Farsi ricordare
La telefonata con Marta Cavalli era in corso da circa mezz’ora. La linea telefonica, nelle gallerie attraversate dal treno che la riportava a casa da Napoli, veniva spesso interrotta. Così le parole si inseguivano fra pause e ripetizioni. Ho atteso qualche minuto, giusto il tempo di arrivare alla prima fermata e come ho intuito che, almeno per qualche istante, la linea sarebbe stata buona le ho chiesto quello che meditavo da qualche giorno: «Marta cosa significa per te farsi ricordare? Come fai a farti ricordare?». Proprio così.
Per come la intendiamo noi, la preparazione di un’intervista è un insieme di atti estremamente delicati, in certi momenti anche invasivi. Cerchi notizie sulla vita dell’intervistato, ovunque. Passi in rassegna vecchi articoli di giornale, social, dichiarazioni rilasciate alla televisione. Vai a letto la sera con la cuffia nelle orecchie mentre risenti cronache di vecchie tappe o frammenti di dialoghi intercettati dai microfoni. Magari ti addormenti anche con quelle voci in sottofondo. Ti svegli la mattina e, al tavolo della colazione, cerchi foto, immagini, video di corsa in cui osservare ogni minimo dettaglio. Dal modo di pedalare allo sguardo. Dalla mimica dopo una vittoria alla delusione e agli occhi lucidi dopo una sconfitta. Insomma, entri nella vita di un’altra persona che, magari, non ti conosce nemmeno. Lo fai perché tu vuoi conoscerla, tu hai bisogno come il pane di conoscerla. Per l’intervista, certo. Ma non solo. Hai bisogno di conoscerla perché non c’è nulla di più brutto che spegnere il registratore dopo una chiacchierata e sentire che non ti è rimasto nulla. Sentire che in te non è cambiato nulla. Che è come se fossi stato davanti al computer o ad un muro. Tu eri con un’altra persona, tu hai raccontato e ti sei fatto raccontare, qualche modifica in te deve essere avvenuta. Devi avere sentito qualcosa, altrimenti che senso ha?
Così mi sono ricordato di quella didascalia ad una foto che Marta Cavalli aveva dedicato al ricordo. Ho pensato che sarebbe stato bizzarro chiedere ad una ciclista qualcosa di simile. Poi ho anche pensato che forse proprio per questo sarebbe stato interessante. Perché nessuno lo chiede ma, forse, in tanti se lo chiedono. Si chiedono chi sono queste ragazze una volta scese dalla sella. Ed è bello così, è giusto così. Marta ci ha pensato qualche secondo, dubbiosa, sicuramente stupita. Poi ha iniziato a parlare.
«Credo che per una ragazza con il mio carattere sia molto più difficile farsi ricordare. Lo sai, no? La società oggi tende molto a ricordarsi dei gesti appariscenti, delle battute ironiche, degli estroversi. Più volte mi sono chiesta quale sia il posto degli introversi nei ricordi. Sì, perché anche noi abbiamo un mondo dentro di cui vorremmo gli altri si ricordassero. Io vorrei essere ricordata, eccome se vorrei. So che dovrò fare molta più fatica perché non parlo molto, per i miei silenzi, perché sono timida. Ma so anche che questa fatica intendo farla tutta. Se sei come me devi dare ancora di più, devi fare ancora di più, devi essere ancora più precisa e meticolosa per essere ricordata. Ce la farai. Facendo così ci riuscirai. Vorrei che si ricordassero di Marta come di una ragazza che fa tutto quello che può al meglio, come di una professionista seria, come di una ciclista che ama il suo lavoro. Lo vorrei tanto e credo succederà».
È passato un anno, forse poco meno. Eppure, quando si parla di ricordi, a noi torna in mente quella telefonata. Ci sarà un motivo, non credete?
Foto: Bettini
Pensieri e parole
Quando Annemiek van Vleuten ha tagliato il traguardo di Plouay, ha guardato il cielo e mischiato sorriso e pianto. La gola, probabilmente, avrebbe voluto sorridere ma dagli occhi scendevano già alcune lacrime. Ci rendiamo conto che dire una cosa del genere per van Vleuten rasenti l’assurdo ma, forse, l’olandese non era la più forte, ieri pomeriggio. C’è stata molta tattica psicologica nella gara in linea delle donne élite e Annemiek van Vleuten ha giocato d’astuzia sino al rettilineo d’arrivo. Si è messa nella scia di Elisa Longo Borghini e Kasia Niewiadoma, non ha tirato un metro. Della serie: «Sono la più forte e dietro, in gruppo, ho una squadra altrettanto forte. Vogliamo andare via da sole? Bene. Tirate voi. Noi potremmo vincere lo stesso». Questo il messaggio da consegnare. Forse nella sua mente pensava altro e non tirava appunto perché non ne aveva le forze. Perché se avesse collaborato maggiormente, poi, non avrebbe avuto la stessa brillantezza per lo sprint. Van Vleuten ha raccontato una bugia senza proferir parola. E, consapevoli della straordinarietà della atleta di Vleuten, ci abbiamo creduto quasi tutti. Sì, perché chi era lì qualcosa ha intuito. Forse perché quando è rientrata Chantal Blaak è stata proprio van Vleuten a mettersi in testa al drappello, come per salvaguardare la compagna. Longo Borghini e Niewiadoma devono averlo pensato: «Strano. Sono in due e si limitano a controllare la situazione. Annemiek non scatta: o sta a ruota o si mette in testa e fa calare l’andatura. Queste vogliono portarci alla volata e metterci nel sacco».
