Evaldas Šiškevičius o del rimanere fedeli a se stessi

Evaldas Šiškevičius ne è sicuro: quando ti trovi bene in un posto, sei rispettato e hai la tua libertà, devi restituire qualche cosa. Una in particolare: la gratitudine. Per questo, nonostante le offerte ricevute negli anni da diverse squadre WorldTour, non se ne è mai andato dalla Pomme Marseille, diventata poi Delko Marseille, la sua squadra, quella di cui fa parte da tredici anni, anche se, come dice lui, non sembra essere passato tutto questo tempo.
Certamente sono cambiate molte cose: nel 2008 la Pomme Marseille era uno dei migliori team nel ranking delle squadre amatoriali, successivamente è diventata Continental e poi Professional. Il WorldTour, però, non è mai arrivato. Ma Evaldas continua a vedere il buono e dal modo in cui lo guarda lo fa sembrare ancora più buono. «Ora abbiamo uno staff specializzato, tutti i materiali e persino due bus. Soprattutto in ogni gara abbiamo un traguardo da raggiungere, sappiamo cosa fare e come farlo» ha raccontato a Procycling.
Perché a Marsiglia non manca nulla, in primis il fatto di sentirsi libero di interpretare il proprio lavoro come meglio crede, di essere un capitano sulla strada, uno di quelli che ci vede lungo ed è un esempio per tutti i compagni.
Tutti o quasi ricorderanno la Parigi-Roubaix in cui arrivò al velodromo André Pétrieux di Roubaix dopo le diciotto, fuori tempo massimo, con un velodromo già deserto ma soprattutto con quel cancello di accesso chiuso. Evaldas dovette mettersi a gridare perché gli aprissero. Qualcuno, alla fine, quel cancello lo aprì e lui riuscì a finire quello che aveva iniziato. Anche quella fu una questione di rispetto. Il suo direttore sportivo glielo disse in partenza: «Non si viene per caso a questa corsa. Ha una storia importante a cui ogni partecipante deve rispetto. Bisogna saperlo». Nemmeno lui sa come abbia fatto a insistere così, cosa gli sia passato per la mente, sua moglie continua a dirgli che si chiede perché, ancora oggi dopo tre anni. Era il 2018 e solo un anno dopo, nel 2019, Evaldas riuscì, dopo una giornata incredibile, ad arrivare nono alla Roubaix.
Šiškevičius è nato a Vilnius, in Lituania, il penultimo giorno dell'anno del 1988 e della Lituania ricorda sempre il modo che hanno le persone di andare in bicicletta. Sono felici, lo fanno con piacere, è difficile da spiegare, ma basta osservarle per capire ciò che Šiškevičius vuole dire. Questo non vuol dire che in Lituania vada tutto bene, almeno non nel ciclismo professionistico. Basti pensare che gli unici professionisti lituani, al momento, sono Ignatas Konovalovas e lo stesso Šiškevičius.
Certo la sua carriera non resterà memorabile a livello di risultati, ma a suo modo il corridore lituano è un vincente, per l'orgoglio con cui difende le sue origini e le sue scelte, per il fatto che, nonostante non abbia mai avuto le caratteristiche per essere un vincente, facendo la cosa giusta al momento giusto, qualche risultato l'ha portato a casa. E perché, anche oggi, che è in scadenza di contratto e l'idea del passaggio nel WorldTour lo attrae dice che vuole pensare, riflettere, perché il luogo in cui ha vissuto una vita, non è come un bagaglio che può essere spostato con buona pace di tutti.
Perché alla fine, quando resti fedele a ciò che sei e a chi ti lascia la possibilità di esserlo, hai già vinto anche se nessun albo d'oro ne parla.


Tutta la dedizione di Gino Mäder

Il rapporto tra Gino Mäder e la bicicletta si è costruito a partire da una curva. «Alla prima curva sono caduto, mi sono fatto male. Mi sono sentito uno stupido, ci credi? Avrei voluto smettere per quella sensazione di vergogna. Mi è servito, sono cresciuto. Sono cose che succedono». Quella bicicletta Gino la ricorda molto bene, una Coppi, bianca e rossa, con ruote fini, «Quanto era bella la mia bicicletta», ci dice a un certo punto.

Se la passione, per Mäder, è qualcosa di familiare, entrambi i genitori sono stati ciclisti, l'idea che lo svizzero si è costruito della bicicletta ha a che vedere con le sensazioni che ha da sempre sperimentato sulla propria pelle. «Potrei dirti che la bicicletta è libertà, lo è, certamente. Se dovessi scegliere un sinonimo, sceglierei gratificazione. Quando vai in bicicletta ti senti appagato». Così non sarebbe in grado di ricordare il giorno più bello da quando pedala, perché tutti gli hanno lasciato qualcosa. Il giorno più difficile, invece, lo sa bene: la diciottesima tappa della Vuelta di quest'anno. Le rampe de l’Altu d’El Gamoniteiru gli hanno trasmesso le stesse sensazioni di quella prima curva, da giovanissimo, e avrebbe voluto fermarsi. Non lo ha fatto, come non lo fece allora. A Madrid è arrivato quinto, miglior giovane.

