Grenchen 2023, giorno 1: un recap
Prima giornata dell’Europeo su pista in poche (?) parole. Manifestazione in cui maglie e medaglie hanno il giusto valore: si lavora principalmente per crescere (e in alcuni casi qualificarsi) in vista di Parigi 2024. Si è tornati nel luogo in cui Ganna, ma anche Bigham poco prima di lui... sapete già cosa. E in mattinata hanno guidato le proprie nazionali nelle qualificazioni dell’inseguimento a squadre.
Disciplina olimpica e dunque di una certa importanza. Italia al completo, segna il miglior tempo e per il resto poche sorprese. Chi scrive sperava in un ulteriore salto di qualità del giovane Belgio, ma per il momento una solida Germania non si fa da parte. Questione Giochi Olimpici abbastanza circoscritta alle squadre note: Italia, Gran Bretagna, Danimarca, Germania, Francia alle quali si aggiungeranno Australia e Nuova Zelanda e probabilmente una tra USA e Canada), ma se ne parlerà più avanti, intanto stasera si lotta per andare a caccia di una medaglia, sia tra i ragazzi che tra le ragazze.
Balsamo, Fidanza, Guazzini e Paternoster, seconde, sono un po’ lontane dalla Gran Bretagna, ma stasera sfideranno la Francia per l’accesso alla finale valevole per l’oro. Bisognava rompere il ghiaccio e perlopiù è un’altra tappa di un lavoro che porterà verso Parigi.
La gara che apre e chiude la giornata è quella della velocità a squadre: specialità olimpica. Gli omaccioni olandesi fanno paura e senza paura stracciano la concorrenza con quella solita superiorità imbarazzante per gli altri che riescono a mettere in pista. Muscoli che sembrano brillare riflessi sui 730 metri cubi del legno lamellare della pista svizzera. I ragazzi italiani invece crescono, crescono, crescono, sono meno in carne rispetto a gran parte della concorrenza, ma una bellezza da vedere. Due volte migliorano il record italiano, Tognoli, Bianchi e Predomo, con un’età media da quinta liceo o poco più (19 anni) chiudono sesti mostrando evidenti miglioramenti nella velocità su pista: per loro Parigi rischia di essere (per usare un eufemismo) un divieto sacrale, ma non si vive di solo Parigi e la loro contagiosa giovinezza li porterà in alto, a patto chiaramente di continuare a investire e puntare sul movimento della velocità.
Diverso il discorso tra le ragazze dove invece si fatica maggiormente, mentre la gara vede la solita solida Germania - Friedrich, Grabosch, Hinze - superare in finale la Gran Bretagna.
Non c’è pausa per il ciclismo, per noi che lo amiamo che passiamo da un evento all’altro, che sia strada, cross o pista, per loro che pedalano e così ti ritrovi ancora e ancora gare una dopo l’altra. Prima di concludere le due prove di velocità, infatti, ieri sono andate in scena anche gare molto attese per l’Italia perché vedevano al via Fidanza e Viviani, nello scratch e nell’eliminazione, entrambi accomunati dalla maglia iridata che li rendeva con tratti quasi sfarzosi in mezzo al gruppo, ma meno riconoscibili del solito con una mise diversa da quella azzurra. Ebbene: la condizione, evidentemente, in due specialità non olimpiche ma nelle quali i due sono di casa, deve ancora arrivare e non c’è nulla di male. Fidanza chiude quinta in una gara in cui, a differenza di qualche mese fa, Mondiale a Saint-Quentin-en-Yvelines, si attacca dalla media, breve distanza, e da uno di questi attacchi se ne esce fuori Maria Martins che dopo aver inseguito una vita la medaglia d’oro su pista, dopo tanti piazzamenti vince, esultando alla fine come Ronaldo. E i portoghesi stanno bene bene in questo periodo a due ruote: l’eliminazione - che vede Viviani eliminato, appunto, precocemente, chiuderà quinto, la vince un giovane di grande talento (da seguire anche su strada) e figlio d’arte, il tedesco Tim Torn Teutenberg, per tutti, o quasi TTT, con quella che fino al momento è l'azione più interessante e da ricordare della manifestazione. Vince davanti a uno dei gemelli Oliveira, ancora Portogallo. E fra qualche ora si ricomincia.
Alla maniera dei più grandi
Focus nella serata di Saint-Quentin-en-Yvelines. La rimonta di Balsamo nell'Omnium che partiva dalla gara a eliminazione, quella che lo scorso anno le aveva tolto qualcosa ai Giochi Olimpici di Tokyo. Nella corsa a punti un paio di ore dopo è andata com'è andata. Lei ci stava, ma ha vinto Jennifer Valente, americana, al primo titolo individuale dopo una carriera a battagliare e a piazzarsi. Pazienza, va bene così.
La lotta di sguardi come pugili sul ring tra Mathilde Gros ed Emma Hinze nella velocità femminile è una delle immagini del giorno. Gros va in finale sfruttando gambe immense, acido lattico e forza mentale e poi batte anche Lea Friedrich e vince l'oro, tra le urla del velodromo di casa che scandisce in delirio il suo nome.
Osservare, poi, Matteo Bianchi, classe 2001, in finale nel chilometro, dove non c'eravamo da tempo ma oggi sì, con dei ragazzini che non erano nemmeno nati l'ultima volta che l'Italia prendeva una medaglia, è stato un piacere. Vince chi doveva vincere - Hoogland - sul podio ci sale uno spagnolo - Martinez Chorro - per il quale a un certo punto abbiamo iniziato a tifare. Bianchi arriva quinto senza avere il fisico da colosso che hanno tanti altri, e anche così va benissimo. Un punto di partenza.
