La bellezza di una giornata all'inferno
La bellezza, per definizione, è qualcosa di soggettivo. Il fascino, l'eleganza, attraggono osservatori e ammiratori che ne rimangono colpiti. La Paris-Roubaix di oggi, soleggiata e polverosa, quasi perfetta, è un brutale inno alla bellezza, ma non c'erano dubbi. Parlavamo di definizioni: questa corsa pare abbia intriso nel suo significato il concetto di bello.
Emblematico il suo vincitore: Sua Eleganza van Baarle, per quel modo che ha di pedalare e muoversi in gruppo, di stare in bicicletta. Un tutt'uno armonico, affascinante, cadenzato. Preciso, nato insieme al suo mezzo.
Quando lo vedi accelerare rimani a bocca aperta. Appare tranquillo. Alto, ma aerodinamico, potente, ma leggero. Quando attacca, oggi, e lo fa più di una volta prima dell'azione decisiva che lo porterà a conquistare la corsa, sembra rallentare - a un certo punto sembrava avesse forato - e invece spinge e stacca chi, alla vigilia, partiva con l'idea di entrare prima di lui nel velodromo di Roubaix. Spinge e non lo rivedono più.
A rendere riconciliante la bellezza di una corsa che di suo non avrebbe bisogno di aggiunte di alcun genere, ci ha pensato la sua squadra. Quando pensi di aver visto Roubaix di ogni tipo, la Ineos ti ricorda che si può osare. Si possono aggiungere altri ingredienti rendendo 5 ore e 37 minuti di corsa una caduta in apnea.
Attacca, la Ineos, quando mancano 210 km all'arrivo, quando al primo settore di pavé un'ora e mezza. Davanti tirano a turno Turner (menzione speciale: primavera fenomenale la sua), Sheffield, Ganna, Rowe, Wurf; van Baarle ogni tanto dà qualche cambio, gestisce insieme a Kwiatkowski, e lo vedi, pulito nell'azione, come all'arrivo, pulito ma con la faccia impolverata. Senza ombra di dubbio il più forte oggi, come spesso è stato il più bello da vedere.
E forse a qualcuno può restare l'amaro in bocca per non aver goduto di una sfida epocale tra van Aert - prima o poi riuscirà a superare senza un problema Arenberg? - e van der Poel che raschia il barile, ma non è il solito van der Poel. A qualcuno può restare l'amaro in bocca per non aver celebrato Ganna fino alla fine, dopo averlo visto -Arenberg compreso - domare le pietre come se non avesse mai fatto altro in vita sua. Il messaggio di Ganna è chiaro: tornare qui e provare a vincere. Oggi è stato messo qualche tassello.
La bellezza, tremenda, brutale bellezza, oggi è in Davy che è il primo a cadere, e col corpo tumefatto dà una mano ai suoi compagni di squadra nel tentativo di ricucire sui primi. È Askey, il più giovane all'arrivo, che va avanti e chiude 42° nonostante le ginocchia insanguinate.
È Mohoric che coglie ogni attimo possibile per provare ad anticipare e vincere una corsa che sembra non amare i padroni. In Lampaert che sfiora un tifoso e cade non c'è alcun tipo di bellezza, ma ci ricorda che questa è la Roubaix e fatti di questo genere sono dietro ad ogni curva. Pichon e Devriendt sono la bellezza di una corsa che, quando si è capaci di cogliere il momento, può donarti una giornata indimenticabile.
La bellezza, ovvero, la Paris-Roubaix. Perché non c'è corsa più fuori dal mondo. Se poi ci regala quasi 6 ore così, non si può davvero chiedere altro a questo Inferno.
Uno splendido giro in bicicletta
Difficile trovare le parole in un sabato pomeriggio in cui Elisa Longo Borghini decide di accelerare e andare via da sola. Mancano trentatré chilometri all'arrivo e nella sua testa un progetto folle: arrivare, da sola, nel velodromo di Roubaix.
Difficile trovare le parole e magari aiutateci voi nei commenti, altrimenti ci facciamo supportare da qualche foto, oppure, dopo aver ripreso fiato, guarderemo e riguarderemo la corsa centinaia di volte come si usa fare con un bel film, di quelli che non vorresti mai terminare e che alla fine hai imparato a memoria.
Siamo deboli. Di cuore. Siamo inclini all'emozione. Siamo pieni di retorica. Questi sono quei momenti in cui ci concediamo qualcosa; le parole vengono fuori di getto come un'azione di Longo Borghini sul pavé. Superlativi. Eccessi di gioia e di foga. Non riusciamo a stare fermi.
Abbiamo avuto più di un sussulto. Quando Elisa Longo Borghini prendeva male quella curva dentro Camphin-en-Pévèl, settore numero 5, uno di quelli decisivi. Oppure ci si è stretto il cuore quando Kopecky da dietro faceva il forcing sul pavè e il distacco per un attimo era di poco superiore ai dieci secondi.
Difficile trovare parole quando il traguardo si avvicinava ed Elisa non smetteva mai di spingere il rapportone. Lei aveva male alle gambe? Noi avevamo male alle gambe. Lei aveva male alle braccia? Noi avevamo male alle braccia. Non riuscivamo a trovare pace. Dai, traguardo, arriva, avrà pensato lei. "Dai traguardo, arriva!" ci siamo detti noi.
Giornata blu. Cielo caldo. Difficile trovare le parole in un sabato pomeriggio passato a spingere Elisa Longo Borghini, partita mentre sulla sua destra il Moulin de Vertain a Templeuve era vestito con i colori della Roubaix.
Tutto intorno i tifosi spingevano le atlete che in qualche modo facevano rotolare le loro ruote sulle pietre infide della Regina delle classiche.
Siamo senza parole. Come Elisa Longo Borghini a fine gara: non ci crede o forse ci crede più di tutti noi. Tranquilla ai microfoni come dopo una bella pedalata. «E pensare che nemmeno ci volevo venire qui. Sono stata poco bene, non avevo intenzione di fare la comparsa, ma la squadra ha insistito». Vieni, attacca e vinci, le hanno detto.