Questo è quello che vorrebbe dire ai ragazzi che vogliono diventare ciclisti professionisti: «Non ci sono consigli da dare, o meglio, non mi permetto di dare consigli a nessuno. Solo una cosa: godetevi quello che fate. Godetevelo perché dovrete farlo per molti anni e non sarà sempre uguale. Alcune volte vi divertirà, altre volte per niente. Alcune volte sarete motivati, altre vi chiederete perché vi tocchi. Ma, in ogni caso, dovrete farlo per anni interi e se riuscirete a godervelo diventerà più facile da vivere». Sarà per questo che Mäder non usa molti giri di parole per descrivere le cose; per esempio quando parla della vittoria al Tour de Suisse e dice che ci tiene molto. Gli chiediamo perché e ci risponde abbassando il tono della voce e sorridendo: «Perché è molto bella». Così facile che spesso lo dimentichiamo.

Nel ciclismo mette dedizione: «Quando fai qualcosa e non hai bisogno di guardare l'ora perché lo scorrere del tempo non ti preoccupa: è questa la dedizione». La fatica del ciclismo, invece, è riconducibile a un gesto chiaro: «La tua mente è così finita che non vorresti fare altro che sdraiarti su un letto e non fare più nulla».
In Bahrain ha trovato il clima giusto, il lavoro funziona e l'ambiente è sereno: «Posso raccontarlo io, ma credo lo raccontino meglio i risultati». Da sempre è affascinato dalla Parigi-Roubaix anche se non crede sia adatta alle sue caratteristiche e parlando di Roubaix, soprattutto in questi giorni, non si può non parlare di Sonny Colbrelli. «Ho corso poco assieme a lui. L'ho conosciuto soprattutto nei ritiri. Ha sempre cercato di coinvolgermi e se sono riuscito a integrarmi in questa squadra è anche merito suo».

Proprio alla Vuelta ha fatto molto parlare la sua iniziativa: donare un euro per ogni atleta che avesse concluso la tappa dietro di lui, dieci euro parlando di classifica generale, a un'organizzazione che avesse fatto qualcosa per l'ambiente. Alla fine, circa 15.000 euro sono stati donati a un'associazione per il ripristino degli spazi naturali in Africa e iniziative per il contenimento dell’innalzamento delle temperature. «Un uomo vive su questo pianeta per circa ottant'anni. Quanti anni ha questo pianeta? Quanti anni vivrà ancora dopo di noi? Si parla di un tempo che un uomo non può nemmeno immaginare. Ci comportiamo da proprietari del pianeta, in realtà non siamo nulla». Anzi, Gino lo dice chiaramente: siamo fortunati. «Lo siamo perché viviamo in questo pianeta, perché abbiamo sopra la testa un cielo con un sacco di stelle, perché siamo qui e abbiamo la possibilità di vivere. Perché non ce lo ricordiamo?».
Il paese di nascita di Mäder è piccolo: ha una squadra di calcio e sole poche migliaia di abitanti. Gino ha trovato sin da ragazzino il gusto della scoperta: «Sono legato alla natura, ci sono così tanti posti che ho visto e altrettanti posti meravigliosi che spero di vedere. Noi ciclisti, poi, facciamo il nostro lavoro in mezzo alla natura. Forse non posso fare molto, ma di certo posso provare a essere il meglio possibile per la mia città, il mio stato, il mio pianeta. E se posso farlo, lo farò».

Nel futuro, Gino Mäder vorrebbe che ci fosse qualche tappa al Giro d’Italia e poi ancora tanto ciclismo, quello che non ha mai avvertito come un sacrificio. «L'unica cosa è che mi tiene molto tempo lontano dalla mia famiglia" dice sereno. Perché "ci sono ancora molte cose da fare e per fare bene nelle gare che mi piacciono so di dover lavorare molto». E allora via: le parole di Mäder sono più che mai simili ai fatti.


Il decalogo di Magnus Cort

Ai 350 metri dalla vetta del muro di Valdepeñas de Jaén, Magnus Cort Nielsen ha avuto ancora una volta la certezza di non essere uno dei tanti. Proprio mentre il mondo gli crollava addosso e la gravità sembrava la più bizzarra delle leggi. Magnus, dopo una giornata in fuga, contro tutto e tutti, era un corpo trascinato verso il basso, incapace di fare la più normale delle cose in sella a una bicicletta: andare avanti. A destra, poi a sinistra e di nuovo a destra per non cadere a terra. Lo sorpassano Roglič e Mas, lo sorpassano López e Haig, lo sorpassano ventiquattro corridori e passano quarantanove secondi prima che arrivi in vetta. Lo speaker inizia a incitarlo, lo stesso fa la gente. Un mondo che si capovolge e ti riempie di lividi quando sei il più vulnerabile e non te lo meriteresti. «È ingiusto» direbbero i più.
Magnus Cort ha imparato da troppi anni che imprecare è inutile. Da quell'isola aspra quasi quanto una strada che sale. A Bornholm, quarantamila anime, nel mar Baltico, c'era posto solo per l'immaginazione. La stessa che ha convinto il danese ad andarsene a sedici anni per fare il mestiere del ciclista.

