Pazzi per Ben Turner

Non amo particolarmente fare classifiche, avere preferenze, o fare figli e figliastri (sarà vero?), ma se c’è un corridore che mi fa impazzire e per il quale tocca fare un’eccezione evidente, quel corridore è Ben Turner, e visto che l’opinione (e la passione smodata) è strettamente personale, ho deciso di rompere la regola - non scritta - della terza persona e di scrivere questo pezzo in prima.

Ho scelto una foto emblematica del corridore, poi chiederò a voi lettori un piccolo compito e infine mi farò raccontare da uno dei suoi direttori sportivi che stagione è stata quella di Ben Turner.

La scelta della foto è ricaduta su Turner in azione alla Freccia del Brabante 2022, davanti al gruppo a fare selezione, a scardinare il muro, a dare fastidio a tutti, contribuendo a portare via l’azione decisiva con dentro altri due suoi compagni, Pidcock, quel giorno arrancante e sofferente, più di quello che ci si poteva aspettare, e Sheffield, quel giorno alla fine vittorioso nonostante scaramucce finali con gli altri contendenti.

È una faccia vecchio stampo quella di Turner che, per certi versi, nella sua giovane età - è un classe ‘99 - sembra appartenere a un’altra epoca. Ha il viso scavato, gli occhi gonfi dalla fatica e in particolare quel giorno la pioggia e il vento rendono quello scatto una foto in bianco e nero trasformata in post produzione.

È un corridore per certi versi antico: esplode giovane, ma non giovanissimo volendolo paragonare ad esempio a chi, proprio come Sheffield, tre anni più piccolo di lui, quel giorno vinse la Freccia del Brabante.

Arriva dal ciclocross senza esserne stato però un predestinato come Pidcock, ma nella stagione appena terminata ha dimostrato a tutti cosa volesse significare la parola affidabilità.

Chiedevo un compito, eccolo: cercate il video di una qualsiasi corsa da febbraio ad aprile a cui ha partecipato Turner e guardate un po’ chi c’è in testa al gruppo, poi se spostate le immagini qualche chilometro più avanti, guardate un po’ chi sta facendo il ritmo. Sempre lui che pare un déjà-vu. E nelle fasi decisive della corsa? Sempre lui. È successo in alcune tappe della Vuelta Andalucia, alla Dwars door Vlaanderen, 8° posto finale, alla Freccia del Brabante, 4°, alla Paris Roubaix, 11°. Corse differenti l’una dall’altra per percorsi, importanza, clima, avversari. Il denominatore comune è sempre quello che poi sta al centro del discorso: Ben Turner davanti a tirare per i compagni e poi di nuovo davanti nelle fasi decisive della corsa.

Ho chiesto a uno dei suoi diesse, Matteo Tosatto, che tipo di corridore abbiamo di fronte. «In poche parole un corridore forte, ma forte davvero. Io ho avuto modo di stringere il rapporto con lui alla Vuelta e mi ha impressionato per le doti di recupero: passata la prima settimana stava bene, la seconda era ok, nella terza è stato impressionante. In salita con i migliori quaranta, cinquanta corridori, di fianco a Rodriguez e Carapaz».

Per un corridore che ha mostrato qualità al Nord, un bel modo di presentarsi alla sua prima grande corsa a tappe, al suo primo anno da professionista. «È questo che a noi piace di lui: è un neoprofessionista eppure sembra correre da quattro, cinque anni in gruppo. Non è facile trovare giovani così: ha visione della corsa da veterano, fa pochi errori, si muove bene nei momenti critici, ha una forza fisica incredibile, non ha paura del freddo e del vento e nemmeno di stare in testa al gruppo sin dai primi chilometri. Va forte sul pavé, sui muri e ha pure spunto veloce: per me appena acquisirà un po’ più di malizia potrà dire la sua e vincere le volate con 20/25 corridori».

Insomma il corridore perfetto, o quasi. «Un difetto, se così si può definire, è che è troppo altruista. Quest’anno per lui era tutto nuovo, l’anno prossimo dovrà intanto riconfermarsi e poi cercare un risultato personale, col tempo ce la farà».

Mi chiedevo se in futuro potremmo vedere in lui un grande gregario in stile Luke Rowe o un corridore sempre a disposizione, ma libero di scegliersi anche grandi traguardi personali, à la van Baarle, e su questo Tosatto è laconico. «Gli stiamo ritagliando un ruolo alla Rowe, un grande regista in corsa, appoggio fondamentale per i nostri capitani, ma come ho detto avrà licenza di togliersi soddisfazioni personali, ne guadagnerebbe lui, ma anche noi come squadra».

C’è un termine molto in voga di questi tempi, poco giornalistico, ma molto diretto, di pancia, che sembra quasi una goffaggine leggendolo, e che sta a indicare uno stato d’animo che si ha quando si vede qualcuno o qualcosa - un corridore in questo caso - che piace, che piace molto.
“Gasa” si dice. Sì, "Ben Turner gasa", parecchio.


