L'oro e la maturità: ritratto di Eleonora La Bella
Fuori dalle finestre è già buio, è sera. Eleonora La Bella ha trascorso il mattino a scuola, frequenta il Liceo Classico, il pomeriggio in allenamento, in bicicletta, l'appuntamento era per le diciannove e quindici, giusto qualche minuto prima un messaggio: «Telefona quando vuoi». Scopriamo solo parlando che i suoi libri sono ancora tutti aperti, in camera: studierà dopo le venti, per le verifiche e le interrogazioni del giorno seguente. Le prime parole tornano al tennis, a Jannik Sinner, agli Australian Open, a ciò che ha detto: «Vorrei che tutti potessero avere i miei genitori. Mi hanno sempre lasciato scegliere quello che volevo. Anche quando ero più giovane, ho praticato altri sport. Non mi hanno mai messo pressione. Vorrei che questa libertà fosse possibile per il maggior numero di ragazzi». La Bella ha in mente le sue domeniche d'infanzia, quando vedeva suo padre inforcare la bicicletta, uscire dal cancello e tornare dopo tre, forse quattro, ore. Ci restava male. Papà fa il camionista di mestiere, un lavoro difficile, di fatica e rinunce, e la strada lo porta spesso lontano, a casa torna poche volte a settimana, Eleonora resta con la madre e con il fratello Lorenzo: «Ci sono i sacrifici di mio padre sul suo camion e quelli di mia madre a casa, è lei ad accompagnarmi ad ogni visita, ad aiutarmi a risolvere ogni problema. Io e mio fratello siamo cresciuti così, non ci è mai mancato nulla. Il nostro legame è fatto di una presenza costante, dei suoi messaggi quando sono via, della macchina in cui mi aspetta fuori dalla stazione, al ritorno dalle trasferte e delle volte in cui mi accompagna in palestra, delle sorprese che mi prepara. Ogni tanto mi sorprendo a pensare che mio fratello ci sarà sempre per me e mi sento tranquilla».
Suo fratello c'era anche quel giorno, nel parcheggio vicino a casa, dove un allenatore, amico del padre, aveva disposto i birilli per una gincana. Il primo ciclismo era così, con la porta di casa a pochi passi, dove fare ritorno quando si è stanchi. I treni sono arrivati dopo, da Tufano, la sua città, nel Lazio, zona Anagni verso il nord, sedersi su quel sedile all'alba e vedere le porte del treno riaprirsi a sera, in un'altra stazione.
«Qui da noi è tutto un poco diverso. Ricordo giornate a Piacenza, con il mio team manager, in BFT Burzoni Vo2 Team Pink, Stefano Solari e lui che mi spiegava "come si ragiona al nord", mentre ero intenta a ricercare ovunque quel calore che appartiene alla romanità e non lo vedevo, che mi trovassi in piena città o nella natura del Trentino Alto Adige, che pure mi piaceva, ma a cui mancava sempre qualcosa. Ho capito quest'anno cosa sia davvero il ciclismo: la lontananza dalla famiglia e lo "studio". Sì, ho studiato molto ciò che avevo attorno, a diciotto anni, ho compreso un poco di più com'è il mondo». Un anno importante, il primo da junior: dodicesima al Piccolo Trofeo Binda, decima sulla Montée Jalabert, una delle salite che ha preferito, dopo la Sgurgola, nel frusinate, per andare da nonna e il Col du Vam, all'Europeo, al Tour du Gevaudan, nona al Giro delle Fiandre, sesta al Giro della Lunigiana, seconda sia al Campionato Italiano su strada, «ma quella vittoria la meritava Federica Venturelli più di me», che a cronometro, vincitrice del Mixed Relay, agli Europei, decima nella corsa su strada. Quest'anno, il difficile sarà riuscire a riconfermarsi, il pensiero c'è, lei lo tiene a bada riflettendo sul fatto che, se sarà tranquilla, andrà tutto meglio. «In fondo- dice- in sella puoi solo dare tutto quello che hai e nel 2023 ho acquisito la certezza che, se sei capace di farlo, costi quel che costi, qualcosa accade, in qualcosa migliori». In bicicletta segue molto l'istinto, racconta che sta imparando a gestirlo, perché le energie non sono infinite e lei, con le sue doti da passista scalatrice, scatterebbe sempre, pur di non avere rimpianti. Questo è un aspetto da limare, strettamente legato al fatto che la parola delusione proprio non le piace, ma, se dovesse darle un significato e una forma, la assocerebbe alle volte in cui è rimasta bloccata per pensieri non così importanti, per la parte irrazionale che prevale e impedisce di dare tutto. «A fine gara devo sentire quel sapore di sangue che ti invade la bocca quando non ne hai più e i muscoli in fiamme. Nelle cronometro mi accade, altre volte no. Vuol dire che posso fare di più». Portare il proprio fisico al limite non la spaventa.

