettere: ero arrivato ad avere un contratto a tempo indeterminato ed uno stipendio di tutto rispetto. Quella reazione significava, però, che non ero apposto con me stesso. Avevo avuto diverse idee che avrei voluto provare a sviluppare e le avevo proposte in redazione: non ne accettarono una. Ci rimasi male. Non dormii qualche notte e poi capii. Volevo avere la libertà di sviluppare la mia professione in maniera libera ed innovativa, quella era la via. A Bicisport non potevo farlo, dovevo rischiare. Presentai una lettera di dimissioni e mi licenziai».

Una sfida ma Sestili non teme le sfide. «Il mio direttore sportivo è stato Olivano Locatelli. Un sergente di ferro. Locatelli gridava, ci strigliava, non sempre per colpe nostre. Io gli ho sempre tenuto testa, ho sempre detto chiaramente il mio pensiero anche quando sarebbe convenuto tacere. Ho subito aspri rimproveri e sono andato in fuga, vincendo, per dimostrare il contrario. Sono così, in bicicletta come con una macchina fotografica al collo. Prendersi dei rischi vuol anche dire darsi delle possibilità. Mi sono iscritto a un corso di fotografia, ben sapendo che da solo sarebbe stato tutto più difficile. Provare a competere con le agenzie è difficile, pressoché impossibile. Se vuoi lavorare devi fare qualcosa di diverso. Devi dimostrare che qualcosa di diverso può essere fatto. Io faccio foto degli arrivi dove non le fa nessuno, di spalle. Al podio, non mi concentro sulla premiazione ma sul volto dell'atleta. In quel volto, finalmente solo, si condensa tutto. Il palco lo fotografano tutti, che senso ha? Ogni gara è una sfida, una prova, un test. Anche un rischio. Se sei solo e sbagli foto rischi di non avere il prodotto che dovresti vendere. Non è facile come dirlo. Ma è una grande soddisfazione. Le aziende mi cercano per questo, per questa vena narrativa. Per il mio intento: raccontare ogni piccola sfumatura del ciclismo. Penso ogni minuto a come fare una foto, programmo e invento. Vedrete qualche novità già al prossimo Giro d'Italia. Mi sento vivo».

Vivo e sicuro perché al suo fianco c'è papà: «Ho un ottimo rapporto con i miei genitori. Papà è speciale, è un amico. Lui sa tutto di me e non potrebbe essere altrimenti. Lui c'è sempre stato, è sempre stato dalla mia parte. Con discrezione e delicatezza, mi ha lasciato prendere la mia strada anche quando non la condivideva. Ogni sua critica è stata costruttiva. Se sono l'uomo che sono lo devo a lui. A tutti i pomeriggi in cui mi portava agli allenamenti pur essendo impegnatissimo con il lavoro, a tutte le nostre chiacchierate in auto ma anche al nostro modo di capirci senza parlare. Quest'anno temevo che la situazione attuale non ci consentisse di essere assieme in corsa. Quando ho saputo che anche lui potrà essere al Giro con me, mi sono emozionato».
Poi ci sono le parole per gli altri, quelle che Luigi Sestili indirizza a ogni ragazzo: «Siate consapevoli delle vostre capacità e di ciò che volete diventare. Disegnate la vostra strada, ascoltate i consigli di tutti ma date retta a quelle poche persone che davvero vi vogliono bene. E se siete convinti di qualcosa, andate fino in fondo. La gente, spesso, parla a vuoto. Voi credeteci e lottate per i vostri ideali mettendoci sempre la faccia».


Non avere paura

Certe volte le parole filtrano dagli occhi; lì dentro si può vedere tutto. Ieri pomeriggio, gli occhi di Vittoria Bussi riflettevano le strade di Imola, il tempo e alcune delle parole che ci siamo detti quando era ancora inverno. Così, negli intervalli di quelle lancette a scandire i secondi, mi sembrava di risentire la sua voce quando le chiesi se non la spaventasse l'idea della solitudine: ''Sai, tutti abbiamo paura di restare soli. Per questo la cronometro spaventa: perchè sei solo. Io ho imparato a convivere con la solitudine nelle notti trascorse in ospedale ad assistere papà quando lui non poteva parlare, non poteva dire niente. Notti lunghissime, l'alba non arrivava mai. In un silenzio che silenzio non è, perchè il silenzio dell'ospedale è intriso dei rumori tipici dell'ospedale. Su una sedia, con i miei fogli, a rivedere appunti di matematica. Notti di angoscia. In quel momento ho dovuto imparare a restare sola, per quanto mi facesse paura. Per questo oggi la solitudine non mi spaventa più. Per questo oggi so affrontare la solitudine. Ho imparato, pur non volendo ho dovuto imparare. Le cronometro sono solo pezzi di vita in cui sei solo. In tanti pezzi di vita si resta soli. Non bisogna averne paura''. Ci fu un giorno in cui Vittoria Bussi morì di paura: era il 2009 e lei era in Inghilterra per motivi di studio, Vittoria ha studiato matematica all'università. Le arrivò una telefonata, una di quelle che nessuno vorrebbe mai ricevere: ''Papà è ricoverato in terapia intensiva, ha avuto un'emorragia celebrale. Fatti coraggio!''