Conoscere Corbin Strong

Intanto il nome: c'è qualcosa di evocativo dietro al nome Corbin Strong, che non è altro che Corvino Forte. Dove corvino, come spiegato dal sito Behind the Name, deriva dal francese Corbeau, corvo.
Dove corvino in italiano sta per "di un bel nero intenso" solitamente associato al colore dei capelli. Pare che il nome debba la sua diffusione nel mondo anglosassone a un attore americano, Corbin Bernsen (se non vi viene in mente chi è, appena cercherete la sua foto direte: “ah ma è lui”), celebre per aver interpretato l'avvocato Arnold Becker nel telefilm L.A. Law, ma caratterista in decine e decine di produzioni televisive e cinematografiche.
Stiamo perdendo il filo, scusate, torniamo alle due ruote: dove sta la verità o il romanzato poco importa; c'è quel cognome, Strong, ed è inutile specificare significhi forte. E lui, Corbin Strong, forte è forte davvero.
Poi c'è la nazionalità: la Nuova Zelanda. Tra flessioni e picchi si affaccia al ciclismo (su strada) come una nazione minore, ma non di nicchia: senza voler scomodare pionieri come Dalton o Tabak (quest'ultimo fu anche campione olandese davanti a Zoetemelk!), ricordiamo tutti la maglia “all black” con felce argentata del velocista e pesce pilota Julian Dean che spiccava notevolmente nelle volate di gruppo (soprattutto nel momento di lanciarle); un movimento che vede attualmente punte come George Bennett - scalatore da piazzamento nei dieci nei grandi giri e riciclatosi gregario di Pogačar - corridori completi come Patrick "Paddy" Bevin capaci di andare forte a cronometro, dotati di spunto veloce e una certa resistenza, oppure chi, a proposito di telefilm, porta il nome di Jack Bauer, che ha passato un periodo nel quale si imponeva come gregario di primo rango in gruppo. Ma sono quelli in arrivo a destare più attenzione: i fratelli Niamh e Finn Fisher-Black, per esempio. Niamh si è appena laureata campionessa del mondo Under 23, più per particolare circostanza che altro, ma è una ragazza dall'indiscutibile valore. Nell'ultimo biennio si sono fatti conoscere soprattutto Reuben Thompson e Laurence Pithie - ma non solo. Reuben Thompson è stato uno dei migliori scalatori della categoria Under 23 con un Giro della Val d'Aosta nel suo palmarès e tante prove di altissimo valore, spesso in appoggio a capitani che portano il nome di Grégoire e Martinez. Entrambi i due neozelandesi passeranno professionisti nel 2023 con la maglia della Groupama.
Nel 2023 una delle novità più interessanti che porterà il ciclismo sarà proprio la presenza nella categoria Professional di un team neozelandese: la Black Spoke capitanata da Aaron Gate, che ha già calcato terreni importanti su strada, ma è soprattutto in pista che ha vissuto il suo apogeo. Sarà un importante sbocco nel ciclismo professionistico per i diversi talenti di quelle parti.
Se ci spostiamo dal rugoso asfalto alla turbolenta pista, il movimento mostra capacità di sfornare corridori e risultati: il già citato Gate, l'inseguitrice Bryony Botha, lo specialista delle prove di endurance Campbell Stewart, senza dimenticare un quartetto dell'inseguimento da diversi anni costantemente in lotta per le medaglie tra Giochi Olimpici e rassegne iridate, e tra i talenti nati dalla pista c'è appunto l'oggetto del discorso, Corbin Strong, biondo, a dispetto del nome, ma come suggerisce il cognome, forte.
Classe 2000, pistard di primissimo livello nonostante la giovanissima età, Strong nasce e cresce letteralmente in pista - arriva da un paesino di contadini vicino Invercargill dove si trova uno dei due velodromi al coperto della Nuova Zelanda- ed è nei velodromi che scopre la sua vocazione: specialista dell'endurance, tanto da conquistare, escludendo i diversi titoli nelle categorie giovanili e nelle corse del suo continente, l'oro mondiale a Berlino 2020 in una delle gare simbolo degli ovali, la corsa a punti, l'argento sempre a Berlino nell'inseguimento a squadre e, poche settimane fa, l'argento nella corsa a eliminazione nella rassegna iridata di Saint-Quentin-en-Yvelines battuto solamente da Elia Viviani. Strong è stato capace da ragazzo di misurarsi con buoni risultati anche nel settore della velocità.
Su strada, da neoprofessionista, ha effettuato il primo salto di qualità negli ultimi mesi della stagione 2022 in maglia Israel-PremierTech dopo aver anche concordato una crescita della forma in chiave Mondiale su pista: in poche settimane vince una tappa al Tour of Britain, chiude 5° il GP di Vallonia battuto solo da grandi nomi (tra cui van der Poel e Girmay), 13° alla Agostoni, ma vincendo la volata del gruppo, 2° alla Bernocchi, qui battuto solo da Ballerini ma dopo aver tentato la fuga vincente con Alaphilippe e Hirschi, e infine ha chiuso 7° il Gran Piemonte. Una campagna italiana nella quale è mancato solo il successo.
C'è quello che dicono di lui: Zak Dempster, suo direttore sportivo, ha definito le sue gambe: «perfette, grazie anche alla sua attività in pista», e recentemente Michael Woods ha raccontato: «Ci stavamo allenando e un giorno avevamo deciso di fare le cose sul serio. Stavo affinando il mio scatto: ci provo una volta e Corbin rientra. Ci provo una seconda e lo stacco: “ok”, ho pensato “ mi sono sbarazzato di lui”. Mi giro e vedo 'sto ragazzo che mi torna sotto con una forza incredibile, mi supera ed è lui che si sbarazza di me e se ne va. Avevo sentito fosse forte, ma non avevo mai immaginato avesse tanta fame».
Mentre Luca Saugo su Cycling Chronicles ne fa una dettagliata recensione: "è un corridore molto particolare, profondamente diverso, nella sua incarnazione da stradista, rispetto anche a molti altri pistard che alternano le due discipline. Corbin non è particolarmente possente, è alto 173 cm e pesa 63 kg. Nonostante ciò, però, ha nello spunto veloce uno dei suoi punti di forza. Su questo, molto probabilmente, incide una conformazione fisica particolare e il background ciclistico molto variegato. Ha il baricentro basso e cosce voluminose, retaggio dell’esperienza nella velocità. Nonostante sia un po’ scomposto in bicicletta, quando mette le mani sulla parte bassa del manubrio e sfoga tutta la sua potenza sui pedali, Strong riesce a prodursi in accelerazioni devastanti. È un fascio di muscoli sgraziato che dà l’impressione di poter spaccare la bicicletta da un momento all’altro tanta è la forza che riesce a sprigionare. E ha nelle gare in linea dal profilo tortuoso il suo areale".
Che sia forte, lo ribadiamo, lo dicono gli esperti, lo si capisce guardandolo come si muove in gruppo, lo confermano i suoi compagni di squadra. Che sia forte non c'è alcun dubbio e nel 2023 lo seguiremo con ancora più attenzione, avendo ormai bene in mente pure il significato del suo nome.


