Auguri, Sceriffo

La strada che sale a Maso Warth è ripida e tortuosa. Si arrampica tra le vigne, curate meticolosamente.
Siamo arrivati davanti alla cantina Moser alle 19, ormai era sera. Dalla mattina presto eravamo in giro attorno a Trento per scattare foto per un servizio sui Campionati Europei di ciclismo che si svolgeranno proprio nel capoluogo trentino a metà settembre. Non è che ci presentassimo benissimo, sudati, malconci, vestiti metà da bici e metà no. Fermate le auto davanti alla tenuta, non c’era nessuno, a parte un uomo, con due cani, che armeggiava in un garage con delle cassette di legno. Decido di scendere per chiedere informazioni. Quando quel signore alza la testa, mi pianta gli occhi in faccia e lo riconosco al volo: lo Sceriffo.

Immaginate di trovarvi in casa di Moser, davanti a Moser a chiedere informazioni su dove andare a parcheggiare l’auto.
«Ehm… Buonasera signor Moser, avevamo un appuntamento con Carlo. È un piacere, è un onore…».
Quelle cose lì che si dicono goffamente quando si è in imbarazzo e ci si ritrova davanti un’icona dello sport. Lui, dopo avermi squadrato e probabilmente dopo aver ricordato che avrebbero dovuto arrivare dei giornalisti e dei fotografi della rivista Alvento, invece non era in alcun imbarazzo. I due cani Lindsey (da Lindsey Vonn) e Tom (da Tom Boonen) - ho colto quando diceva questa cosa, ma non ho afferrato il perché si chiamassero così - hanno iniziato a saltarmi addosso per farmi le feste e per prima cosa si è premurato di ribaltare Lindesy pancia all’insù e mostrarmi una lunga cicatrice, spiegandomi il decorso clinico di un intervento a cui l’anziana cagnolona era stata da poco sottoposta.

«Non sopportava quell’ostia di collare, com’è che si chiama…».
«Elisabetta?»
«Ma no, si chiama Lindsey. Dicevo il collare!»
«Eh, sì, collare Elisabetta, quello che mettono ai cani perché non si lecchino le ferite».
«Ma no, insomma quel collare là che si mette ai cani. Ma non lo sopportava povera bestia. Allora ho preso una maglietta da ciclismo. Era di una granfondo, forse la Charlie Gaul del Bondone, e gliel’ho messa su, così stava bella protetta e non si leccava. Ah, è guarita una meraviglia, altro che il collare».

Insomma, dall'imbarazzo di quell'incontro casuale, avevo rotto il ghiaccio con Francesco Moser.
A seguire ha poi accompagnato me e il resto della banda di Alvento a visitare la sala degustazioni della cantina, le viti, le piante di ciliegie, avrebbe sciabolato un 51.151, il suo metodo classico dedicato al record dell’ora, e soprattutto ci avrebbe incantati mostrandoci la sala dei trofei e snocciolando un aneddoto dopo l’altro.
Noi, naturalmente, tutti a bocca aperta.

In bacheca, il Checco vanta un Giro d’Italia, 3 Parigi-Roubaix, 3 Giri di Lombardia, una Freccia-Vallone, una Gand-Wevelgem, una Milano-Sanremo, un campionato del mondo su strada e uno su pista nell’inseguimento individuale.
273 vittorie su strada da professionista: primo ciclista italiano per numero di successi, terzo al mondo dopo Eddy Merckx e Rik Van Looy.
Con il suo record dell’ora, stabilito a Città del Messico nel 1984, cambiò per sempre il ciclismo, spingendolo verso il futuro e i giorni nostri.

Oggi Francesco Moser compie settant’anni.
Tanti auguri allo Sceriffo del ciclismo italiano, uno dei più grandi campioni della storia di questo sport.

Foto: Jered Gruber


Non è solo un lavoro: intervista a Rachele Barbieri

Sin dalle prime pedalate, Rachele Barbieri ha sempre avuto ben chiara una cosa: il ciclismo non avrebbe mai potuto essere un lavoro come tutti gli altri. «Di essere ciclista non smetti mai. Si tratta di un lavoro che ti assorbe completamente, da cui non esistono pause. Anche quando la stagione finisce, tu non puoi dimenticartene. Non esistono ferie dal ciclismo, per un semplice motivo: se ti dimentichi di essere ciclista, il ciclismo te la fa pagare. È un privilegio, qualcosa per cui essere grati, ma è faticoso, talvolta molto faticoso». Rachele è certa che, per comprendere al meglio queste parole, sia necessario vivere la realtà di un professionista, così ci porta subito qualche esempio. «Come tutti sanno la nostra alimentazione è controllata nei minimi dettagli, così quando ci sediamo a tavola, nei ritiri, tutto è dosato. Persino la quantità di Parmigiano per la pasta nella formaggiera. Talvolta succede che qualche ragazza ne prenda poco di più e per le altre non ne resti abbastanza. A noi è capitato di discutere per questo. Niente di grave, ci mancherebbe, ma la tensione porta anche ad esasperare certe situazioni».

Rachele Barbieri ammette di essere sempre stata una ragazza molto competitiva: «Del resto chi non lo è? Ogni volta che veniamo a Montichiari ad allenarci, in fondo, ci giochiamo un posto per un traguardo importante. Ognuna di noi vorrebbe ottenere la maglia azzurra di un Mondiale o di un'Olimpiade, così battagliamo per riuscirci. Non credo sia un problema. L'importante è che ci siano dei limiti ben definiti e che si abbia anche chiaro quale sia la cosa migliore per la squadra». In questo, prosegue la ventiquattrenne di Pavullo nel Frignano, aiutano particolarmente due aspetti. «Sappiamo bene di avere tutte dei valori importanti, così, se viene preferita un'altra ragazza, per quanto la delusione sia forte, si ha la certezza che farà bene, perché si conosce il suo valore. D'altra parte, nella vita, non solo nel ciclismo, è necessaria una buona dose di onestà intellettuale per riconoscere quando qualcuno sa fare qualcosa meglio di te. Che non significa che tu non vali nulla, solo che qualcuno, in questo momento, è più adatto di te per quel ruolo».