Quest'anno sarà l'anno della maturità ed al Classico la versione da tradurre sarà quella di greco, lei preferisce il latino, «se impari la grammatica nei primi tre anni, la strada è in discesa», e cita Seneca, il suo autore preferito. Parla di filosofia, spiega che tutti le suggeriscono di iscriversi a Scienze Motorie all'università, ma lei pensa a Psicologia, una materia di cui ha già letto qualcosa e che vorrebbe conoscere meglio. È appassionata delle persone e del rapporto fra esseri umani: «Credo nella gentilezza. Non possiamo mai davvero sapere il momento che vivono le persone che incontriamo, però la gentilezza può cambiare qualcosa. Ne sono certa». Il ciclismo, in fondo, l'ha scelto per la sua capacità di mettere in contatto con gli altri ed il contatto più intenso è quello che si crea in squadra, anche questa è una cosa che ha capito meglio l'anno scorso, in particolare alla cronometro Mixed Relay dell'Europeo, quella in cui l'Italia ha conquistato l'oro davanti a Germania e Francia, dopo un esordio sfortunato in maglia azzurra, in primavera, con una caduta che la costrinse al ritiro alla Omloop van Borsele, in Olanda: «Se la squadra è compatta possiamo davvero fare grandi cose, il punto è ricordarcelo e mantenere questa compattezza». Dai finestrini del treno, in quel ritorno, la vista del paesaggio era oscurata dalla malinconia, dalla nostalgia per il bello vissuto e già trascorso: non sarebbe voluta tornare a casa, dove, in realtà c'era una festa per lei, con il paese ad aspettarla. «Ho i brividi»: dice solo così. Le chiediamo dove tenga la maglia di Campionessa Europea, istintivamente ci indica la sua camera, poi, ci ripensa: «In realtà, non lo so. Potrebbe essere in camera dei miei genitori o di mio fratello, non importa. Finchè è qui in casa, è al sicuro».
Si ispira a Elisa Longo Borghini e a Marta Cavalli, ricorda con piacere e con un sottile orgoglio di aver trascorso del tempo con Barbara Guarischi e con Elena Cecchini e di essersi fatta spiegare da loro come funzioni il professionismo, il mondo in cui spera di arrivare, senza cambiare. Si ispira a Pogacar e van der Poel, ma, ora come ora, vorrebbe assomigliare a Federica Venturelli, solo un anno in più di lei, che, con lei, ha vinto quell'oro. Sogna una tappa al Giro d'Italia, il Giro delle Fiandre e, ancora oggi, si morde le mani perché il nono posto dello scorso anno avrebbe potuto essere qualcosa in più con una migliore gestione della volata. Si sente cresciuta mentalmente e fisicamente, riesce a buttarsi senza timori in molte situazioni che prima la spiazzavano, ci proverà. Ora è tempo di riprendere in mano i libri, domani si interroga.
Questionario cicloproustiano di Mirco Maestri
Il tratto principale del tuo carattere?
Sincero, altruista, determinato.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Sincerità, lealtà.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Solarità, complicità.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Presenza e supporto (reciproco).
Il tuo peggior difetto?
Essere sincero.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Videogame.
Cosa sogni per la tua felicità?
Che la famiglia stia bene e che io riesca a contribuire al progetto della squadra.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere qualcuno che amo.
Cosa vorresti essere?
Goku.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.
Il tuo colore preferito?
Blu.
Il tuo animale preferito?
Gatto.
Il tuo scrittore preferito?
Akira Toriyama (fumettista).
Il tuo film preferito?
Forrest Gump.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Gli 883.
Il tuo corridore preferito?
Peter Sagan.
Un eroe nella tua vita reale?
Javier Zanetti.
Una tua eroina nella vita reale?
Jennifer Aniston.
Il tuo nome preferito?
Paperino.
Cosa detesti?
Spinaci.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Hitler.
L’impresa storica che ammiri di più?
L'Impero Romano.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Colbrelli alla Roubaix.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.
Un dono che vorresti avere?
200 watt in più.
Come ti senti attualmente?
Bene, ma con l'idea di migliorarmi.
Lascia scritto il tuo motto della vita:
"Insisti e resisti che raggiungi e conquisti".
Il questionario cicloproustiano di Samantha Arnaudo
Il tratto principale del tuo carattere?
Credo sia la resilienza.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
L’empatia.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La sincerità.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
L’attutire la mia sincerità in certe circostanze, senza offendersi.
Il tuo peggior difetto?
Essere troppo severa con me stessa.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Pedalare in montagna.
Cosa sogni per la tua felicità?
Credo la felicità sia una scelta giornaliera, scelgo di vivere come credo giusto e senza rimpianti, inseguendo i miei sogni e stando con chi mi ama veramente.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Preferisco non pensarci.
Cosa vorresti essere?
Vorrei essere di ispirazione.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Per il cibo, il clima e i paesaggi l’Italia, per il “sentire-rispettare il ciclismo come sport nazionale” in Belgio o Olanda.
Il tuo colore preferito?
Fucsia.
Il tuo animale preferito?
Gatto.
Il tuo scrittore preferito?
J.K. Rowling.
Il tuo film preferito?
Harry Potter.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Muse.
Il tuo corridore preferito?
Marco Pantani e attualmente Wout Van Aert.
Una tua eroina nella vita reale?
Mia mamma.
Il tuo nome preferito?
Tommaso e Beatrice.
Cosa detesti?
Fare i rulli.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Berlusconi.
L’impresa storica che ammiri di più?
L’invenzione della ruota
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Marco Pantani a Oropa.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d’Italia
Un dono che vorresti avere?
Rivivere alcuni momenti da prospettive diverse.