Vincenzo Albanese ha vinto di coraggio

Il treno su cui sta viaggiando Vincenzo Albanese, Eolo Kometa, di ritorno dal Tour du Limousin, arriverà a Firenze intorno alle quattordici. Dai finestrini si vedono gli stessi paesaggi di sempre, eppure per Albanese oggi è diverso. Non lo dice direttamente ma, da come parla, capiamo che quelle parole sul coraggio, quelle che dicono che il coraggio è la principale delle qualità umane perché garantisce tutte le altre, dicono qualcosa anche a lui.
«Avessi avuto più coraggio probabilmente le cose avrebbero potuto andare diversamente anche prima. Poche ore fa, a Limoges, ho vinto di coraggio». Vincenzo Albanese si riferisce ai molti piazzamenti nell'ultimo anno, ci ripensa adesso e ci pensava anche ieri in corsa sebbene, come racconta lui stesso, chi fa il mestiere del ciclista non ha molto tempo di pensare. «In squadra mi hanno sempre mostrato questa possibilità, probabilmente non ero pronto per metterla in pratica. Doveva scattare qualcosa e nell'ultima tappa del Limousin è successo». Quel qualcosa è scattato e insieme a lui, a un chilometro e mezzo dal traguardo, è andato via anche Albanese.

«Non ho paura delle volate, mi piacciono e sono anche veloce. Le volate sono il mio terreno, è questo il punto: per questo le ho sempre scelte. Il rischio delle volate è un rischio che conosco bene. Quello di ieri, forse, era un rischio che mi intimoriva, perché nel momento in cui scatti azzeri ogni possibilità intermedia: se non vinci, non ti piazzi nemmeno». Ad Albanese un nuovo piazzamento non interessava, per questo se ne è andato e dietro hanno potuto solo guardarlo: prima a braccia levate, poi a terra, a respirare.

La cosa bella del suo coraggio è che, poi, una volta scattato, una volta che lui era in testa, controvento, col gruppo alle spalle, il momento più difficile era diventato il più semplice: faticoso, certo, ma naturale. Ai meno duecento metri dal traguardo, Albanese era ancora abbastanza lontano da sentirsi al sicuro: «Che avrei vinto l'ho capito lì, quando mi voltavo e vedevo che più di tanto non recuperavano. Quando ho alzato le braccia, avevo già pensato alla vittoria da qualche secondo».

Sembra un paradosso, quello della vittoria che non arrivava mai e alla fine è arrivata prima di arrivare veramente. Bastano pochi metri, pochi secondi: sono già tanti, sono sempre tanti quando non vedi l'ora.

Per questo dal finestrino persino i binari, linee parallele che si corrono accanto come treni di una volata, sembrano diversi. Perché «fare il ciclista mi è sempre piaciuto ma, ad un certo punto, hai anche bisogno che le cose vadano bene, crederci non ti basta più se non succede qualcosa». Così il coraggio ha salvato Vincenzo Albanese, così Vincenzo Albanese ha salvato il suo coraggio su una bicicletta.


Di bicchieri bevuti, pieni o a metà, di cerchi che si chiudono

Tre momenti per raccontare Jasper Philipsen. Tre storie che raccontano il passaggio del ragazzo di Ham, dieci chilometri a sud di Mol, Belgio, da contenitore pieno di speranze per le corse di un giorno, attirato dentro al mondo belga come erede della tradizione degli uomini da pavé, a contenuto fatto a potenza capace di scontrarsi con Jakobsen, Ewan, Groenewegen o van Aert per capire chi è il più rapido al mondo quando si tratta di bicicletta, e quando quella bicicletta viaggia su strada, e possibilmente si arriva in volata.
𝗟𝗮 𝗳𝗼𝘁𝗼 𝗰𝗼𝗻 𝗧𝗼𝗺 𝗕𝗼𝗼𝗻𝗲𝗻
C'è stato un momento in cui Philipsen era considerato a tutti gli effetti l'erede di Boonen. Ed era lo stesso Boonen che alimentava quest'idea, parlandone sui giornali e nei programmi televisivi, allenandosi con lui, raccontandolo sui social. Nello sport, la così detta legacy è qualcosa con cui prima o poi nella vita, in molti fra quelli dotati di talento, ci si devono scontrare. Ci sarà sempre un nuovo Jordan, un nuovo Maradona, un nuovo Merckx. Se nasci a Mol, come Jasper Philipsen nel 1998, come Tom Boonen diciotto anni prima, e metti in campo caratteristiche di quel tipo - veloce, adatto alle pietre, un classicomane in soldoni - non puoi che essere considerato colui che proseguirà la tradizione. Conserva a casa, Jasper Philipsen, una foto scattata nel 2006: lui e suo fratello con in mezzo Tom Boonen, che in quella foto ha in mano una bicchiere di birra bevuto a metà. I due giovani Philipsen indossano la maglia di campione del mondo, omaggio al loro idolo, e Jasper solo da poco aveva iniziato a pedalare. «Preferivo il calcio, ma non sopportavo di stare in panchina». Poi Boonen lo battezza: prevede per Philipsen un futuro da cacciatore di classiche. E noi con lui.
𝗣𝗿𝗶𝗺𝗮 𝘀𝗯𝗼𝗰𝗰𝗶𝗮, 𝗽𝗼𝗶 𝗹𝗲 𝗹𝗮𝗰𝗿𝗶𝗺𝗲 𝗮𝗹 𝗧𝗼𝘂𝗿
Il suo approccio con i professionisti non è stato del tutto puntuale come quello impostato sulla sveglia. Lo si pensava da subito vincente e per certi versi fu così. Volata in Australia al Tour Down Under, quinto giorno di gara della corsa per lui, in maglia UAE (voluto fortemente da Matxin che disse: «Philipsen è un predestinato per le corse di un giorno»), vince per declassamento di Caleb Ewan. Per vincere davvero bisogna invece aspettare un anno e sette mesi, per vincere ancora più seriamente altre sette settimane: eccolo che sboccia alla Vuelta, conquistando davanti ad Ackermann la quindicesima tappa. Sarà al Tour de France del 2021, però, che sembrò arrivare il suo momento. Sei “podi” di tappa, scritto così, con la consapevolezza che nel ciclismo il podio di tappa esiste solo per parlarne tra amici, per riempire le pagine o a fini statistici. Per un velocista contano solo due cose ed entrambe iniziano con la lettera v: velocità e vittoria. Quelle con la lettera p, piazzamento e podio, non devono far parte del loro vocabolario. Tre terzi e tre secondi posti di tappa e l'ultimo, il più pesante, sugli Champs-Élysées. E ci sono lacrime e quella foto che farà il giro del mondo: lui seduto sul marciapiede, consolato, ma inconsolabile, con un calice di champagne in mano che non riesce a mandare giù perché la gola e gonfia dal dolore per aver perso un'altra tappa, quella che lui sognava di vincere da ragazzino.
𝗟𝗮 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗮𝗰𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲
Saltiamo a piedi pari tutto quello che c'è stato dai Campi Elisi 2021, facendo finta che Jasper Philipsen sia cresciuto in maniera netta e conclamata conquistando, da agosto 2021 a giugno 2022, ben 10 corse, ma nonostante ciò ancora alla scoperta del suo mondo, alla ricerca di quella burrascosa pace che i velocisti ritrovano solo dopo aver tagliato un traguardo. E così arriva il Tour, pieno di storie e scorie, pieno di watt e velocità, pieno di prodezze e prodigi e lui ci si infila egregiamente, vincendo non una, ma due volte e prendendosi di potenza l'arrivo di Parigi, diciotto anni dopo Tom Boonen su quello stesso traguardo.
«Ho realizzato un sogno d'infanzia, il sogno di qualsiasi corridore. Non voglio parlare di rivincita rispetto alla passata stagione, ma vincere qui mi rimarrà per sempre e quel contrasto fa la differenza: un anno fa piangevo a fine tappa, oggi sono il più felice del mondo». A Parigi, Philipsen si beve un calice di champagne a Parigi per Philipsen si è chiuso un cerchio.

