Il 5 febbraio 2023 a Hoogerheide

Non è il 30 ottobre del 1974 a Kinshasa, non è The Fight o Rumble in The Jungle. Non può essere Alì contro Foreman, perché è il 5 febbraio del 2023, a Hoogerheide, ed è van der Poel contro van Aert e viene presentato come il Mondiale di ciclocross più atteso di sempre.
Non c’è più niente da nascondere, basta pretattica: quello che si ha lo si tira fuori, sul percorso oppure altrove, comprese le foto che sui social vengono mostrate da stamattina: van Aert contro van der Poel in ogni forma ed età. Bambini in uno studio televisivo, uno con la faccia imbronciata, l’altro un po' stupito, contento, curioso, oppure sul podio a darsi un pugnetto poco convinto, o ce n'è una, più ricostruita, che raffigura un braccio di ferro tra i due, dove uno tiene lo sguardo fisso negli occhi dell’altro come un duello ripreso per il momento di maggiore tensione di uno spaghetti western.
Un western del Nord, belga e olandese, una questione per qualcuno di statistiche: van Aert ha vinto tot gare mentre van der Poel gli è superiore in questo e quello. È uno scontro fatto di polemiche, come ogni diatriba, serve a colorare la vigilia; è qualcosa in cui tutti si fanno da parte e lasciano la scena a loro. È l'apoteosi della superiorità. È devastante per gli altri. È un anticipo della stagione su strada, è il finale della stagione nel cross.
Non vorremmo mai spostare l’attenzione dalla corsa, ma bisognerebbe almeno citare, e lo facciamo, la quantità di gente, di colori e di rumori lungo tutto il percorso di Hoogerheide, Olanda.
Non vorremmo mai spostare l’attenzione dal colore tutto intorno, ma ci tocca ritornare in corsa: è quel che conta oggi. Dopo tre minuti attacca van der Poel, quarantatré secondi dopo i due se ne vanno, inizia il braccio di ferro, non li rivedono più. È un continuo logorarsi a vicenda, un domandarsi, giro dopo giro, chi vincerà? Chi è più forte dell’altro? Dove attaccherà Wout? E Mathieu sfrutterà le barriere?
Uno è spalluto, l’altro una sfinge. Uno attacca, l’altro risponde.
Uno prova ad allungare in un punto, l'altro cerca il proprio limite per evidenziare quello del suo avversario.
Avremmo voluto vederne ancora, e poi ancora, e ancora, ancora, fino a dire basta. Un altro giro, ma poi quell’ultimo giro è arrivato. C’è silenzio per un attimo, o almeno così pare di percepire, come in una di quelle piazze vuote a El Paso, Texas, oltre un secolo fa. C’è tempismo, potenza, c'è lo spiccato senso tattico che da un po’ di tempo è diventato parte del corredo agonistico di van der Poel che scatta sul rettilineo finale e vince.
E poi c'è quella domanda che sorge spontanea: l'idea dell’uno di andare così a tutta dall'inizio, può aver logorato l’altro svuotandolo dell'energia necessaria per fare la differenza prima della volata? Van Aert dice, più o meno, che è andata così, il 5 febbraio del 2023 a Hoogerheide.


