E siamo solo all'inizio...

Forse basterebbe dire che Martina Fidanza, bergamasca, appena ventuno anni, ieri sera ha vinto la medaglia d'oro nello scratch ai Mondiali su pista di Roubaix. Ma noi non vogliamo fermarci qui. Vogliamo soffermarci su quanto sia bello il fatto che una ragazza di soli ventuno anni porti a casa un risultato come questo e sul bene che fa a un gruppo di ragazze altrettanto giovani che continuano a crescere e che in questi giorni sono attese da prove molto importanti. Non ci sbilanciamo, non facciamo pronostici, ma ci crediamo perché, prima del risultato, vediamo ciò che stanno costruendo. Crediamo a ciò che stanno costruendo. Da anni, non da ieri o da oggi.
La bellezza di un mondiale su pista a Roubaix, città che si intende tanto del liscio pavimento dei velodromi quanto delle pietre asimmetriche. Roubaix, città manifesto del ciclismo, come le Fiandre. Lì Elisa Balsamo davanti a tutti in linea, qui Martina Fidanza, in pista, in una gara in cui contano i nervi saldi, l'esperienza, la capacità di scegliere l'attimo. Non ci credeva Martina, non ci credeva e se qualcuno glielo avesse detto ieri sera non lo avrebbe ascoltato. Pensava di potersela giocare? Forse sì, forse nel finale, allo sprint. E già sarebbe stato un bel giocare.
Quello che ha realizzato, invece, è troppo bello per aspettarselo ed è meglio così perché chiunque veda una corsa vuole stupirsi, la pista, poi, è il regno ideale per sorprenderti perché nei metri di un velodromo c'è un universo e puoi vederlo tutto, sentirlo, viverlo tutto. Martina che a cinque giri dal termine incrocia la voce di Dino Salvoldi che le dice: «Vai a tutta». Si fida, si fida ciecamente e parte. Attacca, domina, non lascia scampo alle avversarie. Veloce, potente, inscalfibile.
Si è resa conto di quello che ha fatto a mezzo giro dal termine, quando ha visto che il gruppo più di tanto non recuperava: meglio così, perché quando fai qualcosa di questo tipo è giusto che tu abbia la possibilità di goderti il momento mentre si svolge. Non solo nei ricordi, non solo nei racconti. Come quando disegni e intuisci il risultato quando ancora mancano i dettagli. Lei di disegno se ne intende, come di pista.
Paziente, commossa, appassionata. Felice che questo oro sia arrivato dopo tanti sacrifici perché significa che è stato giusto farli, che è stato giusto crederci. Felice come era felice quando è volata a Tokyo, lì ha scoperto che non avrebbe preso parte ad alcuna specialità e le è spiaciuto, ma era felice lo stesso perché poteva essere di supporto alla sua squadra, alla sua Italia. Quella a cui ieri ha regalato un oro memorabile.
E i Mondiali, lasciatecelo dire e sperare, sono appena appena iniziati.


Dirompente come Jonathan Milan

Vista l'età anche Jonathan Milan ha pieno diritto di entrare nel club dei giovani, forti, vincenti. Mica ce li avranno solo gli altri i talenti dai tratti poliedrici?
Classe 2000 e infatti non ha solo la faccia da ragazzino: lo è. Potente che sembra fare scintille quando punta l'uomo in pista, alto e così performante su strada che la Bahrain domenica scorsa se lo portava alla Roubaix con il compito di aiutare i compagni a stare davanti e non prendere aria nella prima parte di corsa, ieri Jonathan Milan con una prestazione (esageriamo?) esagerata è diventato Campione Europeo dell'inseguimento individuale durante la rassegna continentale in corso a Grenchen, Svizzera. Ha preso e doppiato il suo avversario, il russo Gonov, dopo 3,5 chilometri di gara.
In semifinale stampava un 4'05'' tempo che ha una certa dignità: tre secondi meglio di quello fatto a Berlino (Mondiale 2020) quando a soli 19 anni andò a giocarsi la finale per il bronzo (che poi perse correndo in 4'13'' contro il francese Ermenault). Ipoteticamente quel 4'05'' gli sarebbe persino valso l'argento in una sfida immaginaria con Filippo Ganna. Che prima del via ieri lo ha sostenuto e incitato.
Milan: un titolo europeo e uno olimpico e anche qualche altra medaglia "meno preziosa" al collo tra cui un bronzo mondiale nell'inseguimento a squadre (nel 2020) e un futuro da seguire; friulano di Buja (sì, proprio come De Marchi) ha compiuto 21 anni una settimana fa, e quest'estate, in quel quartetto dove Ganna ha trascinato, ha fatto la sua porca figura.
E la sua figura è alta, da macinatore di chilometri, ha un motore che potrebbe tenere acceso un velodromo per giorni interi, e oggi come oggi potrebbe ricordare più un passista veloce che un cronoman, ma con questo tipo di corridori mai porre limiti.
Sogna la Roubaix, quella che ha già assaggiato, quella che ha vinto Colbrelli e che pare la corsa - su strada - più adatta alle sue caratteristiche; tra qualche settimana sempre a Roubaix, Mondiale su pista, via le pietre terreno molto più morbido, Milan darà fastidio sia a Ganna che a Lambie.
Stavolta nessuna sfida immaginaria o ipotetica, anzi: chissà che non li spazzi via con tutto quel talento, con quella forza dirompente, con quella faccia da ragazzino sempre sorridente e la genuinità dei suoi splendidi 20 anni o poco più. «Ora con Ganna puntiamo assieme ai Mondiali - racconterà a fine gara Milan - vogliamo far bene sia nell’inseguimento a squadre che individuale e abbassare i nostri tempi». Beh, non resta che goderceli entrambi.