Tranquilla, Longo Borghini, come dopo una bella pedalata nella storia di questo sport. Entrata direttamente dal varco che porta all'Inferno del Nord. Oggi, così polveroso da sembrare un paradiso in terra. Grazie Elisa Longo Borghini per lo splendido giro in bicicletta.
Evaldas Šiškevičius o del rimanere fedeli a se stessi
Evaldas Šiškevičius ne è sicuro: quando ti trovi bene in un posto, sei rispettato e hai la tua libertà, devi restituire qualche cosa. Una in particolare: la gratitudine. Per questo, nonostante le offerte ricevute negli anni da diverse squadre WorldTour, non se ne è mai andato dalla Pomme Marseille, diventata poi Delko Marseille, la sua squadra, quella di cui fa parte da tredici anni, anche se, come dice lui, non sembra essere passato tutto questo tempo.
Certamente sono cambiate molte cose: nel 2008 la Pomme Marseille era uno dei migliori team nel ranking delle squadre amatoriali, successivamente è diventata Continental e poi Professional. Il WorldTour, però, non è mai arrivato. Ma Evaldas continua a vedere il buono e dal modo in cui lo guarda lo fa sembrare ancora più buono. «Ora abbiamo uno staff specializzato, tutti i materiali e persino due bus. Soprattutto in ogni gara abbiamo un traguardo da raggiungere, sappiamo cosa fare e come farlo» ha raccontato a Procycling.
Perché a Marsiglia non manca nulla, in primis il fatto di sentirsi libero di interpretare il proprio lavoro come meglio crede, di essere un capitano sulla strada, uno di quelli che ci vede lungo ed è un esempio per tutti i compagni.
Tutti o quasi ricorderanno la Parigi-Roubaix in cui arrivò al velodromo André Pétrieux di Roubaix dopo le diciotto, fuori tempo massimo, con un velodromo già deserto ma soprattutto con quel cancello di accesso chiuso. Evaldas dovette mettersi a gridare perché gli aprissero. Qualcuno, alla fine, quel cancello lo aprì e lui riuscì a finire quello che aveva iniziato. Anche quella fu una questione di rispetto. Il suo direttore sportivo glielo disse in partenza: «Non si viene per caso a questa corsa. Ha una storia importante a cui ogni partecipante deve rispetto. Bisogna saperlo». Nemmeno lui sa come abbia fatto a insistere così, cosa gli sia passato per la mente, sua moglie continua a dirgli che si chiede perché, ancora oggi dopo tre anni. Era il 2018 e solo un anno dopo, nel 2019, Evaldas riuscì, dopo una giornata incredibile, ad arrivare nono alla Roubaix.
Šiškevičius è nato a Vilnius, in Lituania, il penultimo giorno dell'anno del 1988 e della Lituania ricorda sempre il modo che hanno le persone di andare in bicicletta. Sono felici, lo fanno con piacere, è difficile da spiegare, ma basta osservarle per capire ciò che Šiškevičius vuole dire. Questo non vuol dire che in Lituania vada tutto bene, almeno non nel ciclismo professionistico. Basti pensare che gli unici professionisti lituani, al momento, sono Ignatas Konovalovas e lo stesso Šiškevičius.
Certo la sua carriera non resterà memorabile a livello di risultati, ma a suo modo il corridore lituano è un vincente, per l'orgoglio con cui difende le sue origini e le sue scelte, per il fatto che, nonostante non abbia mai avuto le caratteristiche per essere un vincente, facendo la cosa giusta al momento giusto, qualche risultato l'ha portato a casa. E perché, anche oggi, che è in scadenza di contratto e l'idea del passaggio nel WorldTour lo attrae dice che vuole pensare, riflettere, perché il luogo in cui ha vissuto una vita, non è come un bagaglio che può essere spostato con buona pace di tutti.
Perché alla fine, quando resti fedele a ciò che sei e a chi ti lascia la possibilità di esserlo, hai già vinto anche se nessun albo d'oro ne parla.
Ma quale inferno
Sono passati due giorni dalla fine della Paris-Roubaix e ancora quando ci svegliamo, ci pensiamo. Andiamo su internet e leggiamo testimonianze, vediamo foto di facce che sono croste di melma, oppure quella del manubrio di Lizzie Deignan imbrattato dal sangue delle sue mani: la prima vincitrice della Roubaix infatti, non indossava guantini, come fanno alcuni tra i più quotati colleghi, vedi Haussler o Gaviria.
Questo fine settimana, nel nord della Francia non si riusciva nemmeno a guidare la bici: basta vedere la difficoltà di Politt, che due anni fa arrivò secondo e che domenica sembrava uno messo la prima volta su un paio di pattini. L'hanno conclusa in 105, 11 di loro fuori tempo massimo, pur di onorarla, ma ci ritorneremo a breve. Non cadevano solo i ciclisti, ma anche le moto, mentre le ammiraglie finivano lunghe nei fossi.
Ma qual è il fascino di una corsa del genere? Beh, per chi la guarda da casa è facile: corridori infangati, la sfida tra i grandi nomi, l'epica delle facce da Roubaix, la fatica disumana, il corpo a corpo, la selezione, gli attacchi partiti dal km 0 quando ancora i settori di pavé distavano due ore. Oppure i tifosi «eccitati in maniera febbrile al nostro passaggio» come mi racconta Luca Mozzato, all'esordio in questa corsa e tra i protagonisti assoluti. In fuga prima, 20° al traguardo nel velodromo di Roubaix «dove ho cercato di stare più tempo possibile per godermi ogni attimo, guardarmi intorno e portare il ricordo con me».
La pioggia ha trasformato tutto in un affare brutale, ma terribilmente affascinante; il fango ha reso i corridori maschere e noi godevamo di quello spettacolo, con messaggi che arrivavano da spettatori ancora meno che improbabili e che si sono avvicinati al ciclismo grazie a una giornata del genere.