Nella neve in Val di Sole

Bianco ciclocross. Domani ai Laghetti di San Leonardo, località Vermiglio, Val di Sole, decima tappa (su quattordici, siamo ormai in dirittura d’arrivo) della Coppa del Mondo di ciclocross, seconda volta - di fila - per la località trentina. L’obiettivo, nemmeno troppo nascosto, si sa, è quello di convincere chi di dovere a far entrare questa disciplina all’interno del programma olimpico. Milano-Cortina è fuori tempo massimo, magari nel 2030, sarebbe un salto di qualità enorme per il ciclocross sotto tantissimi aspetti, a volte ci immaginiamo cosa sarebbe (stata) una lotta per l'oro olimpico tra van der Poel, Pidcock e van Aert e quasi non prendiamo sonno, ma tutto questo è un discorso a parte sul quale non ci dilunghiamo. Non ora.
Ci si prepara da tempo a Vermiglio, invece, per la gara di domani, anzi le gare. L' inverno fa l’inverno, tra freddo e neve. Lo scorso anno sul campo ci si è divertiti al netto di Capitan Temperatura Bassa ma con van Aert, Vos, Pidcock, tutto bianco intorno, le montagne a dare un contorno totalmente inusuale per una gara di ciclocross, piuttosto poteva apparire mountain bike, sci di fondo, specialità di cui la Val di Sole è ghiotta; quest’anno si ripete e il cast vede soprattutto van der Poel e la sfida di altissimo livello che sta tenendo banco al femminile; sfida entusiasmante in pieno svolgimento da un po’ di settimane, sfida tra due 2002, una generazione d’oro, olandese, rappresentata da Fem Van Empel e Puck Pieterse. Van Empel qui vinse lo scorso anno. Fu la prima vittoria nella categoria élite per lei. Van Empel guida la challenge di Coppa del Mondo con oltre cento punti di vantaggio, forte soprattutto (ma non solo) dei due successi negli Stati Uniti, in contumacia della coetanea.
Si esce dalla tradizione di erba, fango e sabbia, sperando che il cross sulla neve dei Laghetti di San Leonardo possa diventare tradizione.
Ci sarà da battagliare con il freddo. Vestitevi pesante: non lesinate. Si combatterà bevendo birra (suggeriscono in alternativa vin brulè), con cautela come sempre. Si combatterà il freddo (ci sarà anche un tendone riscaldato) spostandosi da una parte all’altra del percorso - occhio alle cadute. Urlando, applaudendo. Evento intenso come solo il ciclocross sa regalare dal vivo. Con un percorso leggermente modificato rispetto al 2021, con due collinette in più e zone dove la neve sarà dura, battuta, scivolosa e altre dove, con la neve più morbida, sarà più simile a un percorso con la sabbia ed è per questo che si dice di buttare sempre un occhio su Sweeck, abile guidatore su certi percorsi e leader di Coppa del Mondo, oltre al solito noto, il signor Mathieu van der Poel.
Saranno fondamentali le scelte tecniche, e in questo assumerà una certa importanza la ricognizione - poi che van Aert lo scorso anno abbia vinto arrivando la sera prima e provando il percorso solo il giorno della gara è un altro discorso. Ma di van Aert ce n’è uno solo. Ci vorrà potenza e tecnica, insomma, anche se non a tutti convince l’idea del "ciclocross sulla neve", sarà comunque quello sport lì, potenza e agilità assieme, partenza in griglia, bici in spalla; sarà differente, inusuale, ma non per questo meno bello, entusiasmante e con la solita parola che gira e rigira è sempre quella: spettacolo.
98 corridori al via: 47 donne (partenza alle ore 13) e 51 uomini (partenza alle ore 14:30). Nutrito il contingente italiano che vedrà il ritorno in una gara di massimo livello di Silvia Persico, Eva Lechner, Filippo Fontana, ma non solo. C’è van der Poel, lo abbiamo già detto ma lo ripetiamo, gli occhi saranno su di lui, e anche le urla e il tifo e ogni sua azione, ogni suo passaggio, errore, rimonta eccetera, sarà accompagnata dal frastuono e ci aiuterà a non ghiacciare il fondoschiena.


Van Aert-Gravel

Wout van Aert ha avuto un'idea e si sa come sono le sue idee. Fanno parlare, anche perché già solo il fatto che ci sia stato il pensiero fa intuire la realizzazione. E si sa come Wout van Aert realizza le proprie idee: in grande, senza risparmiarsi, senza tenere quel poco di fiato per un'ultima pedalata che, chissà, potrebbe servire. Vogliamo dire "esagerando"? Diciamo esagerando. Del resto, sembra che anche Gianni Brera trasmettesse questa idea ai colleghi: meglio esagerare, talvolta, meglio non risparmiarsi, perché nell'esagerazione può trovarsi la bellezza. Non sempre, ma ogni tanto può servire. In fondo, il dosato, il misurato, il contato perfettamente, in certe circostanze, ha poco a che vedere con l'essere ciclisti, mestiere in cui c’è ragione, c’è grande attenzione al dettaglio, ma ancor più istinto. Nulla con l'essere Wout. Nulla con l’essere van Aert.
L'idea è il gravel. Sembra gli sia venuta vedendo in televisione il Mondiale gravel di questo autunno e un poco lo immaginiamo davanti al televisore. Sembra gli sia piaciuto, più che altro pare gli sia piaciuto, gli piaccia, il gravel. Così dopo quel pomeriggio deve essersi detto: "Perché no?". Ovvero perché non provare anche questo che al fuoriclasse belga appare, prima di tutto, come un bellissimo viaggio. Anche questo è interessante perché è interessante raccontare il ciclismo in questo modo, risalendo alle origini del pedalare, anche se corso da atleti che si contendono titoli e maglie iridate. Detto in altre parole: sulle fondamenta si può costruire come meglio si crede, ma senza fondamenta non vi è costruzione. E le fondamenta qui sono le radici dell'andare in bicicletta. Ancor più interessante, forse, è l'altra motivazione che van Aert apporta per questa scelta.
In un ciclismo in cui le pressioni sono tante, in cui si parla sempre più dell'aspetto psicologico e della tutela di questo aspetto, Wout van Aert, pensando al gravel, pensa a una possibilità in cui le pressioni siano meno, in cui lo stress sia minore rispetto agli altri traguardi annuali. Vogliamo usare la parola "divertimento"? Perché no? Così, proprio ieri, sui profili social di Wout van Aert è apparsa una storia di lui intento a sperimentare il gravel. Un lunedì, su una strada sterrata, in mezzo ai boschi, col cielo cupo di dicembre e il freddo dell'inverno.
L'abbiamo visto vincere sul Ventoux, in pianura, a cronometro, in attacchi folli troppo lontano dal traguardo, quegli attacchi che calamitano l'attenzione anche nei più caldi pomeriggi di luglio, lo vediamo abitualmente nel fango e anche lì vince e meraviglia ogni volta. Il prossimo Mondiale gravel sarà in Italia, poi in Belgio, probabilmente lui sarà presente e del risultato non diciamo nulla. Questo è il dato di fatto, poi c'è il gravel come scelta di bicicletta e di viaggio. Come scelta per un fine settimana o un inizio settimana fra la terra, la ghiaia. A prescindere dal Mondiale che verrà, Wout van Aert ha pensato a questo modo di andare in bicicletta, queste sono le fondamenta, le radici di cui parlavamo, quelle che restano oltre qualunque gara, questa è stata la sua idea, il suo viaggio, il suo modo per un altro pizzico di esagerazione. Quella che fa bene, quella che fa bellezza.
https://t.me/+ePN4JFpjo3YwNDhk]