Marco Villa guarda già a Parigi

«Forse l'idea di dover affrontare i detentori del record del mondo ha fatto tremare le gambe anche alla Danimarca» scherza Marco Villa, CT della nazionale azzurra su pista. Spiega così la medaglia d'oro olimpica nell'inseguimento, dopo cinque anni a dimostrare il valore del lavoro fatto. Villa, da uomo di sport, sa bene che la concretizzazione, in questi casi vale quanto la fantasia. «Nelle prove degli ultimi giorni i tempi delle nostre avversarie erano migliori, non so se sia stata tattica. La Danimarca, poi, negli ultimi due anni aveva quasi sempre fatto meglio di noi». Se dei timori potevano esserci, al quartetto sono sempre arrivati stimoli, risposte e razionalizzazioni. «Vero che i danesi si sono praticamente riportati sugli inglesi in semifinale, altrettanto vero, però, che hanno potuto sfruttare la scia. Lo stesso discorso vale per le qualifiche: molte squadre hanno avuto il vantaggio di potersi basare su dei tempi di riferimento. Ai ragazzi ho detto questo la sera prima».
Marco Villa ha da sempre le idee chiare: le analisi, per essere utili, vanno fatte prima. «In partenza eravamo in vantaggio e non era un caso: sulle nostre tabelle era previsto. Sapevamo che avremmo potuto perdere qualcosa nel finale. Uno era il punto: dovevamo restare dai sette ai nove decimi, perché quei tempi sono nelle gambe di Ganna». Poi gli azzurri hanno festeggiato come chi ha avuto ragione a discapito dei momenti difficili. «La caduta di Lamon durante le qualificazioni a queste Olimpiadi è stato uno dei momenti più difficili, oltre alla pandemia. Si è sempre in tanti e i posti sono pochi. Saremmo stati pronti anche lo scorso anno, lo abbiamo dimostrato».
Villa spiega, razionalizza, chiarisce e soprattutto chiede. «Dopo lo scratch a Elia Viviani ho detto solo: “Elia, cosa sta succedendo?”. Mi ha detto che le gambe c'erano, la testa no. Era stato irriconoscibile. La risposta se l'è data da solo, io non posso entrare nella sua testa o nelle sue gambe. La tempo race non è mai stata la sua gara, ha fatto un'eliminazione stupenda e una grande corsa a punti». Per questo il bronzo di Tokyo vale come l'oro di Rio, perché viene da un periodo difficile. Per questo, se parla di madison, il CT è certo che la coppia Viviani-Consonni abbia molto da dire. «Simone quella mattina non stava bene e una gara di sessanta chilometri non puoi improvvisarla. Sulla base delle circostanze non puoi costruire un'analisi per il futuro. Succede e basta».
Intanto, via verso Parigi 2024. «Il gruppo è rodato con uomini di esperienza, allo stesso tempo ho dimostrato che la strada per i giovani è sempre aperta. Si guardi Milan. È uno stimolo per loro e anche per gli altri perché se non si danno da fare sono sopravanzati». Ora basta chiacchiere, a Parigi mancano solo tre anni.


