Meglio Vingegaard o Pogačar?

Al tempo, non proprio un secolo fa, ma quasi, quando il ciclismo veniva raccontato da chi seguiva la corsa sulla strada in posizione privilegiata definendosi a tutti gli effetti suiveur, la domanda che ci si faceva era: ma è meglio Bartali o è meglio Coppi?
Era una questione vera, un problema reale, nodo gordiano di ogni italiano. Era il 1940 e quell'Italia stava per entrare in guerra, ma era il 1940 e Coppi, ventenne o poco più, aveva da poco conquistato il Giro, diventando fenomeno di massa e alimentando il dualismo con Bartali.
Siamo alla retorica, sia chiaro, "mantello di porpora" come la definiva, a proposito di quel tempo, Vergani, e, altolà, nessun paragone con il passato; siamo all'enfasi, all'esaltata provocazione, all'ispirazione che ci fa domandare in questo caso: chi è meglio tra Vingegaard e Pogačar?
Fino a tre settimane fa non ci sarebbe stato nemmeno modo di fare il paragone. Più completo lo sloveno, capace di andare forte nelle gare di un giorno, come in quelle a tappe, capace di salire sul podio in tutte le grandi corse di tre settimane a cui ha preso parte, come solo Hinault e Binda prima di lui.
Predestinato, veloce di gambe e di spirito, una guida della bicicletta che non teme confronti. Ma, direte voi, il Tour de France lo ha vinto quell'altro.
Quell'altro che si chiama Vingegaard, di cui ormai conoscete la storia e il soprannome - Il pescatore; di cui ormai abbiamo imparato a capire come almeno in Francia sia stato lo scalatore più forte del gruppo, meglio ancora di Pogačar.
Quindi ci riproviamo: è meglio Vingegaard o Pogačar? Qualcuno direbbe van Aert, lapalissiano dopo questo Tour.
Aspettiamo il prossimo capitolo della loro sfida che - speriamo - potrà caratterizzare il prossimo decennio. Perché di questo ci alimentiamo, suiveur di ogni età, appassionati, lettori, autori, ciclisti, anche quelli della domenica. Meglio Vingegaard o Pogačar? Chi se ne frega, non c'è nessun nodo gordiano da sciogliere, né campanili, né un popolo che si divide in due: ognuno ha i suoi gusti e a noi ci piacciono entrambi per ciò che di differente trasmettono.
Intanto, però, non vediamo l'ora di rivederli di nuovo contro. Affannati tra tattiche rischiose e squadre dimezzate; indaffarati nel cercare di staccare l'uno o di incollarsi alla ruota dell'altro. Tra botte in salita e complimenti al traguardo.
Intanto, almeno per il Tour de France è 1-1. Per il resto si vedrà.