Salendo come una moto

C'è un modo di dire, molto diffuso nella comunità ciclistica che viaggia a suon di chilobyte e frasi fatte su internet, usato per identificare quelle azioni particolarmente efficaci non appena la strada si impenna: "subiendo como una moto", in spagnolo, ovvero salendo come una moto. Esiste pure un sito che nel dominio riporta quel nome e al cui interno puoi trovare i dati di scalata dei corridori su diverse salite.

Domenica, ma per la verità sono un po' di giorni che lo fa, Nairo Quintana è salito come una moto verso il gran premio della montagna del Col de Saint Roch, eravamo al Tour des Alpes Maritimes e du Var, per i più nostalgici: il Tour du Haut-Var.

In due tappe Nairoman (come viene chiamato quando ci si esalta nel vederlo andare in salita) ha staccato prima in modo brutale sul Col d'Èze l'atteso Guillaume Martin, perdendo poi allo sprint da Wellens, ma poco importa, e il giorno dopo il redivivo Pinot, anzi a dire la verità, il giorno dopo ha staccato tutto il gruppo andando a vincere tappa e classifica finale. Un suo giovane collega, Harry Sweeny, ha commentato quell'azione dicendo: «Nairo Quintana mi ha fatto sentire come se io fossi ancora uno junior».

Esaltante in salita, Quintana, con quell'azione in passato ci ha fatto pensare di aver trovato uno scalatore capace di ribaltare tutto e tutti; restringendo il campo agli ultimi dieci anni a tratti lo abbiamo definito lo Scalatore. È stato raccontato in maniera poco parziale, passando dall'esaltazione al massacro; ma provando a restituire a Quintana quello che la critica gli ha tolto, accusandolo di attendismo e poca efficacia, ci chiediamo: chiamereste attendista (o poco efficace) uno scalatore puro - perché questo è - capace di vincere oltre 50 corse in carriera tra cui la classifica generale di ben 20 gare a tappe? Non sono molti nella storia del ciclismo (facciamo quello moderno e contemporaneo senza addentrarci troppo all'epoca dei nostri ormai bisnonni) a vantare numeri del genere.

Attendista o poco efficace, volessimo romanzare, non lo è mai stato, sin da quando da bambino pensavano fosse rimasto vittima del "tiento del difunto", una malattia "magica" basata sulla convinzione che la vicinanza con un morto trasformi le persone in potenziali agenti trasmittenti una serie di mali incurabili.
Si racconta di come sua madre, a pochi giorni dal parto, entrò proprio in contatto, nel suo negozio di frutta e verdura, con una signora che aveva appena subito una grave perdita. E così Nairo nacque malato, si dice fosse sempre di un colorito vicino a quello di un morto: «Secondo quello che mi hanno sempre detto i miei genitori, c’erano dei giorni in cui assomigliavo a un cadavere» raccontò Quintana a El País nel 2013.

Provarono di tutto per salvarlo, combattendo la magia con la magia; prima di rendersi protagonista in bici, fu vittima di riti che avevano lo scopo di liberarlo da quel sortilegio. Si dice che da lui sgorgasse sangue dalle feci e puzzasse come un morto; si dice di come guarì grazie alla Combitá, un infuso fatto con le radici di nove alberi diversi, un pezzo di carota bianca e una manciata della terra dove Nairo venne al mondo.
Abbiamo romanzato, e si potrebbe continuare, citando il racconto di lui che si recava a scuola in bici non per risparmiare, ma perché a casa ritenevano che il bus servisse ad altri tipi di spostamenti; e lui con quella bici: discesa ad andare e salita per tornare verso casa. Due gravi incidenti, quando era un ragazzino che aveva appena scoperto come pedalando poteva cambiare la sua vita: la seconda volta che fu investito finì in coma per cinque giorni.

Si potrebbe continuare parlando di Nairo con quella faccia da sfinge come un enigma che abbiamo provato a risolvere in tutti i modi; l'attesa invana, quei Tour che pensavamo potesse vincere, la convivenza in Movistar con Valverde che secondo lo scalatore colombiano potrebbe essergli costato il Tour 2015, quando arrivò secondo alle spalle di Froome (come nel 2013), condividendo proprio con lo spagnolo il podio finale: «Per colpa di un mio compagno di squadra - raccontò Quintana qualche anno dopo - non ho potuto conquistare quel Tour».
Un Giro e una Vuelta li ha vinti, come nessun colombiano, così come nessun colombiano, forse giusto Bernal, gode di tanta popolarità nel suo Paese. Nel 2019, un sondaggio in patria lo vedeva ancora davanti a tutti come personaggio più conosciuto, più di Bernal, che aveva appena vinto il Tour, più delle stelle della nazionale di calcio colombiana come James e Falcao e del cantante Carlos Vives.