British Legacy

Una foto che assume diversi significati tra i quali l'ispirazione per chi inizia a correre, per chi sa che non deve mollare perché nella vita non si sa mai. Soprattutto quando inizi a fare qualche sport e magari chiudi gli occhi e ti immagini un giorno sul podio dei Giochi Olimpici.

Una foto che pare raccogliere direttamente l'eredità su pista dei Clancy, Wiggins, Thomas, Cavendish, eccetera.

Una foto che ritrae il podio della madison agli "School Games" inglesi del 2014. Li avrete anche riconosciuti (uno di loro sicuramente): i quattro ragazzi al centro (qui poco più che quindicenni) corrono nel World Tour, ma non solo. Tre di questi escono da Tokyo dopo aver conquistato titoli e medaglie. Sapete chi sono?

Togliendo il primo e l'ultimo, non sappiamo chi siano, da sinistra ecco Matthew Walls, BORA-hansgrohe, ventitré anni. A Tokyo oro nell'omnium e argento nella madison. Ma su strada si è già fatto notare, veloce e resistente: sì farà, ha le doti giuste.

Di fianco a lui: Ethan Hayter, INEOS Grenadiers. Ventitré anni li compirà fra qualche settimana e lui tra i giovani britannici è sempre stato ritenuto quello più interessante. Un predestinato, secondo la stampa di casa sua. Nel 2019 il Telegraph lo inserì tra gli otto profili da seguire - tra tutti gli sport - in vista di Tokyo.

Torna a casa con l'argento - conquistato in coppia proprio con Walls - e su di lui un certo Ed Clancy, leggenda della pista mondiale, disse, dopo che i due condivisero l'oro nell'inseguimento a squadre nella rassegna iridata del 2019, «A vederlo non sembra sia così giovane. Ha fatto due giri e mezzo in testa e ci ha strapazzati. È un po' come il prescelto, the choosen one. Tempo fa stavo guardando Matrix e ripensandoci mi sono sentito un po’ come Morpheus quando incontra Neo». Insomma, non stiamo nemmeno ad elencare quanto ha già vinto su strada Hayter, nelle categorie giovanili, possiamo immaginare quanto potrà vincere tra i professionisti - e in realtà ha già cominciato.

Scorrendo, sempre verso destra: Fred Wright. Lui forse è quello che, anche per caratteristiche, fatica di più a emergere, ma di questi è l'unico ad esempio, che ha già corso il Tour. Traguardo non di poco conto.

L'ultimo è il più conosciuto e riconoscibile, non serve nemmeno fare il suo nome. Del suo già noto palmarès non serve dire altro. Del suo potenziale, di quanto va forte e andrà ancora più forte nemmeno. Di quanto è piccolo rispetto ai suoi compagni di viaggio lo si vede a occhio.

Un foto che è passato, che è futuro e che per loro rappresenta un luminoso presente. L'eredità inglese si è fatta ingombrante: spalle larghe, talento, un insegnamento a crederci. Da una medaglia ai Giochi Scolastici a una ai Giochi Olimpici. Sembra un sogno di ragazzi, non lo è.


Dediche

La rincorsa di Mørkøv alla medaglia olimpica inizia nel 2017, quando gli dissero che la madison sarebbe rientrata nel programma olimpico. «Mi stavo facendo un culo così in salita sull’Alpe d’Huez, al Delfinato, e pensavo che l’unico motivo valido per continuare a farlo sarebbe stato puntare a vincere ancora qualcosa in pista».
Oggi ha dominato in coppia con Lasse Norman Hansen, erano i favoriti, ma quando mai basta esserlo? In questi Giochi Olimpici, poi, tesi tutti a stracciare ciò che sta scritto sulla carta. In una disciplina incerta e folle come la madison: confermarsi è l'atto più difficile.
A vedere la tranquillità con la quale i due danesi hanno macinato giri e punti nessun dubbio sull'esito finale. E Mørkøv, il miglior pesce-pilota al mondo (chiedere a Cavendish, a Bennett, a Viviani), uno che di mestiere fa vincere gli altri, uno che ha un'importanza esagerata nei successi in volata dei suoi compagni di squadra, oggi ha vinto. Ma ha vinto lui, davvero. In coppia, sì, ma quella medaglia è proprio sua. Non è che "un pezzo della vittoria è anche di Mørkøv", no, è roba sua.
Ha una dedica pronta, a suo figlio che ripercorre le sue orme: «A volte, quando sono con mio figlio e lo accompagno alle gare, mi rivedo nel mio vecchio. Magari se non fossi assieme a lui - penso - andrebbe più veloce, ma alla fine è mio figlio e voglio stargli vicino, come avrei voluto che mio padre avesse fatto con me». E probabilmente un pensiero proprio a suo padre che ha rivisto l'ultima volta nel 2007 su un letto d'ospedale. «Quando realizzo qualcosa di importante, penso a come sarebbe orgoglioso di me».
Non serviranno le vittorie per rendere un padre orgoglioso di un figlio, certo, ma oggi sarebbe stata una giornata speciale.