Nella mente di Longo Borghini è balenato un fulmine in quel momento. Ed è partita Elisa. Uno, due, tre scatti. Blaak si stacca. Van Vleuten non risponde subito, perde qualche metro e poi rientra. È la conferma: «Ho ragione io. Non sei la stessa, Annemiek. Non sei la stessa». Se lo dice, si volta e riscatta Elisa. È la più brillante di quello che ormai è rimasto un terzetto. Lei e Niewiadoma si guardano negli occhi, come a trasmettersi quel messaggio. Van Vleuten è sola ed inizia a capire: «Se mi mostro vulnerabile è la fine. Dai, dai uno scatto. Uno solo. Magari si staccano, potrebbero avere già speso tutto. In ogni caso devo intimorirle. Vai Annemiek, vai». Ognuno si racconta ciò che può e muove le pedine come in una partita a scacchi. Quando Annemiek van Vleuten parte, la paura è che sia un arrivederci a dopo il traguardo. Anche Longo Borghini lo pensa: «Mamma mia se fai male quando parti. Altro che storie. Questa è sempre la stessa. Che male, che male». Per un attimo crolla il fine meccanismo psicologico costruito per tanti chilometri. Poi Elisa cambia rapporto, si alza sui pedali e guarda a terra: non vuole vedere dove si trova l’olandese. Spinge più che può e rialza la testa: «Ti torno sotto, ti torno sotto. E no, Annemiek, troppo facile così. Devi sudartela». Così si riforma il duo che andrà sino al traguardo: Annemiek van Vleuten ed Elisa Longo Borghini per l’oro europeo.
Lo sanno tutti e lo sa anche lei: le volate non sono mai state il punto forte di Longo Borghini. Mentre l’olandese quando lancia l’affondo è irresistibile. «Devo fare attenzione a quando parte. Devo essere concentratissima. Se le prendo la ruota, è fatta. Devo prenderle la ruota e uscire nel finale. Sì, devo fare così». Ancora nella testa. È lì che si rimescolano le carte mentre la pioggia lascia spazio a qualche raggio di sole sulle strade bretoni. La volata è lanciata: van Vleuten parte in testa, Longo Borghini le prende la ruota. Da un momento all’altro tutti si aspettano che Elisa sbuchi a destra o a sinistra. Niente da fare. Le immagini schiacciano, tra la ruota posteriore di van Vleuten e quella anteriore di Longo Borghini ci sono diversi centimetri. Troppi per prendere la scia e tentare un sorpasso. Van Vleuten oro, Longo Borghini argento, Niewiadoma bronzo. A un passo dal tris, dopo Balsamo e Nizzolo. Ma non conta. Non così tanto almeno. Elisa è stata commovente. Non si è mai arresa sino alla linea bianca, ha rilanciato anche mentre van Vleuten stava alzando le mani dal manubrio per festeggiare. I cinici, o forse solo quelli che non hanno mai preso in mano una bicicletta, diranno che non arrendersi è un dovere. Che conta solo vincere. Che dei secondi non si ricorda nessuno. Noi diciamo che il loro mondo ci fa un poco tristezza. Dei primi si ricordano gli albi d’oro e le persone, magari dopo averli consultati. Dei secondi, a certe condizioni, si ricordano solo le persone. Senza nemmeno bisogno di controllare. Perché quello che dai ti qualifica. Solo quello. Punto e basta.
Foto: Bettini
A chi importa chi era Knud Jensen?
Avete presente com'è Roma in piena estate? Il cemento sembra si sciolga sotto i piedi, lo smog, l'asfalto che bolle, il GRA, le auto che sfrecciano ovunque su e giù per la Cristoforo Colombo, l'altare della patria come un gigantesco panetto di burro che si sta squagliando su se stesso. Poi fai una visita alle Terme di Caracalla, sotto un sole così non è mai bello né passeggiare né pedalare, e quando la guida indica: «Quello era il Frigidarium!» ti ci butteresti dentro rischiando di farti arrestare.
Sessant'anni fa non era poi così diverso. Avete presente Roma, 26 agosto 1960, gara che dà il via ai diciassettesimi Giochi Olimpici? Vi ricordate di Knud Jensen? Avrebbe compiuto 24 anni da lì a pochi mesi, veniva da Århus, Danimarca, e faceva il muratore. In realtà preferiva pedalare e non sappiamo se per questo si sposò con la nipote di Henry Hansen, leggenda del ciclismo danese, due volte campione olimpico ad Amsterdam nel 1928. Fatto sta che era dilettante e quindi a fine mese doveva portare a casa qualcosa, e allora lui, muratore e ciclista, un connubio folle di fatica e masochismo, di giorno lo trovavi a piallare, di pomeriggio a pedalare e nemmeno con scarsi risultati.