Veloce, certo, non a caso vorrebbe somigliare a Peter Sagan, ma non solo. A Magnus piace complicarsi la vita e, col tempo, ha avuto la certezza che le migliori possibilità provengano proprio da lì. «Forse in condizioni normali non posso battere i migliori, ma esistono anche la pioggia, il freddo e il vento...». Quasi una provocazione, come le fughe dell'uomo del nord. Ha vinto tappe alla Vuelta, la corsa degli scalatori: quest'anno persino all'Alto de Cullera, proprio mentre Roglič lo stava raggiungendo, una settimana fa. «Ai 150 metri ho temuto, per fortuna non mi ha ripreso». Parole che sembrano quasi uno sberleffo a sentirle oggi.
Orica, Astana e Education First, senza rincorse, rispettando lo scorrere del tempo che riconosce la fatica, il sacrificio. Poi, nei momenti liberi, si prende una tenda, gli sci, si imballa la bicicletta e si parte in spedizione sui Pirenei. Oppure si torna a Bornholm, dalla famiglia, e si va in campeggio. Magnus Cort ha un decalogo di regole: usa solamente ciò che hai, impara una cosa semplice alla volta, rispetta le regole, non portare mai due cose uguali, quando fa notte guarda un film sotto le stelle e riposati su un materassino che hai già provato a casa. Soprattutto non partire mai con scarpe che tu non abbia già indossato: in mezzo al bosco non potrai cambiarle.
Ha in mente una spedizione sul Kilimangiaro e vorrebbe fare bene alle Classiche del Nord. Ci riuscirà? Chissà. Di certo Magnus Cort è riuscito a inventarsi una vita neanche lontanamente immaginabile. Per questo è Alvento, come chi vede ciò che manca e, invece di lamentarsi, lo inventa.

Foto: Jered Gruber


Acqua e sapone

Il 13 luglio, Francesco Lamon era appena tornato da Montichiari, quando si è unito alla sua squadra, Biesse Arvedi. «Quella sera era contentissimo» spiega il diesse Marco Milesi. «Da giorni facevano tempi pazzeschi, mi disse: "Possiamo fare il record del mondo"». Detto, fatto: record e medaglia d’oro nell’inseguimento a squadre. Lui, ragazzo semplice ma consapevole. «Ogni volta mi chiede cosa può fare per la squadra nelle gare in linea. C’è chi cerca di mettersi in mostra, lui è sempre a disposizione».
Una volta Lamon si è ritrovato in fuga, Milesi gli chiede sorpreso spiegazioni. Lamon lo spiazza e lo fa sorridere: «Sono capitato qui ma non voglio restarci, questi vanno fortissimo. Per favore, metti i ragazzi a tirare». Marco Milesi scherza: «Quando corrono loro, Montichiari trema». Sa bene che non è stato facile, come lo sanno i genitori di Lamon.
Hanno raccontato di aver fuso i motori di tre auto per seguirlo nelle gare. Suo padre, tecnico in ospedale, ieri mattina, ha chiesto qualche minuto di pausa per vedere la prova. Era il suo compleanno, pensate che regalo.
Francesco ha ventisette anni e dai propri compagni di squadra è visto come un esempio.
«Agli allenamenti arrivava davvero stanchissimo- prosegue Milesi- non gli si poteva chiedere altro. A primavera, poi, la tensione per le convocazioni era terribile». Il duro lavoro paga e questa ne è la dimostrazione. «Lo chiamerò per fargli i complimenti. Sono certo che questo oro gli darà molto, Lamon, però, resterà il ragazzo acqua e sapone che conosciamo tutti».


Aspettando il futuro: intervista a Francesca Barale

Francesca Barale, Vo2 Team Pink, venerdì, prima di partire per la cronometro che l'avrebbe consacrata campionessa italiana, non ha pensato a tutto lo sforzo che l'attendeva. In realtà non ci si pensa quasi mai: «La fatica è talmente tanta che, se riflettessi su quello che ti aspetta, non partiresti nemmeno. Nessuno specialista ci pensa».

Quello a cui invece si pensa è ciò che potrebbe accadere se riuscissi a dare tutto in quello sforzo. «Sei da sola, non hai punti di riferimento. Le radioline ultimamente aiutano a sconfiggere quel senso di solitudine, la voce del direttore sportivo ti aiuta a non naufragare con i pensieri ed è da lì che poi viene il crollo. Se inizi a dirti che le gambe non girano come vorresti è la fine. Io mi ripetevo: "Dai, resisti. Quella maglia ti aspetta". Così è successo, proprio quando non me lo aspettavo perché le cronometro precedenti non erano andate come avrei voluto, forse per questo ero tranquilla. In corsa sono abbastanza cinica e, quel giorno, non avevo nulla da perdere».

Barale è nata e cresciuta in Val d'Ossola e, fino a due anni fa, ha corso in squadre originarie della Valle, senza mai spostarsi. La sua salita preferita è quella di Trontano, dove va spesso ad allenarsi e dove, l'anno scorso, ha vinto la cronoscalata organizzata dal padre. «Per chi va in bicicletta la nostra zona è stupenda. Dalla montagna, alla collina, al lago. C'è tutto. A me spiace solo che manchino le gare. C'è qualcosa per il settore giovanile, ma per il femminile siamo ancora indietro. Serve gente appassionata che abbia idee e volontà e, soprattutto, serve la volontà di investire. La mamma dii Elisa Longo Borghini, ad esempio, aveva proposto una gara ad Ornavasso».