Acqua e sapone

Il 13 luglio, Francesco Lamon era appena tornato da Montichiari, quando si è unito alla sua squadra, Biesse Arvedi. «Quella sera era contentissimo» spiega il diesse Marco Milesi. «Da giorni facevano tempi pazzeschi, mi disse: "Possiamo fare il record del mondo"». Detto, fatto: record e medaglia d’oro nell’inseguimento a squadre. Lui, ragazzo semplice ma consapevole. «Ogni volta mi chiede cosa può fare per la squadra nelle gare in linea. C’è chi cerca di mettersi in mostra, lui è sempre a disposizione».
Una volta Lamon si è ritrovato in fuga, Milesi gli chiede sorpreso spiegazioni. Lamon lo spiazza e lo fa sorridere: «Sono capitato qui ma non voglio restarci, questi vanno fortissimo. Per favore, metti i ragazzi a tirare». Marco Milesi scherza: «Quando corrono loro, Montichiari trema». Sa bene che non è stato facile, come lo sanno i genitori di Lamon.
Hanno raccontato di aver fuso i motori di tre auto per seguirlo nelle gare. Suo padre, tecnico in ospedale, ieri mattina, ha chiesto qualche minuto di pausa per vedere la prova. Era il suo compleanno, pensate che regalo.
Francesco ha ventisette anni e dai propri compagni di squadra è visto come un esempio.
«Agli allenamenti arrivava davvero stanchissimo- prosegue Milesi- non gli si poteva chiedere altro. A primavera, poi, la tensione per le convocazioni era terribile». Il duro lavoro paga e questa ne è la dimostrazione. «Lo chiamerò per fargli i complimenti. Sono certo che questo oro gli darà molto, Lamon, però, resterà il ragazzo acqua e sapone che conosciamo tutti».


Viviamo per questi momenti

Sono queste le cose per cui viviamo. Per cui godiamo e ci scaldiamo. Sono queste le giornate nelle quali ti prendi qualche minuto tutto per te, che poi è un momento che condividi con tutti gli altri incollati alla tv, o al tablet, al telefono, sui social.
Sono questi i momenti in cui chiedi cinque minuti di pausa in ufficio, apri in finestra sul tuo computer lo streaming della corsa, oppure ti alzi e vai in salotto, cambi canale che ci sono tante di quelle cose da vedere anche oggi ai Giochi Olimpici, o magari entri in un bar sulla spiaggia e chiedi: «Scusate, potete mettere il ciclismo su pista? Sapete com'è, ci giochiamo una medaglia d'oro!».
Si, sono questi i momenti che ci elettrizzano e ci fanno emozionare. I momenti che sogniamo e che ci fanno amare il ciclismo. Si, perché c'è in gioco una medaglia, ma forse, che importa alla fine, vogliamo solo goderci la pista, l'armonia dell'inseguimento, la potenza del quartetto azzurro.
E poi per un attimo lungo 3:42.032, non importa davvero tutto il resto. È come una bolla che ti avvolge, un ronzio nelle orecchie. Tesi ad ascoltare il frinire della catena. A osservare rosso contro azzurro (in verità bianco). E per quei quasi quattro minuti il tuo mondo è Lamon, primo uomo fondamentale, è Consonni che gestisce, è Milan che è forza e talento.
E poi è FIlippo Ganna: già paragonato a un supereroe moderno che trascina e ci trascina, maltratta e rincuora, recupera quel margine che pareva ormai incolmabile come avesse la capacità di gestire a piacimento lo spazio e il tempo.
È un urlo, è record del mondo di nuovo, ma oggi non importa. Oggi è la goduria di quei tre minuti e quarantadue secondi. Oggi è l'oro, oggi è lo spettacolo. Oggi è uno di quei giorni per cui vale la pena vivere.