Vittoria è tornata in Italia per papà. È stata al suo fianco fino al 2012 con tutto quello che aveva e oggi continua a vivere per lui: ''Mi reputo atea, non credo, ma sono convinta che la tragica vicenda di papà mi abbia lasciato uno degli insegnamenti più importanti che un padre può lasciare a una figlia. Mi ha fatto capire quanto è importante la vita. Lui amava follemente la vita e la malattia non gli ha dato la possibilità di vivere. Io, da quel giorno, è come se vivessi per due, anche per lui. Ho abbandonato le scelte a lungo termine, ho scelto di fare ciò che avrei voluto fare da sempre, senza rimpianti o rimorsi. Io voglio godermi la vita. Ho un'energia diversa, come se avessi due persone dentro di me. Io vivo per due''. E non importavano nulla le parole della gente, anche di coloro che le volevano bene: Vittoria aveva deciso, Vittoria voleva vivere più forte che mai, voleva essere più viva che mai. ''Mia madre mi adora, ma allora non capì subito. Tu pensa a una donna già distrutta dalla perdita del compagno di una vita che si ritrova la figlia che impazzisce e butta alle ortiche una carriera accademica. Come poteva capirmi?''Così è arrivata al ciclismo e lo ha fatto con la chiarezza e la schiettezza che la contraddistingue: «Purtroppo, almeno all’inizio, ho trovato poca comprensione per le persone ancor prima che per gli atleti. Per questo ho deciso di fare una mia squadra. Ma sono sempre stata chiara, non ho litigato con nessuno: ho detto chiaramente ciò che mi piaceva e ciò che non mi piaceva. Bisogna essere espliciti, senza sotterfugi. Credo sia un dovere di ogni essere umano».

Il suo ciclismo è quello dei volti che le hanno fatto del bene e di una condivisione viscerale. In primis con il suo compagno, Rocco. Quell’ora, quel Record dell’Ora, è una cosa loro: «Lui non mi ha mai abbandonato. Anche quando ho stravolto la mia vita brancolando nel nulla, ha affrontato tutti i sacrifici con me, rinunciando a tante cose in prima persona. Certe volte spingendomi lui stesso a fare le scelte che volevo. Il Record dell’Ora non è solo mio, è nostro. Quel giorno lui ha veramente pedalato con me: non avevo alcun contatto con l’esterno, lui era in pista. Non lo vedevo ma sentivo la sua voce. Mi tenevo a galla con quel suono. Quelle corde vocali erano il mio tutto». Vittoria mi ha raccontato che, quando la chiamò Dino Salvoldi per convocarla al mondiale dello scorso anno, era in cucina: «Avevo già gli occhi pieni di lacrime ma non si piange al telefono. Ero felice, di una felicità rara. Aspettavo solo che si concludesse quella chiamata per piangere, per piangere a dirotto. Piangere di gioia». Non sappiamo, ma ce lo faremo raccontare, cosa è accaduto quest’anno quando Salvoldi l’ha chiamata. Sappiamo però cosa è accaduto ieri: Vittoria Bussi è fra le prime dieci al mondo. E abbiamo tutti meno paura.

Foto: Bettini


Tim Merlier: il ritratto della tranquillità

Tim Merlier cresce all'ombra di van der Poel e di van Aert. Non ha il talento del primo, né la tenacia del secondo, eppure, che sia strada oppure cross, da un po' di tempo il suo nome inizia a farsi sentire sempre più forte. Era un sibilo inizialmente. Un discorso da bar tra appassionati di ciclismo, qualche messaggio scambiato sui forum, poi arrivano i primi piazzamenti, le prime vittorie pesanti, come il tricolore belga del 2019 che da quelle parti ha un fascino a volte difficile da comprendere.

Pochi giorni fa il successo in una irriconoscibile Bruxelles che con tutta quella pioggia sembrava un villaggio di gnomi fatto di cera e sciolto nel fondo di una bottiglia. Passa qualche giorno e vince a Senigallia, alla Tirreno-Adriatico, città altrettanto interessante, e di sicuro più luminosa, e Merlier, che arriva dal solito monotono paesello delle Fiandre orientali tutto grano e pavé, si guarda indietro continuamente sparato a settanta chilometri orari, sgrana gli occhi, e lascia il segno. Come abbiamo sgranato gli occhi noi per quanto bella è stata la sua progressione in volata.