Lo stesso discorso, ribadisce Barale, vale per il ciclismo femminile. «Certamente nel ciclismo maschile ci sono più possibilità economiche e chi investe ragiona in questi termini. Voglio fare una considerazione: la gente, spesso, non ci conosce e quando parla di ciclismo crede che il ciclismo sia uno sport esclusivamente maschile, come se noi non facessimo la stessa fatica o gli stessi sacrifici. Penso che chi vuole bene al ciclismo abbia il dovere di raccontare sempre più spesso anche le nostre corse perché solo attraverso la conoscenza possiamo crescere. In questo senso, la diretta televisiva della prova femminile a cronometro, come avvenuto in altri paesi, avrebbe fatto bene».

Quando parla di Elisa Longo Borghini e di Filippo Ganna, Francesca Barale fa leva sull'orgoglio: «Devo dire che la nostra terra sta sfornando parecchi talenti ultimamente. Con Elisa abbiamo in comune caratteristiche simili, ma ci siamo conosciute dopo. Filippo Ganna invece lo conosco sin da quando era ragazzino perché le nostre famiglie hanno buoni rapporti. Mi fa quasi strano vederlo acclamato da tutti, famoso. Se lo merita, sia chiaro, ma per me resterà sempre il ragazzo semplice e l'amico di famiglia».

Nonostante la giovane età, appena diciotto anni, Barale spazia con agilità e arguzia su qualunque argomento. Un appunto interessante, per esempio, lo muove parlando di alimentazione. «Non sono seguita da un nutrizionista perché credo che nella mia categoria non sia necessario e perché personalmente ho una costituzione abbastanza magra che mi permette di gestirmi bene anche da sola. Però bisogna essere chiari: non è sempre vero che l'essere magri consente di andare più forte. Soprattutto non è vero che l'essere troppo magri fa ottenere risultati migliori. Si tratta di un pensiero che, a lungo andare, è pericoloso. Nel ciclismo spesso sono gli staff che fanno leva su questa idea. La nostra società ha propagandato per troppo tempo l'idea di bellezza associata ad una magrezza eccessiva. Facciamo attenzione».

L'anno prossimo Francesca Barale sarà chiamata al salto fra le élite: Il pensiero la spaventa e allo stesso tempo la stuzzica. «Non è mai facile. All'inizio sono schiaffi e frustrazione e il fatto di non avere una categoria intermedia tra junior e élite, purtroppo, peggiora solo la situazione. Tuttavia è proprio attraverso le delusioni che si cresce e si migliora. Servirà tempo e voglia di resistere. Il sogno sarebbe il mondiale e, perché no, un domani la vittoria del Giro d'Italia. Sono una passista scalatrice e credo di averlo nelle mie corde. Tempo al tempo».


La consapevolezza di Fortunato

Stamani, Lorenzo Fortunato, Eolo-Kometa, è tranquillo, anzi «molto tranquillo», come dice lui. Ne è convinto. «L'importante è aver fatto tutto ciò che si poteva fare prima di presentarsi alla partenza. Se capita la giornata no, la accetto. Quello che non riuscirei mai ad accettare sarebbe la possibilità che le cose siano andate male per una mia manchevolezza». Fortunato, nato e cresciuto a San Lazzaro di Savena, dietro le colline bolognesi, ha un senso del dovere particolarmente spiccato. La campagna attorno alla casa dei suoi nonni, sin da ragazzino, gli ha fatto da maestra. «Ho sempre visto cosa significasse portare a casa la pagnotta per se stessi e per i propri familiari. La fatica che hanno fatto i nonni o mio padre, che ha iniziato a lavorare al termine delle scuole medie come meccanico, poi come falegname ed oggi è direttore di banca». Così al concetto di fatica Lorenzo è abituato, come a quello di dolore, almeno in sella. «Alla fatica del nostro mestiere ti puoi abituare, come alla sofferenza fisica. Il vero dolore, la vera fatica è quella insita nelle faccende della vita di tutti i giorni. Quello ti coglie alla sprovvista e devi essere bravo per non cedere».

Le strade del Campionato Italiano, in realtà, sono distanti da casa, ma Fortunato ricorda bene quando, da ragazzino, andava a Imola, con una tuta rossa, a vedere la Ferrari girare in autodromo. Tifava per Schumacher, se pensa a Imola, però, gli viene in mente Ayrton Senna. «Ho pochi ricordi, molto nitidi. L'incidente e Senna che viene trasportato d'urgenza a Bologna». Preferisce non ripensarci e torna a parlare della giornata che lo aspetta: «Sarà caldissimo, credo intorno ai quaranta gradi. Amo il freddo e la pioggia, ma le lamentele non fanno per me. Avrò la possibilità di correre per vincere, c'è altro da dire?». La determinazione è la chiave di lettura di questo ragazzo che mentre scalava lo Zoncolan, al Giro, non ha voluto pensare alla possibilità di vincere per timore di rilassarsi. «Il punto è restare concentrati su ciò che stai facendo in questo momento, isolando tutto ciò che seguirà. L'uomo, invece, vorrebbe gestire tutto assieme e i danni più grossi vengono proprio da lì. A questo Campionato Italiano ho iniziato a pensare solo al ritorno dall'Adriatica Ionica Race. Prima non avrebbe avuto senso, non sarebbe servito ad altro che a preoccuparmi».