Barbieri ha un modo particolare di vivere il rapporto con la maglia azzurra. «Quando non sono stata convocata al Mondiale, ho preso la maglia, l'ho chiusa in un cassetto e non l'ho più guardata per diversi giorni. Sentivo mia quella casacca e non poterla indossare mi ha lasciato nello sconforto. È difficile da spiegare, ma tu senti tua la maglia azzurra quando hai la percezione di poter fare qualcosa di importante indossandola, diversamente può anche far paura».
Della pista, Rachele continua ad amare ciò che nei primi tempi la spaventava. «Se ho trovato il coraggio di salire in sella, la mia prima volta a Cento, è stato solo perché, essendo competitiva, non potevo sopportare che le altre bambine ci riuscissero ed io no. Poi ho scoperto quanto sia bella l'imprevedibilità dei velodromi, quella continua serie di scatti e rilanci che lasciano tutto incerto sino all'ultimo secondo. Pensa per uno spettatore cosa deve significare potersi sedere in tribuna e aver sempre sott'occhio tutto ciò che accade. Nel ciclismo su strada non succede mai, vediamo secondi, frammenti, la pista ti mostra tutto, anche il dietro le quinte».

Sorride quando pensa all'Olimpiade e torna ad analizzare, nel continuo tentativo di capire e migliorare. «Credo di avere nello spunto veloce un punto di forza, per questo preferisco gare brevi, come lo scratch, che mettono in risalto questa mia capacità. L'omnium è il sogno di tutte. Io sto lavorando sulla resistenza perché vorrei far parte anche della madison, non solo del quartetto. Sono 120 giri in cui devi essere a tutta, con l'unico sostegno della tua compagna, ed è impensabile affrontarla senza un gran lavoro alle spalle». Ma i Giochi Olimpici, per Barbieri, significano qualcosa in più. «Dire che sono un traguardo ambito per gli atleti è quasi scontato. Mi piacerebbe invece parlare di quanto siano importanti per le persone che ci guardano da casa. Tutti si fermano qualche minuto a guardare le Olimpiadi, anche persone che allo sport non si sono mai interessate. Credo possano essere una buona medicina per non pensare per qualche ora a tutto ciò che ci sta accadendo da un anno a questa parte».

Foto: Paolo Penni Martelli


Lontano dal gruppo: intervista a Samuele Rivi

Quando alla Strade Bianche, durante la fuga, il cambio di Samuele Rivi, Eolo Kometa, si è rotto, lui ha iniziato a chiamare l'ammiraglia, ma nessuno è arrivato. «Continuavo a chiamare e non c'era nessuno. Il gruppo era ad andatura sostenuta e non potevano raggiungermi. Sono sceso di sella e ho continuato a piedi lungo quel tratto di sterrato. Camminavo e pensavo che, in fondo, il plotone era ancora lontano e sarei riuscito a ripartire prima del suo arrivo. Poi lo vedi che ti raggiunge e ti sorpassa a doppia velocità e tu puoi solo camminare, correre, ma lui va e non puoi farci nulla. Hai fatto di tutto per lasciarlo lì, più lontano possibile e, alla fine, è lui a lasciarti lì». Samuele Rivi quel giorno ha sofferto ed ancora oggi fatica a pensarci. «Sono un ragazzo introverso e questo nella vita di tutti i giorni può essere un problema. M nel ciclismo no, perché in bicicletta non ho paura di farmi vedere, di mettermi in mostra. Quando pedalo sono un'altra persona, molto più coraggiosa. In gruppo mi annoio e non ho ancora la capacità di fare la differenza nel finale e così mi sono inventato le fughe. Le situazioni vanno vissute, non subite».

E certamente in questo discorso ci sono le parole di Ivan Basso in quella riunione, prima della Tirreno-Adriatico. «Eravamo sul bus della squadra, quando ha preso la parola: “Se qualcuno, prima di una corsa come questa, non si sente dentro lo stomaco qualcosa di unico e particolare, significa che ha sbagliato mestiere. Pensateci“. Io avevo lo stomaco in subbuglio dalla sera prima. In queste occasioni, all'inizio, senti solo pressione, hai paura perché devi fare centottanta, duecento chilometri, e in strada può succedere di tutto». In fondo, però, se Rivi ha scelto il ciclismo è anche per questo. «Tu pensa a un ragazzino di dodici anni che, all'improvviso, si rende conto che con quella bici può fare trenta chilometri e andare, da solo, dove non era mai stato. Prima di quella Fondriest gialla, non avevo mai sfiorato una bicicletta da corsa, ma dopo questa scoperta non sei più lo stesso. Ti senti grande, cresciuto e da piccoli sentirsi vicini al mondo degli adulti è la più grande soddisfazione che possa immaginarsi».

Ancor di più perché Rivi è arrivato da solo al ciclismo. «Credo sia raro perché solitamente c'è sempre un padre appassionato, un nonno, uno zio o magari un fratello maggiore. Nel mio caso il ciclismo è stata una mia scoperta». Samuele è abituato a stare con i piedi per terra. «Certo, avrei voluto diventare un ciclista professionista ma la vita è fatta di doveri. Puoi desiderare qualunque cosa ma, fino a che non hai la certezza di raggiungerla, devi lavorare duro per un piano b, studiando ad esempio. Non puoi stare a girarti i pollici ripetendo ciò che tu sogni». Tanto più che, in alcuni giorni, Rivi è stato il primo a non credere più alla possibilità di fare il corridore. «Capitava quando mi trovavo a disputare gare internazionali e i buoni risultati ottenuti nelle corse di casa sembravano un lontano ricordo. Continuavo ad allenarmi ma, in fondo, pensavo di aver sbagliato strada. In quei momenti devi aver vicino persone che credano in te più di quanto ci creda tu stesso e ti ricordino ogni giorno qual è il tuo talento. Qualcosa di simile mi è accaduto alla Tirreno Adriatico di quest'anno, quando, dopo la prima tappa, soffrivo sempre più ogni giorno. Quell'esperienza mi è stata utile, mi ha ricordato che la fatica e la sofferenza ti ripagano sempre nel ciclismo».

