Giovanni Visconti, come al primo giorno
Chi prova a narrare storie sa bene il talento di Giovanni Visconti nel raccontare. Giovanni parla nel modo che preferiamo: umile, semplice, spontaneo. Tu lo ascolti e, qualche volta, quasi dimentichi di rilanciare la domanda tanto quel flusso ti prende. «Sai, mi sembra tanto il primo giorno oggi. Ma non il primo giorno di corsa dell’anno, proprio il mio primo giorno di gare di quando ero un ragazzino. Forse anche bambino. Diciamo che è un poco tornare piccoli, almeno con le sensazioni». In realtà, lo sguardo al mondo del siciliano di Palermo è rimasto quello di quel ragazzo. Basta poco per capirlo. Per esempio osservare i dettagli su cui si sofferma. Dettagli che restano impressi quando si è più giovani, da grandi, purtroppo, si tende a normalizzare tutto. Una disdetta degli anni. «Penso che per i più non sia salvezza ma taluno sovverta ogni disegno» diceva Montale. Visconti è la variante.
Venerdì scorso era dispiaciuto: avrebbe voluto essere a Siena a correre quella che, per lui, è la corsa più bella del mondo, la Strade Bianche. Avrebbe potuto dire e scrivere molte cose, ha scritto solo che gli mancavano «quelle sere fuori dall'hotel a pensare a come sarebbe andata l'indomani, a toccare per l'ennesima volta le ruote, a controllarne la pressione». Gli mancava un dettaglio, un attimo. Quel giorno lo ha passato allenandosi e oggi dice che, forse, aver evitato quel caldo, quella polvere, quella fatica, potrebbe dargli qualche vantaggio. Sì, lo dice. Sorride. Ma c’è nostalgia. C’è voglia di ritorno.
Come sta, a dire il vero, non lo sa neanche lui. Non può saperlo. «Quando torni a fare qualcosa dopo tanto tempo non sai cosa aspettarti. Lo sai solo dopo averla fatta. Spero che vada tutto bene ma allo stesso tempo ammetto che qualche dubbio lo ho. È stato un periodo difficile, per tutti. È così diverso. Ci manca il pubblico. La gente è parte di noi. È così brutto non poterla vedere. Verrebbe voglia di non crederci invece è proprio vero».
Giovanni Visconti ha un desiderio. Vorrebbe che la stampa, che le televisioni, che i mezzi di informazione, raccontassero questa storia seppur triste: «Noi stiamo tornando a correre, stiamo tornando alla normalità ma c’è stata tanta sofferenza in questo periodo. Tanta fatica per restare a galla. Per esserci, per esserci ancora. Proviamo a parlare delle squadre, degli organizzatori, dello staff che c’è dietro di noi. Ricordiamo la loro importanza. Le loro difficoltà. Dovremmo smetterla di dare le cose per scontate. Nulla è scontato. Nulla».
È vero, Giovanni. È vero.
Foto: Claudio Bergamaschi
L'oro di Casartelli
Barcelona, Giochi Olimpici del 1992. Si fa la storia: Christie, Sotomayor, Settebello, Magic Johnson, Michael Jordan, Larry Bird, Dream Team. In mezzo a loro Fabio Casartelli.
Barcelona, Sant Sadurní d’Anoia per la precisione. È il 2 agosto. Prova in linea di ciclismo su strada da disputare in mezzo ai soffocanti vigneti che producono il Cava, lo spumante spagnolo. Fabio Casartelli è giovane, spumeggiante per l'appunto; come tutti i giovani è anche bello e pieno di speranze. Come tutti i suoi coetanei più che preoccuparsi del futuro si occupa del presente e il presente, quel giorno, significa Giochi Olimpici.
Dilettanti, perché quella fu l'ultima edizione: dal 1996 via libera ai professionisti. Durante la stagione Casartelli è uno dei migliori in Italia e di conseguenza è una dei tre selezionati per la prova olimpica. Su di lui molti scommettono come futuro cacciatore di grandi classiche. La Sanremo è tagliata per lui, si dice. E il tracciato olimpico, severo ma non troppo, ricco di saliscendi, dominato dall'afa delle campagne catalane e dal bollore di un asfalto così chiaro da accecarti, è fatto su misura per il corridore cresciuto nella provincia di Como. E in gruppo non lo sanno, o meglio, scelgono diversamente marcando Gualdi e Rebellin.