Si potrebbe continuare e poi farla breve tornando a poche ore fa quando è partito a una trentina di chilometri dall'arrivo, salendo come una moto, staccando tutto e tutti in salita, come il più bel Quintana mai visto. Come quel Quintana che prometteva, scattava e poi si scansava per chissà quale diabolico gioco tra cervello e gambe.
Corridore un po' atipico per certi versi, imperturbabile sul rapportone, nella buona e nella cattiva sorte, a volte illeggibile, magnifico scalatore: in salita, quando in giornata, capace di andare su come una moto rendendo i suoi avversari piccoli e affannati come dei cadetti.

Se l'inizio della stagione ciclistica è quella dove è lecito sognare, non svegliateci, ma lasciateci godere una volta tanto Nairo Quintana. Lasciateci godere una volta tanto uno scalatore.


Vincere una corsa, per vincere la paura: intervista a Matteo Moschetti

Mancano poche centinaia di metri al traguardo di Torrevieja, quarta tappa della Volta a la Comunitat Valenciana. Gruppo lanciato, solito caos. Treni per i velocisti? Più no, che sì. C'è Evenepoel, in maglia bianca, che mette in fila il gruppo con la sua solita marcia. Lo fa per favorire le fibre veloci di Jakobsen.
A ruota sta a meraviglia, e compatta, la Wanty, pardon, l'Intermarché: si lavora per Kristoff. Poi altri cani sciolti o al massimo qualche coppietta. Un uomo Gazprom si sposta poco prima di entrare nel rettilineo finale, mentre si intravede la sagoma di Trentin - tipica barbetta incolta e bocca aperta - che prova a pilotare fuori dal groviglio il velocista del giorno per la sua squadra, Molano.

Si sbanda, spallate, nessuna novità: parliamo di sprint di gruppo. Parte Pasqualon, non appena Evenepoel finisce il suo lavoro, e da dietro un ragazzo in maglia bianca con una banda rossa e la scritta Trek si lancia. Forse parte un po' lungo, chissà. Invece è tempismo perfetto. Né Viviani, né Peñalver, né nessun altro lo riesce nemmeno ad affiancare. Quel ragazzo taglia il traguardo per primo indicando con decisione il petto, sembra dire "sono io, sono io". Finalmente - lo diciamo anche noi - torna alla vittoria, dopo quasi un anno, Matteo Moschetti.
Sembra banale, ma se le vittorie hanno un peso specifico, quella di qualche giorno fa è un macigno. Emozioni positive, le definisce a mente fredda, Moschetti. Emozioni che servono a scacciare via un lungo periodo difficile. «Avevo bisogno di dimostrare il mio valore». Di dimostrarlo soprattutto a sé stesso.
Se qualcuno volesse conoscere la sua storia, la facciamo breve. Velocista di talento tra gli Under 23, Matteo Moschetti passa professionista con carte importanti da giocare dopo aver conquistato nel 2018, tra i grandi, due gare, nonostante corresse con una squadra Continental, assicurandosi un contratto con la Trek per le stagioni successive. Un 2019 di rodaggio, fatto di esperienza, sgomitate, chilometri e ritmo da professionista acquisito, poi nel 2020 colpisce subito.

Prime due gare dell'anno, due vittorie davanti ad Ackermann: il tedesco aveva chiuso la stagione precedente con tredici successi tra cui due tappe al Giro d'Italia. Niente male Moschetti, se non fosse che pochi giorni dopo quel successo, un terribile incidente in corsa rischia di comprometterne una brillante carriera. Sembrava l'alba, in pochissimo divenne il crepuscolo.
Quando riparte, fa fatica; altri problemi, altri incidenti di quelli che dici: "ma capita sempre a lui?", risultati a singhiozzo, un successo lo scorso anno alla Per Sempre "Alfredo" che pareva un episodio isolato. Poi il traguardo di Torrevieja, mettendosi alle spalle alcuni fra i migliori velocisti del gruppo. «La cosa più difficile che ho dovuto affrontare in tutti questi mesi - ci racconta - è stato convivere con la paura. Paura di non poter tornare a un buon livello, paura di non poter più vincere, paura di non poter essere più un discreto professionista». Parla letteralmente di mostri con cui convivere, Moschetti, soprattutto nell'ultima fase di recupero della sua condizione. Quella fase in cui «anche ritrovare quel 5% in più ti serve per essere competitivo al vertice». Il mondo del professionismo che, ahiloro, non ammette un minimo cedimento, non concede una piccola sbavatura.

Ringrazia i compagni della Trek, non potrebbe essere altrimenti, per il supporto in corsa e fuori corsa, e ci tiene a fare il nome di Luca Guercilena, figura fondamentale per il suo recupero, affermando poi come sia importante lavorare da quest'inverno con una psicologa che segue la squadra.
Non si pone obiettivi specifici, Moschetti, 25 anni e mezzo, un fisico che definiremmo tutto sommato normale, ma tanta potenza da sprigionare nelle volate. Non si pone limiti, crediamo, ma ribadisce quanto sarà importante migliorare nella resistenza in salita e su percorsi più duri. E soprattutto «continuare a vincere» tutte le volte che ne avrà la possibilità.
Si dice come vincere aiuti a vincere, ma in questo caso aiuta anche a tenere lontana la paura.