Tanti focus nella serata di Saint-Quentin-en-Yvelines, su Havik, olandese, che vince la corsa a punti a 31 anni e ci ricorda che in un ciclismo di talenti precoci non è mai troppo tardi per indossare la maglia più ambita del ciclismo e mettersi una medaglia preziosa al collo. Lui principalmente seigiornista, batte Kluge, Van Den Bossche, Strong, di mestiere anche stradisti. La bellezza della pista punto d'incontro di talenti.
La lotta di nervi tra Milan e Ganna con il ragazzo friulano, fortissimo ma non quanto bastava oggi per battere Ganna, che parte alla grande seguendo il suo schema. Un rapporto leggermente più agile (sic), 66x15 rispetto al 67x15 di Ganna.
Un modo di intendere l'inseguimento fatto di partenza a schioppo.
Una sorta di lepre per Filippo Ganna che stamattina ha pensato di non gareggiare per andare in vacanza, che in una settimana si prende record dell'ora, argento nell'inseguimento a squadre e poi oggi crea e firma l'ennesimo dipinto da esporre in un velodromo: medaglia d'oro nei quattro chilometri dell'inseguimento in 3:59.636, record del mondo, una serie di numeri che forse solo lui in tempi più o meno brevi potrà pensare di ritoccare ancora.
A Wollongong riapre l'ufficio facce
È una danza con diversi attori. Diversi balli per tutti i gusti. Cambia da corridore in corridore, da posizione a posizione. Sembrano, quei corridori, lo abbiamo detto più volte, esseri arrivati dal futuro che fanno un tutt'uno con la bicicletta, metà uomini e metà mezzo meccanico e dove forcelle, manubrio, ruote e pedali sono semplici appendici del loro corpo. Che esercizio assurdo la cronometro!
La prova contro il tempo è questa: un miscuglio di gestione delle forze al millimetro, di posizione aerodinamica, di forza e di cadenza di pedalata, di scelta del rapporto, di sofferenza mentale, di sforzo fisico da portare oltre ai propri limiti per - come nel caso di oggi - quaranta, cinquanta minuti.
Quella di Wollongong, 18 settembre 2022, è qualcosa in più rispetto a tante altre perché in palio c'è una maglia da campione del mondo. E a Wollongong, Australia, 18 settembre 2022, è saltato il banco. Perché? Alzi la mano chi si aspettava Tobias Foss vincitore. Buon corridore, è vero, un Tour de l'Avenir nel palmarès - che arrivò, se non a sorpresa come il titolo di oggi, poco ci manca - un passato prima nel biathlon, dove pareva una promessa, sciava bene e sparava meglio, e poi nella mountain bike dove imparò a guidare oltre i limiti come successe alla Liegi Bastogne Liegi per Under 23 di qualche stagione fa quando si lanciò come un matto in discesa per staccare i due in fuga assieme a lui che poi lo superarono nettamente in volata, e all'epoca, ma anche prima, parlando del ragazzo norvegese si diceva: "Bel corridore, ma per vincere deve arrivare da solo". E più solo che in una cronometro...
La prova contro il tempo di oggi non è solo danza o sorprese, aerodinamica, potenza o cadenza, ma è anche, o soprattutto, una questione di facce: quella di Stefan Küng è incredula, dove la delusione è smorzata dalla fatica; ne trova sempre uno che va più forte di lui, anche se di poco, in linea o a crono non fa differenza: se la sua costanza fosse stimata a un centesimo per piazzamento, Küng varrebbe oro, altro che argento o bronzo.
La crono di oggi è questione di facce, sì: quella di Remco Evenepoel, appena tagliato il traguardo - sarà terzo - quando gli dicono che ha vinto Tobias Foss è tutta un programma. «Chi? Foss?!».
Quella di Foss, da Vingrom, paesino vicino Lillehammer dove qualche anno fa il censimento contava 642 abitanti quasi equamente diviso tra maschi e femmine, è quella di un incredulo campione del mondo a cronometro: tra i professionisti aveva vinto solo a casa sua in Norvegia; quella faccia sarebbe utile da studiare per capire cosa c'è dietro - e magari quale fede - ma per farlo dovrebbe riaprire l'Ufficio Facce di Viola, Cochi e Renato. Quella faccia è un campionario di incredulità, di dubbio, di piacere, di lacrime.
Poi alla fine tolte quelle facce e gli occhi piccoli incastrati in un viso da bambino, gli resta una medaglia d'oro sul collo e una maglia iridata che porterà fino all'anno prossimo. Mica male Tobias Foss, nuovo campione del mondo della cronometro.
Non è un racconto di fantascienza
Spesso, guardando le bici da cronometro, immaginiamo un mondo proiettato verso il futuro. Certo, se dovessimo pensare alla nostra epoca in quanto a progresso ci verrebbe da ridere, ma soprassediamo.
Proviamo allora a tuffarci dentro a un racconto di fantascienza, a immaginarci un pomeriggio a Copenaghen come se Copenaghen fosse, appunto, il mondo; come fosse la società a cui vorremo appartenere e che sogniamo, leggiamo, raccontiamo, proiettiamo: biciclette su biciclette, bicicletta da crono con quella loro forma aerodinamica tirata al massimo, e poi ciclabili, viabilità, bandiere, tifo. Ecco: immaginiamoci il Tour de France in Danimarca.