Perché il ciclismo ha bisogno di queste prove per uscire dalla sua nicchia; chiede fango e sterrati, pietre, sentieri, sfide differenti, testa a testa, come tutte quelle corse che ogni anno prendono piede e diventano sempre più conosciute: dal Tro-bro Léon in Bretagna, fino a diverse corse in Belgio, o persino quella disputata sempre domenica in Norvegia, la Gylne Gutuer: la Strade Bianche dei fiordi. L'hanno conclusa in dieci: andate a vedere i video per capire di cosa stiamo parlando. Pioggia, sterrato, salitelle, brutale selezione.
E i corridori, che sono poi gli attori principali dello spettacolo, anzi gli unici protagonisti, raccontano le diverse sensazioni: sempre Luca Mozzato afferma di aver vissuto due chilometri d'inferno dentro Arenberg dove ha forato, poi è caduto, ma dice di essersi sentito gasato ed emozionato ad averla corsa e conclusa. Gasato: «perché passavano i chilometri e ti giravi e vedevi intorno a te van Aert, Van Avermaet, Kristoff, Laporte. Perché passavano i chilometri e prendevi dimestichezza. Sul primo tratto ero in coda, irrigidito, su quel tipo di pavé non sapevi fin dove potevi spingere: la bici andava dove voleva lei, sbandava, dovevi assecondarla. Poi man mano che andavo avanti la confidenza aumentava, sapevi come muoverti e chilometro dopo chilometro gli altri saltavano e tu eri sempre davanti». Emozionato da tutta quella gente: «E pensare che nemmeno avevo capito di avere così pochi corridori che mi precedevano. E gli ultimi 30 chilometri sono stati, seppur nella fatica, una goduria».
Mozzato mi spiega poi come, alla vigilia, quasi per gioco, insieme ai suoi compagni di squadra si era messo a guardare i video dell'ultima Roubaix bagnata: «All'inizio, guardando i filmati scherzavamo, poi è salita un po' di ansia che diventava palpabile al via della corsa: tutti i migliori stavano davanti dal primo metro di gara. Si era capito che sarebbe stata una giornata diversa dalle altre».
Poi c'è chi come Niki Terpstra ha impiegato un'ora e mezza in più del vincitore, ma ha voluto onorare la corsa portandola a termine ugualmente - fuori tempo massimo. Niki Terpstra che nel 2014 vinse la Roubaix.
Per Fred Wright, anche lui nella fuga che ha visto dentro Mozzato, Moscon, Vermeersch e altri, è stata: «La corsa più bella, migliore, peggiore, più dura e brutale che abbia mai fatto: tutto in uno». Ed è da leggere quello che scrive Davide Martinelli, arrivato anche lui fuori tempo massimo. Un messaggio che si conclude con un attestato d'amore:
"Comunque sia volevo arrivare a Roubaix a tutti i costi e ce l’ho fatta, il boato della gente all’entrata del velodromo ha ripagato tutti gli sforzi! Se penso che tra qualche mese saremo di nuovo su quelle pietre mi viene un po’ il ribrezzo, ma per ora non ci voglio pensare, ora come ora odio il pavé, ma sicuramente tra qualche giorno tornerò alla mia idea iniziale: cioè che la Parigi-Roubaix è un amore puro, la follia incarnata in una corsa su due ruote".
Verrebbe da dire: meraviglioso inferno.
Foto: ASO/Pauline Ballet
Il viaggio di Gianni Moscon
Alcuni personaggi, decisamente più importanti di chi scrive, hanno provato a spiegare come, rispetto alla conclusione di un'avventura, sia più importante lo svolgimento della storia. Ad esempio, per Thomas Eliot: "quello che conta è il viaggio e non la destinazione", e persino Einstein sosteneva come amasse viaggiare, quanto odiasse arrivare.
Cerchiamo parole di consolazione un po' per noi, per la verità ampiamente ripagati da quel finale di Sonny Colbrelli che ancora ci pensiamo e non ci rendiamo conto, ma soprattutto per Gianni Moscon e quell'impresa sfiorata e accarezzata come i capelli profumati di un amore adolescenziale.
Usare una metafora parlando di amore e profumi dopo la gara di ieri appare un po' azzardato, prendete Matteo Jorgenson - in fuga, poi a lungo col gruppetto di van Aert e poi immortalato in un fosso a espletare i suoi bisogni; parla di «Sei ore a mangiare fango e merda di vacca che mi hanno ribaltato lo stomaco. A volte la natura chiama e non si può fare altro che rispondere». Ma per un attimo abbiamo provato a uscire dal contesto.
E così che un pensiero Moscon lo merita. Se non altro perché è proprio questo il caso in cui vale più il viaggio (che poi un 4° posto alla Roubaix buttalo via) della destinazione. Più che l'emozione finale, uno dei punti è il crescendo e il misto di emozioni che abbiamo vissuto durante la sua prova.
Moscon che (forse) non ha espresso ancora del tutto il suo (enorme) potenziale: chissà che aver sfiorato la leggenda - perché di questo si sarebbe trattato - non gli dia nuova carica per una seconda parte di carriera che inizierà dal 1° gennaio 2022 in maglia Astana.
Ieri Moscon stava per realizzare qualcosa di enorme, e forse lo ha fatto. Partito lontanissimo dal traguardo con altri corridori, poi sempre attento a domare quelle pietre che su di lui, nonostante sin troppo leggero rispetto ad altri bestioni da pavé, sembrano cucite su misura. A poco più di 50 dall'arrivo, quando è rimasto solo dopo aver accelerato, abbiamo sognato e avremmo voluto fermare il tempo come un'istantanea.
E poi la foratura e la caduta: stamane sul giornale belga Het Nieuwsblad hanno scritto che la preparazione della bici di riserva non era l'ideale per guidare sulle pietre finali: sembrava che la pressione delle ruote fosse troppo alta. Il suo DS Knaven ha subito risposto: «Ma quale pressione errata: la bici di scorta era uguale a quell'altra. Semplicemente Gianni, dopo la foratura, era stanco morto. È un peccato perché oggi aveva dimostrato di essere il più forte in gara».