Che colpa abbiamo noi

Ma che colpa abbiamo noi se non siamo riusciti a capirci niente di questo Tour. 'Ché tutto girava così veloce e la media record di sempre ne è testimone. 'Ché si partiva a razzo: boom, via a cinquanta all'ora. Così, giusto per prendere la fuga e alla fine le energie per scattare ce le avevano solo un paio di corridori, un paio di corridori e mezzo, per stare larghi. E in salita la storia era fatta di resistenza e logorii da pendenza asfissiante.
Abbiamo pensato a Pogačar vincitore, facile facile, alto in sella, se fosse uno scrittore sarebbe uno di quelli in punta di penna, talmente gli viene naturale districarsi, come un serpente nella roccia, nel mestiere di ciclista.
Che colpa abbiamo noi se Vingegaard ha superato ansie e paure («quando era ragazzo vomitava prima di ogni gara» racconta sua madre e quando vinse tappa e maglia al Polonia, primo successo tra i professionisti, «mi chiamò per dire che non aveva chiuso occhio tutta la notte» parole di uno dei suoi allenatori) e ha superato pure Pogačar, che alla vigilia metteva ansia e paura, e, anzi, lo ha dominato in maniera (quasi) totale.
Sorprendente Vingegaard, che al Giro della Valle d'Aosta di qualche anno fa, quando conquistò il prologo tutto in salita, disse: «Non sono adatto alle salite lunghe». Forse soltanto la Jumbo Visma sapeva che in qualche modo sarebbe andato così forte e lo ha messo nella condizione di non bluffare. E a proposito di bluff mancati, risuonano come principio assoluto le parole di Pogačar nei primi giorni: «Vingegaard è il miglior scalatore di questo Tour».
Che colpa abbiamo noi se loro, intesi i Jumbo Visma, hanno dominato; se hanno sacrificato Roglič che ha corso dieci giorni con le vertebre fratturate e si rendeva utile - se non decisivo - alla causa, nel giorno del Granon che resterà, quando descriveremo il Tour 2022, come quello de "la crisi di Tadej Pogačar".
Pogačar si è fatto ingolosire dal connazionale rivale senza sapere che ad attenderli i loro tifosi erano gemellati al traguardo, mescolati in mezzo a migliaia di camper. Poteva stare più cauto. Si è sentito forte, ha perso. Ci ha provato dal primo giorno, non ha lesinato, benedetto talento della natura. Si è mostrato umano nella retorica della sconfitta sportiva. L'anno prossimo non si farà trovare impreparato - il resto, però, dovrà farlo la sua squadra.
Che colpa abbiamo noi se Geraint Thomas, in arte G, ha guidato splendidamente fino a Parigi, ha superato lo scetticismo - quelli del sottoscritto che stravede per lui, ma non da vederlo sul podio. Ha superato avversari più giovani di un paio di lustri, ha trasformato un banale errore nella cronometro - ha corso con lo smanicato usato nel riscaldamento - nell'occasione di dare spettacolo fuori dalla corsa creando l'hashtag #wheresGsgilet con tanto di giochino da fare a ogni tappa (un tifoso diverso al giorno avrebbe portato alla frazione successiva lo smanicato, tenendolo al sicuro fino a Parigi). Pare che grazie all'idea di Lizzie Banks la giacchetta Ineos continuerà a viaggiare anche durante il Tour femminile.
Ha superato le gerarchie e al solito non si è morso la lingua nelle interviste: «La Ineos voleva fare di me un Sepp Kuss». A 36 anni ha fatto un piccolo capolavoro simile a quello di Richie Porte un paio di anni fa.
Che colpa abbiamo noi se abbiamo sottostimato la capacità di Wout van Aert di fare ciò che vuole con il ciclismo. " il corridore più forte del mondo" come lo definisce Simone Basso; supercombattivo del Tour, maglia verde che gli sta persino stretta e avesse vinto lui a Hautacam, avrebbe potuto conquistare pure quella a pois. Ha fatto la sua corsa, quella di Vingegaard, quella di tutti gli altri del gruppo. Quando ha deciso avrebbe vinto Laporte così è andata.
Che colpa abbiamo noi se ci piace Gaudu con quella faccia da Harry Potter francese e il suo lento recuperare passo dopo passo e arrivare al 4° posto, oppure Simmons che a 21 anni e più giovane al via, nel computo delle fughe viene oscurato solo da van Aert. Che colpa abbiamo noi se di volate ce ne sono state poche, meglio così, ma buone, come l'ultima a Parigi.
Che colpa abbiamo noi se l'Italia – al maschile – fa fatica, troppa, e ci rimangono solo i segnali mandati da Dainese, Bettiol e Mozzato, promossi con lo sguardo per tutti e tre verso un finale di stagione in maglia azzurra.
Che colpa abbiamo noi se un altro Tour è andato e l'unica cosa che possiamo chiederci resta: quanto manca alla prossima Grand Départ?


Infiniti

Rocamadour conosce da tempo l'infinito, qualcosa che ricorda Leopardi. Per quelle case affacciate su uno sperone di granito, a picco verso la gola del fiume Alzou. Poco fa, però, l''infinito di Rocamadour è stato qualcosa di diverso.
Quello di Filippo Ganna che "sedendo e mirando interminati spazi e sovrumani silenzi" ha corso a più di cinquanta all'ora. Il paesaggio non è di un ciclista, forse solo della sua visiera che lo riflette, come un'impressione, una pennellata. Di un ciclista è, invece, il rispetto di chi guarda e aspetta, per questo Ganna, appena conclusa la prova, ha detto che gli sarebbe spiaciuto non vincere, "perché in tanti credono in Ganna, sperano in lui". Ma per loro non è cambiato nulla e Ganna resta lo stesso anche se non ha vinto.
È “il cor che per poco non si spaura" di Jonas Vingegaard che è partito così veloce da rischiare di vincere non solo il Tour de France ma anche qui, vicino al Castello di Rocamadour. Perché Pogačar è un fuoriclasse e può succedere di tutto, anche se è difficile, anche se è quasi impossibile. Il tempo, però, non si misura solo con gli orologi, si esprime in desideri, volontà, per questo è la parte più irrazionale dei numeri.
La paura in una curva, vicino alle rocce, a pochi centimetri e poi gli ultimi metri, un respiro profondo e un pianto libero, un naufragare dolce in un mare che è altrove. In un abbraccio con la famiglia.
L'infinito è soprattutto di Wout van Aert. Sono infinite le sue gambe, i suoi muscoli, la potenza sprigionata, sono infinite le sue possibilità: in salita, in pianura, a cronometro. Da solo per scelta o da solo per obbligo, ma anche nel caos, nella confusione di una volata. Poi nei "sovrumani silenzi" di una galleria in cui non vediamo nulla ma immaginiamo tutto e anche di più.
"Quell'infinito silenzio a questa voce" va comparando van Aert mentre si affaccia alle transenne, appena sa di aver vinto la cronometro, e si fa vedere dal vincitore del Tour, dal suo compagno, da Vingegaard. Gli va incontro. La sua voce e quella del danese che ora è un grido, poche parole e di nuovo silenzio. Poco dopo si commuoverà anche lui, da solo, strofinandosi gli occhi e camminando più veloce per andare via. Due volti della vittoria, che è diversa ma è anche la stessa. Costruita col tempo e la pazienza, guardata da lontano e poi vissuta da dentro.
Rocamadour conosce l'infinito mentre qualcuno guarda gli sconfitti e ne riconosce l'umanità, li applaude. Accade anche con Pogačar. Perché sono giovani, perché c'è tutto il tempo per quel che oggi è mancato. Dalle porte di quelle case, ciò che sembra infinito, talvolta, è semplicemente futuro. E se l'infinito non è per gli uomini, il futuro sì. Il futuro è anche e più che mai di un ciclista.