Essere donna

Se si chiede a Laura Kenny come gestire una carriera impegnativa essendo madri, lei risponde che il segreto è di non farsi mai convincere a fare ciò che non si vorrebbe fare. «Devi tornare quando vuoi tu. All'inizio non volevo lasciare Albie e se non vuoi lasciare tuo figlio, non devi sentirti obbligata dalla società» ha detto in un'intervista. Ora Albie ha quasi quattro anni e lei, stamani, a Tokyo ha fatto segnare il secondo tempo nell'inseguimento a squadre con la Gran Bretagna. Kenny alle Olimpiadi ha vinto l'oro in ogni gara a cui ha partecipato e punta a ripetersi per un record storico.

«Non penso al record - spiega a Velonews - ma a fare il mio dovere e a vincere. Ho sempre fatto così». Kenny, parlando di se stessa, parla di tutte le donne con famiglia: per fare bene in sella, o in qualunque lavoro, alle donne serva fiducia, cosa che spesso manca. Lei con quella fiducia rompe gli schemi. «L'inseguimento a squadre è la disciplina a cui come Gran Bretagna ci dedichiamo di più. Perché non facciamo lo stesso con le altre?». Il cambiamento è avvenuto grazie a Monica Greenwood, la nuova allenatrice.

Laura Kenny ha iniziato ad andare in bici con sua madre che voleva perdere peso e a suo figlio Albie non ha mai chiesto nulla del ciclismo: vuole solo che abbia ricordi felici dell'infanzia come li ha lei. Ha rischiato di non essere a Tokyo, e domani, comunque vada, farà un altro passo nella storia di questo sport.


Sogni in pista

Ci siamo: domani alle 8.54 dall'Izu Velodrome di Tokyo si inizia. Pista olimpica: intanto un bell'antipasto con l'inseguimento femminile. Da Tokyo si racconta di una pista particolarmente veloce: le prime a saggiarla saranno le ragazze della velocità a squadre (ore 8.30), con la loro esplosività - ma senza Italia. Il tempo di riprendersi e sarà subito inseguimento, per esaltare il gruppo, l'affiatamento, la potenza, l'intuito.
Per l'Italia al via Elisa Balsamo, Letizia Paternoster, Rachele Barbieri e Vittoria Guazzini: sfideranno potenze del calibro di Australia, Nuova Zelanda, Usa, Canada e Gran Bretagna. Speranze di medaglia? Poche, ma già esserci, in un progetto che vede le azzurre proiettate con grandi ambizioni verso Parigi, è fondamentale, tutt'altro che banale, considerato dov'era la pista italiana qualche stagione fa.
Generazione di talenti anche al maschile: alle 10.02 i lampi azzurri arriveranno da Francesco Lamon, Simone Consonni, Filippo Ganna e Jonathan Milan. Furie rosse danesi e australiani i favoriti, ma dietro si apre la sfida per il bronzo: Italia, Gran Bretagna e Nuova Zelanda e un occhio alla Svizzera di Bissegger e Schmid, lo stesso Schmid che quest'anno vinceva la tappa di Montalcino al Giro.
Ma è solo l'inizio: nei prossimi giorni ci esalteremo con il folle keirin, con l'imprevedibile madison, con le prove di velocità individuale e il suo tatticismo ispirato, da 0 a 1000 in pochi secondi come un’auto che arriva dal futuro. E poi l'omnium che cinque anni fa ci regalò una gioia immensa e che da lì è cambiato ulteriormente: quattro prove in tutto, più che su Viviani punteremo su Balsamo, ma questa è una storia che vi racconteremo strada facendo. O per meglio dire, dalla pista.


Quel sogno chiamato Olimpiade: intervista a Martina Alzini

Martina Alzini ha iniziato a vincere sin da quando era bambina. Aveva solo sette anni quando, nel 2004, al termine di una gara, un giornalista le chiese quale sarebbe stato il suo sogno. «Risposi di getto che da grande avrei voluto partecipare alle Olimpiadi. Mia madre non la prese molto bene. La sera, in disparte, mi disse: “Si tratta di umiltà, Martina. È come se, appena iniziato a lavorare, dicessi che sogni la pensione”. Insomma, da quel giorno non lo dissi più, ma se penso anche solo alla possibilità di essere a Tokyo, mi si rompe la voce e mi viene la pelle d’oca».

Con mamma, Martina non ha più parlato di quel giorno ed oggi, ridendo, ammette: «Sto aspettando il momento giusto per ricordarglielo. Se le cose vanno come spero, potrebbe non essere lontano». Parole da cui trapela felicità, perché, prima di tutto, Martina Alzini è una ragazza felice. Sarà perché, come dice lei, fa un lavoro che la fa sempre sentire a casa, in famiglia, perché la bicicletta è di famiglia. «A tre anni ho voluto che i miei nonni mi togliessero le rotelle dalla bicicletta e solo quel cortile sa quante ne ho combinate. Quando succede così, poi, ogni volta che riprendi in mano la bici, anche a centinaia di chilometri di distanza, la mente torna lì e tu ti senti ancora quella bambina».