Nel tardo pomeriggio di oggi, tutto quello che stava intorno era stato cancellato, un po' dalla pioggia che all'improvviso anticipava chi da giorni studiava il tempo e faceva carte, stilava programmi; diventava parte della scenografia mutando forme, mescolando valori, aumentando le difficoltà, dilatando margini. Un mondo quasi perfetto, guidato da corridori che apparivano come imperturbabili esemplari scenici, nelle loro tutine colorate, che pennellavano le curve e si dilettavano nell'andare uno più forte dell'altro.
In questo mondo ideale, ma che in realtà vive di sottili anomalie, il più veloce in bicicletta vince e oggi, nella sfida contro il tempo che serviva a dare in pasto ai contendenti la prima maglia gialla, toccava prendere la scena non solo al più veloce, ma anche al più astuto, al più fortunato, a quello meglio equipaggiato, al più motivato, sì insomma a quella sorta di emblema che potremmo chiamare: l'uomo bici.
E in questo racconto di fantascienza ci si infilava Mathieu van der Poel che ammorbidiva le curve come stesse dipingendo la carena di uno shuttle diretto nello spazio, con tutta quella sequela di facce che oggi prendevano una posa seria, fermo sul trono del primo in classifica a guardare l'arrivo in successione dei suoi avversari.
Il climax prevedeva il suo momento intorno alle 5.30 del pomeriggio. Qualcosa in meno, non importa. Arrivava.
Arrivava Ganna, col suo bolide, che scalzava van der Poel dal trono, ma il tutto durava lo spazio di pochi secondi. Piombava van Aert ed ecco, abbiamo detto tutti: è fatta! Arrivava Pogacar, che distribuiva lo sforzo, senza prendere eccessivi rischi all'apparenza perché lui è così: una guida naturale che alza il suo livello con la pioggia e la strada bagnata. Arrivava dietro di pochissimo. Van Aert andava in maglia gialla.
"No, ma... cosa succede?"
Smetteva di piovere, perché negli ingredienti di un buon libro di fantascienza c'è anche il thriller. E la sfida spaziale tra quei quattro lì veniva bruscamente interrotta da Lampaert, come da un altro pianeta, con quei lineamenti leggermente a mandorla e le orecchie a punta. Dicevano in questi giorni come la Quick Step avesse schierato la peggiore squadra della loro storia al Tour e invece loro si presentano così. Con una gara perfetta, con il loro uomo bici del giorno, che piangendo a fine gara non credeva a ciò che aveva appena combinato.
All'improvviso, finito tutto, quello che stava intorno a Copenaghen riappariva. Case, palazzi, monumenti, bandiere. Lampaert in maglia gialla e chi lo avrebbe mai detto.
Ma il ciclismo è fatto così, non è perfetto come il mondo ideale che ci eravamo immaginati, non è un racconto di fantascienza. Anche se con quelle bici lì a volte ti vengono dei dubbi.
Ganna e gli orologi di Camaiore
Non lontano dal mare, c’è il tendone con le inconfondibili sedie in cui ognuno aspetta il proprio turno prima di partire per la cronometro. La cronometro, in realtà, inizia lì. Inizia prima di iniziare. Ci sono dei sospiri che non ti aspetteresti mai a inizio stagione. La fregatura è l’orologio, quel timer che tutti vedono da qui e segna il conto alla rovescia per la partenza. Allora qualcuno si volta verso il collega seduto accanto e cerca di fare due parole. Si capisce, si vede, che non si conoscono, che non hanno confidenza, ma quell’orologio rende tutti uguali. Per iniziare a parlare chiedi a chi ti è accanto se vuole la tua borraccia, sai che ha la sua, la vedi, ma, anche il “no”, è un modo per far passare qualche altro minuto, forse secondo.
Non importa il risultato che vorrai ottenere, ma quell’orologio ti mette sull’attenti. Così guardi Simone Consonni che continua a toccare il casco, a spostarlo, a sistemarlo, qualcuno guarda il copriscarpe, il body, qualunque grinza. È il tempo. Lo stesso su cui disputano due signori mentre dal lungomare vanno verso l’interno: due orologi, fra l’uno e l’altro cinque minuti. Capire l’ora è fondamentale, soprattutto oggi, perché alle 16:37 parte Filippo Ganna. Qualcuno gli chiede se, dopo quello che ha fatto sabato a Siena, non teme Pogačar per la cronometro di oggi: «Dovrebbe essere scarico, ma lui con lo sforzo si ricarica invece di stancarsi». Della serie: «Vai a capire come fa».
E quell’orologio continua e le persone dai rulli accanto ai bus corrono alla partenza e poi, dall’altro lato, all’arrivo. Le lancette ti dicono cosa fare, quanto manca, quanto è passato. Per i ciclisti aumenta la frequenza del respiro, la sua profondità, l’ultimo sospiro è prima di scendere dalla pedana. Qui tutti tornano a guardare un orologio, non un telefono o un timer ma un orologio. Con le sue lancette e il suo tic-tac. Col suo giro, come le strade di questa crono che è un anello, che ti fa vedere dove sarai a breve, dove sei già stato. Che accanto ti fa correre chi corre per vederti e chi, con uno zaino in spalla, torna in hotel. Una bici per portare una persona da un luogo all’altro, con ciò che gli serve.