Van Aert e il teorema dell'impossibile

Quando è stata l'ultima volta in cui abbiamo creduto a qualcosa di impossibile? Meglio ancora sarebbe dire: quando è stata l'ultima volta che abbiamo iniziato a fare qualcosa nonostante sembrasse, a noi e forse soprattutto agli altri, impossibile? Perché, poi, il problema è spesso quello che sentiamo dire anche quando, magari, con un pizzico di incoscienza, quell'impossibile lo stiamo per affrontare. Pensate a Wout van Aert e poi pensateci, noi abbiamo fatto così.
Van Aert con l'impossibile ha un legame particolare: lui all'impossibile ha iniziato a pensare molto tempo fa e pensando all'impossibile è diventato l'atleta che è diventato. Una sorta di contemplazione della mente che l'ha portato alla sua risposta che poi dovrebbe o potrebbe essere anche la nostra: a forza di abituarsi al possibile a tutti i costi, talvolta allo scontato, la mente dimentica le possibilità più difficili, quelle che poi cataloga come impossibili. Lo ha detto van Aert ed è una risposta a tante cose.
La ricerca dell'impossibile, anche solo la sua possibilità, sfiorata, progettata è, di fatto, un'abitudine e una capacità e, come tutte le capacità, se non si esercita si perde. Van Aert la esercita spesso, la ricerca nel fango, nel tempo perduto, nelle strade che si arrampicano e in quelle che fanno a pugni col vento e con le leggi della fisica. Van Aert la ricerca nelle fughe che paiono senza senso e forse davvero un senso non l'hanno se non esplorare l'impossibile, conoscerlo, sapere che esiste.
Conoscere questa possibilità, perché anche l'impossibile è una possibilità, non bisogna scordarselo, ha apparentemente più svantaggi che pregi. La mancanza di comprensione, prima di tutto. Perché, ad esempio, una fuga a cento chilometri dal traguardo difficilmente viene capita, soprattutto se non va in porto. Non considerare l'impossibile significa anche questo: valutare tutto in base al solo risultato finale, dimenticando ciò che c'è stato in mezzo, ciò che l'ha provocato e ciò che è stato in grado di provocare.
Ma voler conoscere l'impossibile, applicarlo come un teorema o una formula matematica non offre garanzie di risultato, non può offrirle. Se le offrisse perderebbe di senso. A van Aert quelle garanzie non sono mai interessate . La sua mente non vuole escludere alcuna possibilità.
Sperimentare l’impossibile di van Aert serve. Per migliorare la propria persona nella ricerca o anche solo per sapere che esiste e avere il coraggio di osare anche se le voci attorno raccontano esclusivamente di chi non ci è riuscito. Provare, è questo il traguardo.