Già, perché poi c'è la vita di tutti i giorni e, nella vita, è tutto più complesso. «Tutti ci ammirano per la fatica che facciamo ed il dolore che sopportiamo in sella. Io vorrei dire che nel ciclismo questi sono fattori quasi quotidiani, ma molto più facili da sopportare. Sapete perché? Perché il ciclismo poi ti ricompensa. Soffrire in bicicletta serve, per migliorare, anche per vincere. Da noi dopo una salita, c'è per forza una discesa. Nella vita quotidiana no. Puoi soffrire per molto tempo senza che nulla cambi. Puoi faticare senza ottenere nulla. Nella vita, talvolta, la sofferenza fa solo male, non serve a niente».

Foto: Maurizio Borserini


Il nuovo futuro di Martí Vigo

Quando Martí Vigo del Arco ha scoperto la bicicletta, la immaginava solo come un mezzo per evadere. «Era un periodo davvero difficile. Improvvisamente avevo iniziato a non ottenere più alcun risultato nello sci di fondo, mi sentivo sempre stanco, non riuscivo più a fare cose che fino qualche tempo prima erano la normalità. Esami su esami per cercare di comprendere la causa senza nessuna risposta. Iniziavo a non capire più nulla, ero confuso. Intanto cominciava anche a scarseggiare il denaro, perché in Spagna non eravamo benestanti. Poi ho scoperto di avere la mononucleosi».

Quella risposta tanto cercata, è sembrata quasi una beffa, perché, quando l'ha saputa, Vigo non ha provato sollievo ma ulteriore frustrazione. «Dovevo curarmi, ma avevo bisogno di allenarmi per tornare a vincere e a guadagnare. In più c'era l'università da finire e in quel periodo non avevo proprio la testa per mettermi sui libri». La bicicletta è stata il pretesto per provare a svicolare, per qualche ora, da quel groviglio di problemi in cui si era trovato.

«Almeno in quegli istanti cercavo di non pensare. Non era molto tempo da quando era mancato mio padre. Lui era fiero di me, sin da bambino mi aveva detto di pormi un traguardo e cercare di raggiungerlo perché è questo il senso dell'essere uomini. Ero quasi convinto di esserci riuscito con lo sci, ero arrivato alle Olimpiadi e mi ero tatuato i cinque cerchi per ricordarmi cos'era accaduto. Ora tutto sembrava cadere, come un castello di carta». Quando Vigo si accorge che ormai la sua mente non riesce più a vivere in maniera serena il suo sport, stacca la spina e pensa di inventarsi una nuova vita. «Alla fine - spiega - mi sono detto che ero già partito una volta da zero e ce l'avevo fatta, perché non dovevo darmi una seconda possibilità, perché continuare a soffrire a vuoto? La sofferenza ha un senso se ti permette di cambiare qualcosa».

Martí Vigo fa un test con Patxi Vila per correre in Movistar, poi incontra Maurizio Fondriest e da lì nasce l'idea Androni Giocattoli Sidermec. «Del ciclismo mi piacciono le giornate fuori con gli amici, dal mattino alla sera. A pedalare senza un motivo, solo perché ti senti meglio in sella che a casa. Certo, se diventa un lavoro le cose cambiano, ma di base il ciclismo è questo». Ricorda bene quando vedeva le gare in televisione e immaginava di essere in maglia rossa alla Vuelta perché «tutti i bambini che sognano di fare i calciatori si immaginano di vincere un mondiale, tutti quelli che sognano di fare i ciclisti vorrebbero vincere la corsa a tappe del loro paese».

Dallo sci al ciclismo sono cambiate molte cose, ma Vigo non ne è quasi mai stato spaventato, anche di fronte agli errori. «Se non sbagli, non impari e all'inizio si sbaglia sempre molto. Io per esempio non sapevo stare in gruppo ma era normale, non lo avevo mai fatto. Pesavo otto chili in più ed avevo un'alimentazione scorretta, perché per sciare si guarda la potenza non tanto il peso. Forse dietro il mio infortunio alla mano, quando sono caduto, c'è anche questa perdita di peso repentina». Vigo si trova a proprio agio quando la strada sale e forse in questo c'è qualche ricordo della montagna, di cui però ammette che non gli mancherà il freddo. «Al freddo mi sono abituato, ma, per quanto possa sembrare paradossale per un ex sciatore, a me piace il caldo».

In questi giorni sta provando la posizione sulla bicicletta da cronometro. «Molti mi dicono che per me dovrebbe essere naturale, perché anche nello sci si gareggia sui tempi. In realtà è molto diverso. La posizione aerodinamica che dobbiamo tenere in sella durante la cronometro è molto dolorosa, se non sei abituato. Ad un certo punto iniziano a tirarti tutti i muscoli e non sai più da che parte girarti». In Androni, Martí Vigo ha incontrato Eduardo Sepúlveda: «Condividiamo la lingua e posso assicurarti che non è poco. Quando arrivi in un ambiente nuovo, sapere che c'è qualcuno che capisce esattamente cosa vuoi dire è tranquillizzante. Si può tradurre, ma non è lo stesso».

Vigo è un ragazzo curioso, come chi vuole capire ed imparare. Per questo ogni meccanismo del proprio corpo lo affascina e, se ci pensa, sa già cosa farà un domani, quando scenderà di sella. «Continuerò a studiare fisioterapia e aprirò uno studio, per aiutare altre persone a conoscere il proprio corpo e a viverlo al meglio. Del resto, prima la mia passione era il ciclismo, ora, che è diventato il mio lavoro, sento il bisogno di qualcosa da tenere lì, a portata di mano, per alleggerire i momenti in cui sarò stanco o deluso. Pensare al futuro è una bella possibilità».

Foto: Luigi Sestili


Quel sogno chiamato Olimpiade: intervista a Martina Alzini

Martina Alzini ha iniziato a vincere sin da quando era bambina. Aveva solo sette anni quando, nel 2004, al termine di una gara, un giornalista le chiese quale sarebbe stato il suo sogno. «Risposi di getto che da grande avrei voluto partecipare alle Olimpiadi. Mia madre non la prese molto bene. La sera, in disparte, mi disse: “Si tratta di umiltà, Martina. È come se, appena iniziato a lavorare, dicessi che sogni la pensione”. Insomma, da quel giorno non lo dissi più, ma se penso anche solo alla possibilità di essere a Tokyo, mi si rompe la voce e mi viene la pelle d’oca».