Tim Merlier viene dal fango. Probabilmente preferisce mettersi una bici sulle spalle saltando barriere, ma il mestiere su strada lo sa fare egregiamente – e quanto volte glielo ha ripetuto Mario De Clercq, suo compaesano e leggenda del ciclocross. Merlier darebbe la vita per gli altri e si sente frustrato quando un capitano non vince: tempo fa raccontava dell'imbarazzo vissuto nel cross serale di Diegem quando van Aert gli cadde davanti e lui non riuscì ad evitarlo. Lo aspettò per aiutarlo: «Mai avuto un compagno di squadra così in gamba» disse van Aert.

A inizio carriera correvano assieme: i due hanno subito legato. «Sì posso dire che siamo migliori amici» sosteneva tempo fa van Aert, eppure, vittima dell'assurdo, Merlier indossa oggi la stessa maglia di club di van der Poel – si fa per dire la stessa maglia, l'olandese veste quella da campione nazionale, ma queste sono sottigliezze - il più grande dei rivali del suo amico. Forse qualcosa più di rivali: lo yin e lo yang del ciclismo contemporaneo, guerra e pace, uomo e donna. Agli antipodi, ma assolutamente necessari. Due che se potessero farebbero a meno anche di incrociare gli sguardi.

E lui sta in mezzo a prendere qualcosa dell'uno e dell'altro come un fedele rampollo, anche se poi è van Aert a invidiare una caratteristica fondamentale del carattere dell'amico: «La tranquillità che irradia. Sembra che se ne freghi, ma invece è semplicemente fatto così. È sempre in ritardo, ma è la sua forza: non subisce la pressione. A maggio del 2019 si allenava con una maglia nera perché era senza squadra. Pensate che la cosa lo abbia scalfito in qualche maniera? Un mese dopo ha vinto il campionato belga!».

E poi c'è quella sua capacità di stupirsi, che ha qualcosa di fiabesco. Dopo essersi laureato campione belga (su strada), due mesi dopo ancora non se ne rendeva conto. Tirava fuori la maglia dalla lavatrice e sorrideva. La stendeva e pensava non fosse nemmeno la sua. Usciva per l'allenamento: casco, occhiali, maglia tricolore e si ritrovava a guardare il suo riflesso nella finestra per capire se era vero quello che gli stava succedendo. «Semplicemente non ci si abitua, questo è ciò che lo rende così divertente. Io campione del Belgio: immagina. Per anni ho pensato che un giorno avrei potuto diventarlo nel ciclocross. Ma questo... questo batte davvero tutto».

Tim Merlier è un figlio del fango, non un Golem, forse un sassolino, un pezzo di terra che rotola, e in breve tempo diventa strada. Da anni gli dicono «faresti meglio a fare ciclismo su strada, sei più tagliato per quello» e lui risponde: «Io ho due biciclette. Una per il cross e una per la strada. Mi piacciono entrambe, mi diverto: non vedo perché dovrei cambiarle». E chi siamo noi per convincerlo del contrario?

Da un po' di tempo Merlier divide la sua vita con Cameron, la figlia di Frank Vandenbroucke, troppo talentuoso, troppo veloce ad andarsene. «Grazie a lei ho imparato a puntare la sveglia presto la mattina». Quando invece torna a casa, Tim Merlier aiuta sua madre nel bar di famiglia a Wortegem-Petegem, nella piazza vicino la chiesa, a un tiro dal traguardo di Oudenaarde che caratterizza il Giro delle Fiandre. Serve caffè e frittelle nonostante lo status di corridore che da quelle parti equivale a essere una star. «Quando ho vinto il campionato belga hanno iniziato a chiedermi interviste, a dedicarmi prime pagine sulle gazzette, ma io sono rimasto sempre quel ragazzo tranquillo che ama versare il caffè nel bar di sua madre». Quella madre alla quale, poco dopo il lockdown, chiese di organizzare una corsa nel suo paese: «Ho corso così poco con questa maglia che mi sembrava una buona idea» racconta placido a una televisione belga. Se van der Poel è genio e van Aert carisma, Tim Merlier è il ritratto della tranquillità.

Foto: Bettini


E pensare che gli avevano detto di smettere

Aveva 16 anni Umberto Poli. Aveva sete, fame di cibo dolce e una gola continua di bevande zuccherate. Era pieno di dolori e si sentiva sempre stanco. «Passavo la notte a fare la pipì e non capivo, anche perché all'epoca ero un ragazzino e non avevo mai sentito parlare di questa malattia» ci racconta con pragmatica naturalezza.

Un giorno cambiò tutto. «Categoria Allievi. Ultima gara della stagione: il 7 ottobre del 2012». Manda a memoria quella data. Erano settimane che sentiva che c'era qualcosa che non andava, in allenamento si staccava dai suoi compagni, si sentiva svuotato di ogni energia e si doveva continuamente fermare: dava la colpa al fatto di essere a fine stagione. «Devo staccare e ripartire, ripetevo tra me» e invece. «Vado in fuga, come sempre, e succede una cosa strana che non dovrebbe mai accadere: mi stacco e mi ritiro quasi subito».