Dalle vittorie Fortunato ha imparato ciò che può fare. «È necessario essere consapevole di ciò che sei e di ciò che sai fare, con sincerità, prima di tutto nei propri confronti, altrimenti continuerai a sbagliare, qualunque strada tu prenda». Sa bene che il rischio, quando si ottengono risultati importanti sin da giovane, è quello di montarsi la testa, lui, però, spiega di non correre questo pericolo. «Sono rimasto e rimarrò comunque il ragazzo di sempre. Nei primi anni, quando non ottenevo i risultati che avrei voluto, sapevo che tutto questo avrebbe potuto finire, che avrei dovuto cercarmi un lavoro diverso. Lo sapevo allora e lo so ora. Senza impegno quotidiano, svanisce tutto in poco tempo. Piedi per terra e lavorare sodo». Tanto più che la tranquillità serve soprattutto quando le cose non vanno bene. «I complimenti si fanno sempre a chi vince. Quando vinci, però, è tutto facile. Bisognerebbe immedesimarsi in chi non ce la fa, in chi si stacca, in chi non trova la giornata giusta da troppo tempo».

Oggi vuole far bene per se stesso e per tutte le persone che crede potrebbero esserne felici. Dice che è bello quando la tua felicità è, al contempo, la felicità di qualcun altro, però, avverte: «Credo sia giusto cercare di far felici le persone che ci stanno accanto, penso che far felici tutti sia impossibile ma anche sbagliato. Chi vuole rendere felici tutti, alla fine, non fa felice nessuno, a cominciare da se stesso». Certo, perché, col tempo, Fortunato ha capito che la propria serenità è la cosa più importante. «Mi spaventa l'idea che un domani possa deludere i miei genitori, per farti un esempio. E, se succedesse, ne sarei davvero dispiaciuto. Credo non accadrà, per diversi motivi. Soprattutto, però, penso che se le scelte che avrò fatto saranno state le migliori per me, saranno loro stessi a comprenderle ed accettarle. Pur magari non condividendole. Chi ti vuole bene, fa così. Non ti costringe a non scegliere e non ti addossa colpe, se la scelta che fai non gli piace».

Foto: Luigi Sestili


Auguri, Sceriffo

La strada che sale a Maso Warth è ripida e tortuosa. Si arrampica tra le vigne, curate meticolosamente.
Siamo arrivati davanti alla cantina Moser alle 19, ormai era sera. Dalla mattina presto eravamo in giro attorno a Trento per scattare foto per un servizio sui Campionati Europei di ciclismo che si svolgeranno proprio nel capoluogo trentino a metà settembre. Non è che ci presentassimo benissimo, sudati, malconci, vestiti metà da bici e metà no. Fermate le auto davanti alla tenuta, non c’era nessuno, a parte un uomo, con due cani, che armeggiava in un garage con delle cassette di legno. Decido di scendere per chiedere informazioni. Quando quel signore alza la testa, mi pianta gli occhi in faccia e lo riconosco al volo: lo Sceriffo.

Immaginate di trovarvi in casa di Moser, davanti a Moser a chiedere informazioni su dove andare a parcheggiare l’auto.
«Ehm… Buonasera signor Moser, avevamo un appuntamento con Carlo. È un piacere, è un onore…».
Quelle cose lì che si dicono goffamente quando si è in imbarazzo e ci si ritrova davanti un’icona dello sport. Lui, dopo avermi squadrato e probabilmente dopo aver ricordato che avrebbero dovuto arrivare dei giornalisti e dei fotografi della rivista Alvento, invece non era in alcun imbarazzo. I due cani Lindsey (da Lindsey Vonn) e Tom (da Tom Boonen) - ho colto quando diceva questa cosa, ma non ho afferrato il perché si chiamassero così - hanno iniziato a saltarmi addosso per farmi le feste e per prima cosa si è premurato di ribaltare Lindesy pancia all’insù e mostrarmi una lunga cicatrice, spiegandomi il decorso clinico di un intervento a cui l’anziana cagnolona era stata da poco sottoposta.

«Non sopportava quell’ostia di collare, com’è che si chiama…».
«Elisabetta?»
«Ma no, si chiama Lindsey. Dicevo il collare!»
«Eh, sì, collare Elisabetta, quello che mettono ai cani perché non si lecchino le ferite».
«Ma no, insomma quel collare là che si mette ai cani. Ma non lo sopportava povera bestia. Allora ho preso una maglietta da ciclismo. Era di una granfondo, forse la Charlie Gaul del Bondone, e gliel’ho messa su, così stava bella protetta e non si leccava. Ah, è guarita una meraviglia, altro che il collare».