L'altalena di emozioni ci ha trascinato ribaltandoci lo stomaco come al povero Jorgenson e ci ha coinvolto nel vedere il distacco di Moscon scendere all'improvviso, poi di nuovo crescere per un attimo: mera illusione. Una volta dentro Carrefour de l'Arbre per lui ormai era finita.
Avrebbe vinto senza quei due problemi? Chi lo sa. Ci verrebbe da dire di sì perché il vantaggio era sostanzioso e stabile, ma mancavano ancora dei tratti a 5 stelle di difficoltà. E di bastarda come la Roubaix non c'è corsa. «Dopo la foratura e il cambio bici mi sono trovato a guidare oltre il limite e sono caduto. Sono stato un po' sfortunato perché se non vinci con queste gambe... certo magari non avrei vinto lo stesso, ma già essere protagonisti nella corsa più bella del mondo è qualcosa di unico». Ieri, come hanno spiegato diversi saggi, è contato più il viaggio che la destinazione. Più il come (ha corso) che il cosa (ha vinto). Ieri Moscon ha mostrato che credendoci e correndo in questa maniera, all'attacco come vuole il ciclismo degli anni 2020, e da leader, può sognare qualcosa di grande. E ovviamente noi con lui.
Le terre dell'abbondanza
Dannato, benedetto ciclismo. Pazzesca, fangosa domenica. È successo di tutto. Proprio letteralmente. Dall'attacco di Trentin, quando mancavano 250 km all'arrivo, abbiamo capito che nulla sarebbe stato normale in una giornata così epica per il ciclismo che a un certo punto anche i telecronisti si sono dovuti arrendere: «"Epica Parigi-Roubaix" e scusateci se stiamo abusando di questo termine».
Di tutto, davvero. Da avere male ovunque pure noi. Da dover fermarsi, prendere fiato e ragionare per mettere ordine alle idee. Da far rallentare il cuore, che batteva all'impazzata, come quel momento in cui, per una frazione di secondo, i corridori entrano nel velodromo di Roubaix e c'è silenzio che si tramuta in fracasso.
E poi quell'urlo: "Sonny Colbrelli!", il sorpasso su Florian Vermeersch sulla linea d'arrivo, la bici tirata su in aria come il bilanciere di un pesista. La bici: unica grande protagonista di una giornata da leggenda.
E che Sonny stesse bene bastava vedere il cielo stamane per capirlo, ma avremmo dovuto guardarlo negli occhi, leggere nella sua anima e analizzare gambe e testa: come si poteva solo pensare che un debuttante potesse vincere una Roubaix? Eppure i primi tre all'arrivo non l'avevano mai disputata. Il ciclismo ribalta, la Roubaix distrugge.
E come pensare che Sonny apparisse, sin dalla prima pietra attraversata, dopo 96 km, sempre davanti in controllo sulle ruote giuste? Oggi era quella di van der Poel ancora più di quella di van Aert.
La primavera è stata trascinata direttamente dentro l'autunno e all'inferno oggi pioveva. E poi c'era nebbia e vento. E poi il pavé che non sembrava nemmeno pavé perché nascosto da fango e pozzanghere. E poi il sole a illuminare un arrivo che ci ha fatto letteralmente impazzire.
Abbondanza: troppo di tutto. Di superlativi, emozioni, citazioni, nomi di corridori che non entreranno in queste righe perché meriterebbero di essere nominati uno per uno. Abbondanza: nonostante Roubaix qualche anno fa risultasse la città più povera di Francia.
I corridori mummie di fango: viene in mente "stravolti", ma non rende giustizia. E poi la lotta per le posizioni, che se sei dietro anche a 200 km dall'arrivo, per te è già finita. Una corsa dove la selezione non si fa da dietro, ma davanti, in mezzo, ovunque. I corridori che nei settori tracciati dalle pietre sbandano come impazziti.
E non c'è stata mai tregua. Da averne abbastanza a un certo punto. A 130 km dall'arrivo è già un testa a testa tra tutti, nessuno escluso. A 55 km dall'arrivo Moscon partiva e si pensava che la Roubaix oggi fosse sua. A 26 km il punto di rottura: la corsa, maledetta, lo respingeva. Forava, Moscon, poi cadeva, poi si piantava e veniva sorpassato da quei tre: un dramma. Troppo di tutto. E allora la sceneggiatura prendeva fuoco.
Il mais, poco prima del finale, è alto oltre due metri, inusuale agli occhi di chi ha mai visto una Parigi-Roubaix. Colbrelli, van der Poel, Vermeersch tre esordienti qui, gli passano di fianco come schegge intinte nella melma, come se appartenessero da secoli alla povera Roubaix.
Vermeersch che pesa 80 chili in tutto, oggi qualcosa in più con tutto quel fango addosso; van der Poel che rende il ciclismo un lungo viaggio verso la meraviglia e ci fa dire cose come "oggi ci si diverte", "oggi non mi perdo la corsa per nessun motivo al mondo". E poi Colbrelli che l'ha fatta grossa, e chi se l'aspettava.
Una giornata in cui, fossimo masochisti, avremmo voluto pedalare insieme al gruppo o a ciò che restava di quell'essere metaforico sgretolato a ogni metro di corsa.
"L'unico rimpianto - scrisse un giorno qualcuno a proposito del gruppo che transitava sui Campi Elisi - è stato non essermi visto passare".
Oggi quella frase calza a meraviglia: che bellezza il ciclismo, cresciuto come un frutto nella terra dell'abbondanza. Grazie epica Roubaix, grazie meraviglioso ciclismo, grazie Colbrelli. Grazie a tutti pazzi, in senso positivo, corridori.
Foto: ASO/Pauline Ballet
Finalmente Paris-Roubaix
7112 giorni fa, oltre diciannove anni, l'ultima volta che pioggia e Paris-Roubaix si sono guardate negli occhi e poi parlate. Vinse Johan Museeuw, non uno qualsiasi, mai. Che su quelle strade rischiò di farsi amputare un ginocchio. Quel 14 aprile del 2002 fu praticamente il suo ultimo grande successo. Terzo arrivò Tom Boonen all'epoca giovane speranza belga e mondiale che nell'Inferno del Nord fece conoscere la sua leggenda fino a scoprirne poi la più grande beffa.