Si presentava la mattina della 100 chilometri a squadre con un interessante curriculum: aveva appena vinto il titolo di campione dei paesi nordici, e la sua Danimarca aveva buone carte da podio dietro le inarrivabili Italia e Germania – unita, ma con un quartetto tutto DDR.
Ma a Roma, nel 1960, una nuvola nera passava come un presagio: pochi mesi prima dei Giochi, tornando a casa da un concerto, perse la vita Fred Buscaglione schiantandosi contro un furgoncino che trasportava sanpietrini. Il 26 agosto 1960, prima di ritornare sul traguardo-partenza di Viale dell' Oceano Pacifico, fu il turno di Knud Enemark Jensen.
Faceva caldo, quel giorno, da sgretolare i sassi. 33 gradi al mattino e lungo via Cristoforo Colombo - "una strada che non rivela mai nulla, dove correre diventa una sorta di facoltà automatica che l'atleta è in grado di ripetere per un tempo impossibile da calcolare" scrisse Jacques Goddet, direttore de L'Équipe - si arrivò a oltre 40. Intorno nulla a dare un po' di refrigerio, fronde dove nascondersi o aspettare una bava di vento che ti rinfreschi o dia sollievo; solo gruppi di tifosi e curiosi, militari a far da sicurezza, enormi pennacchi futuristici a reggere bandiere di ogni nazione, e sullo sfondo il Velodromo Olimpico dell'EUR che appariva come una navicella atterrata in mezzo al deserto – e infatti come arrivata, se ne andò: inutilizzato dal '68 e demolito nel 2008.
E che routine la 100 chilometri a squadre! Prova a cronometro massacrante e spettacolare; per molti il sunto dell'esercizio fisico e tattico sulle due ruote - e perciò scomparsa per fare posto a scialbe e inutili trovate, l'ultima: la staffetta mista a cronometro! Su quello stesso asfalto che bolliva, Bikila Abebe, un paio di settimane dopo, avrebbe vinto a piedi nudi la Maratona dei Giochi, facendo anche lui su e giù per l'interminabile Colombo, la via più lunga d'Italia e in alcuni punti anche la più larga.
Si racconta di come quel mattino Jensen si fosse lamentato di non stare bene: ma tant'è, si partì ugualmente. Si va al macello, non c'è un dio a cui appellarsi, non c'è conforto, se non in quello della fatica che ti corrode i muscoli fino all'osso. Non ci sono motti decoubertiani; verranno solo aggiunti tanti, troppi dettagli dopo il suo incidente, che se ne discute ancora oggi – ad esempio se l'allenatore avesse dato o meno del Roniacol ai suoi corridori. E insomma succede che faceva così caldo che a fine corsa 31 corridori furono colpiti da un malore, e alla squadra danese non andò meglio. Il primo fu Jørgensen: iniziò a stare male da subito e si staccò. Il quartetto divenne un terzetto. Forse fu quello a salvarlo – fu portato di fretta in ospedale - e la mano tesa che decise di strapparlo al suo destino, divenne uno schiaffo che fece ruzzolare a terra pochi chilometri dopo il povero Jensen. «Mi sento male!» il suo urlo, e un compagno di squadra gli buttò acqua fresca addosso reggendolo per una maglietta. Giusto il tempo di lasciarlo andare e qualche centinaia di metri dopo Jensen cadde a terra. Colpì violentemente la testa – rigorosamente protetta solo da un cappellino. Frattura del cranio: venne trasportato, dopo diversi minuti d'attesa, in una tenda allestita in un ospedale militare. C'erano 50 gradi lì dentro: disidratazione, frattura del cranio, arresto cardiaco. Jensen morì lì: “Questo solo capì. Di essere caduto nella tenebra. E nell'istante in cui seppe, cessò di sapere”.
L'autopsia, inizialmente, parlò di morte per frattura del cranio per la caduta causata da un colpo di calore, poi negli anni si sono susseguiti giochi politici e mediatici atti a manipolare e strumentalizzare la scomparsa del ragazzo – la sua morte macchiata dall'uso di anfetamine e tutt'ora mai accertata resta al centro di una controversia. Il CIO si premunì nel far passare la vicenda come “emblema della lotta alle sostanze proibite” e il caso di Jensen come quello del “primo morto per doping nella storia”. Sette anni dopo si istituirà la prima vera commissione antidoping, ce ne vollero otto, da quel misfatto, per effettuare i primi controlli: una battaglia tra doping e antidoping che diventa una vera macchina fabbrica denaro e che prosegue fino ai tempi nostri. Ancora oggi, studi compiuti sulla morte del ragazzo e documenti della Wada si contraddicono. Martire oppure mito: come se poi importasse davvero al fine di capire chi era Knud Jensen.