Insomma, dall'imbarazzo di quell'incontro casuale, avevo rotto il ghiaccio con Francesco Moser.
A seguire ha poi accompagnato me e il resto della banda di Alvento a visitare la sala degustazioni della cantina, le viti, le piante di ciliegie, avrebbe sciabolato un 51.151, il suo metodo classico dedicato al record dell’ora, e soprattutto ci avrebbe incantati mostrandoci la sala dei trofei e snocciolando un aneddoto dopo l’altro.
Noi, naturalmente, tutti a bocca aperta.

In bacheca, il Checco vanta un Giro d’Italia, 3 Parigi-Roubaix, 3 Giri di Lombardia, una Freccia-Vallone, una Gand-Wevelgem, una Milano-Sanremo, un campionato del mondo su strada e uno su pista nell’inseguimento individuale.
273 vittorie su strada da professionista: primo ciclista italiano per numero di successi, terzo al mondo dopo Eddy Merckx e Rik Van Looy.
Con il suo record dell’ora, stabilito a Città del Messico nel 1984, cambiò per sempre il ciclismo, spingendolo verso il futuro e i giorni nostri.

Oggi Francesco Moser compie settant’anni.
Tanti auguri allo Sceriffo del ciclismo italiano, uno dei più grandi campioni della storia di questo sport.

Foto: Jered Gruber


Non è solo un lavoro: intervista a Rachele Barbieri

Sin dalle prime pedalate, Rachele Barbieri ha sempre avuto ben chiara una cosa: il ciclismo non avrebbe mai potuto essere un lavoro come tutti gli altri. «Di essere ciclista non smetti mai. Si tratta di un lavoro che ti assorbe completamente, da cui non esistono pause. Anche quando la stagione finisce, tu non puoi dimenticartene. Non esistono ferie dal ciclismo, per un semplice motivo: se ti dimentichi di essere ciclista, il ciclismo te la fa pagare. È un privilegio, qualcosa per cui essere grati, ma è faticoso, talvolta molto faticoso». Rachele è certa che, per comprendere al meglio queste parole, sia necessario vivere la realtà di un professionista, così ci porta subito qualche esempio. «Come tutti sanno la nostra alimentazione è controllata nei minimi dettagli, così quando ci sediamo a tavola, nei ritiri, tutto è dosato. Persino la quantità di Parmigiano per la pasta nella formaggiera. Talvolta succede che qualche ragazza ne prenda poco di più e per le altre non ne resti abbastanza. A noi è capitato di discutere per questo. Niente di grave, ci mancherebbe, ma la tensione porta anche ad esasperare certe situazioni».

Rachele Barbieri ammette di essere sempre stata una ragazza molto competitiva: «Del resto chi non lo è? Ogni volta che veniamo a Montichiari ad allenarci, in fondo, ci giochiamo un posto per un traguardo importante. Ognuna di noi vorrebbe ottenere la maglia azzurra di un Mondiale o di un'Olimpiade, così battagliamo per riuscirci. Non credo sia un problema. L'importante è che ci siano dei limiti ben definiti e che si abbia anche chiaro quale sia la cosa migliore per la squadra». In questo, prosegue la ventiquattrenne di Pavullo nel Frignano, aiutano particolarmente due aspetti. «Sappiamo bene di avere tutte dei valori importanti, così, se viene preferita un'altra ragazza, per quanto la delusione sia forte, si ha la certezza che farà bene, perché si conosce il suo valore. D'altra parte, nella vita, non solo nel ciclismo, è necessaria una buona dose di onestà intellettuale per riconoscere quando qualcuno sa fare qualcosa meglio di te. Che non significa che tu non vali nulla, solo che qualcuno, in questo momento, è più adatto di te per quel ruolo».

Barbieri ha un modo particolare di vivere il rapporto con la maglia azzurra. «Quando non sono stata convocata al Mondiale, ho preso la maglia, l'ho chiusa in un cassetto e non l'ho più guardata per diversi giorni. Sentivo mia quella casacca e non poterla indossare mi ha lasciato nello sconforto. È difficile da spiegare, ma tu senti tua la maglia azzurra quando hai la percezione di poter fare qualcosa di importante indossandola, diversamente può anche far paura».
Della pista, Rachele continua ad amare ciò che nei primi tempi la spaventava. «Se ho trovato il coraggio di salire in sella, la mia prima volta a Cento, è stato solo perché, essendo competitiva, non potevo sopportare che le altre bambine ci riuscissero ed io no. Poi ho scoperto quanto sia bella l'imprevedibilità dei velodromi, quella continua serie di scatti e rilanci che lasciano tutto incerto sino all'ultimo secondo. Pensa per uno spettatore cosa deve significare potersi sedere in tribuna e aver sempre sott'occhio tutto ciò che accade. Nel ciclismo su strada non succede mai, vediamo secondi, frammenti, la pista ti mostra tutto, anche il dietro le quinte».