È una corsa che si rivela lineare come da protocollo. Coltello tra i denti, cadute, carneadi alle prime armi. A poco più di un giro dal termine si decide tutto. Casartelli rientra nel gruppo davanti; ha il fiuto per cogliere il momento buono, perfetto gioco di squadra con Gualdi e Rebellin - uno che ancora oggi pedala in gruppo. Davanti restano in tre; stringono un tacito quanto paradossale accordo, come fosse il finale di un racconto di Raymond Carver. Una medaglia sarebbe arrivata in ogni caso e difatti sul traguardo, mentre Fabio Casartelli sprinta e conquista l'oro, Dekker, secondo, e Ozols, terzo, alzano le braccia al cielo ammaliati dall'idea di un podio olimpico. Nel gruppo dietro, tra gli altri, chiudono Zabel e Armstrong.
Dopo aver tagliato lo striscione a braccia alzate, Casartelli è assalito dai tifosi; gli strappano la maglia dalla gioia tanto che salirà sul podio con quella di Gualdi.
Abbiamo pianto quel giorno per Fabio Casartelli, piangeremo ancora per lui tre anni dopo. Quella, purtroppo, è una storia che non avremmo mai voluto conoscere, né vivere, né raccontare. Ovunque rimbalzi il suo ricordo, rubando la chiosa a Roberto Perrone: “Fa buona strada, Fabio”.
Percezioni
Quante modalità ci sono affinché l’essere umano possa percepire il circostante? I sensi, certamente: vista, udito, olfatto, tatto e gusto. Sono qualcosa di particolare i sensi, a metà tra intelletto, anima e una certa meccanicità. Il senso, infatti, seppur teoricamente connotato da un qualcosa che sfugge al nostro intelletto, in realtà, almeno per come vive la società moderna, è molto legato all’intellettualità. Tendiamo a controllare i sensi, a filtrarli, provando a capire dove vanno a parare, forse anche per evitare di smarrircisi. Forse, e ripetiamo forse, come uomini saremmo anche più “simili” ai sensi e alle sensazioni, per quanto l’intelligenza umana sia in grado di fare cose spettacolari. Li freniamo, li controlliamo, per sentirci sicuri. Come se non sapessimo che il cervello mente e spesso ricostruisce una parziale verità. Talvolta anche solo per paura. Sì, perché anche la paura è molto mente.
Capita, poi, di trovare qualcuno che assomigli così tanto alle sensazioni, che le viva così intensamente, che non le rifugga, qualcuno che sia sensazione. Francesca Baroni è così. Le chiediamo se le vibrazioni degli sterri senesi non la spaventino: «Le vibrazioni della bicicletta per me ormai sono una cosa normale. Ho un problema di udito e per comprendere le parole delle persone osservo il labiale. La mia bicicletta la conosco perfettamente, non sento i suoi rumori con le orecchie, li sento attraverso le vibrazioni. Una vibrazione strana per me significa che la bicicletta ha qualcosa che non va. I meccanici guardano, controllano e trovano il problema. Le vibrazioni sono una sorta di udito. Un mio modo per sentire. Non mi creano problemi. Il resto sta tutto nel pedalare forte». Lei, solitamente, fa cross con il team Guerciotti e alla sua prima Strade Bianche osserva: «Lo sterrato percorso con la bici da strada è tutta un'altra cosa rispetto allo stesso in bici da cross: le gomme sono lisce e più strette rispetto ai tubolari che solitamente si usano nel cross e anche le pressioni da tenere sono diverse. Il secondo e il terzo settore mi piacciono molto. Il rischio di forature è sicuramente maggiore. La paura di non essere all’altezza quando affronti qualcosa di nuovo c’è sempre. Però c’è anche la speranza di esserlo».
Francesca ha un qualcosa di Siena: lentiggini e capelli che sfumano su un rosso che tanto richiama la Toscana. Fra simili ci si capisce: « Mi ha fatto emozionare. La Strade Bianche, è sempre stato un mio sogno e finalmente lo ho realizzato, grazie al team Servetto Piumate Beltrami. Mi sono messa alla prova. Credo dovremmo farlo sempre». Del resto, glielo hanno detto anche i suoi genitori, quando la hanno accompagnata in stazione a Viareggio: «Fieri di te sempre. Ricorda: la gara finisce allo striscione di arrivo, non si molla mai». Valigie in mano e si sale a bordo. Via.
Quando ci dice che i suoi eroi sono i suoi genitori, ci scuotiamo un attimo nonostante a Siena ci siano quasi quaranta gradi. Un brivido, un’emozione. Un momento in cui l’intelletto non può intromettersi e le viscere tornano al primordiale. Finalmente. Perché, alla fine, tutti noi abbiamo avuto nei nostri genitori degli eroi. Anche se non lo diciamo. Anche se da grandi, magari, ci vergogniamo di ammetterlo. Non dovremmo. Ce lo ha detto anche la corsa, la corsa di oggi. Punto e basta.