Ganna e il vento, Ganna nel vento. Quel vento dal mare che ha odiato per molto tempo. Un taglio nell’aria che sembra vibrata come una corda di una chitarra. Potente come chi deve penetrare l’aria, delicato come chi sfiora una transenna e non la tocca. E va, pedala più forte di prima. A poco tempo di distanza passano Ganna e Evenepoel. Nonostante il mare e il vento, si sente il rumore dei pedali, la catena. O, forse, immagini tutto, perché sai qual è il suono di un ciclista che passa, perché fra tanti suoni sembra impossibile sentirlo così bene. Sempre uguale e sempre diverso.
E non c’è nulla da fare perché anche Pogačar è dietro. Quegli orologi che sembravano essersi quietati dopo la partenza di Ganna, come quando accade ciò che aspetti, tornano a correre dopo quella di Pogačar, per capire cosa accadrà, per capire se a Ganna sarà bastato essere così veloce. È bastato, ce lo ricorda un signore: «È diventato un piacere anche vedere la cronometro». Già, gli orologi si leggono e si ascoltano, come le storie. E, a Lido di Camaiore, Ganna li ha accordati tutti. Un’orchestra, una sinfonia.
Grazie ciclismo per questi momenti indimenticabili
Ciclismo e anno 2021 un binomio perfetto. Qualcosa che vorremmo riuscire a raccontare meglio ma forse più di ogni altro modo è stato lui a raccontarsi in maniera perfetta: esagerato, romantico, epico, preciso, spettacolare. Quello che abbiamo sempre chiesto e che spesso, nell'ultimo decennio, abbiamo solo visto (quando siamo stati più fortunati) a metà, relegato a episodi isolati.
Ciclismo e anno 2021 un pissi pissi bau bau tra due innamorati, e in mezzo noi; in realtà noi più che altro a fare da contorno ad applaudire; con gli occhi a cuoricino come la vignetta di un fumetto, persino il cuore che batte che pare uscire dal petto; o perché no, momenti irrefrenabili nei quali ci siamo alzati dal divano e non riuscivamo più a stare fermi nell'attesa di una volata, di un giro finale, di un centesimo in più o in meno, di un attacco decisivo, o anche scriteriato. A cercare con lo sguardo quel corridore su cui tanto puntavamo, a immaginarsi rimonte e rinascite, abbozzando per le delusioni, ma applaudendo tutti dal primo all'ultimo.
Ciclismo e anno 2021: un'intesa perfetta. Abbiamo provato a estrapolare alcuni momenti battezzandoli come “i momenti migliori della stagione”, ma potete immaginare quanto sia costato lasciarne fuori almeno altrettanti.
10) Bernal a Cortina (e sul Giau)
E chi se la dimentica quella giornata? Era il 24 maggio del 2021 e si imprecava perché le immagini non arrivavano: per via del maltempo non c'era copertura televisiva. Ci siamo affidati a una sorta di radiocronaca, come si usava una volta, ed ecco il gesto di Bernal che abbiamo definito quel giorno come di totale rispetto verso la corsa e i suoi tifosi; Bernal che sbuca sul nostro televisore solo nel finale, si leva via la mantellina nonostante freddo e fatica, con l'unico intento di mostrare la Maglia Rosa regalandoci una delle immagini simbolo del ciclismo 2021.
9) Roglič a Tokyo
Parrebbe uno sgarbo non inserire Roglič che in stagione ottiene 13 successi, uno più significativo dell'altro. Abbiamo scelto l'oro olimpico della prova a cronometro: perché è simbolo e perché vincere ai Giochi resta per sempre sulla pelle di ogni sportivo. Su un circuito pesante come un mattone, lungo e vallonato come una crono da Grande Giro, nonostante ciò, ahinoi ingenuamente pensavamo fosse tutto apparecchiato per Ganna, ma fu un dominio assoluto dello sloveno. 55'04'' il suo tempo volato via sopra i 48 orari di media. Oltre 1' sul secondo in un podio stellare, per una top ten degna di una prova di altissimo valore.
8 ) Viviani a Roubaix 2021
Il biennio a due facce di Elia Viviani vede dipinto il suo volto migliore in quel finale della corsa a eliminazione, solo pochi giorni fa, nel velodromo al coperto di Roubaix, mondiali su pista. Viviani che scalza via con una volata imperiosa il più giovane Leitão, come se la freschezza non contasse, ma solo colpo di pedale e talento; Viviani che da Tokyo in poi (bronzo nell'omnium, non va dimenticato) ha fatto nuovamente click: nella testa e nelle gambe. Viviani che a conti fatti porta a compimento una stagione iniziata fra i mugugni, conclusa con sette successi su strada, una medaglia olimpica e due mondiali su pista. Mica male.
7) Pogačar sul Col de Romme
Davanti c'era una fuga, mentre dal cielo pioggia grossa come biglie di vetro. E poi freddo e quindi mantelline, mica troppo normale a luglio seppure siamo sulle Alpi. Condizioni ideali per esaltare il ragazzetto col ciuffo biondo che spunta dal casco e che arriva (il ragazzo, ma volendo anche il ciuffo) dalle parti di Komenda, Slovenia. Siamo sul Col de Romme e mancano poco più di 30 km al traguardo: zona Pogačar. Lui attacca, stacca tutti, continua a guadagnare sul Col de la Colombière, devasta il Tour, prende la maglia gialla, alimenta (stupide quanto inutili) polemiche. Tra i suoi avversari diretti per la classifica generale il migliore è Vingegaard che paga 3'20''. Distacchi d'altri tempi per un corridore che riscrive la storia (di questo sport, sottolineiamo, altrimenti pare che esageriamo).