Sorride quando pensa all'Olimpiade e torna ad analizzare, nel continuo tentativo di capire e migliorare. «Credo di avere nello spunto veloce un punto di forza, per questo preferisco gare brevi, come lo scratch, che mettono in risalto questa mia capacità. L'omnium è il sogno di tutte. Io sto lavorando sulla resistenza perché vorrei far parte anche della madison, non solo del quartetto. Sono 120 giri in cui devi essere a tutta, con l'unico sostegno della tua compagna, ed è impensabile affrontarla senza un gran lavoro alle spalle». Ma i Giochi Olimpici, per Barbieri, significano qualcosa in più. «Dire che sono un traguardo ambito per gli atleti è quasi scontato. Mi piacerebbe invece parlare di quanto siano importanti per le persone che ci guardano da casa. Tutti si fermano qualche minuto a guardare le Olimpiadi, anche persone che allo sport non si sono mai interessate. Credo possano essere una buona medicina per non pensare per qualche ora a tutto ciò che ci sta accadendo da un anno a questa parte».

Foto: Paolo Penni Martelli


Lontano dal gruppo: intervista a Samuele Rivi

Quando alla Strade Bianche, durante la fuga, il cambio di Samuele Rivi, Eolo Kometa, si è rotto, lui ha iniziato a chiamare l'ammiraglia, ma nessuno è arrivato. «Continuavo a chiamare e non c'era nessuno. Il gruppo era ad andatura sostenuta e non potevano raggiungermi. Sono sceso di sella e ho continuato a piedi lungo quel tratto di sterrato. Camminavo e pensavo che, in fondo, il plotone era ancora lontano e sarei riuscito a ripartire prima del suo arrivo. Poi lo vedi che ti raggiunge e ti sorpassa a doppia velocità e tu puoi solo camminare, correre, ma lui va e non puoi farci nulla. Hai fatto di tutto per lasciarlo lì, più lontano possibile e, alla fine, è lui a lasciarti lì». Samuele Rivi quel giorno ha sofferto ed ancora oggi fatica a pensarci. «Sono un ragazzo introverso e questo nella vita di tutti i giorni può essere un problema. M nel ciclismo no, perché in bicicletta non ho paura di farmi vedere, di mettermi in mostra. Quando pedalo sono un'altra persona, molto più coraggiosa. In gruppo mi annoio e non ho ancora la capacità di fare la differenza nel finale e così mi sono inventato le fughe. Le situazioni vanno vissute, non subite».

E certamente in questo discorso ci sono le parole di Ivan Basso in quella riunione, prima della Tirreno-Adriatico. «Eravamo sul bus della squadra, quando ha preso la parola: “Se qualcuno, prima di una corsa come questa, non si sente dentro lo stomaco qualcosa di unico e particolare, significa che ha sbagliato mestiere. Pensateci“. Io avevo lo stomaco in subbuglio dalla sera prima. In queste occasioni, all'inizio, senti solo pressione, hai paura perché devi fare centottanta, duecento chilometri, e in strada può succedere di tutto». In fondo, però, se Rivi ha scelto il ciclismo è anche per questo. «Tu pensa a un ragazzino di dodici anni che, all'improvviso, si rende conto che con quella bici può fare trenta chilometri e andare, da solo, dove non era mai stato. Prima di quella Fondriest gialla, non avevo mai sfiorato una bicicletta da corsa, ma dopo questa scoperta non sei più lo stesso. Ti senti grande, cresciuto e da piccoli sentirsi vicini al mondo degli adulti è la più grande soddisfazione che possa immaginarsi».

Ancor di più perché Rivi è arrivato da solo al ciclismo. «Credo sia raro perché solitamente c'è sempre un padre appassionato, un nonno, uno zio o magari un fratello maggiore. Nel mio caso il ciclismo è stata una mia scoperta». Samuele è abituato a stare con i piedi per terra. «Certo, avrei voluto diventare un ciclista professionista ma la vita è fatta di doveri. Puoi desiderare qualunque cosa ma, fino a che non hai la certezza di raggiungerla, devi lavorare duro per un piano b, studiando ad esempio. Non puoi stare a girarti i pollici ripetendo ciò che tu sogni». Tanto più che, in alcuni giorni, Rivi è stato il primo a non credere più alla possibilità di fare il corridore. «Capitava quando mi trovavo a disputare gare internazionali e i buoni risultati ottenuti nelle corse di casa sembravano un lontano ricordo. Continuavo ad allenarmi ma, in fondo, pensavo di aver sbagliato strada. In quei momenti devi aver vicino persone che credano in te più di quanto ci creda tu stesso e ti ricordino ogni giorno qual è il tuo talento. Qualcosa di simile mi è accaduto alla Tirreno Adriatico di quest'anno, quando, dopo la prima tappa, soffrivo sempre più ogni giorno. Quell'esperienza mi è stata utile, mi ha ricordato che la fatica e la sofferenza ti ripagano sempre nel ciclismo».

Già, perché poi c'è la vita di tutti i giorni e, nella vita, è tutto più complesso. «Tutti ci ammirano per la fatica che facciamo ed il dolore che sopportiamo in sella. Io vorrei dire che nel ciclismo questi sono fattori quasi quotidiani, ma molto più facili da sopportare. Sapete perché? Perché il ciclismo poi ti ricompensa. Soffrire in bicicletta serve, per migliorare, anche per vincere. Da noi dopo una salita, c'è per forza una discesa. Nella vita quotidiana no. Puoi soffrire per molto tempo senza che nulla cambi. Puoi faticare senza ottenere nulla. Nella vita, talvolta, la sofferenza fa solo male, non serve a niente».