Per un fatto di vocazione

Quando vedi correre in bicicletta Victor Campenaerts tutto sembra una provocazione. Quando attacca pare quasi goffo sulla bicicletta, eppure dicono di lui che la differenza più che nel motore la fa per una capacità unica nel riuscire a stare in posizione aerodinamica.
Lo ami o lo odi: forse ti chiederai come sia possibile, e infatti il pubblico, la critica, spesso si divide su questo ragazzo che si fece notare diversi anni fa quando al Giro d'Italia chiuse una cronometro con una scritta sui pettorali messi in bella mostra: "Carlien Daten?”. Chiedeva un appuntamento a una ragazza che gli piaceva, storia nota, uscirono assieme ma poi lei disse: “possiamo restare solo amici”.
Per anni Campenaerts si è distinto come cronoman di ottima fattura se non qualcosa in più: titolo europeo, titolo belga e bronzo mondiale nel 2018 che gli valsero persino il “Kristallen Fiets”, premio che ogni anno assegna un noto giornale belga. Campenaerts non se l'aspettava, tanto da presentarsi, parole sue, vestito in maniera del tutto casuale a quella serata, e salì sul palco indossando una giacca di un paio di anni prima. Quasi incredulo di ricevere il premio dal suo idolo Bradley Wiggins, disse «Non mi resta che provare a battere il tuo record dell'ora anche per rendere onore a corridori più forti di me come Lampaert, Van Avermaet e van Aert». Che gli finirono alle spalle.
E quel record dell'ora Campenaerts lo fa suo ed è tutt'ora il record dell'ora nonostante qualche tentativo di batterlo, andato a vuoto. Lo conquista ad Aguascalientes nell'aprile del 2019 e quella volta per abituarsi all'altura, Campenaerts, ciclista e dunque fachiro, passò un mese in Namibia dove la «temperatura si aggira costantemente sui trentacinque gradi e mi permette poi di prendere confidenza col caldo e di controllare al meglio la reazione del mio corpo. Allenarsi con queste temperature fa aumentare il volume di sangue e plasma; di conseguenza a beneficiarne sarà l’ossigenazione dei muscoli e la mia prestazione».
In quel periodo, per guadagnare ogni margine, Campenaerts pratica yoga e si lancia in esercizi fondamentali per il rafforzamento di schiena e spalle. Lancia anche un campanello d'allarme: «Da quando mi trovo in Namibia non sono mai stato controllato. Essendo un atleta pulito e credendo in un ciclismo pulito trovo tutto questo inaccettabile. Che il mio tentativo vada bene oppure male, non voglio assolutamente che le dure sessioni di allenamento che sto sostenendo lontano dall’Europa vengano prese come un diversivo per sfuggire ai controlli. Ho già comunicato questa mancanza e questo mio malessere a chi di dovere: situazioni simili non dovrebbero verificarsi mai più». Senza troppi filtri.
Dopo quel record l'idea di Campenaerts sarebbe stata la crono olimpica ma nel giro di un paio di anni il ciclismo si trasforma alla velocità delle primavere che passano una volta raggiunta la soglia dei trent'anni. E così cambia la sua vocazione. Basta con il puntare alle cronometro - «perché mi è impossibile pensare di competere con questa nuova generazione» - e allora Campenaerts diventa corridore d'attacco. Vince una tappa al Giro 2021, la seconda volta in carriera in una prova in linea: su 8 vittorie, ben 6 sono arrivate contro il tempo, l'ultima però nell'ormai lontano 2018.
Messo in bici dal padre, dopo aver praticato nuoto - infatti il suo idolo, oltre a Wiggins, è il ranista belga Frederik Deburghgraeve, vincitore dell'oro ad Atlanta - per la prima volta nel 2021 partecipa al Tour de France e proprio a suo padre dà appuntamento sul Mont Ventoux. «È un posto speciale per me: è stata la prima salita che ho fatto in bicicletta, era il 2006, andai su con mio padre e all'epoca non ero nemmeno un corridore. Ho avuto difficoltà all'inizio della tappa, ma volevo continuare per fare almeno questa mitica salita e poter salutare il mio vecchio».
Campenaerts arranca quel giorno, e una volta incrociato suo padre: «Mi sono fermato e abbiamo passato un po' di tempo assieme».
A fine stagione Campenaerts cambia squadra, la Qhubeka ha chiuso e lui ritorna a vestire la maglia della Lotto. La Qhubeka ha chiuso, ma Campenaerts continua a sostenerne il messaggio. A inizio dicembre ha organizzato un'asta benefica per i bambini africani, mentre a gennaio, insieme a Van Moer e Vermeersch sarebbe dovuto andare in ritiro in Rwanda. Anche se qui più che per passione pare per scelta obbligata.
Nel momento di prenotare l'hotel per il ritiro in Spagna, infatti, i posti disponibili per i corridori della Lotto si sono esauriti subito e i tre corridori sarebbero dovuti essere dirottati nella regione del Musanze, ai confini tra Rwanda, Congo e Uganda. Poi le nuove restrizioni gli hanno impedito di partire, ma nulla è cambiato: la sua stagione ripartirà a breve con il chiodo fisso della fuga, la nuova vocazione di Campenaerts.