Per approfondire che cosa si dice ancora oggi sulla morte di Knud Jensen: "The truth about Knud: revisiting an anti-doping myth"
https://www.sportsintegrityinitiative.com/the-truth-about-knud-revisiting-an-anti-doping-myth
Foto: https://www.sportsintegrityinitiative.com
Elisa, Filippo e una terra
Vincent Van Gogh sosteneva che ci fosse una sorta di limitatezza in ogni arte. Una limitatezza che consente solo di avvicinarsi al reale percepito senza mai raggiungerlo completamente. E quindi senza mai trasmetterlo completamente. Così ieri abbiamo ripensato a quello che ci aveva detto Elisa Longo Borghini. Elisa sostiene che l’inno nazionale sia speciale: «Personalmente devo confessare che l'inno è un qualcosa di incredibile. Quando sei lì sul podio e lo senti, provi una sensazione indescrivibile. È sicuramente qualcosa di eccezionale. Non riesco a non commuovermi quando parte». Noi abbiamo avuto la fortuna di vedere i suoi occhi, quando ha preso in mano la maglia tricolore prima di indossarla, dopo la vittoria ai campionati nazionali a cronometro, e abbiamo sentito ciò che dalle parole potevamo solo intuire. E forse Elisa Longo Borghini è la persona giusta per capire meglio questa cosa, lei che se ripensa al suo momento più bello pensa ad una compagna di squadra: «Dovessi sceglierne uno ti direi che è stato tagliare il traguardo a braccia alzate insieme alla mia compagna di squadra Audrey Cordon Ragot a Plumelec, nel 2014». Del resto anche le persone possono essere un momento, no? Lei che è umile. Talmente umile che alla sua prima gara, in Belgio alla Omloop Het Nieuwsblad, il 26 febbraio 2011, si ritrovò fra le prime e pensò solo: «Ma sono davvero qui? Che ci faccio qui fra le prime?». Lei che è per la quarta volta campionessa italiana contro il tempo.
Filippo Ganna, da ieri, ha in comune con Elisa la maglia tricolore. In realtà da sempre ad Elisa Longo Borghini, lo accomuna la terra. Il Verbano-Cusio-Ossola: di Ornavasso lei, di Verbania lui. Caso vuole che, per noi, oggi, Cittadella e il Verbano non siano così distanti. Caso vuole che un signore, in un bar, si rammarichi col barista per non aver potuto vedere le prove. Un rammarico vero, sincero. Non una di quelle cose che si dicono per conversare mentre si beve il caffè. E chiosi con un: «Pippo è così bello in sella». Bello e veloce, diciamo noi. Forse un poco timido. Ha quell’espressione da bravo ragazzo e quello sguardo che rifugge gli sguardi. Sicuramente sincero. Per Filippo Ganna la felicità non è solo la vittoria. La felicità è la consapevolezza di essere riuscito a fare il massimo. Sì, perché a fronte di una grossa onestà intellettuale, se vinci senza aver dato tutto, non senti il merito di quella vittoria. Ti manca qualcosa. «Direi che ho corso un 10% sotto le mie possibilità, sia per il caldo sia perché comunque non avevo fatto una preparazione specifica per questo appuntamento. Dopo venti, trenta minuti di sforzo ho cominciato a perdere potenza, per fortuna sono comunque riuscito a difendermi. Per questo motivo non riesco ad essere felice al 100%, però sicuramente aver confermato questa maglia tricolore è un bell'orgoglio». Perché, alla fine, devi rendere conto a te e solo a te.
Elisa Longo Borghini e Filippo Ganna sono campioni italiani contro il tempo.
E di sicuro non è un caso.
Andare in bicicletta mi rende felice
Peter Schermann aveva ventisei anni quando comprò la sua prima bici da corsa. Fino a quel momento aveva giocato a basket in una squadra amatoriale, si era laureato in psicologia e il suo tratto distintivo era sempre stata una smaccata concitazione dentro al fisico di un corazziere: 190 centimetri per 95 chilogrammi.
Quando uscì in bici per la prima volta si era dimenticato di gonfiare bene le gomme e dopo dieci chilometri aveva dovuto farsi venire a prendere dalla sua ragazza: bucò entrambe le ruote e tornò mestamente a casa.
Alla sua prima corsa si presentò con una maglietta con su scritto "Livestrong"; la gente gli rideva dietro, vedeva questo buffo e goffo omaccione cercare di districarsi con la mountain bike e che veniva superato da ogni concorrente possibile: finì doppiato due volte ed estromesso dalla corsa. Ma non ne fu per nulla turbato.
Il ciclismo lo aveva rapito, era la brama di agonismo che lo aveva sempre caratterizzato sin da quando, bambino, si allenava giorno e notte con un canestro fuori dal garage di casa sua insieme al suo fratello gemello. Cresceva di livello nella ditta in cui lavorava, ma aveva bisogno di placare quella tirannica sete, finendo per alzarsi ogni giorno alle cinque del mattino con il solo scopo di allenarsi. Poi andava a lavoro in bicicletta, e in pausa pranzo si allenava; tornava a casa in bicicletta e la sera ancora ad allenarsi e poi, nei giorni di riposo, via ad allenarsi per recuperare il tempo perso dietro alle cinquanta ore di lavoro settimanali in azienda.