Come ti senti attualmente?
Serena e grintosa.
Lascia scritto il tuo motto della vita:
I sogni, se ci credi, non sono che realtà in anticipo.
Tra Lettonia e Marche: intervista ad Anastasia Carbonari
«In agosto, prendevamo sempre un volo diretto in Lettonia per andare a trovare i nonni. A tavola c'erano i piatti di carne, le zucche e le patate che cucinava nonna, al parco vicino casa, invece, le corse in bicicletta dei bambini: si vincevano caramelle e poco altro, magari qualche giornalino. Sono ancora terre povere rispetto all'Italia. Noi portavamo qualche coppetta di quelle che qui si conquistano nelle gare giovanili, da mettere in palio, e quei bambini esultavano come se avessero vinto la Parigi-Roubaix. Uno degli anziani signori che organizzavano le corse segue ancora il mio percorso, vede le mie fotografie». La maglia di campionessa nazionale lettone che Anastasia Carbonari indossa tutt'oggi e la maglia della nazionale che veste nelle competizioni internazionali assumono, allora, un significato particolare, al termine di questo racconto. Sono maglie che Carbonari ha scelto, lei di Montegranaro, in provincia di Fermo, nelle Marche, una zona in cui mancano gare e squadre di ciclismo. Tante volte ha pensato a quella ingiustizia, spesso al ritorno da lunghi viaggi, lontano, mentre guardava fuori dalla finestra e si diceva che «non c'è panorama più bello di quello di casa», almeno per lei.

Eppure è così, non ci si può fare nulla, ha imparato a convivere con quel "torto" di cui nessuno ha colpe. Di Riga è sua madre ed in Lettonia sono rimaste le sue origini anche oggi che i nonni sono mancati. Sta cercando casa a Bergamo, assieme al compagno, per motivi di lavoro, di entrambi, e, giusto qualche settimana fa, ha riflettuto sul vicino aeroporto, sulla possibilità di volare ancora in Lettonia, non solo per i Campionati Nazionali, in ottobre. Forse, per Parigi, partirà proprio da quell'aeroporto, per l'Olimpiade a cui pensava di non qualificarsi ed invece ce l'ha fatta e vi parteciperà con la maglia rosso scura, con una linea bianca, della Lettonia. In UAE Team Adq, Carbonari arriva quest'anno, a ventiquattro anni, classe 1999, dalla squadra Development: passista, tiene bene su strappi brevi e può giocarsela in volate ristrette, Uno dei suoi punti forti è, senza dubbio, la lettura della corsa, spiega di aver imparato correndo spesso in testa al gruppo, anche per il timore di restare nelle retrovie nelle fasi concitate di gara, ma, in questa capacità, rientrano anche tutte le competizioni viste in televisione, sin dall'infanzia, quando con la sua bicicletta girava in cortile e, mettendo una bottiglia di plastica sul tubolare, fingeva di essere una motociclista. Avrebbe scoperto solo anni dopo che essere una ciclista di mestiere significa «dover provare ad eccellere in ogni singolo dettaglio», qualcosa che, successivamente, si tende a traslare in ogni campo, quasi come un'abitudine. Nel 2022, al passaggio in Valcar, dopo anni complessi e una prima parte di carriera «abbastanza tormentata», Anastasia Carbonari si era promessa che avrebbe provato a dedicarsi solo al ciclismo, per vedere se, davvero, era la sua strada, se veramente avrebbe potuto essere il suo mestiere. Bastava davvero poco, in quel momento, per metterlo in dubbio: «Magari sbagliavo un allenamento o una gara mi andava storta ed entravo in un circolo vizioso in cui non esisteva più nulla di positivo. Non mi sentivo forte, non mi sentivo preparata, non mi sentivo un'atleta e passavo ore a chiedermi se non avessi sbagliato a correre in bicicletta». Solo pochi anni prima, nel 2019, dopo il Campionato italiano a Notaresco, in cui portò a termine una buona prestazione, si era quasi convinta di poter veramente essere una ciclista. Quella mattina di fine luglio era uscita così, in allenamento.

Un automobilista la investe, l'impatto è forte: frattura di una vertebra e la stagione finita lì. Poteva andare anche peggio, sul momento c'è un sospiro di sollievo, poi giorni e giorni, settimane, d'inferno: «Ero a letto, completamente immobile, non potevo fare nulla: alzarmi, prepararmi da mangiare, lavarmi. Avevo bisogno dei miei genitori e di mio fratello anche per i gesti più piccoli, quelli che solitamente ci paiono naturali». Tornò, anche se pareva impossibile in quegli istanti. Quasi mille giorni dopo, al Simac Ladies Tour, in ospedale, era accanto a Davide Arzeni, che l'aveva voluta in Valcar, e, mentre lui cercava di consolarla, dopo una caduta, a lei vennero solo poche parole: «Speriamo, Davide. Perché un'altra volta non la sopporterei, non tornerei più a correre, sarebbe troppo difficile». Il verdetto fu, se possibile, peggiore: cinque vertebre e sei costole fratturate. Eppure Anastasia Carbonari, oggi, è ancora una ciclista.