Svuotato da tutte le energie, Umberto, a fine gara, è intento ad ascoltare il suo allenatore. «Guarda che non è mica normale sta cosa, devi andare a farti vedere». Torna a casa, mangia, inizia a sentire forti dolori alla schiena, allo stomaco e decide di farsi portare in ospedale da sua madre. «Mi misurano la glicemia: la macchinetta sembrava rotta. In realtà non misurava oltre cinquecento come valore massimo e decidono di farmi un prelievo. Codice rosso, ricoverato d'urgenza e trasportato dall'ospedale di Bovolone a quello di Legnago. “Hai il diabete di tipo 1” mi dicono. Realizzo un po' alla volta che dovrò farmi iniezioni di insulina per tutta la vita».

Scoraggiarsi non fa parte del bagaglio tecnico di chi ogni giorno dopo scuola si allenava in bicicletta. «Ho iniziato a correre in bici a 6 anni con la GS Look Bovolone, poi ho smesso e ho ripreso qualche anno dopo» e poi c'era quella strada da inseguire: l'anno dopo sarebbe passato nella categoria junior – un salto importante verso il sogno di diventare un corridore professionista.
«Immaginatevi il ritornello dei dottori: “non se ne parla nemmeno, non puoi mica pensare di fare il corridore”. Un muro da affrontare, ma a volte quei muri vanno superati. Bisogna trovare il giusto equilibrio e io l'ho fatto. Oppure immaginatevi la difficoltà nel trovare una squadra disposta a prendersi la responsabilità di avere un corridore diabetico tra le proprie fila». Missione impossibile, una parete verticale da scalare o dalla quale calarsi. Usate l'immagine che preferite.

Umberto Poli, tuttavia, la stagione successiva va a correre con la FDB. «Sono stato fortunato» una parola che ricorre spesso nell'intervista, perché Poli coglie al volo l'attimo, trasforma un problema in un'occasione, una ferita in uno spunto per emergere. Prende la malattia e ne ribalta il suo significato. «Ero preoccupato: mi sono ritrovato dall'essere un qualsiasi spensierato adolescente che ha l'unico problema nel come divertirsi, a vivere questa situazione. La squadra di Remo Cordioli, però, mi ha aspettato, ha atteso che mi dessero il permesso di correre. E dopo un po' che avevo ripreso l'attività ecco che mi contatta Vassili Davidenko, il mio attuale Direttore Sportivo alla Novo Nordisk per andare a fare uno stage con loro negli Stati Uniti».

La proposta è allettante, anche se Umberto vive un paradosso: nonostante il diabete, viene chiamato a fare sul serio dall'altra parte del mondo. Confuso, ma deciso, accetta. «Ovviamente ho detto sì. All'inizio ero contento, ma la realtà fu ben diversa». Gli Stati Uniti non si rivelano come l'America narrata, cercata e poi trovata, ben descritta spesso nella letteratura. «Vivevo in una casetta, come quelle dei dilettanti in Italia. Ma mi sembrava che si facessero le cose in maniera meno seria che da noi. Si correvano Criterium, una sorta di circuiti dentro le città, gare da un paio di ore. Ero un po' deluso. Poi tornai a casa e seguendo vari consigli, trai i quali quelli di Elia Viviani, cambiai il mio atteggiamento. La mentalità fa tutto in questo sport e me ne sono accorto subito: ho svoltato, mi sono presentato più propositivo, con un altro modo di intendere la realtà che mi circondava e infatti riuscì ad affermarmi e a firmare un contratto con la Novo Nordisk che mi porta a essere qui, ancora oggi, con loro».

E la sua scelta di continuare con il ciclismo è come un motore che lo spinge a salire velocemente in vetta, una propulsione che lo fa maturare. «Quando sei ragazzo e fai corse di cinquanta, sessanta chilometri, sai che devi mangiare, ma non è che stai proprio attento a quando e come. Se hai fame, mangi: finisce lì. Perché sei ancora giovane e devi fare esperienza. Io invece col diabete ho dovuto bruciare le tappe: ho dovuto subito capire come gestire l'alimentazione. Questo mi ha dato una mano prima degli altri miei compagni. Grazie a questa malattia ho imparato a conoscere meglio il mio corpo. I primi periodi erano un po' al buio perché fai delle prove con quello che assumi, provi una barretta, ne provi un'altra. E poi lentamente ogni anno capisci sempre meglio di cosa ha bisogno il tuo corpo. Con la squadra (la Novo Nordisk ha al suo interno solo corridori diabetici N.d.A.) abbiamo studiato sempre di più come va alimentato il nostro corpo, come il diabete risponde alle assunzioni di zucchero, agli sbalzi della temperatura, persino alle emozioni. Perché anche quelle influiscono. Prendi l'adrenalina: ti alza la glicemia e quindi devi imparare a gestirti mentalmente, devi imparare a gestire la tensione prima di una gara».