La forza dei ricordi e le radici che hai piantato ti tengono stretta, anche se le cose, inevitabilmente, cambiano. «Si inizia per gioco ed è giusto così. Guai a togliere ai più piccoli le domeniche spensierate nei parchi o in gara. Se quando penseranno al ciclismo, penseranno a quei tempi, avranno sempre un bel ricordo e non lasceranno mai la bicicletta. A volte la detesteranno, come accade a me, ma torneranno sempre in sella. Quei giorni gli daranno la forza per andare oltre».

Ed è proprio negli istanti di odio verso il proprio sport che nasce la consapevolezza. «Non è facile arrivare nel gruppo delle élite. Devi confrontarti con delle campionesse, con ragazze molto più grandi di te, a volte con mamme. Devi riconoscere i tuoi limiti, altrimenti la vita te li sbatte in faccia. Certo non è semplice ammettere che non sei portata per una certa gara o che quello che hai sempre sognato in realtà non è realizzabile, tuttavia, se non hai il coraggio di dirti la verità, non cresci». Crescere, per Alzini, vuol anche dire essere coraggiosi, imparare ad accogliere le critiche ed i consigli in maniera costruttiva. «Ho avuto la fortuna di crescere “sportivamente” con Marta Bastianelli. Lei è madre, non so come fosse prima della nascita di Clarissa, so com’è oggi ed è per questo che la chiamo “mamma Marta”. Sa insegnare con una cura rara, se hai voglia di imparare, solo guardandola diventi grande».

Crescere è faticoso, ti impone arbitrarie verità ma anche nuove possibilità. «Da giovanissimi si desidera tutto ed i sogni sono una sorta di massa informe, da adulti, forse, se ne hanno meno e molte ambizioni si lasciano per strada, ma i sogni che restano hanno una forma ben chiara, diventano progetti ed inizi a lavorarci». Lo zio di Martina gestisce una squadra di paraciclisti in handbike e lei ha imparato a lavorare in un certo modo proprio osservando loro. «Ho iniziato a conoscerli quando avevo solo pochi anni e a forza di vederli ho fatto mio un poco del loro modo di essere. Io dico che hanno una voglia incredibile di raggiungere dei traguardi. Ecco, a noi ogni tanto questo manca. Così passiamo il tempo a lamentarci, senza averne alcun diritto, perché siamo fortunati, solo che non lo vediamo».

Il suo lavoro è iniziato dalla pista, da un velodromo di Busto Garolfo, per poi transitare da Montichiari. Forse sarà proprio la pista a portarla a Tokyo, ma non è questo il motivo per cui Alzini la consiglia a tutti i genitori. «Io ho iniziato a girare in pista perché potevo pedalare tranquillamente senza la presenza delle auto. L’insicurezza stradale porta molti ad allontanarsi dal ciclismo. Perché non torniamo nei velodromi o nei boschi in mountain bike? Quando si prende confidenza con il mezzo, si va anche in strada».

L’Olimpiade, in ogni caso, sarà un tassello importante ma non un punto di arrivo. Martina è chiara: «Sarà una base per continuare a costruire con più convinzione, non un motivo per sedersi sugli allori. Non fa parte del mio carattere». Qui l’affondo: “Io non sono solo la ragazza che vedete sui pedali. La mia realtà quotidiana è ricca di sfumature, come il mio carattere. In bici sembriamo tutte forti, grintose, senza paure. Non lo siamo ed è bene ricordarselo e ricordarlo».

Fin dai tempi delle superiori Martina Alzini amava lo studio delle lingue e si immaginava viaggiatrice, una volta adulta. Oggi, che grazie al ciclismo ha viaggiato e continua a viaggiare, sa qualcosa in più. «Quando sei abituata a viaggiare, perdi la brutta abitudine, che spesso si ha, di giudicare “normali” o “corretti” solo i comportamenti che sei abituata a conoscere. Ti rendi conto che molte volte noi stessi sembriamo strani agli altri e capisci quanto si possa soffrire a essere considerati diversi. Viaggiare è una delle più grandi possibilità di comprensione della realtà che l’uomo ha».

Foto: Paolo Penni Martelli