6) Van Aert Ventoux
E se si parla di storia (eheh) e Tour come non citare l'impresa di van Aert sul Mont Ventoux? Come non cantare le lodi di un ragazzo che, con la maglia tricolore belga, vince al Tour rispettivamente: in salita in fuga, dopo aver scalato il Mont Ventoux due volte e aver staccato fior fiori di corridori; a crono qualche giorno dopo; in volata sugli Champs-Élysées. Altro campione che pare essere arrivato da tempi diversi, ma in realtà è perché il ciclismo del 2021 è questo. Pochi calcoli, attacchi da lontano, corridori completi. La gente ringrazia.
5) Van der Poel Strade Bianche
E c'è Roglič, c'è Pogačar, c'è van Aert, non poteva mancare van der Poel. Era l'alba di una stagione magnifica e la Strade Bianche ci offrì uno spettacolo contornato da fuochi d'artificio. A giocarsi il successo il meglio del ciclismo mondiale con van der Poel che sullo strappo di Santa Caterina portava a scuola tutti, facendo segnare wattaggi mai visti. Staccava tutti, compreso Alaphilippe che poi qualche mese più tardi si rifarà invece con una serie di sparate delle sue. Di van der Poel si poteve mettere anche il sigillo sul Mur de Bretagne con quella maglia gialla simbolica a compimento di un finale lasciato in sospeso da nonno Poulidor. Abbiamo scelto gli sterrati senesi, non abbiamo fatto torto a nessuno.
4) Caruso al Giro 2021
Una delle emozioni più grandi di questo 2021 ce l'ha regalata Damiano Caruso al Giro d'Italia. Il suo podio non è figlio della retorica del gregario che finalmente si traveste capitano e vince, ma semmai è il sigillo di una carriera sempre ad alto livello. La vittoria sull'Alpe Motta con la curva dei tifosi che lo incita, la sua resistenza, l'aver staccato persino Bernal in maglia rosa ci danno la dimensione di quello che il corridore ragusano è. E secondo noi potrà ancora essere anche la prossima stagione, anche (o soprattutto) a 34 anni, nonostante il ciclismo dei giovani fusti.
3) Quartetto olimpico
Simone Consonni, Filippo Ganna, Francesco Lamon, Jonathan Milan: in rigoroso ordine alfabetico. La mattina dell'inseguimento a squadre a Tokyo è emozione pura. Lamon che lavora ai fianchi, poi si stacca, Consonni e Milan che fanno il loro lavoro pulito e di qualità, Ganna che trascina alla rimonta. E che rimonta! incredibile, impensabile a tratti insensata. Danimarca, dette Furie Rosse per un motivo, lo spauracchio da anni, i grandi favoriti: battuti sul filo dei centesimi. Una goduria che ci porteremo addosso tutte le volte che chiuderemo gli occhi e penseremo al 2021.
2) Mondiale su Strada (Da Remco a Julian)
E sì, perché domenica 26 settembre tra Anversa e Lovanio abbiamo assistito alla Corsa e non solo per l'assegnazione della maglia più bella del ciclismo (di tutto lo sport ?), ma perché due corridori hanno fatto in modo che difficilmente ce la dimenticheremo. Evenepoel ha esaltato; ha attaccato da lontanissimo come fosse uno di quei corridori di terza fascia che ci provano perché siamo a un mondiale ed è sempre bello portare in giro la maglia della propria nazionale; ha azzardato e non ha guadagnato, anzi, ancora oggi paga un presunto carattere poco accondiscendente secondo i due compagni di squadra che erano con lui nel finale (van Aert e Stuyven). Ma tant'è: a noi esalta con quel carattere che poi è il carattere del corridore vincente. Alaphilippe si è consacrato, invece. Ha attaccato tre, quattro, forse cinque volte: l'ultima è stata decisiva, nessuno ha avuto le gambe per seguirlo. Ci ha fatto letteralmente impazzire.
1) Colbrelli a Roubaix
E pensavamo di aver visto ormai tutto la settimana prima in quel bagno di umori e fragorosi pensieri. Pensavamo, in stagione, credevamo di aver visto un ciclismo italiano competitivo su (quasi) tutti i terreni. Pensavamo di non vincere più una corsa come la Roubaix poi è arrivato lui, Sonny Colbrelli e pochi minuti prima poteva esserci Moscon, ma la sfiga c'ha visto benissimo. Colbrelli invece è stato un sogno, per lui, per noi, per tutti.
«Vi ricordate da dove siamo partiti?» Intervista a Diego Bragato
«Vi ricordate da dove siamo partiti?», è questa la prima cosa che ha detto Filippo Ganna ai suoi compagni, dopo essere sceso dal podio dell’inseguimento a squadre.
Diego Bragato, preparatore degli azzurri dell'Italpista, ricorda bene quella serata in taxi, in Messico, dopo una prova di Coppa del Mondo in cui l'Italia non era entrata nelle prime otto. Accanto a lui c'era Liam Bertazzo: «Gli dissi che continuando a lavorare così saremmo andati lontano, mi guardò e: “Ma va! Dove vuoi che andiamo”. Ne abbiamo parlato l'altra sera».
Bragato lo ammette: all'inizio ci credevano solo i tecnici, la squadra sognava, ma la concretezza dei numeri era unicamente nelle mani dei preparatori. «Guardavamo gli altri quartetti e ci chiedevamo come facessero ad andare così veloci. I test, però, parlavano chiaro: avevamo i 1400-1600 watt che servivano per fare un buon lancio e anche i 500 watt che servivano per gestire una buona prova. Era solo questione di lavorarci, anno dopo anno perché risultati del genere li costruisci solo negli anni. Prima si parlava di qualche decimo di miglioramento, oggi si parla dell'Italia ai vertici alle Olimpiadi e ai Mondiali».