Il riscatto di Sacha Modolo

Era estate e molti amici di Sacha Modolo, terminata la scuola, avevano da mesi iniziato a lavorare in fabbrica: i primi guadagni, i primi stipendi e le prime vacanze, magari in discoteca a divertirsi. Modolo correva in bicicletta da qualche anno, nessun guadagno o ben poco e le ferie poteva scordarsele perché in quei mesi c’erano le gare. Decise così di dire ai genitori che avrebbe smesso e sarebbe andato a cercare lavoro in fabbrica. «Quel giorno mio nonno ci vide lungo. Mi disse: “Se vuoi andare a lavorare, domani mattina vieni con me”. Nonno consegnava bibite ai privati e ai bar. Era tutto un caricare e scaricare da quel camioncino. A sera lo guardai e: “Ho capito, torno a pedalare”».
A Sacha Modolo non è mai mancato nulla a casa, ma la sua era una famiglia umile, una di quelle famiglie che certe cose non avrebbe mai potuto permettersele. «Ho saputo che la prima bicicletta ce l’hanno regalata, altrimenti non avrei potuto comprarla” racconta, mentre parla della sua indole da ragazzo. In Veneto si dice “remengo” e vuol dire scalmanato, irrequieto. Quel ragazzo si è riscattato con il ciclismo: «Non mi sono mai sentito arrivato, ma, se fai un certo percorso e ti accade quello che è successo a me, lo vivi come un riscatto. Senza il ciclismo avrei conosciuto solo il mio paese e la mia vita sarebbe finita lì. Succede a tanti».
Negli ultimi anni qualcosa era cambiato. Modolo lo ammette, si era un poco spento e pensava di smettere più che di continuare. Anche a casa diceva quello che aveva sempre detto: «Quando smetterò non ne farò una malattia e del ciclismo non ne vorrò più sapere». Eppure di ciclismo parlava sempre. Sua moglie glielo ha detto: «Mostri tanto distaccamento per questo mondo, ma in realtà pensi solo alla bicicletta». E Sacha non nasconde che la verità è proprio quella.
Dal 2018 una serie di problemi fisici lo hanno bloccato. C’è voluto tempo prima di capirne la causa, nel frattempo si brancolava nel buio. La sua è la storia di chiunque attenda un esito che non arriva. «All’inizio non ho pensato a nulla di tragico. Anche da ragazzo mi allenavo poco e riuscivo a vincere. Prima mi sono detto che dovevo cambiare allenamento, poi che gli altri andavano di più e non potevo farci molto». Fino a che Modolo inizia a mangiare sempre meno, forse anche poco. Uno stato di infiammazione molto forte che mette preoccupazione: «Ho temuto fosse qualcosa di più grave. Poi ho iniziato a curarmi ma per stare meglio è servito molto tempo». Una crisi arrivata proprio quando stava iniziando a capire che tipo di corridore era: tutti lo hanno sempre trattato come un velocista, lui avrebbe voluto essere qualcosa di diverso. Quel sesto posto al Fiandre lo racconta bene. «Quando Pengo mi chiese la prima volta che pressione delle gomme tenere sul pavé, mi venne da ridere. Non sapevo nulla di questi dettagli. Capii che avevo ancora tanta pastasciutta da mangiare. Marcato mi aiutò».
C’è l’esperienza degli anni passati e un cerchio che si chiude col ritorno in Bardiani Csf-Faizanè. Modolo è ritornato quel ragazzo, quello che vuole tornare a vincere, non importa dove. Che vuole decidere da solo dove e come dire basta. «Molti mi dicono che avessi avuto una testa diversa avrei vinto di più. Forse o forse avrei vinto meno. Certe volte bisogna anche accontentarsi. Non ho rimpianti e questo mi basta».
Se guarda avanti sa che, comunque vada, la fine della carriera si avvicina. Non ha paura, forse qualche nostalgia: «Tutto questo mi mancherà perché sono stato fortunato. In bicicletta si fa fatica al massimo per sei, sette ore. Nelle ditte ci sono persone che fanno otto ore per molto meno e fanno più fatica di noi. Dobbiamo rispettarle. Ma non mi spaventa rinunciare a questo. Ho paura che mi manchi la bicicletta, quello sì».


Il valore del lavoro: intervista a Matej Mohorič

Nel paese in cui è cresciuto Matej Mohorič in Slovenia ci saranno state trenta case, non di più. La sua famiglia aveva una fattoria e lui aiutava i suoi genitori: «Avevamo maiali, pecore e galline. Gli animali non hanno giorni di riposo e c’era sempre da lavorare. In estate avevamo anche l’erba da tagliare». Quando parla di lavoro, Matej ha in mente quei giorni: «Non ci si poteva sottrarre a ciò che c’era da fare e se dovevamo andare in stalla non c’erano storie da raccontare. Cercare scuse è solo fatica mentale in più. Oggi, se ho quattro ore di allenamento da fare, le faccio senza titubare perché il dovere è dovere».
Quando non aiutava in famiglia, andava nei boschi insieme agli amici e con la mountain bike si divertiva a saltare i tronchi d’albero che trovava. Era divertente, per questo a casa ha più di sette biciclette: una per ogni specialità. L’unico rimpianto? «Ogni giorno vorrei provarle tutte, fare un tratto di strada con ciascuna, ma non è possibile». L’attenzione è sempre molta: per non esagerare, per rimanere lucidi. «Certo, voglio vincere, come ogni ciclista, e quando vinco mi emoziono, non dimentico, però, che il ciclismo è soprattutto il mio lavoro. Un lavoro che mi piace ma sempre un lavoro. La mia vita non cambierà di certo se invece di vincere venti gare ne vincerò quaranta. A sessant’anni non sarà questo a fare la differenza. Bisogna averlo chiaro».
Ed è questo lavoro a diventare sempre più difficile con il passare degli anni. Perché da giovani si vuole migliorare, si ha tutto da imparare e la spinta è molta, quando inizi a realizzarti tutto cambia. «Siccome hai raggiunto un livello alto ti viene chiesto di mantenerlo e se possibile di migliorare ancora. È sempre più difficile. Quando hai una famiglia diventa ancora più complesso perché partire per mesi e mesi e lasciare tutti a casa non è poi così bello come può esserlo da ragazzo».
«Noi non vinciamo solo per noi stessi. Vinciamo per tutte le persone che ci guardano e che magari vedendo quella vittoria possono cambiare qualcosa nella propria vita o anche solo essere contente per qualche istante. Vinciamo per le persone del nostro staff che non possono vincere» è qualcosa di cui Mohorič si è reso conto dopo la vittoria delle due tappe al Tour de France. Ricordarsi questo serve soprattutto in inverno quando le gare sembrano lontane e la motivazione può diminuire. «Se non ti alleni bene adesso, a luglio non sarai in forma e quando le persone ti aspetteranno tu non potrai fare nulla. Se non ho molta voglia, penso a questo».
Poi c’è ciò che bisognerebbe cambiare nel ciclismo e non sarebbe così difficile, in fondo. Per esempio, la sicurezza: «Noi non corriamo su piste e le strade non sono pensate per i ciclisti. Sono progettate per le auto con strettoie e rotonde per rallentarle. Duecento ciclisti a tutta velocità trovano ovvie difficoltà a transitare». Mohorič ha le idee chiare: come evolve la società, deve evolvere il ciclismo, magari cambiare regole. «Penso a una neutralizzazione anticipata nelle tappe di pianura, magari a dieci chilometri dal traguardo. Sarebbe più bello per il pubblico che vedrebbe passare gli uomini di classifica staccati, in tutta tranquillità e più sicuro per tutti».
Proprio per cambiare, per migliorare, nei giorni scorsi, Mohorič ha presentato la sua Fondazione, dedicata soprattutto ai giovani perché da loro parte tutto. «Al ciclismo sloveno un grosso apporto viene proprio dai giovani, dalla categoria juniores. È giusto esaltarli come enfant prodige, quando è il caso, ma prima di tutto bisogna affiancarli e aiutarli a crescere. Essere disposti a investire su di loro. Penseremo anche ai bambini, proveremo a metterli in bicicletta, a raccontare anche a loro cosa può essere una bicicletta. A spiegarlo alle loro famiglie».
Ciò che ha vissuto in bicicletta, Mohorič lo racconterà volentieri soprattutto «se lo vorranno, perché chi ti chiede di raccontare è predisposto ad ascoltare» e ascoltare è importante. Lui, per esempio, ha passato molto tempo ad ascoltare Damiano Caruso, a guardare la meticolosità del suo essere professionista e per Caruso questi sacrifici hanno pagato. Con Colbrelli ha invece condiviso le classiche: «Ha un motore enorme, chissà quanto avrebbe potuto vincere. Quest’anno, al Tour, era sempre al posto giusto, spesso sfortunato. Quando vincevamo era contento per noi, io però scorgevo quella voglia, quella fame nel suo modo di fare. Sono contento per il suo momento».
I progetti di Mohorič, invece, sono concreti. Come le pietre del Fiandre o lo scatto di un dente sulla catena sul Poggio alla Sanremo. Come la canicola estiva sulle strade di Francia al Tour, dove la Bahrain vuole da sempre fare bene. La condizione c’è, la voglia non è mai mancata. E per ogni cosa che non andrà ci sarà il lavoro, quello che Mohorič ha imparato in quei pomeriggi di ragazzo e ha custodito come valore.