«Non so se sia il ciclismo ad aver formato il mio carattere, di sicuro, però, i due aspetti sono legati. Senza questo carattere non avrei potuto essere una ciclista e senza essere una ciclista non avrei avuto questo carattere, forse non mi sarebbe servito». Di arrivare fino al livello in cui è oggi non l'avrebbe nemmeno mai pensato. Al Giro d'Italia del 2021, il suo primo Giro, il carattere le servì la mattina in cui in corsa arrivò Roberto Baldoni, team manager di Born To Win. La partenza della tappa del 9 luglio era a San Vendemiano, l'arrivo a Mortegliano: proprio prima che la bandierina si abbassi, Baldoni parla con la squadra. «Oggi voglio qualcuna di voi all'attacco»: lo sguardo vaga tra le atlete, fino a che trova Anastasia e la indica. «Non mi sentivo pronta, non sapevo cosa pensare e nemmeno cosa fare. C'erano tante atlete forti, più forti di me, come avrei fatto ad andare in fuga? Tra l'altro, la fuga, in quella tappa, non riusciva nemmeno ad andare via». Carbonari, invece, se ne va, su una ripartenza, guadagna secondi, minuti, resta davanti per circa cinquanta chilometri, viene ripresa solo agli otto chilometri dal traguardo: «All'inizio, mi sembrava impossibile. Non sai quante volte mi sono maledetta, mentre ero a tutta. Maledivo me e le mie folli idee. Alla fine, però, quasi ci credevo. Non avevo nessuna esperienza, non sapevo che il gruppo lascia fare e rientra all'ultimo, tutto mi sembrava straordinario ed in un certo senso lo era. Non mi sono più rivista, non mi piace rivedermi, ma ricordo quasi tutto di quei momenti».
Davide Arzeni la seguiva da tempo, dalla sponda Valcar, in un periodo in cui, dopo l'addio di molte atlete, la squadra si doveva ricostruire. Probabilmente quella fuga ha aggiunto l'ultimo tassello, per proporle il passaggio di team. Studiava Scienze Politiche, l'appassionano i rapporti tra Stati ed il diritto Internazionale, ora studia Scienze Motorie. Non si abbatte più per un allenamento andato male, per i giorni in cui le sensazioni non sono buone, sa che può succedere, basta riposarsi e ripartire il giorno seguente. Intanto si cimenta in quella che definisce "gavetta" e che ritiene essenziale per l'atleta che potrà essere un domani. Quando ancora aspetterà un volo per la Lettonia e, al ritorno a Montegranaro, dopo settimane di gare, guardando fuori dalla finestra, sarà certa che casa è solo nelle Marche.
Nos quedamos con lo bueno: intervista a Mavi Garcia
Le scarpe gliele aveva prestate suo fratello, come, del resto, la bicicletta, solo così Margarita Victoria García Cañellas poté partecipare alla sua prima gara di duathlon e vincerla, ma, in quegli istanti, nemmeno la sfiorava il pensiero della prestazione. Quella che la carta d'identità identifica come Margarita Victoria García Cañellas è, in realtà, per tutti, da vari anni, solo Mavi García, ora in Jayco AlUla, che, di quella competizione, in cui lei si dedicava alla corsa a piedi ed il fratello al ciclismo, ricorda, soprattutto, la sensazione legata a delle scarpe così grandi che il piede vi "ballava" all'interno. Non aveva una bicicletta e nemmeno scarpe adatte a correre perché da ragazzina sua madre la portava a fare ginnastica, a pattinare, mentre all'atletica si era sempre dedicato proprio il fratello: ormai, però, era circa nove anni che si era allontanata anche dal pattinaggio. Quella gara di duathlon e, poi, diverse uscite in bicicletta insieme ad amici del fratello stesso, che la "temevano" perché non avevano mai pedalato con una ragazza, per giunta così forte, mentre le scarpe erano sempre troppo grandi ed i piedi continuavano a navigarvi. Dovette presto capire che il ciclismo, probabilmente, era un suo talento da sempre, ma un talento che non avrebbe mai scoperto, se non per puro caso. Ben presto era la seconda del mondo nella disciplina individuale e la prima, considerando le squadre. In quel periodo, il training camp del team Bizkaia Durango, suggeritole da un amico, mostrava i suoi dati come ciclista, dati notevoli: «Vinsi la seconda gara a cui partecipai. Non sapevo ancora che la terza gara sarebbe stata la Freccia Vallone e sarebbe stato quasi un incubo. Del ciclismo non conoscevo praticamente nulla, stavo in fondo al gruppo perché mi intimoriva la sua "pancia" e ben presto quel timore sarebbe diventata una vera e propria paura». Mavi García si riferisce alla brutta caduta che la coinvolse in Argentina, all'ultimo anno in Bizkaia: picchiò la testa, restò traumatizzata da quel che era successo e, al ritorno in sella, si rese conto che quella paura la condizionava a tal punto da pensare di smettere per non stare così male ad ogni corsa.