Come quei due (ma non solo)

Come la trama di un film. Come l'esaltazione di un gesto. Come la resistenza in salita.
Come gli attacchi di Pogačar: ne ha provati sei sulle inedite pendenze del Col de Spandelles. Sei volte, e Vingegaard che gli risponde senza il minimo cedimento. Stringendo i denti, protetto dalla maglia gialla e nascondendo la sua fatica dietro gli occhiali. Avremmo voluto essere le gambe di uno per provare a staccare l'altro, avremmo voluto essere i pensieri di quell'altro per stare in scia a quell'uno.
Come le nostre idee, le nostre ispirazioni, fatte a pezzi nelle ultime due ore di tappa.
Non sapere più dove guardare. Come un tifoso che si esalta al loro passaggio. Come gli avversari che venivano superati uno a uno e si giravano, quasi meravigliati, attoniti, spettatori anche loro di quello che andava in scena. Come l'azione di un rivale che, superato da quei due, rovesciava la sua borraccia sul collo di Pogačar. Come uno sparpaglio di corridori sui Pirenei.
Come Wout van Aert che attaccava al chilometro zero, andava in fuga, veniva ripreso. Attaccava di nuovo, te lo ritrovavi nell'azione decisiva persino in lotta per la maglia a pois e poi a scandire il ritmo staccando colui il quale pensavamo - a inizio Tour - nessuno riuscisse mai a staccare. E poi quel gesto, l'esultanza sul traguardo, segno di una giornata perfetta.
Come Tibopinò che ci prova sempre, non importa se quelle gambe ci sono o non ci sono, mica è una magia, è un sentimento. È una prova, una sfida. Ma non è bastato. Come Gaudu che va su in progressione e raggiunge tutti - o quasi. Come Meintjes che attacca da lontano. Come Kuss, fatto apposta per le salite, o come Quintana che resiste e ci riporta indietro di qualche anno. Come Thomas che difende il podio, a 36 anni, in un ciclismo che ha le fattezze di due bambini e la misura della velocità estrema.
Come un'asfalto ruvido o che si impenna. Come una curva infida. Come Pogačar, di nuovo, che attacca anche in discesa. Come Vingegaard che rischia di cadere per stargli dietro. Come Pogačar, di nuovo, che cade in discesa. Come Vingegaard che lo aspetta e poi si stringono la mano. Come quei due, di nuovo, dopo il traguardo che si abbracciano, stanchi ma felici.
Come questo Tour, che non dimenticheremo, come quei due (ma non solo) e i pomeriggi roventi davanti al Tour.
PS Grazie per lo spettacolo.