La filosofia di Marlen Reusser

Marlen Reusser è felice, ma, in realtà, la felicità non le interessa nemmeno più di tanto. È capitato anche alla trentenne svizzera di sentirsi infelice, nonostante il ciclismo e le vittorie: andava tutto bene, ma il morale era a terra. Non c'è alcuna difficoltà ad ammetterlo. «Non è obbligatorio essere felici. Puoi esserlo oppure no» ha raccontanto in un’intervista a Procycling. «L'importante è che tu impari a conoscerti, a sentire il tuo corpo e a capirlo. Una volta che lo hai imparato ti servirà in ogni circostanza, in qualunque lavoro, io lo sto imparando correndo in bicicletta». Questo ragionamento l'ha sempre aiutata nella sua prova prediletta: la cronometro.

Nel tempo, molti le hanno chiesto quale sia il suo approccio mentale alla cronometro e lei ha sempre risposto che non c'è una regola, semplicemente perché la nostra mente fa ragionamenti nuovi e ci sottopone una realtà diversa ogni giorno, quindi è inutile proporsi di vedere le cose in un determinato modo, perché quel giorno potresti non riuscirci. Quando ti sveglierai, saprai chi sei in quel momento e con quello dovrai fare i conti. Regola aurea visti i risultati di Reusser contro il tempo nel 2021: argento alle Olimpiadi di Tokyo, oro agli Europei di Trento e ancora argento ai Mondiali delle Fiandre.

Marlen Reusser approda relativamente tardi al ciclismo professionistico, a causa di un infortunio. All'inizio, forse, nemmeno le piace molto pedalare, però le viene facile, estremamente facile così qualcuno le suggerisce di provare a farlo come lavoro. Oggi dice che, se non ha mai mollato, è solo perché, in fondo, le cose che non le piacevano del ciclismo erano meno di quelle che le piacevano, per esempio quello stato costante di imprevedibilità, la possibilità di conoscere luoghi e persone e, qualche volta, di sentirsi meglio perché sai che qualcuno è interessato a te, anche se fai fatica, piove e fa freddo.

Probabilmente, proprio per questa facilità innata, anche se non lo ha mai detto, Reusser ha sempre creduto alla possibilità di fare bene nel ciclismo. «Può sembrare arrogante dirlo, ma non lo è. Puoi avere tutto il talento che vuoi, ma per emergere devi lavorare sodo e io l’ho fatto. Mi sono posta degli obietti e mi sono impegnata al massimo per raggiungerli: prima o poi i risultati dovevano arrivare». Una delle più grosse difficoltà è stata riuscire a stare in gruppo nelle gare su strada, quelle in cui se non hai qualcuno che ti aiuta, di cui ti fidi e che si fida di te, difficilmente riesci a fare bene perché stare nella pancia del gruppo è davvero difficile. Lei ha imparato provandoci, con una tranquillità di fondo, però: «Se non ci fossi riuscita, probabilmente avrei smesso di gareggiare su strada. Che senso ha continuare a fare una cosa che non ti diverte?».

La Reusser ha le idee chiare, per prossimo ha voluto fortemente l'approdo in Sd-Worx, una squadra di campionesse. Ma fra loro non c'è rivalità, bensì apprezzamento. «Non credo sia un bene che in una squadra ci sia un solo campione e tante seconde linee che gli girano attorno. Non mi piacerebbe neppure se la campionessa fossi io. Per avere la possibilità di correre al meglio ogni gara occorre che tutta la squadra sia di alto livello».

Per il futuro, Reusser ragiona come per la felicità. Arriverà comunque e non ha nemmeno senso farsi tante domande. Lei è dottoressa e prima di dedicarsi al ciclismo lavorava in ospedale, è appassionata di politica e le piace impegnarsi per aiutare gli altri. Il ciclismo, per Reusser, è fatto di traguardi, ma la vita porta tante cose e fra quelle bisogna scegliere. Così, se è vero che vorrebbe vincere un titolo mondiale a cronometro, è anche certa di non voler invecchiare nel ciclismo: «Annemiek van Vleuten ha trentotto anni, Mavi Garcia trentasette. Non credo che continuerò così a lungo. Voglio fare molte altre cose nella vita, ho ancora troppe cose da imparare».