903 giorni dall'ultima Parigi-Roubaix. La più penalizzata delle corse causa pandemia. Quel giorno van Aert cadde, inseguì, poi saltò. Gilbert se ne andò via con Politt e lo superò dentro il velodromo intitolato a Stablinski. In mezzo tra quella e questa Roubaix il mondo ha conosciuto un po' di tutto, il ciclismo si è adeguato alle inevitabili trasformazioni.
Sagan ha smesso di dominare: 9 successi negli ultimi due anni e mezzo, su oltre 100 in carriera fino a quel giorno. Gilbert ha visto il suo declino accelerato da età, brutte cadute e infortuni. Froome non avrebbe vinto più un Grande Giro, anche lui invischiato tra cadute e tempo che passa. Sarebbe iniziata l'epoca degli sloveni e di Bernal, sarebbe arrivato Carapaz dall'Ecuador. Aru avrebbe smesso di correre, i danesi avrebbero raggiunto l'età dell'oro e Alaphilippe, in un paio di anni, avrebbe vinto due mondiali in fila. Evenepoel avrebbe fatto conoscere a tutti, sempre più velocemente, forza e spavalderia. E poi van Aert e van der Poel, e quel dualismo a riempire le pagine.
Già, van Aert e van der Poel (anche) oggi favoriti ma poi magari vincerà qualcun altro perché è il bello del ciclismo, perché è il fascino della Roubaix dove puoi essere in giornata di grazia, ma poi, appunto, il diavolo travestito da viscido pavé e (finalmente, diciamolo) da fango, ci mette sempre lo zampino. Figuriamoci domani che è prevista (altra) pioggia. E servirà una dose di fortuna incredibile oltre a malizia nella guida e poi quell'esperienza che arriva dal ciclocross risulterà fondamentale.
E allora sembrava veramente che non dovesse accadere più, come quando ti ritrovi a fare un incubo e non riesci a uscirne e ti senti soffocare e invece siamo qui a immaginarci il gruppo in fila per prendere Arenberg, a sperare che ne escano tutti intatti perché già è complicato di suo, immaginatevi dopo la pioggia, tutti sparati a limare che anche se guidi bene o salti come un grillo da un buco all'altro non sai mai cosa ti può accadere. E puoi forare nel momento decisivo, ti si può rompere la bici, eccetera.
Pensi alle Carrefour de l'Arbre e ai settori, e ai colori che saranno grigi e marroni, ai campi intorno pronti per la raccolta, all'erba più alta di quando è aprile, e a punti in cui ci sarà tifo indemoniato per tutti. E pensi a favoriti e outsider: da quanto tempo abbiamo sognato questo momento? Pensi all'armata Deceuninck che non ha i favoriti assoluti ma se sommi Asgreen, Sénéchal, Štybar e Lampaert puoi tirarci fuori il vincitore. Pensi a Stuyven che ha il colpo in canna ancora dal Mondiale; ti aspetti Sagan che per vincere quella volta si mosse da lontano e gli altri si guardarono. Pensi a Colbrelli (che sarà qui la prima volta e a Roubaix serve esperienza, tanta) o Moscon che qui ci fece sobbalzare per qualche istante quando entrò nel velodromo pizzicando il gruppo di testa e provò persino ad anticipare la volata.
E poi la lista dei nomi pare infinita ma non importa, quello che importa è che dopo quasi mille giorni torneremo a vedere quella che per la maggior parte del gruppo è "la gara che ho sempre sognato da bambino". Seppure sarà maledettamente dura, pure noi la sogniamo.
Bentornata Roubaix, Inferno del Nord, purgatorio di fatica, paradiso ciclistico.
IL PERCORSO
257 km: 54,5 di pavè diviso in 30 settori. Come da tradizione da una stella a cinque stelle per indicarne la difficoltà e dove a 5 stelle, i settori più difficili, i soliti tre: settore numero 19, Trouée d'Arenberg (95,3 km dall'arrivo) lungo 2.300 m, settore numero 11, Mons-en-Pévèle (48,6 km all'arrivo) 3.000 m di lunghezza, e infine settore numero 4, Carrefour de l'Arbre, (17,2 prima di tagliare il traguardo) 2.100 m di lunghezza. E in mezzo sarà il solito delirio dove quest'anno appunto, andrà pure aggiunto il fango.
I FAVORITI DI ALVENTO
⭐⭐⭐⭐⭐ Van Aert
⭐⭐⭐⭐ Van der Poel
⭐⭐⭐ Sénéchal, Štybar
⭐⭐ Stuyven, Asgreen, M.Pedersen, Kueng, Sagan, Politt
⭐ Van Baarle, Kwiatkowski, Moscon, Colbrelli, Lampaert, van der Hoorn, Turgis, Kristoff, Teunissen, Philipsen
Foto: ASO/Pauline Ballet
La lezione di Roubaix
Elizabeth Deignan è partita da sola quando mancavano ancora diciassette settori in pavè. E ci viene da dire che, forse, inizio più bello di questo non poteva esserci per la Parigi-Roubaix femminile, alla sua prima edizione oggi, dopo 125 anni da quel 1896 che vide la prima edizione della Roubaix maschile.
È partita da sola mentre la pioggia rendeva fango la terra incastrata fra il ciottolato irregolare e l'hanno rivista dopo il traguardo. Dietro il lavoro magistrale di Elisa Longo Borghini, che è caduta, ha sbattuto una spalla, ha sporcato la maglia tricolore di quel fango, poi è ripartita, all'inseguimento di Marianne Vos ed è entrata per terza in quel velodromo, schiacciato contro il cielo plumbeo, dietro alla compagna di squadra e all'olandese.