Infiniti

Rocamadour conosce da tempo l'infinito, qualcosa che ricorda Leopardi. Per quelle case affacciate su uno sperone di granito, a picco verso la gola del fiume Alzou. Poco fa, però, l''infinito di Rocamadour è stato qualcosa di diverso.
Quello di Filippo Ganna che "sedendo e mirando interminati spazi e sovrumani silenzi" ha corso a più di cinquanta all'ora. Il paesaggio non è di un ciclista, forse solo della sua visiera che lo riflette, come un'impressione, una pennellata. Di un ciclista è, invece, il rispetto di chi guarda e aspetta, per questo Ganna, appena conclusa la prova, ha detto che gli sarebbe spiaciuto non vincere, "perché in tanti credono in Ganna, sperano in lui". Ma per loro non è cambiato nulla e Ganna resta lo stesso anche se non ha vinto.
È “il cor che per poco non si spaura" di Jonas Vingegaard che è partito così veloce da rischiare di vincere non solo il Tour de France ma anche qui, vicino al Castello di Rocamadour. Perché Pogačar è un fuoriclasse e può succedere di tutto, anche se è difficile, anche se è quasi impossibile. Il tempo, però, non si misura solo con gli orologi, si esprime in desideri, volontà, per questo è la parte più irrazionale dei numeri.
La paura in una curva, vicino alle rocce, a pochi centimetri e poi gli ultimi metri, un respiro profondo e un pianto libero, un naufragare dolce in un mare che è altrove. In un abbraccio con la famiglia.
L'infinito è soprattutto di Wout van Aert. Sono infinite le sue gambe, i suoi muscoli, la potenza sprigionata, sono infinite le sue possibilità: in salita, in pianura, a cronometro. Da solo per scelta o da solo per obbligo, ma anche nel caos, nella confusione di una volata. Poi nei "sovrumani silenzi" di una galleria in cui non vediamo nulla ma immaginiamo tutto e anche di più.
"Quell'infinito silenzio a questa voce" va comparando van Aert mentre si affaccia alle transenne, appena sa di aver vinto la cronometro, e si fa vedere dal vincitore del Tour, dal suo compagno, da Vingegaard. Gli va incontro. La sua voce e quella del danese che ora è un grido, poche parole e di nuovo silenzio. Poco dopo si commuoverà anche lui, da solo, strofinandosi gli occhi e camminando più veloce per andare via. Due volti della vittoria, che è diversa ma è anche la stessa. Costruita col tempo e la pazienza, guardata da lontano e poi vissuta da dentro.
Rocamadour conosce l'infinito mentre qualcuno guarda gli sconfitti e ne riconosce l'umanità, li applaude. Accade anche con Pogačar. Perché sono giovani, perché c'è tutto il tempo per quel che oggi è mancato. Dalle porte di quelle case, ciò che sembra infinito, talvolta, è semplicemente futuro. E se l'infinito non è per gli uomini, il futuro sì. Il futuro è anche e più che mai di un ciclista.


Cinque cose sul Tour

Il Tour entra nell'ultima settimana. Calda e probabilmente le temperature incideranno su rendimento e risultati. Tre frazioni pirenaiche in crescendo, partendo da quella di Foix, arrivando su a Hautacam, passando per Peyragudes. Terreno per inventarsi qualsiasi cosa ci sarà. Poi una volata, la crono - bella lunga - e la passerella finale sui Campi Elisi.

LA FORZA DELLA JUMBO - Da misurare. Inscalfibili fino all'Alpe d'Huez poi è successo qualcosa che ha ingarbugliato all'improvviso il filo del destino. Nella tappa del Granon hanno messo in scena una tattica aggressiva andata bene, benissimo. Hanno fatto saltare (di testa e di gambe) chi pareva dovesse dominare quasi con un fil di gas la corsa. Poi hanno iniziato a perdere qualche colpo - a Mende, dove la sensazione era quella di una squadra in gestione delle forze - e a Carcassone dove più che perdere colpi, all'improvviso hanno perso due corridori, Kruijswijk e Roglič, mentre un terzo, Benoot è acciaccato. Fortuna loro che, come ha detto uno dei direttori sportivi di Pogačar: «La Jumbo possiede due squadre, una è rappresentata solo da van Aert». Da domani il belga, sin qui protagonista ineguagliabile di ogni tappa di questo Tour, se possibile dovrà dare fondo ancora di più a quell'incredibile motore arrivato a pieno regime nel mese di luglio 2022. Menzione per Kuss che nella prossima tre giorni dovrà svestire i panni dell'ottimo scalatore e diventare l'angelo custode di Vingegaard. Ce ne sarà bisogno.

RIBALTARE UN TOUR - E come si fa? La strada c'è, ma le forze saranno da quantificare. Vingegaard tra l'Alpe e Mende si è incollato alla ruota di Pogačar che ha fatto quello che poteva, scalate a tutta, scatti e progressioni, ma non è bastato. Terreno ce n'è e ci aspettiamo le fiamme sulla strada; ma dovranno inventarsi qualcosa anche a livello di squadra, una UAE che nelle ultime giornate è apparsa più compatta rispetto al solito, con Majka, Soler (anche se ancora ci chiediamo a cosa servisse la sua fuga a Mende) e McNulty attorno al fuoriclasse che gli fa da capitano. Loro dovranno inventarsi qualcosa, ma sarà poi il bambino in maglia bianca a finalizzare; quel bambino che pare non amare particolarmente l'alta quota - pagando sul Granon lo sforzo fatto sul Galibier, oltre all'ormai chiacchierata "crisi di fame" e alle energie consumate nel rispondere agli scatti di Roglič - e il caldo - prevista un'atmosfera da forno ventilato sui Pirenei che, per fortuna di Pogačar, non si avvicineranno nemmeno ai 2000m. Lo sloveno, croce a volte per il suo modo di interpretare le corse a tutta senza gestione delle energie, ma una delizia per noi che ce lo gustiamo, è un bene per questo ciclismo, un bene per lo spettacolo e farà di tutto, anche a costo di saltare (se va beh), per provare a ribaltare il Tour.