Lâcher les chevaux

"Lâcher les chevaux" dicono i francesi. Liberare i cavalli, dare tutto superando ogni limite. Oggi, al Tour de France, abbiamo visto tradotto in atto il significato di quel pensiero.
Lâcher les chevaux, in uno sprint durato duecentocinquanta metri, ma che diciamo, in centoventinove chilometri a blocco; una cosa impensabile per qualunque essere umano, ma quando vedi in bicicletta questa generazione di ciclisti ti chiedi cosa sia umano o cosa sia super.
Su una lunga, dritta, infinita lingua d'asfalto a doppia cifra che arrivava su a Peyragudes, Pirenei, credevamo di sentire tuonare i fuochi d'artificio, ma si è solo intravisto qualcosa; si è sentito come un sibilo, che si infiltrava in mezzo alle urla del pubblico, uscire da quegli attrezzi a due ruote che parevano potersi spaccare da un momento all'altro a causa dell'energia inferta da quei due lì davanti. Digrignavano i denti Pogačar e Vingegaard. Vingegaard e Pogačar. Sempre loro, solo loro.
No, non c'è alcuna delusione a fine tappa, nemmeno se si dovesse pensare che quello lì in maglia bianca non riusciva ad attaccare quello lì in maglia gialla. Entrambi al limite, oltre il limite, mentre gli altri (quasi dispersi) messi ognuno per un angolo, ognuno dentro la propria fatica e i propri demoni, a seguire il proprio ritmo, a liberare i propri cavalli.
Lâcher les chevaux: come hanno fatto Mikkel Bjerg prima e Brandon McNulty poi. Li aspettavamo da inizio Tour, li aspettava Pogačar forse proprio in queste giornate qui da tutto o niente, e oggi, come se avessero deciso fosse il momento, hanno liberato i cavalli e li hanno buttati in strada, hanno distrutto il gruppo, e alla fine, insieme a McNulty restavano solo in due. I più forti di questo Tour, i più forti interpreti di una corsa a tappe di tre settimane, di un Tour de France che ogni giorno ci piace da impazzire.
Lâcher les chevaux, come ha fatto Quinn Simmons che finalmente sbarbato dimostra l'età che ha, che è quell'età che hanno tutti quelli che con un po' di talento vanno forte in questo ciclismo.
Ha provato a lasciare i cavalli anche Ciccone, ma quella maglia a pois resta salda sulle spalle di Geschke; lo ha fatto Madouas per Gaudu, oppure Pinot che sceglie, in perfetto stile Pinot, una giornata in cui per i fuggitivi non c'è storia, ma che lui sia davanti o dietro resta il più atteso. Il più amato.
Lâcher les chevaux, come ha detto Gaudu dal primo giorno. Ha paura di saltare e si gestisce fino a liberare quei cavalli nei finali di tappa e oggi in classifica attacca il primato che vale il posto del primo degli umani, dietro due scesi nel ciclismo per dare spettacolo, dietro Thomas che a 36 anni non molla mica, e dietro Nairoman, per definizione, capostipite di un universo supereroistico.
Ha liberato i cavalli nella sofferenza estrema Fabio Jakobsen, ultimo, dentro al tempo massimo per 17" e quell'idea di arrivare a Parigi (e vincere) che si avvicina. Domani permettendo.
Domani, eccolo l'ultimo atto - in montagna - per liberare i cavalli, per continuare a tormentarci guardando lo schermo e dire: "quando attacca Pogačar?", per ammirare lo spettacolo del Tour de France con il rammarico che poi tra pochi giorni sarà tutto finito.


Cinque cose sul Tour

Il Tour entra nell'ultima settimana. Calda e probabilmente le temperature incideranno su rendimento e risultati. Tre frazioni pirenaiche in crescendo, partendo da quella di Foix, arrivando su a Hautacam, passando per Peyragudes. Terreno per inventarsi qualsiasi cosa ci sarà. Poi una volata, la crono - bella lunga - e la passerella finale sui Campi Elisi.

LA FORZA DELLA JUMBO - Da misurare. Inscalfibili fino all'Alpe d'Huez poi è successo qualcosa che ha ingarbugliato all'improvviso il filo del destino. Nella tappa del Granon hanno messo in scena una tattica aggressiva andata bene, benissimo. Hanno fatto saltare (di testa e di gambe) chi pareva dovesse dominare quasi con un fil di gas la corsa. Poi hanno iniziato a perdere qualche colpo - a Mende, dove la sensazione era quella di una squadra in gestione delle forze - e a Carcassone dove più che perdere colpi, all'improvviso hanno perso due corridori, Kruijswijk e Roglič, mentre un terzo, Benoot è acciaccato. Fortuna loro che, come ha detto uno dei direttori sportivi di Pogačar: «La Jumbo possiede due squadre, una è rappresentata solo da van Aert». Da domani il belga, sin qui protagonista ineguagliabile di ogni tappa di questo Tour, se possibile dovrà dare fondo ancora di più a quell'incredibile motore arrivato a pieno regime nel mese di luglio 2022. Menzione per Kuss che nella prossima tre giorni dovrà svestire i panni dell'ottimo scalatore e diventare l'angelo custode di Vingegaard. Ce ne sarà bisogno.