Foto: Maurizio Borserini


Il nuovo futuro di Martí Vigo

Quando Martí Vigo del Arco ha scoperto la bicicletta, la immaginava solo come un mezzo per evadere. «Era un periodo davvero difficile. Improvvisamente avevo iniziato a non ottenere più alcun risultato nello sci di fondo, mi sentivo sempre stanco, non riuscivo più a fare cose che fino qualche tempo prima erano la normalità. Esami su esami per cercare di comprendere la causa senza nessuna risposta. Iniziavo a non capire più nulla, ero confuso. Intanto cominciava anche a scarseggiare il denaro, perché in Spagna non eravamo benestanti. Poi ho scoperto di avere la mononucleosi».

Quella risposta tanto cercata, è sembrata quasi una beffa, perché, quando l'ha saputa, Vigo non ha provato sollievo ma ulteriore frustrazione. «Dovevo curarmi, ma avevo bisogno di allenarmi per tornare a vincere e a guadagnare. In più c'era l'università da finire e in quel periodo non avevo proprio la testa per mettermi sui libri». La bicicletta è stata il pretesto per provare a svicolare, per qualche ora, da quel groviglio di problemi in cui si era trovato.

«Almeno in quegli istanti cercavo di non pensare. Non era molto tempo da quando era mancato mio padre. Lui era fiero di me, sin da bambino mi aveva detto di pormi un traguardo e cercare di raggiungerlo perché è questo il senso dell'essere uomini. Ero quasi convinto di esserci riuscito con lo sci, ero arrivato alle Olimpiadi e mi ero tatuato i cinque cerchi per ricordarmi cos'era accaduto. Ora tutto sembrava cadere, come un castello di carta». Quando Vigo si accorge che ormai la sua mente non riesce più a vivere in maniera serena il suo sport, stacca la spina e pensa di inventarsi una nuova vita. «Alla fine - spiega - mi sono detto che ero già partito una volta da zero e ce l'avevo fatta, perché non dovevo darmi una seconda possibilità, perché continuare a soffrire a vuoto? La sofferenza ha un senso se ti permette di cambiare qualcosa».

Martí Vigo fa un test con Patxi Vila per correre in Movistar, poi incontra Maurizio Fondriest e da lì nasce l'idea Androni Giocattoli Sidermec. «Del ciclismo mi piacciono le giornate fuori con gli amici, dal mattino alla sera. A pedalare senza un motivo, solo perché ti senti meglio in sella che a casa. Certo, se diventa un lavoro le cose cambiano, ma di base il ciclismo è questo». Ricorda bene quando vedeva le gare in televisione e immaginava di essere in maglia rossa alla Vuelta perché «tutti i bambini che sognano di fare i calciatori si immaginano di vincere un mondiale, tutti quelli che sognano di fare i ciclisti vorrebbero vincere la corsa a tappe del loro paese».

Dallo sci al ciclismo sono cambiate molte cose, ma Vigo non ne è quasi mai stato spaventato, anche di fronte agli errori. «Se non sbagli, non impari e all'inizio si sbaglia sempre molto. Io per esempio non sapevo stare in gruppo ma era normale, non lo avevo mai fatto. Pesavo otto chili in più ed avevo un'alimentazione scorretta, perché per sciare si guarda la potenza non tanto il peso. Forse dietro il mio infortunio alla mano, quando sono caduto, c'è anche questa perdita di peso repentina». Vigo si trova a proprio agio quando la strada sale e forse in questo c'è qualche ricordo della montagna, di cui però ammette che non gli mancherà il freddo. «Al freddo mi sono abituato, ma, per quanto possa sembrare paradossale per un ex sciatore, a me piace il caldo».

In questi giorni sta provando la posizione sulla bicicletta da cronometro. «Molti mi dicono che per me dovrebbe essere naturale, perché anche nello sci si gareggia sui tempi. In realtà è molto diverso. La posizione aerodinamica che dobbiamo tenere in sella durante la cronometro è molto dolorosa, se non sei abituato. Ad un certo punto iniziano a tirarti tutti i muscoli e non sai più da che parte girarti». In Androni, Martí Vigo ha incontrato Eduardo Sepúlveda: «Condividiamo la lingua e posso assicurarti che non è poco. Quando arrivi in un ambiente nuovo, sapere che c'è qualcuno che capisce esattamente cosa vuoi dire è tranquillizzante. Si può tradurre, ma non è lo stesso».

Vigo è un ragazzo curioso, come chi vuole capire ed imparare. Per questo ogni meccanismo del proprio corpo lo affascina e, se ci pensa, sa già cosa farà un domani, quando scenderà di sella. «Continuerò a studiare fisioterapia e aprirò uno studio, per aiutare altre persone a conoscere il proprio corpo e a viverlo al meglio. Del resto, prima la mia passione era il ciclismo, ora, che è diventato il mio lavoro, sento il bisogno di qualcosa da tenere lì, a portata di mano, per alleggerire i momenti in cui sarò stanco o deluso. Pensare al futuro è una bella possibilità».

Foto: Luigi Sestili