E LA INEOS CHE FA? - Nel giorno di Mende, quando Pogačar provò ad attaccare che non era nemmeno l'ora di pranzo, lasciando indietro mezza Jumbo-Visma, racconta Geraint Thomas di come lo sloveno si sia avvicinato a lui per chiedere una mano. «I Jumbo sono a tutta, affondiamo il colpo» il senso delle parole del rivale. Questo lo abbiamo saputo dopo dalla voce proprio del gallese, ma in diretta chiunque ha pensato: è mai possibile che la INEOS con tre uomini in classifica non voglia provare ad attaccare la maglia gialla? Ecco, quello che chiediamo e speriamo non è tanto un'alleanza a tavolino quanto una INEOS che, dopo aver vinto una bellissima tappa con Pidcock, batta un colpo per provare ad acchiappare il Tour. In una corsa così spettacolare com'è stata fino adesso dal primo giorno, manca solo un'idea di questo genere a rendere tutto ancora più cinematografico. Certo, al momento l'atteggiamento è quello di chi pare voglia tenersi stretto la posizione che ha alle spalle dei due dominatori, con Thomas in linea per un podio e Yates per un piazzamento tra i primi sei - obiettivo che potrebbe bastare alla squadra britannica senza correre troppi rischi. Ma allo stesso tempo saremmo sorpresi che, con questa potenza di fuoco - non dimentichiamo Pidcock nei primi 10 al momento - si lasciassero sfuggire l'occasione di provarci in qualche modo, con un'azione ben congeniata.

ULTIME SPERANZE ITALIANE - Di Italia ne abbiamo vista poca, quella che abbiamo visto è apprezzabile perché consapevoli di cosa passa il convento, ovvero il movimento, nella corsa più importante del mondo. Vicinissimi a un successo ci siamo andati con Bettiol su tutti, c'è da chiederci se ci sarà ancora terreno per il corridore della EF, mentre Mende era perfetta per lui che ha mostrato, quando in condizione, di avere gambe, carattere, forza da primo della classe (un appunto da fare alla squadra: serviva sprecare tutte quelle energie per Uran?). Ganna benino, lavora molto e raccoglie quel che riesce, generoso in fuga, si è inchinato alla legge di Pedersen, ma dalla sua avrà una crono lunga, complicata, è vero, ma lui, quando c'è da mettere giù i cavalli contro il tempo, ci fa sempre divertire. C'è Ciccone, poi, che di carattere più che di gambe battezzerà una delle tre tappe pirenaiche - la maglia a pois? difficile, ma non impossibile visti i contendenti - mentre Caruso crediamo voglia mostrare qualcosa in un Tour sin qui decisamente sotto le aspettative - come tutta la Bahrain. Infine le ruote veloci: Dainese, ma soprattutto Mozzato hanno mostrato di saperci e poterci essere subito dietro l'élite della velocità. Tra Cahors e Parigi andranno ancora a caccia di piazzamenti.

AGGRAPPATI A PINOT - Eh sì, non lo dimentichiamo. Lo vogliamo fortemente come lo vuole fortemente tutto il pubblico francese che pare non aspettare altro. Ci ha provato due volte e due volte gli è andata male. Lui dice di stare benissimo e che anzi è deluso per i risultati - soprattutto il terzo posto a Mende - che non rispecchiano la sua condizione, quanto forse sono più figli di errori di valutazione e ritardi nell'effettuare la scelta giusta. Aggiustando tempo e modo Pinot avrà davanti a se tre belle chance per portare a casa una tappa, anche se già vederlo lottare con quella grinta e quelle ginocchia che sembrano a ogni pedalata colpirlo in faccia, è già bello. A lui non diteglielo però, perché conosciamo tutti il suo motto a proposito del vincere, e il suo interesse è quello di trasformarlo in qualcosa di concreto.