Con mamma, Martina non ha più parlato di quel giorno ed oggi, ridendo, ammette: «Sto aspettando il momento giusto per ricordarglielo. Se le cose vanno come spero, potrebbe non essere lontano». Parole da cui trapela felicità, perché, prima di tutto, Martina Alzini è una ragazza felice. Sarà perché, come dice lei, fa un lavoro che la fa sempre sentire a casa, in famiglia, perché la bicicletta è di famiglia. «A tre anni ho voluto che i miei nonni mi togliessero le rotelle dalla bicicletta e solo quel cortile sa quante ne ho combinate. Quando succede così, poi, ogni volta che riprendi in mano la bici, anche a centinaia di chilometri di distanza, la mente torna lì e tu ti senti ancora quella bambina».

La forza dei ricordi e le radici che hai piantato ti tengono stretta, anche se le cose, inevitabilmente, cambiano. «Si inizia per gioco ed è giusto così. Guai a togliere ai più piccoli le domeniche spensierate nei parchi o in gara. Se quando penseranno al ciclismo, penseranno a quei tempi, avranno sempre un bel ricordo e non lasceranno mai la bicicletta. A volte la detesteranno, come accade a me, ma torneranno sempre in sella. Quei giorni gli daranno la forza per andare oltre».

Ed è proprio negli istanti di odio verso il proprio sport che nasce la consapevolezza. «Non è facile arrivare nel gruppo delle élite. Devi confrontarti con delle campionesse, con ragazze molto più grandi di te, a volte con mamme. Devi riconoscere i tuoi limiti, altrimenti la vita te li sbatte in faccia. Certo non è semplice ammettere che non sei portata per una certa gara o che quello che hai sempre sognato in realtà non è realizzabile, tuttavia, se non hai il coraggio di dirti la verità, non cresci». Crescere, per Alzini, vuol anche dire essere coraggiosi, imparare ad accogliere le critiche ed i consigli in maniera costruttiva. «Ho avuto la fortuna di crescere “sportivamente” con Marta Bastianelli. Lei è madre, non so come fosse prima della nascita di Clarissa, so com’è oggi ed è per questo che la chiamo “mamma Marta”. Sa insegnare con una cura rara, se hai voglia di imparare, solo guardandola diventi grande».

Crescere è faticoso, ti impone arbitrarie verità ma anche nuove possibilità. «Da giovanissimi si desidera tutto ed i sogni sono una sorta di massa informe, da adulti, forse, se ne hanno meno e molte ambizioni si lasciano per strada, ma i sogni che restano hanno una forma ben chiara, diventano progetti ed inizi a lavorarci». Lo zio di Martina gestisce una squadra di paraciclisti in handbike e lei ha imparato a lavorare in un certo modo proprio osservando loro. «Ho iniziato a conoscerli quando avevo solo pochi anni e a forza di vederli ho fatto mio un poco del loro modo di essere. Io dico che hanno una voglia incredibile di raggiungere dei traguardi. Ecco, a noi ogni tanto questo manca. Così passiamo il tempo a lamentarci, senza averne alcun diritto, perché siamo fortunati, solo che non lo vediamo».

Il suo lavoro è iniziato dalla pista, da un velodromo di Busto Garolfo, per poi transitare da Montichiari. Forse sarà proprio la pista a portarla a Tokyo, ma non è questo il motivo per cui Alzini la consiglia a tutti i genitori. «Io ho iniziato a girare in pista perché potevo pedalare tranquillamente senza la presenza delle auto. L’insicurezza stradale porta molti ad allontanarsi dal ciclismo. Perché non torniamo nei velodromi o nei boschi in mountain bike? Quando si prende confidenza con il mezzo, si va anche in strada».

L’Olimpiade, in ogni caso, sarà un tassello importante ma non un punto di arrivo. Martina è chiara: «Sarà una base per continuare a costruire con più convinzione, non un motivo per sedersi sugli allori. Non fa parte del mio carattere». Qui l’affondo: “Io non sono solo la ragazza che vedete sui pedali. La mia realtà quotidiana è ricca di sfumature, come il mio carattere. In bici sembriamo tutte forti, grintose, senza paure. Non lo siamo ed è bene ricordarselo e ricordarlo».

Fin dai tempi delle superiori Martina Alzini amava lo studio delle lingue e si immaginava viaggiatrice, una volta adulta. Oggi, che grazie al ciclismo ha viaggiato e continua a viaggiare, sa qualcosa in più. «Quando sei abituata a viaggiare, perdi la brutta abitudine, che spesso si ha, di giudicare “normali” o “corretti” solo i comportamenti che sei abituata a conoscere. Ti rendi conto che molte volte noi stessi sembriamo strani agli altri e capisci quanto si possa soffrire a essere considerati diversi. Viaggiare è una delle più grandi possibilità di comprensione della realtà che l’uomo ha».

Foto: Paolo Penni Martelli


La nebbia si è dissolta: intervista a Marta Cavalli

Qualcosa attorno a Marta Cavalli è cambiato, ma prima di tutto è cambiata Marta Cavalli. «Non molto tempo fa, ho sentito papà e mamma dire: “Guarda Marta, come è cresciuta!”. Loro mi hanno sempre appoggiato in quello che volevo fare, ora però c’è qualcosa di diverso. Ora mi hanno lasciata libera, mi guardano da lontano e sono fieri del mio lavoro perché “Marta è grande e si gestisce da sola, sceglie da sola”. La chiave è stata il mio passaggio alla Fdj – Nouvelle Aquitaine – Futuroscope: è come se, dal mio arrivo qui, avessero capito che ce l’ho fatta».