Nei primi tempi, García faceva duathlon, atletica, ciclismo e continuava a lavorare nell'azienda di hotellerie in cui si occupava di contabilità da circa dodici anni. Successivamente grazie all'aspettativa, in Spagna denominata "excedencia", era riuscita a concentrarsi solo sullo sport: «L'excedencia permette di conservare il proprio posto di lavoro per almeno cinque anni, ovviamente non percependo più lo stipendio. Ogni anno, tornavo in azienda a firmare chiedendo altri 365 giorni e, poi, mi buttavo sull'allenamento per migliorare in tutte le discipline che praticavo. Decisivo è stato il momento in cui ho scelto di dedicarmi solo al ciclismo: lì i risultati sono fioccati ed il mio margine di crescita si è espanso di molto. Tutto assieme non si poteva più fare». Il 2018 è l'anno in cui Movistar le propone il primo contratto da professionista, è l'anno della conquista del suo primo Campionato Nazionale Spagnolo a cronometro ed è anche l'anno in cui García lascia definitivamente l'azienda in cui lavorava: «Ho sempre firmato contratti di un anno, solo ultimamente sono biennali, e, soprattutto all'inizio, credevo che sarebbe durata per due o tre anni, non mi aspettavo di certo di arrivare a quarant'anni ancora in sella. Ma, a parte questo, ho sempre fatto questa scelta perché nella vita si cambia e non potrei accettare di fare un lavoro in cui non mi riconosco più, soprattutto un mestiere complesso come quello della ciclista. Avevo paura, certo, come tutti in una situazione simile, anche in famiglia avevano dubbi, ma riconoscevano il mio talento e questo li ha spinti a incoraggiarmi in quella scelta».

In spagnolo si dice "nos quedamos con lo bueno" ed è la filosofia di Mavi: salvaguardare le cose buone, gli aspetti positivi, di quel che accade. L'ha applicata soprattutto l'anno scorso, una stagione in cui nulla girava come avrebbe dovuto e come avrebbe voluto: i risultati non arrivavano, ogni gara era un poco meglio o un poco peggio della precedente, ma non risolveva mai quel malessere persistente. «Stentavo a riconoscermi e non ne capivo il motivo: la mononucleosi, scoperta solo successivamente. Il risultato, nel ciclismo, ti permette di riprendere fiato, di vivere con serenità la gara successiva. Ogni volta mi dicevo che nella corsa successiva avrei fatto qualcosa di buono, non succedeva mai. Più il tempo in cui i risultati non arrivano si dilata, più diventa pesante, difficile da gestire, più pare impossibile tornare a fare risultato».

Così, anche lei che spiega di riuscire a gestire bene la pressione, almeno generalmente, e che sottolinea che gli obiettivi sono necessari per avere una direzione, ma, alla fine, dopo tutto il lavoro, non bisogna fare in modo che qualche traguardo non centrato possa mettere in discussione il percorso, rivela di essere particolarmente serena dopo il podio, terzo posto, centrato all'UAE Tour, ad inizio stagione: «Non pensavo ad un risultato di questo tipo, vuol dire che le cose stanno andando bene». L'anno scorso, dopo il secondo posto nel Campionato Nazionale Spagnolo a cronometro, ha avvertito intorno alla propria persona una delusione che non pensava di trovare: la sua storia con la maglia di campionessa nazionale ha origini lontane, quel 2018, per l'appunto, e l'ha spesso conquistata da sola, senza una squadra a sostegno, spesso con notevoli pressioni, per esempio quando la gara si è svolta a Maiorca, suo paese natale. «All'esterno sembra che per me sia facile, quasi scontato vincere, invece è dura, sempre più dura. Anche chi vince fa fatica, pure se è il più forte in corsa».
Spiega di essere cresciuta assieme al ciclismo, negli anni, e di essere contenta di aver potuto vivere questa crescita del movimento, l'unico neo potrebbero essere quei limiti posti alle squadre più piccole che, non raggiungendo il budget, resteranno escluse, però «ai molti passi in avanti corrisponde sempre qualche passo indietro, va accettato». Scalatrice, nei dintorni di Maiorca ha scalato non sa quante volte il Puig Major, una delle salite più lunghe della zona, ama il caldo, il sole di Maiorca e della Spagna che cerca invano in ogni parte del mondo e il mare che ha più che mai bisogno di vedere. Fra i momenti più belli della sua carriera ricorda la Strade Bianche del 2020, negli sterrati roventi dal sole d'agosto, superata solo da Annemiek van Vleuten, i più difficili, invece, fatica a trovarli. Non perché non ce ne siano stati, anzi, è la prima ad ammettere che sono stati molti, ad esempio quell'inizio di stagione in UAE Team Emirates, nel 2022, anno in cui centrò il terzo posto al Giro d'Italia, quando tutti si aspettavano da lei "Pogačar" in versione femminile, ma il suo voler salvare il buono le impedisce di restare fissa su quelli: «Quando le cose vanno male, tendiamo tutti a pensare che andranno sempre così. Forse è naturale, ma non è vero. Non andranno sempre male, miglioreranno o, comunque, cambieranno. Questa è la certezza che deve farci forti».
Il questionario cicloproustiano di Matteo Fabbro
Il tratto principale del tuo carattere?
Diretto e deciso.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Onestà.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
Il carattere.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Umorismo.
Il tuo peggior difetto?
Testardo.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare.
Cosa sogni per la tua felicità?
Il benessere mio e della mia famiglia.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere qualcuno.
Cosa vorresti essere?
Vorrei essere il vento.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.
Il tuo colore preferito?
Blu.
Il tuo animale preferito?
Mangusta.
Il tuo scrittore preferito?
Tolkien e Coelho.
Il tuo film preferito?