Diego Bragato sostiene che la marcia in più degli azzurri sia quella di essersi sempre sentiti tutti sulla stessa barca, anche quando le cose non andavano. «Marco Villa ha fatto sentire tutti parte integrante di questo gruppo. Nessuno si è mai sentito ai margini. Tutti i ragazzi sanno di contare. Spesso ci andiamo a scontrare con nazioni che si dedicano interamente alla pista, i nostri atleti, invece, sono atleti che vengono dall'attività su strada, come Ganna, Viviani, Consonni e lo stesso Milan. Questo accresce il valore dei risultati».
A Roubaix, non c'era troppa pressione, ma l'idea era chiara a tutti: «Non ce lo siamo detti apertamente, ma era evidente, che nessun risultato, tranne la vittoria, avrebbe potuto soddisfarci». Per questo, prima della finale con la Francia, Marco Villa ha chiamato a colloquio i ragazzi del quartetto. «La semifinale con la Gran Bretagna era filata anche troppo liscia. Intendiamoci: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, una prestazione ottimale. Solo che abbiamo vinto facilmente e, quando succede così, c'è sempre il rischio di rilassarsi. Villa ha ribadito che bisognava mantenere la stessa pressione, la stessa tensione contro la Francia». La Francia, tra l'altro, non aveva partecipato agli Europei, per preparare al meglio i Mondiali in casa. «Abbiamo stilato una tabella molto esigente. Sapevamo che la loro grinta avrebbe potuto metterci in difficoltà all'inizio, ma eravamo altrettanto certi che non avrebbero potuto reggere quel ritmo per tutta la gara. Ad un certo punto avrebbero ceduto e noi avremmo aumentato. E poi noi, alla fine, avevamo Ganna». Al posto di Lamon, che ha disputato le qualifiche, ha gareggiato Bertazzo: «Perché lo meritava avendo visto le Olimpiadi da bordo pista e perché era pronto. Le scelte di Villa sono sempre date da requisiti esclusivamente prestazionali. Per questo i ragazzi le accettano. Hanno visto dove possono portare».
Insieme a loro, la dedizione al lavoro di Simone Consonni, «Un ragazzo che sta crescendo sempre più, uno di quelli su cui puoi fare sicuro affidamento perché è schietto: se dice di essere pronto, dà tutto» e la freschezza di Jonathan Milan. «È il più giovane, come pensieri, come età, come atteggiamenti. Osserva sempre Ganna, lo segue e cerca di imitarlo, di imparare da lui. Filippo scherza su questa cosa, però la apprezza e prova a insegnargli tutto ciò che sa. Senza troppe parole, solo mostrandogli come fare. Nell'inseguimento individuale, Ganna era in finale per il bronzo, Milan per l'oro, avrebbero potuto essere avversari, eppure fino all'ultimo Filippo lo ha affiancato dandogli alcuni suggerimenti». Proprio quella finale per il terzo posto, a detta di Bragato, sarà molto utile a Ganna. «Ha mostrato professionalità fino all'ultimo, mentalmente era stanco, forse era anche una gara di troppo dopo la sua stagione, eppure ha dato tutto. I primi giri della semifinale sono stati un incidente di percorso, Ganna va più veloce anche in allenamento. È venuta fuori la sua umanità, è bello così». Nel post gara, Filippo Ganna ha parlato con Bragato: «Facile lottare per la maglia iridata, io lotto per il bronzo che è l'unica medaglia che mi manca. A parte gli scherzi: o esco di qui a piedi o con il record del mondo». Diego Bragato è restato ammirato dalla sua prova: «Avesse finito la finale, avrebbe frantumato il record del mondo. Secondo me, è partito anche troppo veloce».
Dall'altro versante, Marco Villa parlava con Milan: «Era entusiasta, sentiva, però, il peso di essere nella finale in cui tutti aspettavano Ganna. A bordo pista lo abbiamo applaudito. Marco glielo ha detto subito: “Comunque vada, devi essere fiero di ciò che hai fatto”».
Quando sabato sono scesi in pista Consonni e Scartezzini per la madison, Villa non c'era, e a bordo pista era appostato Bragato. La prima evidenza è rassicurante: Consonni e Morkøv, Italia e Danimarca, sono i più forti. L'Italia, però, non si monta la testa: fa una gara intelligente, guadagna punti agli sprint, guadagna due giri e «A posteriori, per un cambio sbagliato, non ci siamo giocati l'oro». Bragato va subito da Consonni a fine gara: «Questa è la dimostrazione evidente che non siamo da oro solo nel quartetto, possiamo essere a quel livello in qualunque disciplina, se continuiamo a lavorare». Il rammarico c'è, soprattutto per Scartezzini perché «Per come ha lavorato avrebbe meritato anche lui una maglia iridata. Michele sa che serve pazienza, il suo idolo è Viviani: quanto tempo ha aspettato Elia?».
Con Viviani, Bragato ha un rapporto particolare. Il veronese è stato il primo a volerlo come preparatore, anche su strada, quando Diego era giovanissimo e questa fiducia, per Bragato, ha voluto dire molto. La fiducia di Viviani ha, poi, portato la fiducia dell'intero gruppo. «La gamba c'era. I risultati di Scratch e Tempo Race, nell'Omnium lo testimoniano. Però Elia non era tranquillo, da questo sono venuti alcuni errori tecnico-tattici, per esempio quello che lo ha portato a sbagliare nell'eliminazione. Quella è stata la scossa per andarsi a prendere il podio. Nella corsa a punti, abbiamo visto il vero Viviani che, in queste prove, resta uno dei primi tre al mondo».