Il sapore di quelle giornate lì

Succedono così tante cose nella "mini-Roubaix", come l'avevano presentata, che sembra difficile raccontarle tutte. Un po' sui generis una giornata del genere, è vero, ma solo per la nostra scarsa abitudine; manna del cielo una tappa così, per accendere un pomeriggio estivo passato a guardare il Tour de France e non riuscire mai a staccare gli occhi dal televisore.
Una di quelle tappe da "Lasciami stare! c'è il Tour de France!". Squilla il telefono? "Vai tu a rispondere, non vedi che oggi c'è il pavè?" Una di quella giornate da empatia con i corridori: facce stravolte e visi impolverati con il segno degli occhiali, la bava incrostata di terra; una di quelle giornata da mani e gambe che faranno così male che le scorie se le porteranno dietro in questi giorni fino al riposo di lunedì. Che lavoro avranno da fare i massaggiatori stasera!
Succedono tante cose: proviamo in ordine sparso. Si cade sin dal chilometro zero: è solo il preludio. Van Aert poi va giù, recupera, sembra impaziente, rischia di tamponare un'ammiraglia; quando è in gruppo non pare riuscire mai a rimontare la testa perché davanti si prendono i settori a tutta velocità: diventerà essenziale, quasi superbo, infine, il suo lavoro nel ricucire il più possibile il distacco da quel fuoriclasse epocale che ancora una volta ha dimostrato di essere Tadej Pogačar.
Succedono tante cose, e alzi la mano chi non ha sentito in bocca il sapore di quelle giornate lì. Alla vigilia qualche corridore lo diceva: «Chi guarderà la gara da casa oggi si divertirà... noi un po' meno».
Succedono tante cose: una fuga che va all'arrivo con dentro Magnus Cort Nielsen, quattro fughe su quattro tappe e le energie che nel finale lo abbandonano; Neilson Powless che arriva a pochi secondi dalla possibilità di vestire la maglia gialla (che, a proposito, nonostante tutto resta sulle spalle di van Aert, lui solo sa come, lo sanno le sue gambe, lo sa il suo motore, la forma e la classe); Edvald Boasson Hagen che non vince da tempo immemore e poi quando leggi che di corse ne ha conquistate ottantuno ti chiedi, «ma dov'ero finito?» perché la maggior parte ti sembra di averle perse per strada.
C'è Taco van der Hoorn, uno dei più amati del gruppo e non potrebbe essere altrimenti; Alexis Gougeard che qualche stagione fa prometteva proprio in questo tipo di contese e Simon Clarke. L'australiano che quando parla ha l'accento toscano.
Succede che dopo una giornata così, fatta di cadute rovinose, ritiri, forature, incidenti, con quasi venti chilometri di pavé, quello infame della Roubaix, diviso in undici settori che lasceranno il segno, fanno la volata dai milletrecento metri: Powless anticipa e sembra possa vincere lui, poi sembra stia vincendo Boasson Hagen, poi invece no è van der Hoorn, ma Clarke lo anticipa di pochi millimetri. Clarke, che pochi mesi fa era rimasto senza squadra dopo la chiusura della Qhubeka, pensava quasi al ritiro, ma oggi «dopo vent'anni che corro in Europa, realizzo il mio sogno. Ancora non ci credo, ho i crampi e male ovunque, ma ho bisogno di vedere il replay dell'arrivo».
Succede che una balla di fieno messa a protezione, invece di proteggere distrugge: ostruisce la carreggiata e Roglič, Paperino al Tour de France, ci finisce addosso, e a finire potrebbe essere il suo Tour, vista la spalla lussata. Succede che Vingegaard ha un problema meccanico, cambia una bici, ne cambia un'altra, poi prova a salire su quella di van Hooydonck ma sembra un bambino che prova a scalare la bici di un gigante.
Succede che Pogačar, un bambino, ma un gigante, dà spettacolo. Sembra nato (anche) su queste strade, un corridore da 9/9,5 su tutti i terreni, che ha messo il ciclismo - è solo suo quel ciclismo - su un altro livello, quello dei nomi che resteranno nella leggenda. Tiene la ruota di Stuyven, uno dei corridori più solidi da queste parti, dopo aver corso ogni settore in testa, senza squadra, scegliendo la ruota giusta e la traiettoria migliore
Succede che van der Poel ha qualcosa che non va, poteva essere la sua tappa e invece arrancava mestamente «Senza gambe» racconta. Succede di tutto, poi sembra non succedere niente, ma non ditelo a chi oggi era in bicicletta: stasera dovranno fare i conti con i dolori e le ferite. O forse sì, che a loro alla fine fa anche piacere. Lo ha detto Simon Clarke a inizio stagione: «Voglio godermi un altro anno in gruppo. Correre in bici è molto più divertente che stare seduti in ufficio». Fatti di pasta strana i corridori.