American Pie.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
883.
Il tuo corridore preferito?
Peter Sagan.
Un eroe nella tua vita reale?
Nessun eroe.
Una tua eroina nella vita reale?
Nessun eroina.
Il tuo nome preferito?
Fari (soprannome).
Cosa detesti?
Scarafaggi.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Nessuno.
L’impresa storica che ammiri di più?
Annibale e gli elefanti.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Sagan al Fiandre.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Giro d'Italia.
Un dono che vorresti avere?
30 cm in più di altezza.
Come ti senti attualmente?
Bene ma non benissimo.
Lascia scritto il tuo motto della vita:
"Volere è potere".
Il questionario cicloproustiano di Greta Marturano
Il tratto principale del tuo carattere?
Timidezza.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Sincerità e fedeltà.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Sincerità.
Il tuo peggior difetto?
A volte permalosa.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Cucinare oppure seguire qualche serie televisiva o film su Netflix.
Cosa sogni per la tua felicità?
Avere con me le persone più care e fare quello che più mi piace.
Cosa vorresti essere?
Sempre me stessa.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Sono un poco patriottica, forse, ma l'Italia va bene.
Il tuo colore preferito?
Blu.
Il tuo animale preferito?
Tartaruga.
Il tuo corridore preferito?
Van der Poel.
Un eroe nella tua vita reale?
Papà e mamma sempre visti come i miei eroi fin da quando ero piccola.
Cosa detesti?
Le bugie e le persone false.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Ci sono tante imprese che mi sono rimaste impresse ed è forse per questo che mi sono sempre più appassionata al ciclismo.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Non ci si ritira mai, in nessuna gara.
Un dono che vorresti avere?
Serenità.
Come ti senti attualmente?
Bene e serena.
Lascia scritto il tuo motto della vita
“Quando arrivi al limite, superalo”.
Il questionario cicloproustiano di Omar Di Felice
Il tratto principale del tuo carattere?
Riservatezza.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
La discrezione e l’onestà.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La discrezione e la dolcezza.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
La capacità di rispettare gli spazi e la diversità che ci caratterizza.
Il tuo peggior difetto?
La testardaggine.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Leggere.
Cosa sogni per la tua felicità?
Un mondo con più gentilezza.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Non poter pedalare.
Cosa vorresti essere?
Sono felice di ciò che sono.
In che paese/nazione vorresti vivere?
In un’Italia con maggior cura per il prossimo, meritocrazia e rispetto per i deboli (anche , e soprattutto, in strada).
Il tuo colore preferito?
Giallo.
Il tuo animale preferito?
I rapaci notturni in generale.
Il tuo scrittore preferito?
Ne ho diversi: Walter Isaacson per le biografie, Murakami per i suoi romanzi, Bonatti e Moro per i loro racconti dalle spedizioni incredibili che hanno affrontato.
Il tuo film preferito?
Notting Hill (si è una commedia, lo so!).
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Sigur Ros.
Il tuo corridore preferito?
Lo è stato Marco Pantani, poi ho conservato stima e ammirazione per molti campioni.
Un eroe nella tua vita reale?
Non ho eroi, solo persone che con il proprio esempio sono in grado di darmi stimoli e ispirazione.
Una tua eroina nella vita reale?
Non ho eroi, solo persone che con il proprio esempio sono in grado di darmi stimoli e ispirazione.
Il tuo nome preferito?
Marco
Cosa detesti?
L’invidia e l’odio.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Mussolini.
L’impresa storica che ammiri di più?
La liberazione dal nazi-fascismo.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
Pantani a Guzet de Neige (dire Les Deux Alpes sarebbe stato troppo scontato).
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Scegliere di ritirarsi non è mai semplice.
Un dono che vorresti avere?
Maggior capacità di fregarmene.
Come ti senti attualmente?
In pace.
Lascia scritto il tuo motto della vita
“Se pensi è la fine, se pedali arrivi”.