RIBALTARE UN TOUR - E come si fa? La strada c'è, ma le forze saranno da quantificare. Vingegaard tra l'Alpe e Mende si è incollato alla ruota di Pogačar che ha fatto quello che poteva, scalate a tutta, scatti e progressioni, ma non è bastato. Terreno ce n'è e ci aspettiamo le fiamme sulla strada; ma dovranno inventarsi qualcosa anche a livello di squadra, una UAE che nelle ultime giornate è apparsa più compatta rispetto al solito, con Majka, Soler (anche se ancora ci chiediamo a cosa servisse la sua fuga a Mende) e McNulty attorno al fuoriclasse che gli fa da capitano. Loro dovranno inventarsi qualcosa, ma sarà poi il bambino in maglia bianca a finalizzare; quel bambino che pare non amare particolarmente l'alta quota - pagando sul Granon lo sforzo fatto sul Galibier, oltre all'ormai chiacchierata "crisi di fame" e alle energie consumate nel rispondere agli scatti di Roglič - e il caldo - prevista un'atmosfera da forno ventilato sui Pirenei che, per fortuna di Pogačar, non si avvicineranno nemmeno ai 2000m. Lo sloveno, croce a volte per il suo modo di interpretare le corse a tutta senza gestione delle energie, ma una delizia per noi che ce lo gustiamo, è un bene per questo ciclismo, un bene per lo spettacolo e farà di tutto, anche a costo di saltare (se va beh), per provare a ribaltare il Tour.

E LA INEOS CHE FA? - Nel giorno di Mende, quando Pogačar provò ad attaccare che non era nemmeno l'ora di pranzo, lasciando indietro mezza Jumbo-Visma, racconta Geraint Thomas di come lo sloveno si sia avvicinato a lui per chiedere una mano. «I Jumbo sono a tutta, affondiamo il colpo» il senso delle parole del rivale. Questo lo abbiamo saputo dopo dalla voce proprio del gallese, ma in diretta chiunque ha pensato: è mai possibile che la INEOS con tre uomini in classifica non voglia provare ad attaccare la maglia gialla? Ecco, quello che chiediamo e speriamo non è tanto un'alleanza a tavolino quanto una INEOS che, dopo aver vinto una bellissima tappa con Pidcock, batta un colpo per provare ad acchiappare il Tour. In una corsa così spettacolare com'è stata fino adesso dal primo giorno, manca solo un'idea di questo genere a rendere tutto ancora più cinematografico. Certo, al momento l'atteggiamento è quello di chi pare voglia tenersi stretto la posizione che ha alle spalle dei due dominatori, con Thomas in linea per un podio e Yates per un piazzamento tra i primi sei - obiettivo che potrebbe bastare alla squadra britannica senza correre troppi rischi. Ma allo stesso tempo saremmo sorpresi che, con questa potenza di fuoco - non dimentichiamo Pidcock nei primi 10 al momento - si lasciassero sfuggire l'occasione di provarci in qualche modo, con un'azione ben congeniata.

ULTIME SPERANZE ITALIANE - Di Italia ne abbiamo vista poca, quella che abbiamo visto è apprezzabile perché consapevoli di cosa passa il convento, ovvero il movimento, nella corsa più importante del mondo. Vicinissimi a un successo ci siamo andati con Bettiol su tutti, c'è da chiederci se ci sarà ancora terreno per il corridore della EF, mentre Mende era perfetta per lui che ha mostrato, quando in condizione, di avere gambe, carattere, forza da primo della classe (un appunto da fare alla squadra: serviva sprecare tutte quelle energie per Uran?). Ganna benino, lavora molto e raccoglie quel che riesce, generoso in fuga, si è inchinato alla legge di Pedersen, ma dalla sua avrà una crono lunga, complicata, è vero, ma lui, quando c'è da mettere giù i cavalli contro il tempo, ci fa sempre divertire. C'è Ciccone, poi, che di carattere più che di gambe battezzerà una delle tre tappe pirenaiche - la maglia a pois? difficile, ma non impossibile visti i contendenti - mentre Caruso crediamo voglia mostrare qualcosa in un Tour sin qui decisamente sotto le aspettative - come tutta la Bahrain. Infine le ruote veloci: Dainese, ma soprattutto Mozzato hanno mostrato di saperci e poterci essere subito dietro l'élite della velocità. Tra Cahors e Parigi andranno ancora a caccia di piazzamenti.

AGGRAPPATI A PINOT - Eh sì, non lo dimentichiamo. Lo vogliamo fortemente come lo vuole fortemente tutto il pubblico francese che pare non aspettare altro. Ci ha provato due volte e due volte gli è andata male. Lui dice di stare benissimo e che anzi è deluso per i risultati - soprattutto il terzo posto a Mende - che non rispecchiano la sua condizione, quanto forse sono più figli di errori di valutazione e ritardi nell'effettuare la scelta giusta. Aggiustando tempo e modo Pinot avrà davanti a se tre belle chance per portare a casa una tappa, anche se già vederlo lottare con quella grinta e quelle ginocchia che sembrano a ogni pedalata colpirlo in faccia, è già bello. A lui non diteglielo però, perché conosciamo tutti il suo motto a proposito del vincere, e il suo interesse è quello di trasformarlo in qualcosa di concreto.