E avere il diabete facendo il ciclista di mestiere per Umberto Poli è un connubio che va avanti in modo naturale. «L'unica cosa che mi pesa della mia malattia è la siringa di insulina prima di mangiare, perché per il resto in bici non dà nessun handicap. Anzi sono convinto sia un vantaggio: perché ciò che impariamo noi lo applichiamo in più e in meglio rispetto ad altri corridori. Perché sono conoscenze del proprio corpo che loro non hanno. Questo stato lo definirei: la conoscenza totale del proprio corpo. Come reagisci a ogni cosa che buttiamo dentro, come reagisce a livello di zuccheri nel sangue: non è una cosa da sottovalutare quando lavori tutto il giorno con il tuo corpo».

Il ciclismo che retoricamente è scuola di vita. Anzi ancora di più: per Umberto Poli prende una forma allegorica. Ci racconta di come debba tutto a lui. “al Ciclismo”. Di come gli abbia insegnato a diventare più grande più in fretta, rispetto a quelli della sua età. Ci dice di aver fatto tanti sbagli che lo hanno fatto crescere, di come grazie a lui ha visto il mondo con gli occhi privilegiati di un corridore, ha conosciuto persone di ogni genere e affrontato culture diverse. «E questo è il massimo dell'insegnamento che posso ritrovare nella vita che ho condotto fino a oggi. È un valore aggiunto. Mi ha fatto distinguere le persone: approfittatori e coerenti, egoisti e altruisti. Mi ha insegnato a non mollare mai, a lavorare più degli altri per arrivare al risultato. A diventare tenace, mi ha abituato al sacrificio, a non avere vacanze a Natale, a pedalare sotto il sole, sotto la neve, con il caldo e con il freddo. A crederci, a fare doppi allenamenti. A soffrire, soffrire e soffrire». E lo fa, Umberto Poli, mica perché è matto – forse un po' lo è, come tutti i ciclisti. Lo fa perché gli piace, lo fa perché gli insegna ad affrontare le situazioni più controverse.

«Gli sportivi sono testardi. Quando ci impuntiamo su una cosa noi andiamo dritti per la nostra strada e portiamo avanti il risultato che vogliamo ottenere». Tenacia, resistenza. Alzare l'asticella della soglia del dolore, del proprio livello mentale. «Lo sport è una questione di testa ancora più che fisica. Mi ha rinforzato come uomo e ogni giorno, a ogni allenamento, ha qualcosa da insegnarmi». Ha 24 anni, oggi, Umberto Poli. E pensare che gli avevano detto di smettere.


Il mondo di Katarzyna Niewiadoma

«Il futuro lo immagino in un piccolo paese di montagna. Magari simile a Ochotnica, dove sono cresciuta, in Polonia. Vorrei vivere in una di quelle casette nella natura, con un orto davanti. Uscire di casa, al mattino presto, sentire l’aria fresca sul viso e, oltre qualche nuvola, vedere i monti. Poi scendere nell’orto e raccogliere frutta e verdura. Portarla in casa, sedersi al tavolo, pulirla e prepararla per il pranzo. Vorrei una famiglia e dei bambini. Stare con loro al caldo, accanto a un camino, a guardare da una finestra mentre fuori nevica e la brina ricopre i cancelli». Katarzyna Niewiadoma ama parole semplici, gesti genuini e sensazioni primordiali: «Provo una sensazione bellissima quando vedo le macchie di colore mescolarsi sul mio foglio. Non dipingo per esporre, dipingo perché mi fa stare bene. Mi rigenera. Se poi tra quei colori spunta il giallo ancora meglio. È il mio colore preferito. Dipingere è un gioco». Così quella maglia, quella della Canyon Sram Racing, così variopinta, come calata da qualche universo futuristico e parallelo, le sta proprio bene. È una seconda pelle che fa riaffiorare ciò che la prima cela.

«Ringrazio Taylor Phinney, il mio ragazzo, per tutta la sua magia». Niewiadoma ha scritto così al termine della prova che la ha vista terza all’Europeo di Plouay e noi siamo sicuri che parlasse di questo, come della bellezza del fare il pane in casa, impastandolo a mani nude, o del raccogliere le albicocche in giardino prima che venga a piovere. «A Ochotnica non c’era molto. Ma per me bastava: c’era la mia famiglia, la mia casa e quel paesaggio che qui in Spagna, a Girona, mi manca. Amo ogni singolo sentiero del mio paese di origine. Lo sento palpitare. Lo porto dentro di me». Da qualche parte, in lei, ci sarà anche quella sera in cui papà, tornato a casa con una bicicletta da regalarle, le chiese: «Questa è tua. Mi piacerebbe se qualche giorno venissi con me in bicicletta, mi piacerebbe partecipare a qualche gara con te. Ti va?». Non abbiamo visto i suoi occhi in quel momento, ma possiamo intuirli. Alla fine, per quanto ogni iride sia diversa, quello che ci luccica dentro può ricondursi a ciò che tutti conosciamo. Più o meno intensamente. Figlio della vita.