Marta Cavalli è orgogliosa, perché, come ci racconta, questo è il momento in cui i figli sono più felici. E pensare che questo cambiamento di squadra è nato per caso, da una battuta, perché Cavalli non è mai stata una ragazza dai cambi repentini, dall’istinto feroce, quando Marta doveva scegliere c’era sempre la voce della coscienza che le diceva di aspettare, che ci sarebbe stato tempo, che negli undici anni in Valcar era cresciuta molto e non c’era motivo di rivoluzionare tutto. «Io vivo a Cremona e qui la nebbia è di casa. Mi piace dire che è come se ad un tratto fossi uscita da un banco di nebbia e mi fossi resa conto che era il momento di provare. Sai, io ero una di quelle ragazze che, per timidezza, non parlava nemmeno con le compagne, il ciclismo mi ha aiutato a sciogliere questa difficoltà perché mi ha scaraventato in alcune situazioni e lì devi cavartela da sola. Credo sia stata anche questa crescita a darmi il coraggio di lasciare la porta aperta ad altre strade. L’incredibile è che come ho accettato di mettermi in discussione, ho visto quante opportunità c’erano, quante squadre mi cercavano».

A fine estate Marta Cavalli parla con il Team manager della Fdj. «Fino a quel momento avevo trovato tante squadre che mi elencavano traguardi da raggiungere. In Fdj non mi hanno parlato solo di un obiettivo mi hanno indicato una strada da percorrere e da raggiungere, nel lungo termine, a fine 2022. La differenza è profonda: nelle squadre in cui si parla solo di gare da vincere o di piazzamenti da conseguire, tu sei trattata come una regina sino a che le cose vanno bene, come sbagli, come perdi qualche colpo, corrono a fartelo presente, a dirti che loro ti pagano per fare risultati e non c’è tempo, quei risultati devi farli subito. Tu sei già in crisi perché non stai bene, discorsi di questo tipo ti gettano nell’ansia e nello sconforto. Dove, invece, c’è un percorso, c’è serenità, perché non sei sottoposta a un continuo banco di prova: sai che devi lavorare duro, ma c’è tutto il tempo per farlo. Le persone intorno a te non cambiano atteggiamento nei tuoi confronti se sbagli, perché vogliono accompagnarti e l’errore è parte del processo di crescita».

Per crescere e sopportare gli errori bisogna affrontarli nel modo corretto, a questo servono le tante riunioni con i direttori sportivi del team: «Ci hanno subito detto che a loro non interessa di chi è l’errore. L’importante non è chi sbaglia, l’importante è l’atteggiamento da cambiare. Così, nelle riunioni, non si fa nemmeno un nome. Si parla di scelte, di strategie, anche di errori, ma non di persone da mettere alla berlina perché protagoniste di quegli errori».

Ogni tanto, durante queste riunioni, l’attenzione delle ragazze è disturbata da Cecilie Uttrup Ludwig. «Cecilie chiacchiera continuamente, è l’opposto della studentessa modello. La riprendono e lei scoppia a ridere, poi ridiamo tutte e la riunione si ferma. È esattamente come la vedete, con tutte le sue facce buffe. Ogni tanto sbaglio qualche verbo in inglese e mi guarda stranita, ma mi fa morire dal ridere. Può esserci vento forte, acqua, freddo, lei è felice e ci dice: “Pensate che goduria la doccia calda dopo”. Che maschera!». Marta Cavalli racconta che, forse, questo è l’atteggiamento tipico delle ragazze nordiche. «Hanno una particolare delicatezza nel vivere questo lavoro. Al termine di un allenamento, Emilia Fahlin ci ha prese da parte: “Ragazze, ora devo dirvi una cosa. Però dovete sapere che non c’è nulla di male, che non è un rimprovero, voglio parlarvi perché se parliamo va tutto meglio e siamo tutte più serene”. Capisci il tatto? Per un carattere come il mio è fondamentale».

Quando parla di queste attenzioni, Cavalli si illumina, come quando parla di sua sorella minore, Irene. «Lei è l’opposto di me e forse per questo andiamo così d’accordo. Solo fino a qualche anno fa, ero io che le riservavo le migliori attenzioni. Un mese fa, siamo state assieme a Sanremo, io uscivo al mattino per l’allenamento e lei stava in casa a sistemare tutto. Mi faceva trovare la pasta pronta, mi comprava ogni cosa di cui avessi bisogno, mi coccolava. Non è scontato. Può capitare di pensare che chi fa ciclismo pedali solo, di non rendersi conto dei sacrifici che impone questo lavoro. Se lo pensano gli estranei, te ne fai una ragione, ma se lo pensa qualcuno di casa ci stai davvero male. In quei giorni, ho visto che anche la mia “piccola sorellina” è diventata grande e ha capito tutto quello che le raccontavo quando mamma mi chiedeva di farle fare merenda e di proteggerla. Irene è il mio orgoglio».

Cavalli non ha dubbi sull’atleta che è e che vuole essere: «Sono una ciclista da classiche, da gare dure, con pavè e sterrato. Ora sono molto magra, molto esile, vorrei costruirmi una corporatura più possente, come Marianne Vos, Chantal Blaak e van der Breggen. Nel ciclismo di oggi è quello il fisico che ci vuole. Più in generale vorrei essere un modello per le ragazze più giovani. A me dicevano sempre: «Elisa Longo Borghini è nel posto giusto, Tu guardala e segui la sua ruota». Ecco, vorrei che, fra qualche anno, un direttore sportivo dicesse questo di me».

Foto: Thomas Maheux – per gentile concessione di Marta Cavalli


Vorrei essere come Alaphilippe: intervista a Santiago Umba

Santiago Umba è nato nel novembre del 2002. È esile, un colibrì, come nella miglior tradizione colombiana. Non ha paura. «Non ci ho dovuto pensare molto. Certo, lascio Arcabuco, la mia città, la mia famiglia ed i miei amici, ma so che loro sono orgogliosi di quello che sto facendo. Quando sono partito erano dispiaciuti, ma nei loro occhi si leggeva tanta dignità, tanta fierezza».

Accanto a lui c’è Gianni Savio, il team manager dell’Androni Giocattoli Sidermec. «Alla Vuelta al Táchira, in Venezuela, l’ho preso da parte e da padre gli ho detto: “Santiago, per molta gente tu sei un personaggio. Se farai bene, ti si avvicineranno in molti, si fingeranno amici, cercheranno di starti al fianco. Ricorda queste mie parole: non tutti saranno amici veri, sappi distinguere”. E Santiago mi ha guardato e con il suo solito sguardo colmo di educazione mi ha detto: “Lo so, Gianni. Ultimamente ci sono tante persone che mi cercano e che fino a qualche mese fa non mi guardavano neanche”. Non è solo forte in bicicletta, è anche di una maturità rara».