Vincere da solo

Ha dovuto aspettare la quarta tappa e il quinto giorno. Ha dovuto leggere per tre volte il suo nome al secondo posto dietro tre corridori diversi. Ha dovuto eguagliare un vecchio primato, quello di Binda del 1930.
Ha dovuto scegliere di andare via sull'ultima côte, il Cap Blanc-Nez, il Promontorio Bianco, in una tappa che non si accendeva, e non c'era verso perché forse già si sapeva che bisognava aspettare quel momento lì; aria ce n'era, ma era una brezza, e allora tutti attendevano quell'ultima risalita verso il cielo che domina il Nord della Francia, dalle parti di Calais, dove è tutto vento, fari, coste e oceano.
Una tappa che non scaldava se non nel vedere la gente spellarsi le mani a furia di applaudire Cort Nielsen (ribattezzato oggi Côte Nielsen, ci auguriamo) e Perez. Fuga di giornata con il danese che infilava dieci Gran Premi della Montagna consecutivi, sei su sei in Danimarca, quattro su quattro oggi, prima di rialzarsi e lasciare ad altri (ad altri... a van Aert) il quinto. Se le montagne fossero GPM di quarta categoria, Magnus Cort Nielsen sarebbe il più forte scalatore di questa generazione.
Ha dovuto scegliere di fare così Wout van Aert: andarsene e non farsi più riprendere. Era vestito di giallo e lo sarà ancora anche domani.
Ha usato la squadra e loro hanno fatto come alla Parigi-Nizza: su quello strappo vicino al traguardo si decideva di buttare giù tutta l'energia rimasta. E gli altri? Chi c'era c'era. Ognuno che faceva la sua volata, van Hooydonk accelerava, Benoot distruggeva i sogni di mezzo gruppo, e quando è toccato a van Aert non ha resistito nessuno - pure Roglič si staccava, mentre Vingegaard teneva, insieme a Yates, fin su, quasi in cima.
Ha fatto saltare in aria il gruppo e in parte i pronostici, avrà pensato: ma chi me lo fa fare ad arrivare in volata? Ha preferito vincere da solo, senza correre alcun rischio come per esempio arrivare secondi di nuovo: i nostri fragili cuori non avrebbero resistito un'altra volta; ha voluto vincere in maglia gialla con un'azione da fuoriclasse, un'azione da grande classica, un'azione da grande corridore. Ha distrutto una salitella volandola a oltre trenta chilometri orari di media.
Questo è van Aert, capace di conquistare tappe al Tour lo scorso anno allo sprint a Parigi, a cronometro, e poi in fuga sul Mont Ventoux, e che oggi ha messo un'altra foto nel suo repertorio: la vittoria in solitaria - dieci chilometri di fuga - con addosso la maglia più importante della corsa francese.
Così oggi van Aert: esaltante, sopra le righe, dominante. Da domani, così dicono in squadra, sarà al servizio dei suoi capitani - oggi sorride Vingegaard vista com'è andata, sul pavè vedremo. A noi del domani, in questo momento interessa il giusto: godiamo del presente, godiamo di Wout van Aert.


Tre cose dal Tour

- La Danimarca ha una popolazione di circa 5.820.587 qualcuno in più o in meno, crediamo, ma cambia poco. Guardando l'inizio del Tour abbiamo notato come tra Copenaghen, Roskilde e Nyborg tutti gli oltre 5 milioni erano sulle strade del Tour de France a fare il tifo, tra il giallo simbolo della corsa e il biancorosso della loro bandiera. Oggi non sarà da meno. Non giudicate assurdo (o non fatene una questione di solo marketing) il gesto di Magnus Cort Nielsen, corridore danese, bizzarro quanto basta da essere uno dei più popolari e amati in gruppo nonostante (o forse anche per quello) un palmarès che lo pone al di sotto dei fuoriclasse del momento. Fuggitivo di giornata, lui che potrebbe conservare le gambe (ma cerca anche la migliore condizione) per le prime tappe in terra francese, ma ha voluto andare all'attacco, vincere i GPM di 4^ categoria (con tanto di esultanza sotto lo striscione) e poter così vestire la maglia a pois. Oggi, in quella follia che saranno le strade danesi, sarà uno dei più riconoscibili in gruppo. Baffoni e maglia a pallini, biancorossi come il colore della bandiera danese, mentre le crocs fucsia le lascia nel bus per l'eventuale premiazione. Una volta disse parlando della Roubaix: «È una corsa brutale, la più grande, la più pazza, la più dura. Non la gara che farei ogni giorno, ma una volta all’anno sì». Questo per capire il personaggio. E tra qualche chilometro lo aspettiamo proprio su quelle strade.
- Mancava solo il suo sorriso alla collezione e ieri finalmente c'è stato. Ora, se qualcuno avesse scommesso sul suo piazzamento alle spalle del vincitore di turno ci avrebbe quasi rimesso, anzi, pare che il 2° posto di van Aert non fosse nemmeno quotato. Mica stupidi gli allibratori. Fatto sta che oggi avremo in giallo, finalmente, per la prima volta in carriera, Wout van Aert: non ci poteva essere corridore più meritevole (un po' di retorica...). L'ha sfiorata nel 2019, «quando la indossava il mio compagno Teunissen, che saltò nel finale, per un ottimo sognai di vestirla io, ma la prese invece Alaphilippe». Lo scorso anno niente da fare, e nel 2022 tutto faceva presagire di come van Aert si sarebbe dovuto accontentare dei secondi posti in questi giorni. 28 in carriera, lui che è sempre davanti ovunque corra e comunque vince tanto: 35 successi e (quasi) tutti di peso. Quest'anno quando ha vestito la maglia gialla di leader (Parigi-Nizza e Delfinato) alla fine della corsa a vincere è stato Primoz Roglic. Amanti della cabala fatevi sotto.
- La rinascita o, prendendo in prestito dall'inglese, il comeback. Un altro in casa Quick Step, una squadra che alla vigilia veniva demolita dalla "feroce" critica: pareva che fossero di punto in bianco diventati una squadra di brocchi incapaci di allestire un team competitivo di otto corridori, lasciando fuori Cavendish (scelta presa praticamente già dallo scorso anno), Evenepoel (che correrà la Vuelta), Alaphilippe (ancora non al meglio dopo la tremenda caduta alla Liegi). Una squadra che si sta distinguendo di recente per le rinascite (une usine à renaissance, l'hanno definita in Francia) e i colpi a sorpresa. Come quello di Yves Lampaert: «Sono solo un contadino belga e ora mi ritrovo a battere Ganna e van Aert a cronometro» ha raccontato due giorni fa dopo essere scoppiato in lacrime. Mentre Lefevere: «Se dicessi che mi sarei aspettato la vittoria di Lampaert sarei un bugiardo». Poi è stato il turno, ieri, di Fabio Jakobsen. Due anni fa rischiò di incontrare la morte in volata in Polonia; non sapeva nemmeno se e come avrebbe mai potuto ritrovare la via, non solo in bicicletta, ma quella di una persona normale. È tornato e ha iniziato a vincere, fino a diventare, senza stare troppo girarci intorno, il più forte velocista del mondo. E ieri la vittoria (36 in carriera, 18 pre e 18 post incidente) al Tour de France, mentre Pedersen anticipava partendo ancora un po' dal ponte, ma non quello attraversato dalla corsa, quello vicino casa sua, mentre van Aert prendeva l'ennesimo 2° posto e Philipsen restava intruppato. Lui si infilava, scaltro, usciva, potente, si scatenava. Vincente.