«Ho una paura che mi ha sempre accompagnata. Ho paura, nel tempo, di vedere il ciclismo solo come un lavoro. È un lavoro, inutile negarlo. Ma non è solo quello, non posso immaginare che sia solo questo. Il ciclismo è quella sensazione di pace che senti quando vai dove vuoi, magari scappi o magari insegui, ma nelle orecchie hai solo il suono della bicicletta. Se scappi non devi mai voltarti, tu stai andando altrove. Perché pensi ai luoghi che stai lasciando? In bicicletta non hai più l’assillo che tormenta ogni nostra giornata: il tempo. Vorresti averne di più, vorresti che tutto il tempo fosse lì per te, per non dover mai scendere dalla sella». Le piace l’Italia, Siena, le stradine del centro città che sanno di antico e il nostro cibo. Le piace vincere. E voi direte che, in fondo, è ovvio per un’atleta. Non così tanto per Katarzyna; a lei, oltre che per tutto il resto, piace vincere per un motivo ben preciso. «Puoi andare in conferenza stampa e rispondere a tutte le domande. Puoi raccontare, puoi raccontarti. Non è bellissimo?».

Foto: Katarzyna Niewiadoma, Twitter


Fragile, duro, rampante o semplicemente Pozzovivo

Raccontare la storia di Domenico Pozzovivo è raccontare la storia di un uomo piccolo di statura, ma la cui forza fisica, come racconta lui stesso in una recente intervista, rispecchia il suo carattere perché il modo in cui il corpo reagisce riflette la sua personalità. Tenace, caparbio, mai superbo, Domenico Pozzovivo è un pittore che cura con attenzione i dettagli, un musicista meticoloso, concreto più che scapigliato, un abile correttore di bozze dotato di una sensibilità che lo rende un personaggio diverso in gruppo. Alto 1,65, ma in verità un gigante che si riflette sulla strada.

Quando era dilettante, con la maglia della Zalf Euromobil Fior, Pozzovivo non era forse il più forte in assoluto, ma come minimo il più testardo. Luciano Rui, suo mentore a quei tempi, racconta così quelle giornate: «Faceva i rulli "in casetta", si preparava le borracce con i sali. Meticoloso e scrupoloso, visionava sempre i percorsi. Un esempio pratico di come sacrificio e dedizione paghino. Ieri come oggi. Ed era uno dei pochi che, terminato l'allenamento, si metteva sui libri». Allenamento, dedizione, doccia, libri, esami, laurea, professionismo: parole chiave che descrivono l'essenza di Pozzovivo. Piccole tappe, quotidiane o esistenziali, per formarsi e realizzarsi come ragazzo, prima, e poi come uomo.

Oscar Gatto, ex compagno di squadra, ha ben in mente il Pozzovivo ragazzo, quello che «faceva saltare di testa tutti» spingendo al limite ogni allenamento. Lo definisce una macchina da guerra, e ha ben in mente pure quel piccoletto che col tempo si è fatto corridore di razza. «Non mi stupisco nel vederlo continuare a tenere duro sempre con i miglior in salita». Nonostante l'età e gli infortuni, Pozzovivo è sempre rampante.

Appassionato di metereologia, non aveva certo bisogno che tutta quella serie di ferite che ne segnano il corpo diventassero un avvisaglia sul cambio del clima. «Il braccio sinistro non ha l’agilità nei movimenti di prima. A seconda del meteo, o su certe strade dissestate, ho fastidio», racconta alla Gazzetta, ferito fuori, fiero dentro, il Pozzovivo mai domo.

Silenzioso, brillante, quando parla non lo fa mai a sproposito. Decise di diventare un corridore dopo aver visto passare il Giro davanti a casa sua a Montalbano Jonico colpito dal fatto che a giocarsi la vittoria erano atleti da tutto il mondo. «L'internazionalità del ciclismo, il potermi confrontare con gente di ogniddove è stata una molla decisiva».

Coerente, esaltato dalle imprese dei più grandi, mai indifferente alle loro debolezze. «Mi sono avvicinato alle corse quando Pantani era all'apice della sua carriera. Le sue imprese in salita mi hanno segnato. Purtroppo dopo essere stato idolatrato da tutti è stato lasciato solo nella sua fragilità dal nostro ambiente e da chi gli stava più vicino».

La bicicletta gli serve per sfamare un altro dei suoi bisogni. «Mi ha fatto scoprire la bellezza della natura e la passione per i santuari. Ovunque mi trovi, anche all'estero, non mi perdo una salita che conduce a uno di questi luoghi sacri».