Foto: Francesca Baroni
L’è seria la faccenda
«Scegliere il tratto di sterrato in cui vedere il passaggio, l’è come scegliere dove mangiare la Ribollita. Non si fa a caso». Così ci spiega un signore sulla settantina, a pochi passi da Via dei Montanini, a Siena. Nicola Dini, massaggiatore alla Bardiani Cfs, racconta: «Se pensi alla Toscana pensi a strade affiancate da tante conifere, a una macchina che passa e alla nuvola di terra che si alza. Pensi a queste strade contadine. Sono bianche, contornate di rossastro. A un Bolgheri: un nostro vino, muscoloso, forte. Spartano, direi. Pensi al sapore robusto di un cinghiale in umido. Non a un’orata con un filo di limone. Rendo l’idea?». Sì, perché la creta senese è diversa da qualunque altro sterrato marchigiano o friulano: «Il nostro è uno sterrato fermo, mi spiego? Compatto. Per assurdo è anche più facile da affrontare». Dini è toscano, anzi è proprio senese. Vincenzo Albanese, invece, è di Oliveto Citra ma, vivendo in Toscana da anni, non ha dubbi: «La Strade Bianche è la gara più importante che abbiamo qui da noi. C’è una sorta di fierezza nell’essere toscani, no? Questa gara rappresenta la toscanità, come la rappresenta un Montepulciano, un Chianti, un Brunello di Montalcino o un Sassicaia. Il Palio di Siena. L’è tutto qui, direbbero da queste parti». Quindi oggi cosa farai? «È dura. Ma tutti vorrebbero vedermi lì davanti. Il bello è che è difficile anche provarci. Mettiamola così: provo a provarci».
Nicola Dini ha massaggiato i corridori ieri pomeriggio, giusto un’ora: «Il massaggio del giorno prima è un massaggio normale. Oggi al termine della corsa sarà diverso, massaggeremo zone che raramente tocchiamo: il collo, i muscoli scaleni, l’avambraccio, persino le dita. Quelle sollecitazioni sono tremende. Io ho provato a fare qualche tratto con i ragazzi: credimi, non riuscivo a curvare. Loro vanno, tu li guardi». Dini si fida delle sue mani e dei muscoli dei ragazzi. La sua è una consapevolezza artigianale, come quella dei panettieri quando fanno il pane. Fare è un verbo artigiano, un verbo sincero.
«Mazzucco era tesissimo, secondo me non ha dormito stanotte. Forse così è troppo ma l’adrenalina serve. Quando li vedo troppo rilassati, quasi con aria di sufficienza, mi arrabbio: avete una occasione, sapete quante persone vi guardano? Lo sapete? Sentitele. Sentite quello che andate a fare». Albanese conosce bene le strade di cui parliamo: «Mi ci alleno sempre. Ho tanti ricordi. Conosco gli angoli e le insidie più nascoste di quella ghiaia. Eppure secondo me ci farà più male il caldo: voi non avete idea della canicola in mezzo a quella polveriera. Sessantacinque chilometri di terra. Sessantacinque».
L’albergo della Bardiani Cfs è a circa quaranta chilometri dalla Fortezza Medicea. Una bolla per evitare il contagio. Poi un’altra bolla: la camera dei massaggi. «Quando entriamo da quella porta- ci dice Albanese- entriamo in un altro mondo. A parte. Bisogna eliminare le tossine che si accumulano in corsa. Se non venissi massaggiato dopo la corsa di oggi non potrei nemmeno pensare di correre lunedì». Dini guarda ogni corridore al suo ingresso e aspetta che sia il ragazzo a decidere come gestire quel tempo: «Qualcuno vuole parlare, altri scherzare. Qualcuno parla della gara e dei dettagli tecnici, altri di faccende personali, qualcuno vuole dormire. Un vincitore avrà i muscoli più tesi e sarà più difficile da massaggiare, diverso per un ragazzo che è stato tranquillo in gruppo. Fare un buon lavoro vuol dire rispettare ciò che desiderano. Passo tanto tempo con loro nei ritiri, la sera, la mattina presto, il pomeriggio sul lettino dei massaggi. Quel tempo è il mio più grande maestro. Quel tempo mi permette di conoscere l’uomo. Il corridore viene sempre dopo l’uomo».
Verrebbe da dire che quel signore di Via dei Montanini aveva ragione: non si fa a caso. Già, perché poi non vi abbiamo detto che la conversazione non è finita con quella affermazione. È finita con una domanda proprio mentre noi sorridevamo per il paragone ardito: »Non l’è da ridere. L’è seria la faccenda. Se sbagli dopo averci riflettuto, capirai anche il motivo dell’errore. Se sbagli perché hai provato a caso darai la colpa agli altri. Lo capite?». Sì e capiamo anche la prudenza di Albanese che oggi proverà a provarci. Ed è giusto così.
Foto: Claudio Bergamaschi