La stessa consapevolezza che traspare quando gli chiediamo di parlarci del suo carattere. «Mi piace la compagnia, mi piace ridere e scherzare, del resto a chi non piace? Ma nella vita bisogna saper distinguere. In certi momenti si può ridere, in altri serve serietà, testa bassa e lavorare».

Arcabuco è ormai distante e la sera che scende su Alassio è quanto di più distante da quella che vedeva dalle tende di casa sua, quando seguiva le imprese di Quintana in televisione. «Il calcio come il ciclismo ti permette di guadagnare molto e di migliorare la tua posizione economica. Io però non ho scelto la bicicletta per questo. Io l’ho scelta per realizzare un sogno».

Santiago Umba al suo primo allenamento in Italia con la maglia della Androni. (Foto: Luigi Sestili)

Matteo Malucelli si è sorpreso delle sue doti sui pedali proprio quando ha vinto la prima tappa della Vuelta al Táchira: i compagni che avrebbero dovuto far parte del suo treno sono caduti e Umba si è messo davanti a tirare per lui. Non solo. Dopo tre tappe complesse, Savio lo ha messo in guardia: «Non forzare la gamba, domani è una tappa difficile. Se non riesci a stare con i primi, lasciali andare». Santiago Umba, però, si mette in testa al gruppo. «All’arrivo gli ho fatto i complimenti – prosegue Savio – e gli ho chiesto come stesse. Sapete cosa mi ha risposto? “Come sto oggi? Ma oggi sto meglio di ieri!”. Incredibile».
«Ho il fisico da scalatore, ma ho anche spunto veloce e mi piacciono gli sterrati. Dovrò lavorare sulla velocità perché lo spunto non basta. Lo sprint è strategia pura: mi guardo intorno e cerco di imparare. Alla fine ho sempre fatto così. Anche ora che sono qui in Italia: voglio conoscere, voglio capire, sono curioso. Anche quando voi parlate italiano, io ascolto e provo a vedere quanto capisco». In Colombia lo paragonano a Julian Alaphilippe per caratteristiche e spirito. «Posso dirlo? Vorrei essere come Julian Alaphilippe. Vorrei vincere un mondiale e far vedere la mia maglia a tutto il mondo».

Umba appena tornato dal primo allenamento si è avvicinato a Giovanni Ellena: «Sai che sono appena caduto?». Ellena sorride come prima reazione. «Pensa che Bernal alla prima uscita con noi cadde dopo un paio di rotonde. Visti i precedenti, direi che promette bene, no?»

Ora noi possiamo immaginare gli occhi dei suoi genitori quando lo hanno salutato, li possiamo immaginare perché di sicuro somigliano molto agli occhi di Santiago mentre guarda Savio ed Ellena. «Mi trovo nel luogo in cui avrei sempre voluto trovarmi. Quando ho firmato il contratto avevo diciassette anni e mi hanno dovuto supportare i miei genitori, ma io dopo quella firma mi sentivo già qui. Capisci cosa intendo?». Lo capiamo noi e lo capisce anche Gianni Savio che gli mette una mano sulla spalla e inizia a parlare, a voce più bassa. «Questa è la tua intervista e sei arrivato qui da una manciata di ore. So che sei stanco e non vedi l’ora di andare in camera a riposare. Ricordati di questa intervista perché ne farai tante altre e racconterai tanto di te, tutto quello che vorrai. Ricorda questa intervista perché diventerai un grande. Ci proviamo? Scommettiamo? Ora vai a riposare. Domani ricomincerà tutto e tu sarai pronto».

Foto: Luigi Sestili


La storia di Natnael Tesfatsion

Il suo vero nome è Natnael Tesfatsion, ma in Androni Giocattoli Sidermec per tutti è “Natalino”. I massaggiatori ci raccontano che dopo vari tentativi e vari nomi sbagliati, glielo hanno chiesto: «Ti piace Natalino?», lui ha acconsentito e da allora il suo nome è quello.

Natnael è esattamente come potete immaginarvelo: tantissimi capelli ricci e un sorriso solare che si intravede anche dietro la mascherina. Ci racconta subito che non parla molto bene l’inglese ma, in compenso, conosce molte parole italiane. «Dopo la colonizzazione molti termini sono rimasti anche nel nostro linguaggio. Per esempio tutti quelli che riguardano la bicicletta: freno, manubrio, forcella, catena, rapporti. Non solo: anche scarpe e ciabatte. La prima volta che sono sceso a cenare in ciabatte i miei compagni ridevano e scherzavano, mi prendevano in giro. Li ho avvertiti: guardate che ho capito, so cosa sono le ciabatte». Racconta e sorride.

Poi ride di gusto pensando al suo arrivo in Italia. «Sono arrivato a marzo e nonostante qui si parli di primavera, io stavo congelando. Noi siamo abituati a venti gradi costanti, sono arrivato in maniche corte. La signora che mi ha ricevuto mi ha detto: «Ah ma allora sei già abituato alle nostre temperature, non le soffri». Non sapeva che ero praticamente ghiacciato». Natnael è nato ad Asmara, in Eritrea. «Qualunque cosa dicessi di Asmara, sarebbe una frase fatta. Sì, è la mia città natale ed è la mia terra. È il luogo dove vive la mia famiglia. Asmara è una vecchia città per bene. C’è aria di accoglienza, voglia di essere ospitali, di stare insieme. A noi piace la compagnia».

«Non sono il più bravo fra i ciclisti eritrei. Ce ne sono tanti meglio di me, ma purtroppo non hanno la possibilità di venire in Europa e correre qui. Sarebbero bravissimi, sarebbero l’orgoglio di tanti bambini che da grandi si immaginano vincitori del Tour de France, in maglia gialla. Anche io facevo quel sogno da piccolo. Lo faccio ancora oggi. Però è difficile, per loro è difficile anche solo pensare di intraprendere questa strada».