Gaia Masetti vuole assomigliare a Marianne Vos
Nell'ottobre 2021, dopo due anni in Top Girls Fassa Bortolo, Gaia Masetti, a soli vent'anni, a fine stagione, era senza contratto: il passaggio nella categoria under23 aveva portato molti problemi fisici, lei stessa non si riconosceva più, nei pensieri c'era un altro lavoro. Se le cose non fossero cambiate, avrebbe provato il praticantato presso lo studio di qualche geometra, pur dubbiosa, a causa della sua indole di ciclista, di fronte all'idea di stare tutto il giorno alla scrivania, in ogni caso quel curriculum da inviare era già pronto. I rimpianti non facevano parte di quelle giornate autunnali, si ripeteva che più di così non poteva fare e, per rendere il ciclismo il suo mestiere, aveva davvero messo in campo tutto l'impegno dovuto ed ogni rinuncia necessaria. Ricorda che era poco più che una ragazzina, ed il ciclismo era solo un gioco, quando rifiutava ogni invito a ballare, la sera, anche in inverno, per il resto, nessun drink alcolico e le persone accanto a ripeterle: «Gaia, sei giovane. Se non le fai adesso queste cose, quando mai le farai? Lascia perdere il ciclismo, divertiti!». Non le ha mai ascoltate ed è certa di aver fatto bene: «A me non interessava: fosse anche restato solo un divertimento, volevo che fosse un divertimento serio. Non era ancora un lavoro, io, però, mi comportavo come se lo fosse. Difficile da capire e difficile da spiegare, ma io non so fare che così con gli impegni che mi prendo». Il rammarico, invece, era ben presente. Suo padre era stato amatore, aveva smesso rendendosi conto che il mondo amatoriale non gli corrispondeva più, suo fratello, Simone, aveva corso diverso tempo in bici, si era dovuto fermare a causa dell'asma da sforzo, così forte da rendere impossibile una carriera professionistica. Lei, cresciuta a pane e ciclismo, tra le mura di casa, «succede sempre così con la bicicletta», aveva avuto molti dubbi sull'iniziare a gareggiare, in quanto si trattava ancora di uno sport praticato maggiormente a livello maschile: all'improvviso una gara, un'altra, risultati, vittorie e pure l'orgoglio di essere dapprima una bambina, poi, una ragazzina che ce l'aveva fatta, in mezzo a tanti ragazzi. Non avere un contratto significava rimettere tutto in discussione, decidere che anche per lei era finita. Su tutto prevaleva un dolore sottile e pungente, perché aveva sentito quel che alcune persone, a lei vicine, dicevano: «Mi è arrivato addosso tanto schifo. Non ero preparata, non lo meritavo. Erano parole pesanti, di quelle che fanno davvero pensare di smettere. Non è successo perché il ciclismo era più importante, ma quello schifo sputato addosso mi ha fatto male, fatico a non pensarci».

Nel giro di un anno o poco più, il quadro era cambiato quasi completamente: il contratto l'aveva firmato con AG Insurance-Soudal Quick Step e, passato qualche mese, aveva capito che, se l'impegno fosse rimasto costante, il ciclismo sarebbe davvero stato il suo mestiere per diversi anni. Nelle prime settimane, tuttavia, a fronte di quel contratto, le difficoltà erano tante, forse ancora maggiori. Il Belgio non è così lontano, però, la prima volta in cui, ad inizio 2022, le è stato detto «al termine del ritiro di gennaio, resti con noi fino al Fiandre», anche Gaia Masetti ha avuto dubbi, timori. «Il carattere delle persone si forma, è qualcosa di dinamico. Il ciclismo per definizione contribuisce a modificarlo ed una delle prime volte in cui avviene è quando fai la valigia e vai lontano da casa per mesi. A molti sembra solo una valigia, in realtà, è enorme quell'istante, uno di quelli in cui ripensi all'essere donna ed alla scelta che hai fatto, che quella valigia ti costringerà a farla spesso. Partivo per tre mesi e, di fatto, partivo con estranei, con abitudini completamente diverse dalle mie e, anche volendo prescindere da questo, con persone che non conoscevo per nulla e con cui dovevo condividere tutto».

L'inglese è da perfezionare, Gaia Masetti è abbastanza introversa, tende a chiudersi, Jolien d'Hoore, suo direttore sportivo, le confesserà tempo dopo che, al primo ritiro, era talmente silenziosa ed in disparte, che lei non l'aveva quasi notata. «Mi capita di pensare alle volte in cui sono restata attaccata al ciclismo solo per la passione che ho e quel ritiro ne fa parte. Sarei tornata a casa, poi ho pensato a me, al fatto che quello che volevo diventare era più importante, lo era sempre stato». In quei mesi, i genitori, a casa, vedevano le sue gare in streaming: dure, talvolta durissime. Sicuramente si tratta di situazioni a cui Gaia Masetti non è abituata, le gare open a cui partecipava in Italia non avevano nulla a che vedere con la nuova realtà: «La classica gara open italiana prevede circa novanta chilometri con uno strappo di tre, quattro chilometri. La mia prima corsa all'estero è stata la Omloop Het Nieuwsblad: ho sofferto come un cane. Mi sono detta che forse avevo sbagliato a non andare a lavorare». Spiega Masetti che, in un percorso simile, «le mazzate sui denti sono all'ordine del giorno, se non ti stacchi, resti attaccata al fondo del gruppo a bocca aperta, altrimenti ti ritiri e pensi ai tuoi genitori che a casa hanno visto un altro tuo ritiro, l'ennesimo». Si tratta del periodo in cui, al termine di ogni gara, Masetti parla con D'Hoore, le dice che per lei è un altro ciclismo, completamente diverso da quello italiano, votato all'attendismo e all'azione finale, un ciclismo in cui, forse, si è sempre riconosciuta, per questo si definisce "italiana atipica", ma ha bisogno di tempo, deve capire, migliorare, imparare ad usare tutte le energie, con intelligenza, senza risparmiarsi mai, convincersi del fatto che, a forza di fare tutta quella fatica, i risultati arriveranno. Pare impossibile, dato tutto l'acido lattico che, in quei continui sforzi, le invade i muscoli, ma accade. Il 5 maggio 2023, Gaia Masetti conquista "La Classique Morbihan".