Suona il piano grazie all'amore per Chopin, ama rileggere Seneca e a scuola la sua materia preferita era proprio filosofia. Ha due lauree: la prima in Economia Aziendale, la seconda ottenuta poco tempo fa in Scienze Motorie. Per la prima laurea ha portato una tesi intitolata: “Politiche meridionalistiche dall’Unità d’Italia ai giorni nostri”, scelta perché, a furia di viaggiare all'estero e in giro per il mondo, Pozzovivo coglieva le differenze del mondo che lo circonda e si interrogava sui problemi che affliggono il sud. «Avendoli vissuti in prima persona ed essendo stato costretto a emigrare per fare il mio mestiere, mi piacerebbe impegnarmi per trovare delle soluzioni», raccontava tempo fa.

Difficile, parlando di Domenico Pozzovivo, dimenticare quelle immagini che arrivavano dall'elicottero durante il Giro del 2015 e che lo vedevano riverso a terra dopo una caduta in discesa: perse conoscenza, rimediò un forte trauma cranico e diverse ferite sul viso con «il pensiero alla mia famiglia a casa in apprensione». Ma poi, come sempre, Pozzovivo è ripartito.

Nel 2018 è il migliore italiano al Giro – e lo sarà anche al Tour: diciottesimo. Sfuma il sogno del podio finale nella Corsa Rosa nella tappa del Colle delle Finestre, quella dell'attacco di Froome. Poteva essere il premio alla carriera – ma ne avrebbe poi bisogno un uomo così? - chiuderà quinto in classifica generale in quello che sarà tuttavia uno dei picchi della sua carriera, nonostante i 35 anni, quella statura, quella cadenza, quella sua ricerca costante della conoscenza. Più che affamato di vittorie o piazzamenti, affamato di sapere, tanto che, quando parte per le gare si porta dietro sempre qualche libro: zoologia, divulgazione scientifica, filosofia, meteorologia.

Da professionista Pozzovivo ha avuto quasi lo stesso numero di vittorie (tredici) rispetto alle operazioni subite (undici - e a fine stagione sta valutando se farne un'altra per togliere le placche in titanio sul braccio) e poco più di dodici mesi fa – erano i primi giorni di agosto del 2019 - un terribile incidente ha rischiato di cancellarlo via per sempre. «Hanno messo fine alla mia carriera» raccontò a sua moglie mentre veniva portato in ospedale. Frattura di tibia e perone, frattura pluriframmentata ed esposta del gomito. In poche parole, sbriciolato da un’auto che lo investiva mentre il corridore attraversava un incrocio.

Riparte perché non c'è nessuno più testardo di lui, perché se gli hanno dato un corpo piccolo è stato solo per rendere ancora più grande la sua resistenza. «Due mesi in sedia a rotelle, otto interventi chirurgici, decine di visite mediche, migliaia di ore di fisioterapia. Centinaia di grammi di titanio addosso» scrive sui suoi canali social. Sei mesi dopo è in gara al Tour de Provence – e con un dignitoso quattordicesimo posto – migliore in classifica della sua nuova squadra (NTT Pro Cycling), davanti a corridori quotati come Bagioli, Gesink, Sivakov.

Pensava di smettere o di restare su una sedia a rotelle e invece va persino al Tour de France che per lui non poteva che partire nel peggiore dei modi. Una storia già scritta, un ritornello che sappiamo a memoria e che si installa nella mente appena alzati: è tra i primi ad andare giù nelle tante cadute verso Nizza. A causa di uno spettatore che «Per fare un selfie ha tirato giù me e altri 20 corridori, distruggendo di nuovo il mio gomito». E lui che fa? Si rialza, mai domo, e oggi, una settimana dopo è ancora lì in corsa, anzi prova a stare con i migliori in salita e dice che si ritirerà solo se dovesse venirgli un febbrone da cavallo.

PS - Aggiornamento di lunedì 7 settembre, ore 14 - Purtroppo nella serata di ieri Pozzovivo ha abbandonato il Tour de France: troppo dolore dopo la caduta del primo giorno. Lo rivedremo fra qualche settimana al Giro d'Italia, perché sennò che Pozzovivo sarebbe?

Foto: Bettini


Quando sogna Simon Pellaud è un genio

Il destino di Simon Pellaud è racchiuso in due parole: Chemin Dessus, “Sentiero di Sopra” letteralmente, un paesino della Svizzera posto a milleduecento metri d'altitudine, perché è da lì che arriva e poi perché viene naturale tradurlo, visto che oltre ad andare forte in bici, Pellaud parla cinque lingue.
Il destino di Simon Pellaud è proprio quel cammino che lo porta in fuga, perché lì sa stare meglio, trova il suo habitat, un animale che si mimetizza tra le fronde: «All'inizio andavo in fuga perché non avevo le qualità per stare davanti fino alla fine con i migliori, poi è diventata un'abitudine: mi emozionava “tentare el golpe” - provare a fare il colpo - giocando con il gruppo che ti insegue. E poi volete mettere? Il senso di libertà che ti dà andare in fuga, poter vedere la strada davanti ai tuoi occhi lontano dallo stress dello stare in mezzo al plotone. Un gusto impagabile», ci racconta, alternando con estrema brillantezza italiano, spagnolo e francese.