Lizzie Deignan che solo qualche settimana fa aveva risposto in maniera decisa a Patrick Lefevere che ironizzava sulla possibilità di investire nel ciclismo femminile. Per dire che il ciclismo femminile non ha bisogno di chi non crede alle sue possibilità, di chi lo tratta come una seconda scelta o di chi vuole elemosinargli qualcosa. Non ne hanno bisogno queste atlete che oggi all'ingresso a Roubaix erano stremate, sporche, infreddolite per tutta quell'acqua presa, ma, guardando il pubblico, si sentivano orgogliose. Quelle atlete che ieri sono passate dalle docce di Roubaix e che adesso ci torneranno, per sciacquare via la terra, per ripulire ogni lineamento dalla ghiaia e anche dal sangue che si dura a cadere fra quelle pietre. Quelle che hanno fatto vedere che la Roubaix non era una corsa troppo dura per una donna. Era dura, certo. Come lo è per gli uomini, come per qualunque essere umano. Lo sa Elisa Balsamo che è caduta eppure all'ingresso nel velodromo sorrideva e salutava: perché la maglia iridata l'ha portata lei in quel velodromo.
Elizabeth Deignan che è madre e da quando lo è diventata è più felice. Così felice da riuscire a rendere facili molte cose difficili. Certe cose, invece, non si possono semplificare e si affrontano come sono, da uomo, da donna, da bambino o da ragazzo. Si affrontano come capita nella vita e non c'è chi può riuscirci e chi no. Dice che per essere una madre migliore, forse, non dovrebbe più correre perché non bastano le ore di una giornata per essere una buona madre. Dice che da quando è diventata madre il ciclismo è contato sempre meno, eppure in giornate come queste la sua lezione è più che mai importante per il ciclismo.
Perché l'ingresso nel velodromo di Roubaix di Deignan, che ha vinto e tornerà a casa con quel trofeo di pietra che narra tutta la concretezza e la crudeltà di una gara così, è la migliore risposta a tante cose che si sentono e non solo nel ciclismo. Come l'ingresso di tutte le altre atlete che hanno fatto di tutto per arrivarci. A tutti coloro che dicono che il ciclismo femminile non è spettacolare basterebbe riguardare la sua azione. Alla continua tentazione di paragonarlo al maschile, come se per avere dignità dovesse assomigliargli, come se per meritarsi spazio e opportunità dovesse rincorrerlo. Come se non gli bastasse essere ciò che è.
E ancora per tutti coloro che chiedono alle donne di scegliere tra una carriera e una famiglia come se non potessero gestire entrambe le cose e farlo bene. Come se non potessero scegliere autonomamente se avere una famiglia, un figlio o un certo lavoro. Elizabeth Deignan lo ha raccontato anche per dare un segnale. Ma non solo perché questa giornata fa a pugni, come molte altre giornate di sport, con tutti quei pregiudizi, quegli assiomi senza alcun significato: la fatica come qualcosa riservato agli uomini, su tutti.
Basta guardare e poi tornare a riflettere. Quello di oggi è un passo importante, qualcosa di cui essere orgogliosi come è Roubaix. Ma alle donne non può bastare questo orgoglio, che è gran cosa ma deve essere solo l'inizio. Non può bastare se poi i premi di gara sono mostruosamente squilibrati, se gli stipendi non si equiparano, se molte ragazze che vorrebbero correre in bicicletta per lavoro non possono farlo pur avendo il talento, pur meritandoselo. Non può bastare l'orgoglio, serve la presa di coscienza, serve la volontà.
Giornate come queste, podi come questi, storie come queste possono essere la spinta giusta per essere così felici da rendere facili cose che fino ad oggi sembrano difficili. Oppure da affrontarle in tutta la loro difficoltà, perché così fanno gli esseri umani. Da rendere ovvie cose che dovrebbero esserlo da sempre. Da rendere più giusta la fatica e anche l'orgoglio.
Philippe Gilbert non è soltanto una scritta sull'asfalto
Destino straordinario quello di Philippe Gilbert. Corridore fuori dall’ordinario. Saltellava sulla Redoute quando era ancora giovane, anche se gli dicevano di non farlo: quella salita lì è troppo dura per un ragazzo, era il monito. Costante. Ma vi è un legame così stretto tra Gilbert e quella salita che sull’asfalto trovavi già scritto: “Philippe Gilbert” e lui doveva ancora diventare professionista. Era la Liegi del 1999, Philippe, nato nel 1982, non era manco maggiorenne, e sulla Redoute si sfidavano Frank Vandenbroucke e Michele Bartoli. Attaccarono entrambi, affiancati, appaiati, mentre per terra sotto le loro sagome si ripeteva quel nome ancora sconosciuto. Spianarono i quasi due chilometri di côte guardandosi, in un testa a testa come sfida di nervi labili, quegli stessi nervi che poi mandarono all’aria la vita del fuoriclasse all’epoca in maglia Cofidis. Vinse Frank quel giorno – staccando Boogerd ben dopo il tentativo sulla côte simbolo della corsa belga – e per dodici lunghi anni fu digiuno per i corridori di casa.
A spezzare quel sortilegio Gilbert, oppure semplicemente “Phil” come da un certo punto in avanti trovavi scritto su quelle strade: non serviva più specificarne il cognome: d’altra parte avrebbe messo vicino, un po’ alla volta, successi in tutte le corse di un giorno più importanti al mondo. Tutte tranne una, come sapete. Phil, Philippe, Gilbert, eccetera: un peso quel nome, un marchio che ha sempre legato valloni e fiamminghi, che ha sempre emozionato italiani e francesi e spagnoli e olandesi. Difficile pensare a un corridore più tifato in gruppo negli ultimi dieci, quindici anni.
Filippo di (e da) Remouchamps, un paesino proprio ai piedi, più o meno, della Redoute. Ruvida erta d’asfalto quella côte, che quando si arrampica interseca senza pietismi un tratto di autostrada: brutta da vedere, sì, una volta pure così efficace nel selezionare il ristretto novero dell’élite ciclistica verso il finale di corsa, ma poi negli anni trasformatasi in fotografia del greggepecorismo che per un lungo periodo ha influenzato il gruppo. Invece che vedere scattare e sgranare, eccoli tutti aperti in fila lungo la sede stradale a immaginarsi una selezione che man mano arriva la salita dopo, poi la salita dopo, poi ancora la salita dopo, fino all’arrivo. Fino a quando poi han cambiato il finale della Liegi – per fortuna.