Vive a Lucca. «Mi piace molto la mia nuova città. Lì vicino c’è Pisa, con la sua Torre pendente e l’aeroporto. Per noi è un modo per sentirci vicino a casa, sappiamo che possiamo ripartire quando vogliamo. Ci dà sicurezza. Se ci fate caso tanti ciclisti eritrei vivono a Lucca o a Pisa». In Italia gli piace molto la pizza, di Asmara sente la mancanza di un piatto chiamato Injera. «Non saprei spiegare come è fatto, ma devi fidarti: è buonissimo. Se ci rivediamo te lo faccio assaggiare».

Natnael è molto religioso, per questo ha chiesto che il giorno di riposo possa essere la domenica, perché vuole andare a messa. Il suo credo pervade ogni campo, come un’essenza. «Sono uno scalatore, mi piacciono le montagne, mi piace scalare. Mi piace arrampicare. Tra l’altro, essendo scalatore, sento più vicino a me quel sogno: il Tour de France. Gli scalatori possono vincere il Tour. E a prescindere da questo, io sono certo che chiunque lavori duro, seriamente, possa fare grandi cose. Anche se sembrano impossibili. Se ti impegni, devi crederci, ci arriverai. Se non potessi realizzarle, non avresti neanche la possibilità di sognarle. Ne sono certo».

Foto: Luigi Sestili


I significati della fuga: intervista a Mattia Bais

Mattia Bais è cresciuto con l’insegnamento dei fatti. «Mio papà è imprenditore edile ed ogni mattina si alza prestissimo per andare a lavorare. Pochi fronzoli, solo la consapevolezza di dover fare il proprio dovere». Che poi il ragazzo trentino abbia una certa idea del ciclismo, forse, è solo la conseguenza. «Da grande vorrei essere come Thomas De Gendt, come Alessandro De Marchi. Puoi fare qualunque cosa nella vita ma non devi dare nulla per scontato, perché, di base, non ti è dovuto nulla. Io volevo diventare un ciclista professionista e ci sono riuscito, mi sentirei in grato se non ci mettessi tutto me stesso in ogni gara. De Gendt e De Marchi fanno questo. Andare in fuga è uno dei tanti modi per fare questo».

Bais gesticola, attorciglia le mani, come se stesse plasmando il pensiero proprio con quelle mani. «Non credo di aver mai avuto alcuna dote eccezionale. Sono sempre stato uno dei più minuti del gruppo: nelle categorie minori quando scattavo sorprendevo tutti, forse perché non se lo aspettavano. Quello che sono l’ho costruito. Se passi da un percorso simile al mio, certe cose fanno talmente parte di te da non riuscire più a rinunciarci. Fanno parte di te perché senza di loro, tu non saresti qui».

Mattia Bais parla della fuga, dell’essere fuggiaschi. «La libertà della fuga è un qualcosa di diverso dalla libertà del ciclismo. In fuga devi volerci andare. Si tratta di quella libertà che solo la fatica ti permette di conquistare. Non c’è libertà, senza fatica». Come quella volta al campionato italiano 2019, quando in fuga dal mattino si fermò a due giri dal traguardo e su un marciapiede parlò con Gianni Savio. «Savio ha capito subito tutto il senso che ha per me la fuga, l’essere davanti da solo a imporre il proprio ritmo. Ma, se ci pensi, lo capisce qualsiasi persona che sia sulla strada a guardarci. In certi tratti di di strada non può succedere praticamente nulla. Il massimo che ti può capitare è di vedere qualche coraggioso che va via da solo. La gente si entusiasma a vederti scattare in testa al gruppo, anche se mancano duecento chilometri e la domanda più logica da fare sarebbe: “Dove credi di andare?”. La gente non te lo chiede perché lo sa. Lo ha provato sulla propria pelle più volte di quante tu possa immaginare».

Bais racconta che quando scatta non si chiede quasi mai come andrà a finire. «Devi usare la testa in quel momento. Devi controllare i tuoi avversari, studiare il percorso e sapere cosa vuole il gruppo. Solo così puoi pensare di sorprenderlo. La fuga è un’avventura e come ogni avventura richiede istinto, coraggio, sfrontatezza ma anche pianificazione, progettazione».

La sua fuga più cara è quella dello scorso anno alla Milano-Sanremo. Quando è tornato a casa, si è messo davanti alla televisione e si è rivisto la corsa. «Quando sentivo il mio nome avevo la tentazione di tornare indietro e riascoltare da capo perché non ci credevo. Come appena passato professionista quando lo dicevo e nessuno ci credeva, ma in realtà ero io stesso a non crederci. Credo sia stata la Sanremo più lunga della storia, io ho fatto 275 chilometri in fuga, davanti a tutti, sono arrivato al traguardo, l’ho conclusa. E mi sono detto subito: “Qui voglio ritornarci e voglio rifare lo stesso”. Perché poi ti riprendono, poi non vinci, poi arrivi sfinito e mentre gli altri festeggiano ti accasci da qualche parte. Quello che provi in quei momenti vale tutto questo e non te lo può raccontare nessuno. Lo sai se lo hai provato».

In quei momenti non c’è quasi nessuno e chi c’è vale tutto. «Il direttore sportivo è la nostra guida e questo vale sempre. Il rapporto con lui lo costruisci quando sei a tutta, quando sei sfinito, quando puoi solo fare fatica. Quando sei solo in un tratto di strada in cui non c’è nulla e senza la sua voce ad incitarti, senza quella borraccia piena d’acqua o quel panino, non sapresti nemmeno più cosa pensare. Senza quella voce, in certi istanti, ti fermeresti a bordo strada ad aspettare il gruppo. Forse non ci pensiamo abbastanza ma siamo debitori a chi ci guida. Perché la strada la perdiamo tutti, prima o poi. La fuga è un’opportunità per ritrovarla».

Foto: Luigi Sestili


Storie di terre e di pedali: intervista a Giovanni Ellena

Giovanni Ellena era a pochi chilometri da Alassio, a Laigueglia per la precisione, quando nel 2006 entrò in sala per la prima riunione da direttore sportivo. «Entrai in questa sala e tutti si voltarono a guardarmi. Sono timido, introverso, puoi immaginare come mi sia sentito. Ero un direttore sportivo che non era mai stato professionista, solo dilettante. Alcuni colleghi mi avevano conosciuto durante un corso organizzato dalla federazione nel 2002 e avevano apprezzato questa mia timidezza, questo mio essere silenzioso. Ma io avevo paura, una paura incredibile. Però quando salivo in macchina mi passava, terminavo le corse quasi senza accorgermi».