Il cammino di Simon Pellaud, ventotto anni, svizzero, è quello che lo porta fino in Colombia, dove ha costruito una casa e dove vive diversi mesi all'anno; una scelta di cuore, di amore a prima vista, come una carezza che ti fa ribollire il sangue. «Tutti mi chiedono perché ho scelto la Colombia e il perché lo trovo guardando le strade, conoscendo le persone, mangiando la frutta – ha un sapore incredibile che non trovi da nessuna parte! Apprezzando clima e paesaggi. Ho trovato un'energia che altrove non esiste: le persone sono sempre felici pur avendo poco. La Colombia è luminosa, mentre in Europa ci sono i soldi ma il colore che domina è il grigio. E poi, come dicono loro, c'è tanta “alegría” e la gente ha cambiato il mio modo di vedere la vita. Hanno poco e gli va bene così, in Svizzera hanno tutto e si può avere tutto, però ci si lamenta troppo spesso».

Ha scelto il ciclismo perché lo sente scorrere nelle vene: «Mio nonno era ciclista e probabilmente mi ha trasmesso l'amore per la libertà. Per me uscire in bici anche solo a fare un giro vuol dire essere “libre”, per me vuol dire avere la possibilità di viaggiare dappertutto» . Una conoscenza del mondo che gli ha insegnato a vivere. «È nata come passione è diventata scuola di vita», concetto che può suonare banale, ma dal quale non si sfugge quando pedalare non è solo il tuo mestiere, non è solo gonfiare i polpacci o eseguire un gesto meccanico, ma la tua ragione di vita. Ciò che ti fa salire le pulsazioni anche al solo pensiero. «Corro sempre con il cuore, perché mi piace davvero tanto fare ciclismo».

Il cammino di Simon Pellaud più di una volta ha trovato ostacoli complicati da superare: nel 2016 correva nel World Tour, ma la sua squadra, la IAM, chiuse, e lui si ritrovò a rifare tutto da capo. «Scendere in una squadra Continental è stata dura per me. Un po' perché pensavo di fare il capitano e mi sono ritrovato ad aiutare Avila, un po' perché dal World Tour è proprio un altro mondo: come organizzazione, come programmi. A volte sapevamo all'ultimo dove saremmo andati», un'esperienza dal quale trova insegnamenti, nella quale matura e che lo ha riportato in questo 2020 tra i professionisti con la maglia dell'Androni, squadra che sposa perfettamente la sua indole fugaiola.

La prima corsa dopo il lockdown, infatti, è subito in avanscoperta: di nuovo mimetizzato tra asfalto e cielo all'orizzonte, perché prima di salire in sella Pellaud già aveva in mente l'evasione come risposta alle sue domande. E poi «quando mi riprendono la mente corre subito di nuovo alla prossima volta che mi lancerò all'attacco».
Simon Pellaud lungo il suo cammino prova a fuggire alla pressione: «La soffro più quando si corre vicino casa, in Svizzera, che quando sono al via di una corsa importante come al Giro di Lombardia» e pochi giorni dopo la Monumento prende parte anche al Giro dell'Emilia dove si immagina in fuga e invece arriva, lungo quel sentiero, un altro intoppo. La sua bici all'improvviso smette di frenare: «La peggiore paura di un ciclista? Trovarsi senza freni in piena discesa. I freni a disco sono il top a parte quando non frenano», racconta, visibilmente ferito, sui suoi canali social.

Il cammino di Simon Pellaud è incastrato nel presente, non può pensare al futuro, oscuro, brillante, non importa, non è possibile nemmeno immaginarselo perché non sa cosa riserva a un corridore come lui: «Firmando di anno in anno per me è impossibile programmare dove sarò domani o l'anno prossimo o nemmeno fra dieci» e quindi lastrica il suo sentiero, sognando la Milano-Sanremo. «Io mi immagino lì, in fuga, in Via Roma a giocarmi il successo. So che rimarrà un sogno, ma a me piace così».

D'altronde, sosteneva Kurosawa: «I sogni sono la rivelazione dei desideri inconfessati, delle paure segrete che l' uomo nasconde nel profondo di se stesso. I sogni sono delle cristallizzazioni di questi desideri puri e disperati, li esprimono in una forma fantastica e totalmente libera. L'uomo, quando sogna, è un genio; è coraggioso e audace come un genio». E questo Simon Pellaud, lo sa bene.

Foto: Simon Pellaud, Twitter