Adolescente come tanti altri, è stato. Con un padre che voleva diventare corridore e che trasmette la passione ai figli. Corrono tutti, ma arriva solo Philippe. Parte dal Belgio, dopo aver entusiasmato in una corsa Under 23 in Francia, attaccando a un centinaio di chilometri dal traguardo in mezzo al vento, e Marc Madiot (team manager già all’epoca della Française des jeux) lo strappa alla concorrenza delle squadre di casa. «Ho preferito la Francia per sentire meno pressione» racconterà spesso Gilbert.
Ma intanto in quella Remouchamps una piazza porta il suo nome, così come un’ala del Museo della Bicicletta – situata ai piedi delle Grotte di Remouchamps e fortemente voluta da Christian Gilbert, fratello di Philippe e assessore alla cultura della cittadina belga. Un’importante corsa che si disputa da quelle parti è stata ribattezza “La Philippe Gilbert Juniors” (nel suo albo d’oro vittorie di Pidcock nel 2016 ed Evenepoel nel 2017), quando vinceva lui, vinceva tutto il paese. Di fan club in giro per il mondo se ne perde il conto, di tifosi che si asserragliano lungo quelle salite, il giorno de “La Doyenne”, non basterebbero giorni per contarli tutti. “Philomani” li chiamano. A fine “Doyenne”, la decana delle classiche, ovvero la Liegi-Bastogne-Liegi, per esteso, e che negli anni ha perso molto del suo fascino antico, si organizza sempre una grande festa in suo onore. Uno stand, magliette. gadget, balli, musica, salsicce e birra. Eroe per i valloni che dai tempi di Criquielion – e di Magritte -aspettavano un figlio della loro gente per guardare negli occhi i fiamminghi.
Ha vinto una Liegi (una soltanto, è il caso di dirlo) da favorito e dominatore. Era il 2011: decadi che passano. Sconfisse i due fratelli Schleck nella volata verso Ans. Volata via senza storia. Quando ha conquistato il Fiandre (2017), lui che per un lungo periodo si è sentito tagliato fuori dalle corse sulle pietre a causa pare anche di una difficile convivenza in casa BMC, lo ha fatto come un matto. Attacca lontano dal traguardo, poi 55 chilometri in solitaria con 8 muri ancora da affrontare. «Ci vuole coraggio per fare quello che ho fatto. Sì mi sono sentito davvero pazzo», disse appena tagliato il traguardo, la bici tirata su in aria, tutti prostrati davanti alla sua classe.
E poi il 14 aprile del 2019 il colpo alla Roubaix, cercato, ma inaspettato. Il paradosso vuole che ancora per questa primavera, la seconda consecutiva stramaledetta primavera, c’è il rischio che il suo resterà l’ultimo nome scritto nell’albo d’oro della Regina delle Classiche, lui che delle classiche è di sicuro stato un Re. Quattro Amstel, un Fiandre, una Roubaix, una Liegi, una Freccia Vallone, svariate tappe tra Giro, Tour e Vuelta, un Mondiale, una Freccia del Brabante, due Parigi Tours, due Lombardia, una Strade Bianche, un San Sebastian, un Gp de Quebec, due Het Volk, due titoli nazionali – uno in linea e uno a cronometro. Allora gli mancherebbe e probabilmente gli mancherà, solo la Sanremo per eguagliare Van Looy, Merckx e De Vlaeminck, belgi come lui, prima di lui, ma deve fare i conti con il tempo che passa.
Gilbert smuove, ma forse ha smosso definitivamente ormai, non ce ne voglia. A 38 anni, quasi 39, si farà da parte e smetterà a fine 2022. Oltre al logorio del tempo che scalfisce ci sono tanti infortuni pure gravi, pure recenti. È vero: ci piacerebbe giocare proprio con quel tempo e plasmarlo a nostro piacimento. Ci piacerebbe prendere il Gilbert dello scatto devastante di Anagni al Giro 2009, oppure quello dell’attacco su quel sottile capezzolo sopra Valkenburg quando si lanciò verso l’iride, e proiettarlo per una sfida alla pari con van Aert, van der Poel, Alaphilippe, ma non è possibile. Non ci sono armi né sotterfugi, né capacità di sottrarsi al destino e al tempo. Rimane solo la capacità di chiudere gli occhi e immaginarsi ancora quella scritta sull’asfalto della Redoute: “Philippe Gilbert” oppure semplicemente “Phil” e via di nuovo, tornare indietro e ricominciare tutto da capo come un attacco folle a cento chilometri dall’arrivo di una grande corsa. All’infinito.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2018
Un racconto di fango e pietre oppure una stagione senza Roubaix
Che strazio: un anno senza Parigi-Roubaix. Che paura guardare Arenberg vuota, ferma e silenziosa come una vecchia fotografia invernale. Non ci può essere più scherzo bislacco di una Roubaix bagnata, con freddo e vento e che non si può disputare.
Immaginatevi: una nebbiolina avvolge la foresta e una mandria di corridori imbizzarriti ci si lancia dentro, dove a sfidarsi in prima fila ci sono i Diòscuri del ciclismo, van Aert e van der Poel. E invece è l'horror vacui. Come quando il re dei sogni scende all'Inferno e lo trova svuotato da tutte le anime dannate.