Imperfetti come l'Alpe d'Huez

È strano. Tutte quelle voci, quelle campane, quelle mani che battono, che si mescolano sui ventuno tornanti dell'Alpe d'Huez, se sentiti altrove non avrebbero nulla di armonico, sarebbero rumore. Invece lassù sono suono. Sarebbero rumore perché non c'è nulla di concorde, nulla di studiato, di preparato, perché ognuno improvvisa, si dicono cose diverse in lingue diverse. Si urla. Fra i tornanti che diventano colori, poi nazioni e sensazioni, invece, sono suoni per gli stessi identici motivi. Perché sono imperfetti.
Vogliamo parlare della piacevolezza dell'ascoltare e del vedere l'imperfetto: qualcuno che è già caduto, che si è già "sgualcito", che è già cambiato tante volte, che ha perso qualche illusione, non la speranza. È imperfetto Chris Froome perché se fosse stato quello dei tempi migliori non avrebbe avuto bisogno di andare in fuga per arrivare terzo e, anzi, non sarebbe proprio arrivato terzo. Il keniano bianco, oggi, sembra la lingua dell'Alpe, un rumore, in termini assoluti, che si fa suono. E quel suono lo capiamo tutti, è piacevole, confortante.
Giulio Ciccone che inizia l'Alpe d'Huez in testa, sui pedali, guardando verso l'alto non è molto diverso da lui. Ciccone dei rumori ha fatto suono più di una volta, delle cose belle nei momenti peggiori ci ha parlato giusto un paio di mesi fa a Cogne. Quanto peseranno quegli occhiali che Ciccone getta via quando vince? Ben poco, eppure strapparsi qualcosa di dosso ha molto a che fare con gli scalatori: quasi ad alleggerirsi, realmente o simbolicamente. Buttare via qualcosa, lanciarla, è liberarsi. Non si può fare con ciò che si è passato, si fa con quello che si ha addosso. Si resta imperfetti quando si soffre, ma liberi. Liberi di esserlo. Quando hai capito questo, sì, puoi scattare.
Il volto di Tom Pidcock che va verso il traguardo e vince porta ogni segno di questa sofferenza. C'è quel rumore a spingerlo. Ci avete fatto caso? Quelle voci vanno in sincronia con la corsa, sembrano accelerare quando la corsa accelera, rallentare quando si quieta. E i pedali di Pidcock, il suo corpo, quasi seguono quelle voci: c'è accordo. Cosa può diventare quel rumore? Non solo suono, anche sincronia che è muoversi allo stesso tempo, che è quasi musica. Un sottofondo adatto alle sue curve in discesa qualche tempo prima. Eppure era imperfetto. Era tutto imperfetto.
Anche Tadej Pogačar ieri è stato imperfetto in sella: ha perso, è stato sconfitto come mai lo era stato. Ha conosciuto un dolore che mai aveva conosciuto così e l'ha affrontato. L'ha affrontato sentendo male e poi ridendo, scherzando. Non è scontato quando non sei abituato. Quando, oggi, è scattato con Vingegaard alla ruota c'era qualcosa di diverso: la stessa forza, la stessa grinta ma un'altra leggerezza. Il permesso di perdere, di non essere perfetto e piacere lo stesso, forse ancora di più perché si assomiglia alla maggioranza delle persone che gridano, urlano, muovono quei campanacci a tempo perché si immedesimano. Sono e vogliono sentirsi come chi arriva qui in bicicletta. Non come l'atleta, come l'uomo.
Il suono dell'Alpe, la sua lingua, parla a tutti per questo motivo. Basta qualche secondo e capiamo tutti di assomigliargli più di quanto somigliamo a qualsiasi sinfonia.