Giovanni smette di correre perché deluso, da se stesso, dalla propria genetica, sa di non poter essere un campione ma vuole lavorare, fa il lavoro più distante da ciò che è: l’agente di commercio. Torna nel ciclismo per questioni affettive, perché quando accompagna dei ragazzi in allenamento, e poi alle gare, si rende conto che non vuole essere da nessun’altra parte se non lì. «L’unica volta in cui presi sette a scuola fu un tema di geografia: non perché fossi particolarmente bravo in geografia, ma perché conoscevo l’argomento, perché sapevo cosa dire. Io qui mi sento al mio posto ma allo stesso tempo mantengo l’idea di essere l’ultimo arrivato con una continua voglia di imparare. Non c’è nulla di filosofico, è quello che ti permette di restare in piedi».

Ellena parla dell’allenamento di ieri: offre un panino con il prosciutto a Natnael Tesfatsion, lui lo rifiuta. «Essendo ortodosso, a mio avviso poteva mangiare il prosciutto, così sono andato in camera da lui e ho cercato di capire. Ieri sera ho letto, mi sono documentato. Il maiale ha due unghie, per loro questo ricorda il diavolo. Vedi? Devi studiare e farti un esame ogni mattina. Altrimenti rischi di essere offensivo, di essere blasfemo».

Questo approccio volto alla comprensione è il grande credo di Ellena. Pochi giorni fa, Giovanni si è recato a prendere Andrii Ponomar, uno dei nuovi acquisti della Androni Giocattoli Sidermec, in aeroporto. «Non ha parlato per due, tre giorni. Non credo sia timido, è solo figlio della sua terra, forse un po’ freddo. Siamo stati a Torino a fare una visita cardiologica. Al ritorno l’ho guardato e gli ho detto: “Ma hai visto Zootropolis? Quel medico assomigliava da matti a Flash, il bradipo”. Gli si è accesa una lampadina ed è scoppiato a ridere: “Flash! Flash!”. Adesso, ogni volta che mi vede sorride e mi dice “Flash”. Per dire quanto basti poco. Ognuno ha una sua chiave per aprirsi».

In questi giorni Ellena ha aiutato anche Santiago Umba con le pratiche del volo, l’altra notte alle tre era sveglio per preparare tutte le carte, ma non solo. «In sostanza l’ho messo in sella in collegamento Skype. C’era suo papà che lo filmava sui rulli ed io gli spiegavo come fare. Secondo me può fare molto bene anche in volata, ha i numeri». Questi sono i ragazzi su cui Androni ha sempre scommesso. «Le cose sono cambiate radicalmente dai tempi di Rujano e di Serpa. Loro sono arrivati qui già adulti, sapevano già bene cosa fare. Con Sosa e Bernal è stato diverso: loro sono cresciuti con noi, erano ragazzini. Significa lasciare la propria terra e ritornarci, forse, due volte l’anno. Quanto è difficile? Sosa viveva in una cascina in mezzo ai campi, in una casupola. Ora vive con Egan Bernal e altri connazionali in un albergo-ristorante nel canavese. Il proprietario di questo ristorante ha delle galline: lui si sente a casa, la mattina scende e dà da mangiare alle galline».

Piera, la padrona di casa, racconta che Sosa la aiuta ad alzare le tapparelle del locale. «Il problema è che lui le alza anche al lunedì e noi al lunedì siamo chiusi». Così questi ragazzi vivono nel canavese ma si sentono in famiglia, cenando in cucina davanti a un camino, con le persone che gli vogliono bene. Poi c’è Wladimir, componente del fan club di Bernal, che ha un murales a casa con Egan in maglia gialla a Parigi. «Wladimir aveva detto a Egan che il giorno in cui avesse vinto il Giro d’Italia o il Tour de France, avrebbe dipinto la casa del colore della maglia. Bernal appena ha vinto lo ha chiamato ricordandogli la scommessa. Tu pensa che sapendo che avrei cercato di mediare, quella sera a cena non mi hanno nemmeno invitato. Che personaggio! Quando Bernal ha vinto al Tour de l’Avenir, Wladimir era sui tornanti: lo hanno sentito gridare da tre tornati più sotto. Ti rendi conto della passione?».

Dopo la notizia dell’esclusione dal Giro d’Italia, Giovanni Ellena non ha parlato per tre giorni. In ritiro, dopo diversi mesi a casa, ha ripensato a tutta la sua carriera, l’ha rivista al rallentatore, gli venivano in mente solo domande, tante domande. Si è ricordato degli inizi, di quel 2006, di quella signora della federazione che gli disse: «Ti auguro di durare molto, ma questo non è il tuo ambiente». Ripensa alla struttura di preparatori che Androni aveva messo in piedi negli anni, ai tecnici e ai preparatori che ora sono affermati professionisti. A tutto ciò che era possibile. Ripensa a quando, appena quarantenne, sbagliava approccio e cercava l’amicizia dei corridori: oggi sa che non va bene e non lo fa più. «C’è un bel rapporto con loro, ma non sono loro amico: se devo rimproverare un ragazzo lo faccio, se devo escluderlo per il bene della squadra lo faccio. Si tratta del mio lavoro e l’amicizia farebbe male».

Fra le tante domande, una lo assilla particolarmente: «Giovanni, sei sicuro che questo sia il tuo lavoro?». Una domanda che fa paura, una domanda che non mostra ai ragazzi, invitandoli a credere che un giorno saranno come Sosa, come Bernal, una domanda a cui poi deve darsi risposta. Ed Ellena quella risposta se l’è data qualche sera fa. «Ho una bella famiglia, una moglie, due figlie e un cane che adoro. Quando accadono queste cose pensi a loro. Ti dici che forse potresti anche fregartene e vivere più tranquillo. Quante cose si dicono? Quante? Sono bugie. Io sono venuto qui e non ho saputo fare nulla di diverso da quanto facevo prima. Sono fatto così e questo lavoro so farlo solo in questo modo. Non so se sia giusto. So che diversamente non saprei lavorare».

Foto: Luigi Sestili