Bragato, sabato sera, lo affianca all'uscita del velodromo: «L'eliminazione di domani non sarà una gara singola per noi, sarà una continuazione della prova di oggi. Riparti da qui. Gli alti e bassi ci sono stati e li hai superati, ora puoi prenderti quella maglia iridata». Glielo ha ripetuto più volte, Bragato. Anche la mattina a colazione. Oggi, tuttavia, ha la certezza che anche un altro passaggio sia stato fondamentale: "Mentre Elia faceva i rulli, c'erano Scartezzini e Consonni che si stavano prendendo l'argento. Vederli lottare così lo ha aiutato. Vedere il gruppo di cui è capitano giocarsela così gli ha dato forza».
Bragato conosce sin troppo bene Viviani, sa che ha bisogno di tranquillità. Così prima della gara torna a parlarci: «Elia Viviani resta un campione qualunque cosa accada adesso. Fallo per te, Elia. Solo per te e per nessun altro. Vai a prenderti quella maglia perché te la meriti». Il finale lo sappiamo tutti. «Gli ultimi due anni sono stati difficili per Viviani. Quando le Olimpiadi sono state rimandate, ha sofferto molto. Sapevamo a cosa stavamo lavorando, ma dovevamo aspettare. “Abbi pazienza- gli dicevo- farai una grande Olimpiade e torneranno anche le vittorie su strada”. È successo proprio così».
La crescita e l'orgoglio
La giornata era iniziata con una mezza delusione perché, diciamocelo, ci aspettavamo Filippo Ganna in finale per l'inseguimento individuale. Magari in una finale tutta italiana con Jonathan Milan, ve la immaginate? Ma, alla fine cosa puoi dire a Ganna? Qualcosa si può dire: non toccategli l'orgoglio per quella finale mancata, perché si inventerà qualcosa di assurdo. E assurdo, parlando di Ganna, significa incredibile, bello. Basta guardare la prestazione che ha tirato fuori nella finale per il bronzo. Ha raggiunto Claudio Imhof, ha vinto e avrebbe tirato dritto per ribadire che stamattina è stato un errore ma lui, su quei tempi, non si batte. È stato fermato dalla giuria, mentre i compagni al centro della pista invitavano il pubblico alla standing ovation, altrimenti chissà che tempo avrebbe realizzato. Non ufficiale certo, ma è una gran bella risposta. Della classe nemmeno parliamo perché sarebbe scontato.
Erano in attesa Ashton Lambie e Jonathan Milan. Trenta anni contro ventuno, Usa contro Italia, Nebraska contro Friuli Venezia Giulia. I baffoni americani contro i 194 centimetri del ragazzo di Buja. Quei baffi che sembrano uno scherzo all'aerodinamica, quei centimetri che sembrano inconciliabili con l'armonia che Milan mostra su quella sella mentre spinge sul parquet.
I tempi parlavano chiaro: Lambie era favorito. Ex meccanico di biciclette, l'americano, che a forza di averle fra le mani si è deciso a provarle. Era partito con la gravel, poi ha provato la pista. Dalla polvere al velluto del velodromo, lisciato dopo ogni impatto che potrebbe rovinarne la superficie. Si prende la scala per lisciare il legno, perché l'inclinazione è tanta, perché a piedi non sali.
Milan è lì. Ieri ha lanciato il quartetto, oggi si è lanciato, forse anche troppo veloce nelle fasi iniziali. Villa glielo ha detto subito. È rimasto lì, perdeva qualche centesimo ma non naufragava, denti stretti, saldo in sella. Si è scomposto solo nel finale, quando ormai Lambie era lanciato verso l'oro. Si potrebbe dire che ha perso l'oro, vogliamo dire che ha vinto l'argento. Non era facile. Non era facile perché c'era Lambie, non era facile nemmeno a livello psicologico essersi guadagnati quel posto, sostenere la tensione di quella finale in cui tutti aspettavano Ganna. Alla fine, però, è così che si cresce: affrontando ciò che sembra più grande di te e che momentaneamente, magari, lo è anche. Lanciandosi nel velodromo e portando a casa l'argento mondiale.
Ashton Lambie sorride sotto i baffi, si avvolge nella bandiera americana. Ad agosto, in altura, aveva frantumato il record sui quattro chilometri, scendendo sotto il muro dei quattro minuti. C'è qualcosa in sospeso con Ganna, una sfida lanciata. Come, dopo oggi, c'è qualcosa in sospeso con Milan e chissà che nei prossimi anni la sfida non si ripeta e sia Milan a spuntarla. C'è la fantasia di una finale italiana e che bello sarebbe. Ci sono un argento e un bronzo in più nel medagliere ma non finisce qui. Nei velodromi, ogni sfida è un preambolo di altro che verrà, una motivazione, un pungolo di quelli per costruire qualcosa di migliore. E se le premesse sono queste...
Troppo bello per non essere vero
E adesso diteci chi non ci ha pensato sin dalla qualificazione per la finale per l'oro? Chi non aspettava da questa mattina le 19:30 per vedere il quartetto scendere in pista al velodromo Jean Stablinski contro la Francia? Perché sì, eravamo più forti, lo sapevamo, ma fino a quando non sei su quel parquet può succedere di tutto.