Dopo il primo anno di bici, era il 2015, Peter Schermann strapazzò la concorrenza in una gara locale su strada finendo per impressionare Marc Pschebizin, leggenda tedesca del Triathlon e soprannominato Mister Inferno per aver vinto ben dieci volte una delle prove più dure della specialità: l'Inferno Triathlon. Preparatore atletico, Mister Inferno consigliò a Peter di darsi una calmata «Sei bravo, hai talento, ma esageri con gli allenamenti». E infatti Peter, a furia di allenamenti massacranti, formaggio quark e noci, racconta che «dopo sei mesi iniziai ad assomigliare più a un ciclista che a un giocatore di basket». Due anni dopo, Peter vince la stessa corsa di mountain bike che lo aveva visto umiliato tempo prima.
Ma la mattina di Pasqua 2017 viene inghiottito da un buco nero degno di un passaggio dimensionale dentro Providence – Rhode Island. Erano passati un paio di giorni dall'ultimo allenamento e dopo aver chiamato al telefono un amico per uscire in in bici iniziò a sentirsi male. Dalla stanza penetravano rumori ovattati: Peter si guardò allo specchio e non riusciva a riconoscersi. Era, racconta sulle pagine di develo.cc, come se stesse guardando l'immagine deformata di qualcuno che non era lui. «Ho fatto la doccia e ho provato a cantare qualcosa ma non usciva nessun suono. Non riuscivo a formare le parole mentre l'acqua della doccia sbatteva così forte, come fossi nel mezzo di una grande tempesta».
Bussarono alla porta, era il suo amico. Andò ad aprire in una sorta di trance, mezzo svestito. L'amico credeva fosse un gioco, uno scherzo, poi le vertigini presero il sopravvento. Per fortuna di Schermann l'amico era stato paramedico e colse la gravità della situazione chiamando un’ambulanza. Dopo averlo visitato sul posto gli dissero: hai avuto un ictus.
Non riusciva a parlare, Peter, non poteva muovere il suo corpo: era come un pezzo di carne intorpidito ma con i pensieri vigili: «La mia mente era completamente normale a parte il fatto di sentirmi stordito, quasi sopraffatto». Mentre aspettava l'arrivo dell'ambulanza Peter ricorda, come un sogno lontano, che stava cercando di indossare la sua biancheria intima pensando: «Questa roba mi sta scomoda, non è la mia».
Gli dissero che il suo sistema nervoso era stato inattivo per oltre mezz'ora e che molto probabilmente il suo lato sinistro del corpo non si sarebbe più ripreso per via dei danni cerebrali causati dall'ictus. E lui, quattro mesi dopo, era di nuovo in sella a una bicicletta, ma non solo. Al via del Tour of Xingtai, corsa su strada del calendario UCI, aiutò il suo compagno di squadra Carstensen a conquistare un successo di tappa.
Oggi Peter Schermann pedala ancora, più di prima. Racconta di come il ciclismo abbia avuto una parte fondamentale nella sua riabilitazione, di come gli abbia dato la motivazione nell'alzarsi ogni mattina, prima pedalando qualche minuto, poi un po' di più, poi diverse ore al giorno, al sole o sotto la pioggia. Ha corso su strada, ha vestito la maglia della nazionale tedesca nella coppa del mondo di mountain bike ottenendo piazzamenti dignitosi e all'inizio del 2020 ha persino chiuso nei primi dieci la Cape Town Cycle Tour. «Incredibile, vero?» racconta. «Nessuno ha capito perché mi è successo quello che mi è successo, ma io so una cosa soltanto: andare in bicicletta mi rende felice».
Foto: Peter Schermann/Facebook
Smog
“Dolce massacro, bici, dolce massacro. Perché ho cominciato ad andare in bici mascherato come un clown per le strade di Roma? Mandando giù lo smog fino alle cavità più nascoste degli alveoli, rischiando un'infinità di volte di finire sul lastricato, inghiottito da qualche paraurti.
Perché continuo a pedalare ancora per dieci chilometri dentro una giungla di lamiere, prima di uscirne fuori e finalmente respirare senza sentir dentro l'anidride carbonica che mi divora i polmoni?
Perché i chilometri, la fatica, gli scatti, i controscatti, le salite, le forature, le mani sporche di catena, i tubolari che non vogliono né uscire né entrare, gli automobilisti, i clacson?
Gli automobilisti che ti suonano in continuazione, che ti evitano per miracolo mandandoti al diavolo se pedali un centimetro più a sinistra della “loro” corsia. Perché?
Non saprei, ma ogni tanto, a cavallo di quella bici, mentre ti mantieni miracolosamente in equilibrio su quei due centimetri di gomma, sospeso in aria, senza rumore, spinto dalle tue sole forze, ti succede qualcosa di insolito e ti senti la vita addosso. E non capita spesso di sentirsi la vita addosso, sia pure per un attimo. A volte ne basta uno per capire che ce la possiamo fare, che ce la stiamo facendo; solo uno per sentirsi ancora in corsa, continuando a nuotare senza andare a fondo.
E non c'è nient'altro che ti vada di fare se non far girare le tue maledette gambe su quei pedali.