«Ho detto finalmente. Finalmente quella rabbia e quel dolore che mi portavo dentro per non essere stata capita si erano trasformati in una dimostrazione. Avevo lavorato per mostrare che, quell'autunno, si erano sbagliati e ci ero riuscita. Quella vittoria è stata soprattutto una rivincita. Forse sono fatta male, ma, in qualche momento, penso che vorrei farla vedere a chi mi ha deluso, far vedere cos'è successo». Sorride quando le chiediamo del Tour de l'Avenir, la sua prima volta in maglia azzurra, con atlete che non conosceva, con cui ha subito cercato di fare squadra, uno dei pilastri del ciclismo, nella sua filosofia, una delle più belle esperienze della sua carriera: «Credo di poter far bene su tutti i terreni. Ho scoperto, e non me l'aspettavo, di tenere anche a cronometro. In salite brevi, dai due, tre, ai sei chilometri, riesco a essere incisiva. Non sarò mai una scalatrice da grandi montagne, non è nella mia genetica, ma posso ancora crescere. Mi piacciono le classiche, sogno l'Amstel Gold Race e vorrei assomigliare a Marianne Vos». L'Amstel Gold Race l'ha scoperta alla seconda partecipazione, alla prima l'aveva detestata, odiata. Al ritorno, non solo ha capito che potrebbe essere la gara perfetta, ha anche avuto la certezza di quanto sia vero che il pubblico riesca a farti andare più forte, a fare meno fatica. Quando lo sentiva dire, lo leggeva, faticava a crederci. Marianne Vos, invece, l'ha sempre scrutata, cercando di cogliere ogni segreto, ogni dettaglio: quando, al Fiandre, le si è affiancata per complimentarsi del lavoro della sua squadra non voleva crederci: «Marianne Vos che parla con me? Che mi fa i complimenti? Ma ci rendiamo conto?».

Da bambina che guardava il ciclismo in televisione e ammirava l'eleganza di Alberto Contador, insomma, Gaia Masetti ce l'ha fatta davvero e, oggi, per sua stessa ammissione, la sua vita è al novanta percento legata al ciclismo: «Questo tipo di quotidianità tende ad allontanarti dalle amicizie, perché sei all'estero e perché è una vita che è difficile da capire e da accettare. La mia più grande amica mi conosce da anni eppure spesso ha dubitato, non ha compreso. Ora, che è un lavoro, sono aumentate le responsabilità, è aumentato quel che pretendo da me stessa, ma forse è aumentata anche la comprensione dall'esterno». Alle gare, ogni tanto, c'è anche Simone, il fratello: non da molto tempo, a dire il vero. Dopo aver lasciato le corse, a lungo è stato lontano dall'ambiente, abita vicino a Maranello, e lavora in un'azienda che costruisce le scocche per Ferrari, talvolta le fotografa anche, perché è appassionato di fotografia: «Un piccolo passo, ma mio fratello è tornato. Quella macchina fotografica ha iniziato anche a far foto alle cicliste. Averlo lì significa tanto, soprattutto significa poter parlare, confidarsi con sincerità estrema. Sono felice ed anche dispiaciuta perché so quanto avrebbe potuto dimostrare in sella. Però è tornato, va bene così».

Dopo tanti giorni lontana, quando torna a casa, Gaia Masetti prende la bicicletta e va verso Rocca Malatina: lassù c'è solo natura e tre rocce gigantesche, nelle cuffie soft rock e Indie, attorno il silenzio. Mentre lei che voleva diventare continua a diventare quel che vorrebbe essere, una ciclista molto simile a Marianne Vos.
Questionario cicloproustiano di Damiano Caruso
Il tratto principale del tuo carattere?
Schiettezza e sincerità.
Qual è la qualità che apprezzi in un uomo?
Onestà.
Qual è la qualità che apprezzi in una donna?
La femminilità.
Cosa apprezzi di più dei tuoi amici?
Che la loro amicizia è riferita alla mia persona e non alla mia figura.
Il tuo peggior difetto?
Sono un poco lunatico.
Il tuo hobby o passatempo preferito?
Quando è possibile, dedicare il mio tempo a famiglia e amici.
Cosa sogni per la tua felicità?
Seguire il percorso di crescita dei miei figli.
Quale sarebbe, per te, la più grande disgrazia?
Perdere la voglia di vivere.
Cosa vorresti essere?
Una brava persona e un buon padre.
In che paese/nazione vorresti vivere?
Italia.
Il tuo colore preferito?
Blu.
Il tuo animale preferito?
Cane.
Il tuo scrittore preferito?
Omero.
Il tuo film preferito?
Rocky.
Il tuo musicista o gruppo preferito?
Freddie Mercury.
Il tuo corridore preferito?
Damiano Caruso.
Un eroe nella tua vita reale?
Qualsiasi persona che aiuta un’altra persona in difficoltà.
Una tua eroina nella vita reale?
Mia moglie.
Il tuo nome preferito?
Oscar e Greta.
Cosa detesti?
L’ipocrisia.
Un personaggio della storia che odi più di tutti?
Tutti quelli che sono stati causa di morte di persone innocenti.
L’impresa storica che ammiri di più?
Il sacrificio dei giudici Falcone e Borsellino.
L’impresa ciclistica che ricordi di più?
La mia, sull’Alpe Motta, al Giro d’Italia nel 2021.
Da quale corsa non vorresti mai ritirarti?
Da nessuna,
Un dono che vorresti avere?
Mangiare senza ingrassare.
Come ti senti attualmente?
Felice.
Lascia scritto il tuo motto della vita
Puoi mentire agli altri, ma non puoi mentire a te stesso.