E il momento non arrivava più, nemmeno quando li abbiamo visti posizionarsi. Tre caschi d'oro, per ricordarci ancora una volta ciò che è successo a Tokyo, quella medaglia olimpica che ci ha fatto gridare di gioia in un'estate italiana che più di così non si poteva. Jonathan Milan, Filippo Ganna, Simone Consonni e Liam Bertazzo che a Tokyo era riserva, qui invece è parte di quella scia di suono che passa e se ne va, che puoi solo immaginare fino a quando non entri in un velodromo e la senti. Insieme all'aria che si sposta, all'attrito rovente delle ruote lanciate a tutta velocità sul legno. La pista è perfezione, in ogni dettaglio. E fuori da qui c'è il velodromo di Roubaix, c'è ancora sospeso l'urlo di Colbrelli.
Ci abbiamo pensato tutti e abbiamo osservato quei centesimi scorrere, girare vorticosamente, numeri su numeri. Qui è tutto fatto di numeri. Italia in testa, poi Francia, di nuovo Italia e di nuovo Francia. Si sono superati i francesi, perché correvano in casa, perché Roubaix è un tempio a cui non puoi resistere. C'è devozione, rispetto, timore.
E poi diteci chi, guardando, non ha scandito a voce alta i nomi degli azzurri che si alternavano in testa al quartetto. A tutta, quasi senza fiato. Come Consonni a ruota di Filippo Ganna, lui che strapazza il tempo. Potenza dirompente quella di Ganna, spettacolo di cinetica e aerodinamica. Come il quartetto che si riporta sul tempo della Francia e lo sopravanza. Un gruppo, il quartetto.
Ultimi cinquecento metri, siamo in testa. Ultimi duecentocinquanta metri, la Francia si sfalda, resta con tre uomini, basta gettare un occhio dall'altro lato della pista per vederli in difficoltà. Hanno fatto il possibile ma certi tempi, certe velocità, devi averli nelle gambe e i muscoli dei nostri azzurri li conoscono, li praticano, hanno con loro un'affinità rara. Anche a costo di sentire male, di rischiare di svenire, ma devi resistere. La linea bianca del traguardo è lì.
Abbiamo gridato anche noi, un'altra volta, come quel giorno d'estate, come ieri sera, perché ora è vero: siamo Campioni del mondo dell'inseguimento a squadre. Non succedeva dal 1997, ben ventiquattro anni fa. Perché siamo veloci, lo dice il tempo: 3'47"192. Perché siamo un gruppo che va oltre i quattro atleti in corsa. Lo dicono i ragazzi che, prima di festeggiare, hanno chiamato Lamon, l'hanno voluto lì con loro, l'hanno preso in braccio e fatto saltare. O semplicemente perché era troppo bello per non essere vero. Ora è vero. Ora è oro.
Quei cinque centesimi
D'altra parte cosa sono cinque centesimi? In realtà non sapremmo quantificarli in una gara di biciclette, perché arrivare davanti per cinque centesimi dopo cinquantuno (51!) minuti ha tanto il sapore della beffa o di quelle corse tipo lo sci alpino.
Ma il cronometro benedetto e maledetto ha sentenziato: gioia per i ragazzi azzurri, beffa per gli svizzeri che sarebbe stato meglio togliere quei distacchi dopo la virgola e assegnare la medaglia a tutti e dodici (12!).
È che ci stiamo abituando così bene a questa Italia, popolo di passistoni e abili cronomen, ma così bene che se ce l'aveste detto qualche anno fa ci saremmo messi a ridere o vi avremmo accusato di circonvenzione di incapace.
Ci stiamo abituando così bene a Filippo Ganna trascinatore, a Elisa Longo Borghini, Elena Cecchini e Marta Cavalli finalizzatrici, a Edoardo Affini e Matteo Sobrero carburanti per il motore, azzurri che oggi, tra Knokke-Heist e Bruges, si sono regalati un'altra medaglia.
Forse qualcuno ancora storce il naso per questa gara, ma noi ci siamo divertiti. Distacchi a fisarmonica tra la frazione maschile e quella femminile; una crono che racconta mille storie e la più intensa è quella di Tony Martin, all'ultimo ballo come va tanto di moda dire, all'ultima gara, all'ultima maglia, all'ultima medaglia.
Pochi giorni fa "Der Panzerwagen" ha annunciato il ritiro dalle competizioni e oggi ha guidato la Germania in una crono a mille, di alto livello; altro che "eh ma la staffetta mista". Ben venga la staffetta mista. È affiatamento, tecnica e potenza, mostra i progressi di una squadra, tasta il polso alla punta dell'iceberg di un movimento, sia maschile che femminile. E poi li unisce: nel risultato, nel tifo dopo il traguardo con Ganna e gli altri a spingere idealmente la volatina azzurra.
E Ganna, sempre lui, chi sennò, tecnica e potenza in un solo corpo, ha trascinato la nazionale con quella sua proverbiale tranquillità che lo contraddistingue sia nella vittoria che nella sconfitta. Pista e strada non fa differenza: basta seguirlo. E poi Affini e Sobrero vagoncini affidabili, Longo Borghini, Cecchini e Cavalli che l'hanno spinta in rete.
Cinque centesimi sono bastati, anche se qualcuno al traguardo non lo aveva capito. Cinque centesimi per un podio. Un niente, difficile da quantificare. Cinque centesimi, sì, e oggi ce li prendiamo tutti.