Mi rendo conto di quanto tutto questo possa essere crepuscolare per una gnocca grunge e il suo teddy boy tutto anfibi e mimetica: rimarrebbero un po' perplessi, soprattutto sulla questione della vita addosso. E ogni tanto, lo ammetto, la penso come loro. Penso davvero che quel frenetico frullio sia veramente stucchevole, che non abbia niente a che fare con un terzo tempo di Jordan, una stop volley di Mac, una pirouette del Tartaro Volante...
Pure, quella solida presa sul manubrio che te la fa possedere – soprattutto quando lo impugno da sotto in posizione da volatona finale, da crono, alla Jacques Anquetil o alla Charly Gaul in salita, insomma nel bel mezzo della sua curvatura – quella posizione compatta sul telaio, quel mento spinto in avanti sopra il manubrio, quei muscoli tirati dai tendini sui pedali, danno un potere inesauribile in sella alla tua bicicletta.
Ecco perché vado in bici, e non rompetemi, pseudogiocatori di calcetto notturno, con la solita storia che non ci trovate niente d'interessante in una corsa ciclistica o in un'uscita fuori porta di sessanta chilometri...
La bici la ami se la cavalchi, finquando non riesci a domarla la odi e ti viene la nausea soltanto a guardarla.
Finquando non la domi, la bici è meglio che non la stuzzichi (detto degli ultimi sopravvissuti pedalatori delle città).”
Il brano si inserisce apparentemente senza un senso, all'interno di “Miguel y Marco – la fantastica corsa nella terra di Macondo”, libro del 1995 di Maurizio Ruggeri, edito da Limina. Un resoconto ironico, pungente e romanzato del Mondiale di Duitama, e dove un finale alternativo elimina – nel vero senso della parola – Olano, “compañero ribelle che sembra il suo gemello monozigote, il suo replicante che non ha voluto perdere di vista”, e lancia Indurain e Pantani verso il traguardo. Un libro geniale, che alterna rabbia verso il mondo del giornalismo e del doping, sprezzante ironia contro i mostri sacri dell'epoca – da Adorni a Bugno e De Zan. Tra agonismo e poesia proietta i protagonisti di quell'indimenticabile gara nell'olimpo del cinema di Bergman, delle imprese di Gimondi e dell'epica di Melville e di Omero.
Foto: olympodeportivo
«Sei sempre il benvenuto»
La prima volta che ho scambiato qualche parola con Cecilie Uttrup Ludwig eravamo a Innsbruck, al Mondiale 2018. Ero con un collega nella zona bus della partenza della prova femminile: «Vieni con me, ti presento Cecilie. È una ragazza speciale». Avrei accettato senza alcun dubbio, in realtà ho tentennato qualche minuto. La partenza di una prova mondiale è un momento estremamente delicato, non tutti hanno voglia di parlare e, per carattere, temevo di disturbare. Mi è bastato incrociare lo sguardo di Cecilie Uttrup Ludwig, ma chiamatela pure Cylle, per cambiare idea ed avvicinarmi. Qualche parola, qualche sorriso e poi un congedo. Non un congedo qualunque. Poche parole ma dense di significato: «Torna quando vuoi, sei sempre il benvenuto». Cose rare, insomma.
Quel giorno ho iniziato a capire chi era Cylle. Il resto l’ho compreso col tempo. Questa ragazza da leggere. Un libro piacevole, dedicato all’allegria. E lei lo dice: «Io rido perché è bello ridere. Ed è bello il mondo con tante persone felici». Un inno alla felicità, alla genuinità. Come a modellare quel sentimento che sembra innato in lei. In realtà no, in realtà la felicità va difesa, protetta, voluta. Non è una scelta facile, comporta una forte capacità di lettura alternativa del circostante. Una lettura non omogenea, una lettura che sappia distaccarsi dalle tante cose che dice la gente. Ma Cecilie Uttrup Ludwig è affezionata alla felicità e a ciò che è felice. Sarà per questo che oggi parla di “un arrivo felice”. Sarà per questo che raddoppia, se possibile triplica, gli aggettivi che definiscono le sue sensazioni. Non è solo felice, è felicissima. Non è solo soddisfatta, è estasiata.
Una felicità radicata. Sì, perché Cylle nota tutto. Anche il minimo graffio delle compagne di squadra, anche sotto la pioggia, sotto il diluvio. Chiede, si informa, si interessa. Ha un’interiorità ricca che trabocca dalla mimica. Ogni tanto anche dalle parole. Così appena taglia il traguardo del San Luca, dopo aver abbassato le braccia, grida con tutta la voce che ha. Dice solo sì. Yes, in inglese. Uno sfogo. Arriva in fondo al rettilineo, torna indietro, incontra una compagna di squadra ed esulta con tutto quello che ha. Con un’incredulità bambina: «Oh my God, oh my God, oh my God». Fino al podio. Che le restituisce l’applauso degli addetti ai lavori e una inconfessata timidezza quando troppe macchine fotografiche la inquadrano. Si scosta, quasi un passo indietro a fare spazio alle compagne. Un pensiero fugace a tante cose. E di nuovo il suo sorriso.
Sì, Cylle. Sei felice. Tanto.
E te la meriti tutta questa felicità.