Non è un racconto di fantascienza

Spesso, guardando le bici da cronometro, immaginiamo un mondo proiettato verso il futuro. Certo, se dovessimo pensare alla nostra epoca in quanto a progresso ci verrebbe da ridere, ma soprassediamo.
Proviamo allora a tuffarci dentro a un racconto di fantascienza, a immaginarci un pomeriggio a Copenaghen come se Copenaghen fosse, appunto, il mondo; come fosse la società a cui vorremo appartenere e che sogniamo, leggiamo, raccontiamo, proiettiamo: biciclette su biciclette, bicicletta da crono con quella loro forma aerodinamica tirata al massimo, e poi ciclabili, viabilità, bandiere, tifo. Ecco: immaginiamoci il Tour de France in Danimarca.
Nel tardo pomeriggio di oggi, tutto quello che stava intorno era stato cancellato, un po' dalla pioggia che all'improvviso anticipava chi da giorni studiava il tempo e faceva carte, stilava programmi; diventava parte della scenografia mutando forme, mescolando valori, aumentando le difficoltà, dilatando margini. Un mondo quasi perfetto, guidato da corridori che apparivano come imperturbabili esemplari scenici, nelle loro tutine colorate, che pennellavano le curve e si dilettavano nell'andare uno più forte dell'altro.
In questo mondo ideale, ma che in realtà vive di sottili anomalie, il più veloce in bicicletta vince e oggi, nella sfida contro il tempo che serviva a dare in pasto ai contendenti la prima maglia gialla, toccava prendere la scena non solo al più veloce, ma anche al più astuto, al più fortunato, a quello meglio equipaggiato, al più motivato, sì insomma a quella sorta di emblema che potremmo chiamare: l'uomo bici.
E in questo racconto di fantascienza ci si infilava Mathieu van der Poel che ammorbidiva le curve come stesse dipingendo la carena di uno shuttle diretto nello spazio, con tutta quella sequela di facce che oggi prendevano una posa seria, fermo sul trono del primo in classifica a guardare l'arrivo in successione dei suoi avversari.
Il climax prevedeva il suo momento intorno alle 5.30 del pomeriggio. Qualcosa in meno, non importa. Arrivava.
Arrivava Ganna, col suo bolide, che scalzava van der Poel dal trono, ma il tutto durava lo spazio di pochi secondi. Piombava van Aert ed ecco, abbiamo detto tutti: è fatta! Arrivava Pogacar, che distribuiva lo sforzo, senza prendere eccessivi rischi all'apparenza perché lui è così: una guida naturale che alza il suo livello con la pioggia e la strada bagnata. Arrivava dietro di pochissimo. Van Aert andava in maglia gialla.
"No, ma... cosa succede?"
Smetteva di piovere, perché negli ingredienti di un buon libro di fantascienza c'è anche il thriller. E la sfida spaziale tra quei quattro lì veniva bruscamente interrotta da Lampaert, come da un altro pianeta, con quei lineamenti leggermente a mandorla e le orecchie a punta. Dicevano in questi giorni come la Quick Step avesse schierato la peggiore squadra della loro storia al Tour e invece loro si presentano così. Con una gara perfetta, con il loro uomo bici del giorno, che piangendo a fine gara non credeva a ciò che aveva appena combinato.
All'improvviso, finito tutto, quello che stava intorno a Copenaghen riappariva. Case, palazzi, monumenti, bandiere. Lampaert in maglia gialla e chi lo avrebbe mai detto.
Ma il ciclismo è fatto così, non è perfetto come il mondo ideale che ci eravamo immaginati, non è un racconto di fantascienza. Anche se con quelle bici lì a volte ti vengono dei dubbi.