Il Re Giallo

Quando Jonas Vingegaard attacca Tadej Pogačar sul Galibier, ad un certo punto, lo guarda. Sembra la restituzione dello sguardo dello sloveno alla Super Planche de Belles Filles: ora è solo. Scatta Vingegaard, scatta Roglič, ci riprova Vingegaard e ancora Roglič. Il Re giallo, quasi uno scacco impazzito, insegue prima l'uno e poi l'altro. Vede i corridori della Jumbo Visma compulsare le radioline, non sembra avere paura, ma certamente si chiede quale sarà la prossima mossa. Solo come si è soli sul Galibier, in ogni caso, e tutti pensano alla solitudine di Marco Pantani quando lì attaccò nel 1998. Ma la solitudine può ammalare, può indebolire, può lasciare nudo anche il Re giallo.
Non c'è pietà, non può esserci oggi: non per Barguil, in fuga dal mattino, non per Quintana, nemmeno per Bardet. Quella pietà non può essere scolpita sulle pietre del Col du Granon: duro, granitico, freddo. Forse davvero Pogačar non se lo aspettava, forse per questo scherzava nonostante il plotone della Jumbo Visma a fare il ritmo in testa. Per lui cambia tutto come cambia il tempo in montagna, quando Vingegaard riparte e questa volta gli sguardi sembrano non incrociarsi. Una provocazione, un'altra. Ma il Re giallo non risponde: probabilmente Majka davanti, a scortarlo, non era la preparazione di un attacco, era il tentativo di un bluff, di una difesa dopo tutti quegli scatti, quelle risposte a domande sospese.
È freddo lo sguardo di Vingegaard mentre sale, qualcosa che ricorda l'inverno danese. Ha caldo Pogačar, si slaccia la maglia, si scompone: vede Thomas attaccarlo, staccarlo. Vede molti corridori affiancarlo e superarlo con apparente facilità. Soffre, non gli vediamo gli occhi ma li intuiamo. Solo di quella solitudine che inghiotte. Svuotato, senza forze.
Solo come solo davanti è Vingegaard che vince, conquista la maglia gialla e rifila quasi tre minuti allo sloveno. Che pare impossibile perché Pogačar sembrava non poter andare in crisi, assomigliava a quelle pietre, quelle rocce, su cui piove da anni e anni ma restano così, sfregiate, ma immobili. Lo sloveno oggi è immobile perché sconfitto, col caldo che diventa freddo dopo l'arrivo quando si realizza che bisogna ricominciare da capo, attaccare, e che proprio adesso non si sentono le forze per farlo.
Parigi è lontana. Stanotte i sogni, gli incubi, i momenti di questa tappa che torneranno in mente. Domani l’Alpe d’Huez. Il Tour de France, intanto, ha un altro Re. Solo in vetta al Granon dove, oggi, un ragazzo venuto da lontano ha pianto.


La categoria dei Pogačar

Sembra tutto un gioco per lui ed è bello così. Lo sguardo di traverso mentre supera sul traguardo Vingegaard dice tutto: "C'hai provato, eh?".
"Sorrideva sempre", si dice. Così come saluta tutti quando scende in senso contrario rispetto all'arrivo. Compagni di squadra, «compatti e che si sono fatti in quattro per me», e tifosi con i cappellini gialli. «Qui all'arrivo c'era la mia compagna e la mia famiglia, oggi per me era un giorno speciale e ci tenevo». A fare bene, che poi per uno così vuol dire vincere.
Eppure. Eppure è come quando fai un gioco da bambino, ma vinci sempre e magari decidi che per una volta lasci agli altri il piacere del successo, ma niente, c'è dentro di te una scintilla, una miccetta sempre accesa, pronta a divampare. La differenza tra i corridori forti e quelli della categoria Pogačar.
Sembra quasi che Vingegaard su quel traguardo scattandogli in faccia abbia alimentato quel fuoco all'apparenza addormentato. Come avesse tirato dentro a Pogačar dei petardi. Come gli avesse dato una di quelle sberle che si dà a chi non riesce a risvegliarsi dal torpore. E quello ha reagito d'istinto.
Pogačar pareva controllare, ma non affondare il colpo, osservando Kamna da lontano, in progressione e con la testa leggermente abbassata per lo sforzo, spingeva forte, con i polpacci tirati, ma «Ero a tutta, è stata una tappa difficile [ma va! Nda], e ritengo Jonas in questo momento lo scalatore più forte del mondo». Già perché tu sai di appartenere a un'altra categoria.
Quello allora lo sorprende, ma non c'è scampo. La differenza è troppa con tutti su quasi tutti i terreni. Sempre. Anche se ti serve un metro, ti basta un metro per vincere in maglia gialla. Un altro capitolo, un altro successo e poi magari a fine carriera faremo i conti per capire a quale categoria appartenere. Al momento di sicuro a quella dei Pogačar.


Il monumentale del Tour 2022

 

Maggio adagio con il Giro d'Italia, a giugno ci sono da fare un po' di conti e vedere chi sta bene, chi cresce e chi cala perché poi arriva luglio e con Niña quest'anno c'è poco da scherzare; poi arriva luglio che per noi significa più che altro Tour de France. Si parte da Copenaghen per arrivare a Parigi, due capitali europee unite dalle biciclette nel giro di ventuno tappe (e tre giorni di riposo), con 176 corridori al via e tra loro un grande favorito, con due rivali, già battuti al Tour, e almeno una decina di altri contendenti alle parti nobili della classifica. Chiamiamoli outsider e procediamo.