Foto: CLaudio Bergamaschi
Diavolo di un Gerbi (e di un Evenepoel)
Che bellezza i vent'anni. Immaginatevi ad averli durante un Giro di Lombardia e magari vincerlo come Giovanni Gerbi, il diavolo rosso. O semplicemente poterlo correre, come Remco Evenepoel, lo spauracchio dei nostri tempi. Vent'anni: e chi mai potrà ridarceli.
C'è un filo che accomuna i vent'anni di Evenepoel e quelli di Gerbi e che potrebbe essere annodato. Su quel filo scorre il primo Lombardia della storia: lo vinse proprio Gerbi. La corsa nacque per chiudere la stagione e fino a un tempo nemmeno troppo lontano era definita “la classicissima”. La prima edizione si disputò nel 1905 e sarebbe dovuta essere la resa dei conti tra i clan di Cuniolo e Albini per una lite scoppiata dopo una serie di vittorie dell'uno sull'altro: era un 12 novembre e la corsa si svolse in mezzo al freddo al fango. Alla fine la vinse Gerbi, abile a metterci lo zampino, diavolo non per caso.
E visto che si ricorre a stratagemmi cabalistici: sarà il primo Giro di Lombardia (ahinoi chiamato ora Il Lombardia – che di accattivante non sembra avere nulla) per Evenepoel, a vent'anni – tanti quanti Gerbi quella volta. Un talento fiorito in primo pelo, con quella forza straripante che per qualcuno sfocia persino in arroganza. Quando parte non ti resta che vederlo sempre più piccolo e con un distacco sempre più grande. Fossimo nel ciclismo dei pionieri ne scriveremmo la sua epopea. Fosse vissuto un secolo fa ne esalteremmo la grandezza, abbandoneremmo maldicenze e dubbi guardando solo alle sue imprese.
I due sono figli del proprio tempo: immaginatevi se oggi Remco Evenepoel sparasse a un contadino con una carabina o investisse una signora in piazza Campo del Palio ad Asti. Oppure se corresse con una bicicletta pagata trenta lire, andasse in fuga per duecento chilometri e vincesse con quaranta minuti di distacco sul secondo. Oppure immaginatevelo che si sveglia tardi dopo aver dormito in una locanda, parte insieme al suo compare con un quarto d'ora di ritardo, riprende il gruppo, stacca tutti e vince – davanti al suo compare.
Immaginatevi Remco Evenepoel fare lo scalpellino, il sarto, il garzone di bottega oppure immaginatevelo sulle strade del Tour scambiato per un suo avversario, assalito, buttato a terra e picchiato, e salvato solo grazie all'intervento di alcuni tifosi armati di pistola.
Immaginatevi Remco Evenepoel presentarsi al via con un maglione rosso; ma “chi a l’è chel diau? “ potrebbe sentirselo dire davvero oggi, se gli venisse qualche strana idea.
Immaginatevelo in corsa, proprio oggi, in mezzo a quelle strade tortuose come un accidenti, ma vuote per colpa di quel maledetto virus. Immaginatevelo all'attacco, ad accelerare la sua educazione e a strapazzare il destino degli altri.
Comunque vada sarà un bel vedere, diavolo di un Evenepoel, di Gerbi ne abbiamo soltanto letto, ora tocca a te farci divertire.
Foto: Giovanni Gerbi, Le Monsterrato
Dai Paolo! Dai Paulinho!
Uno è Paolo (Bettini), l'altro è Paulinho (Sergio). Uno è affamato, l'altro, a sentire la telecronaca della Rai, sembra quasi lì per caso. Un turista che sceglie la Grecia come meta estiva e vaga in preda ai vapori dell' ouzo e al sapore divino delle costolette. Oppure uno spettatore accaldato che insegue a torso nudo i suoi idoli.
Uno è un grillo, l'altro una sfinge del galio. Uno è un lupo, l'altro un buon segugio che fiuta il momento giusto, la ruota giusta, la schiena più ammiccante tra trenta o più. Uno è un fuoriclasse, l'altro un comprimario - «ma non sottovalutarlo», gli ripete Ballerini in corsa. Era Atene, era la Grecia, era il 14 agosto del 2004. E faceva un caldo che sembra di sentirlo ancora oggi.
Uno attacca, l'altro risponde. Il Licabetto che sovrasta Atene è lontano dal traguardo, ma nemmeno troppo. Dai Paolo! Attacca Paolo! Scatta su quella salita non irresistibile ma che alla lunga fa male. Non avrai mica voglia di usare la funicolare? Non pensare a Ullrich, fa paura solo a se stesso. E quel Valverde, poi? Gli stai insegnando il mestiere e da te imparerà come si fa. Gilbert, invece, è ancora un bambino. E Vinokourov? Ha occhi piccolissimi che sembrano due fessure, parla in un idioma incomprensibile, tutto suo. Lo hai mai sentito quando prova a dire qualcosa in italiano? Non puoi avere paura di lui. Dai Paolo! Fatti beffe di loro, non crederai mica che se loro avessero la possibilità di staccarti ti lascerebbero vincere? Sono soldati del Re, tu un brigante: ti salterebbero in groppa e ti riempirebbero di calci e pugni fino a farti scendere dalla bicicletta.