Immaginatevi. Chiudete gli occhi e fate volare il pensiero verso Arenberg, l'infame. Quel pavimento lastricato che compone il suo settore: veleno per le gambe dei corridori. Immaginatevi le pietre che lo ricoprono, ricche di insidie e di aneddoti. Pietre che hanno visto cavalieri ritornare a casa dopo lunghe battaglie e soldati feriti marciare; carri trasportare carbone o mezzi agricoli dissestarne la pavimentazione. Sassi tagliati in modo ingiusto e che ridono malignamente quando le ruote fanno loro il solletico e si sentono colpevoli quando durante la Parigi-Roubaix qualcuno finisce a terra e si fa male. E oggi? Oggi i corridori vivranno stati d'animo schizofrenici: ci sarebbe potuti essere e avrebbero rischiato, si sarebbero fatti male, avrebbero sofferto. Invece non ci sono ma sognano di esserci.
Immaginatevi quel tratto: un sentiero oscuro chiamato anche Drève des Boules d'Hérin, dove boules sta per bocce, oppure qualcosa di simile a bouleaux, betulle, come quelle che circondano i duemila e quattrocento metri di strada fino all'uscita.
Durante l'anno, da quelle parti, tutto sembra immobile e appartenente a un'altra epoca - un po' come accadrà oggi. L'area è protetta, in letargo. C'è una sbarra: il transito è vietato alle automobili. Sopravvissuta alla legge dell'asfalto, dal 1992 è monumento nazionale. Sul sito dell'associazione "Les Amis de Paris-Roubaix", uno slogan recita: "Senza pavé non c'è la corsa", loro, come guardiani di questo tempo perduto, hanno il compito di scovare nuovi tratti in pavé, restaurarli e salvaguardarli, in barba a contadini, agricoltori e amministrazioni; tra febbraio e marzo si piegano sulle gambe per sistemare le pietre sconnesse. Angeli a guardia dell'inferno. Quest'anno resta il pavé, ma non la corsa.
Allora quella possiamo solo continuare a immaginarla, a studiarla, a ricamarla. Possiamo sentirla: come l'aria di quelle parti tutta intrisa di carbone, o raccontarla. Come Emile Zola che scrisse di Étienne Lantier, il quale, dopo aver preso a schiaffi il suo datore di lavoro, fu licenziato e si trasferì a lavorare nelle miniere della vicina Anzin. Frustrato dalle condizioni di lavoro organizzò diversi scioperi e rimase bloccato in una delle gallerie a seguito di un'esplosione organizzata dall'anarchico Souvarine.
Le miniere tutte intorno producevano carbon fossile collante adatto alla produzione di metalli, e il terreno grigiastro e polveroso che sfila lungo il pavé a schiena d'asino ne è la prova. Jean Stablewski, diventato poi Stablinski, ne è testimone; cresciuto a Wallers, da dove passa la corsa e da dove nasce e muore Trouée d'Arenberg, fu lui a rivelare agli organizzatori dell'epoca l'esistenza di questo tratto; su questo ciottolato ci passava in bicicletta nelle ore libere dal lavoro, prima di fuggire da quelle miniere e rifugiarsi nel ciclismo. «Sono l'unico uomo al mondo che è passato sotto le gallerie che tagliano la Foresta e che poi c'ha pedalato sopra». Ora una stele all'entrata lo ricorda.
Qui è difficile costruire un successo, mancano troppi chilometri alla conclusione, se cadi o fori hai tempo per recuperare, ma al termine del suo segmento l'acido lattico ti arriva fino alle orecchie. Qui Johan Museeuw rischiò di porre fine alla sua carriera. Cadde, si frantumò il ginocchio che si infettò a causa di merda di cavallo e rischiò l'amputazione. Redento, ritornò e la vinse altre due volte. Lo scorso anno van Aert cadde e provò una rimonta malriuscita: quest'anno sarebbe andata diversamente, ci potremmo giurare.
Questo posto ha tanti nomi, come uno spauracchio, come un demone. Pierre Chany fu il primo a chiamarlo Tranchée d'Arenberg, perché la sua cupezza ricordava i condotti tagliati dalle trincee durante la prima guerra mondiale. È Trouee d'Arenberg, è la Foresta di Arenberg, o semplicemente Arenberg, l'infame. Per i corridori è solo l'inizio dell'incubo e la fine dei sogni che da qui in poi si tramutano in brusco risveglio, per la Parigi-Roubaix è un segno identificativo.
Le azioni decisive qui sono state fatte di rado, perché ha più senso, in una corsa che non ne ha, attaccare sul settore di Mons-en-Pévèle quando mancano una cinquantina di chilometri all'arrivo e la strada è tutta polvere e buche. Ci provò Štybar senza successo un paio di anni fa, zigzagando tra le canalette e respirando sabbia a pieni polmoni; Boonen, per la sua quarta vittoria alla Roubaix, staccò Terpstra, suo compagno di squadra, a Auchy-lez-Orchies, quando mancavano più di cinquanta chilometri a Roubaix. Sul settore di Templeuve attaccò Ballerini nel 1995 e al traguardo ne mancavano poco più di trenta. Sagan si differenzia sempre e per vincere nel 2018 sceglie un anonimo tratto d'asfalto per salutare la compagnia. Qualcuno opta per il Carrefour de l'Arbre (Cancellara per la sua prima Roubaix dopo aver selezionato il gruppo già dalla Foresta) o dintorni: per la sua prima volta Boonen nel 2005 sceglie Gruson.
Inserito nel finale e dove la gara si può ancora decidere o rimescolare, il Carrefour de l'Arbre è un tratto con curve malefiche, tifosi che rischiano di invadere la strada, terreno dissestato tra sassi e lastre d'asfalto che creano vere e proprie buche; qui Vanmarcke nel 2016 provò l'azione risolutiva, ma fu ripreso e poi Hayman beffò Boonen nel velodromo di Roubaix. Dove prima o poi, per fortuna o purtroppo, si arriva e tutto finisce.
Immaginatevi, infine, cosa sarebbe potuto essere nel 2020, a ottobre, con van der Poel e van Aert, con la pioggia, il vento e il freddo con Arenberg gotica e il suo abito spettrale e con tutti gli altri settori dai denti aguzzi pronti a lacerare la carne; non lo sarà, ma forse lo rivedremo tra pochi mesi. Arenberg l'infame, la Roubaix e ancora altre storie da raccontare.
Foto: ASO / Pauline Ballet