E così Paolo va e Paulinho pure. Uno è un mito da narrare davanti a un fuoco – due coppe del mondo (ma quanto era bella?), una Milano-Sanremo, due Liegi, poi arriveranno due mondiali – l'altro è un simpatico aneddoto da raccontare al bar davanti a una (due, tre...) pinte di birra.
Dai Paolo! Attacca su quella salita creata per sbaglio dall'ira di Atena; la tua ira è calcolata, quella di Ballerini invece è tattica sopraffina – si racconta di quante ve ne siete dette, ma tra toscani, amici, colleghi, grandi corridori, accade.
Dai Paolo, mancano mezz'ora all'arrivo e nessuno ci sta capendo nulla. In televisione parlano di Azevedo (già!) più che di Paulinho: “non potevi trovarti compagno migliore” - ti avremmo voluto gridare noi, da qui. Lo facciamo a distanza di anni e di chilometri, facendo finta che ancora nulla sia successo. Forza Paolo, forza anche te, Paulinho: dai una mano finché puoi. Il Portogallo non è mai stato così in cima al mondo – all'Olimpo? - di una corsa in bicicletta.
Dai Paulinho, dai Paolo: c'è un caldo che ti si appiccica addosso come una seconda pelle. Dai Paolo, supera l'ultimo chilometro, non fermarti che il surplace ha gli artigli neri come un granchio di ferro, rispondi alla volata di Paulinho che sembra fatta giusto per far spaventare tutti a casa, o come per dire: “Guardate che c'ero anch'io”. Occhio: dietro il gruppo rinviene. C'è Axel Merckx che vuole portare nella famiglia “Il Cannibale” l'unica medaglia che manca.
Non ascoltare quello che dicono in sala stampa: da non sapere chi fosse, Paulinho è diventato: “ un corridore temibile allo sprint!” Dai Paolo, affiancalo, superalo, gioisci. Che il tuo trionfo è pure nostro.
Giusto il tempo di capire e di staccare le mani dal manubrio, salutare la tribuna con un gesto impercettibile, mostrare un accenno di pallidi muscoli e sfoderare una bocca a forma di o per lo stupore, il giubilo. Uno è medaglia d'oro, l'altro è argento. Dai Paolo! Dai Paulinho! L'eco si sente fino a qui, fino a oggi.
«Mamma, ha vinto papà?»
Oscar, il figlio di Damiano Caruso, un giorno era davanti alla televisione durante una gara ciclistica: «Mamma ha vinto papà?». Quel giorno papà non aveva vinto e mamma dovette dirglielo: «Non è niente mamma. Facciamo finta che abbia vinto, così gli organizziamo una bella festa». Oscar ha sei anni ed è stata la prima persona a cui ha pensato papà Damiano quando, il due agosto, è tornato alla vittoria al Circuito di Getxo, dopo sette anni e mezzo. «Ho pensato a lui dopo il traguardo. Mi sono detto: adesso papà ti porta una coppa vera e organizza una vera festa». Così Damiano Caruso ha regalato quella coppa ad Oscar e per il piccolo di casa Caruso quello è il regalo più bello del mondo. È felice e papà vuole solo questo per lui: «Quando sei felice non ti arrabbi, non provi invidia, non discuti in continuazione. Io sono un uomo felice e la felicità degli altri mi piace».
«Ho passato tanto tempo a casa con la mia famiglia. Quando sono ripartito ho cercato di spiegare ad Oscar cosa sarebbe successo da quel momento in poi. In questi anni mi sono tolto tante soddisfazioni con i miei capitani e le mie squadre; volevo una vittoria non tanto per me. La volevo per la mia famiglia e per i miei amici più cari. La volevo per ricambiare. La volevo perché era giusto che loro potessero gioire vedendomi a braccia alzate». Damiano Caruso è un gregario, un gregario di quelli bravi, ed ha una devozione incondizionata verso il suo ruolo: «Essere gregari vuol dire non avere alcuna riserva sul tuo impegno. I miei capitani si fidano di me perché sanno che la mia parola vale. Perché so quanto è importante la parola data e non la tradirei mai». Quando gli chiediamo chi sono i gregari di questa società, in questo periodo, non ha dubbi: «Credo che siano tutte le persone che, nonostante i rischi, nonostante la paura, continuano a fare il loro lavoro. Dal fattorino che non si è mai fermato un giorno per portare il cibo a casa agli anziani, ai medici nelle corsie degli ospedali. Sono questi i gregari di lusso del mondo. Coloro che rispettano il loro dovere e vanno fino in fondo».
Poi c’è il caro vecchio ciclismo che nel tempo è cambiato, forse troppo: «Credo ci sia dell’esasperazione. Non solo nel ciclismo, sia chiaro. I giovani di oggi sono troppo succubi del risultato, troppo ansiosi. Facendo così, se non finiscono per odiare la bicicletta, finiscono per prendere qualche brutta strada. Bisogna spiegare che ogni storia vale. Ogni storia conta. Anche se non vinci, anche se arrivi ultimo. Bisogna spiegare che ogni storia merita di essere raccontata e rispettata. Siamo duecento corridori con duecento storie diverse. Proviamo a raccontarle tutte».
Proviamo. È una promessa.