IL BAMBINO IN GIALLO

Foto: ASO/Charly Lopez

 

Ha le sembianze di un bambino quel favorito - tanto che il suo compagno di squadra Majka lo chiama proprio così , "bambino", intendiamo, non favorito - e sembra fare tutto con leggerezza, gli piace dare spettacolo, non si nasconde quando deve attaccare da lontano; ci provò alla Vuelta al suo primo Grande Giro che chiuse sul podio, così, sbucando in mezzo agli altri contendenti con la stessa verve e la strafottenza apparente di un personaggio di un racconto di Mark Twain.

Guida il mezzo con perentoria calma e a tratti disumana facilità, è potente, magari non elegantissimo (ma c'è a chi piace, chi scrive, per esempio, è affascinato da quell'ondeggiare di spalle, da quella testa messa leggermente di traverso e la bocca socchiusa sempre pronta a imitare una smorfia tra la gioia e il dolore). Ha un ciuffo che esce dal suo casco (ma attenzione! Ieri si è presentato sul palco con un nuovo taglio!) che fa quasi tendenza.

Sorride spesso, ci verrebbe da dire sempre, e quest'anno si è voluto persino misurare nelle classiche del pavé buttando via l'eccesso di specializzazione che ha visto in parte distruggere lo spettacolo e portare alla monotonia il ciclismo da fine anni '90 a qualche stagione fa, e lui poi facendo così ha rischiato di vincere un Giro delle Fiandre.

Arriva dalla vicina (per noi) Slovenia e ha solo 23 anni e mezzo; un Tour lo ha ribaltato a cronometro, un altro lo ha fatto suo nella prima tappa di montagna, ma le insidie per Tadej Pogačar (sì parliamo proprio di lui se non lo avevate capito) non mancheranno.
Qualche punto debole: si dice possa essere il caldo e quest'anno al Tour ne farà tantissimo (nulla di nuovo) visto l'andazzo dell'estate; si dice che ancora soffra leggermente le scalate molto lunghe – contestualizziamo sempre però, dove soffre Pogačar, il 99,9% del gruppo si è già staccato. I tecnici della Jumbo hanno già dichiarato che batterlo sarà difficile se non impossibile, ma da qualche parte bisognerà iniziare se non altro per tuffarci nell'ignoto di ogni manifestazione sportiva, nonostante la presenza di singoli - o nel caso fosse un gioco di squadra, collettivi - all'apparenza dalle sembianze di imbattibili cannibali.

TUTTI PER TAMAU

 

Foto: Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2022

 

Tutti per "Tamau", il piccolino, allora, che avrà una squadra interamente dedicata a lui: d'altra parte come si potrebbe solo immaginare il contrario. Di lui ne abbiamo già parlato, del suo fedelissimo Rafał Majka ne abbiamo appena accennato, il polacco entrerà nelle rotazioni in salita insieme a George Bennett, praticamente ingaggiato quasi esclusivamente per dare man forte allo sloveno al Tour, e al nostro cavallo pazzo preferito, Marc Soler, che pare abbia trovato la quadra sotto la guida di Matxin.

Poi c'è Brandon McNulty. Di questi tempi farebbe comodo avere un corridore di riserva su cui fare affidamento per la classifica generale, non si sa mai: siamo in quel periodo storico dove da un giorno all'altro ti ritrovi fuori dalla corsa per un tampone positivo e la UAE Team Emirates ha già vissuto brutti momenti al Giro, vedi ritiro di Almeida a pochi giorni dalla fine. McNulty probabilmente in un'altra squadra farebbe classifica, qui al Tour sarà un gregario travestito da seconda punta. A dare brio alla squadra avrebbe dovuto esserci l'esperto e solido Trentin con il ruolo di tenere davanti Pogačar, consigliarlo, tirarlo fuori dai guai. Ma indovinate un po'? Positivo al Covid. Al suo posto rientra in extremis Marc Hirschi, che come Trentin vinse la prima corsa da professionista proprio al Tour e che, come sarebbe dovuto toccare all'italiano, abbandonerà velleità personali per aiutare il suo capitano, con il quale se le dava di santa ragione sin dalle categorie giovanili.

Poi ancora: Mikkel Bjerg che, risolti i tanti problemi fisici di questa stagione sarà la costante invece in pianura, con lui Vegard Stake Laengen sempre col compito di coprire il più possibile le spalle (ma anche a ripararlo dall'aria) al due volte vincitore del Tour.

TUTTI CONTRO TAMAU

 

Foto: ASO/Charly Lopez

 

Iniziamo da uno squadrone che fa "tremare le vene e i polsi". Magari non proprio nel senso dantesco del termine - non siamo di fronte alla bestia, la lupa, una delle tre fiere che spaventa Dante nel primo canto dell'Inferno - ma è una squadra che incute timore agli avversari, quello sì. Intanto: coppia di capitani. Primož Roglič e Jonas Vingegaard che citiamo in ordine di anzianità: i battuti, seppure in modo diametralmente opposto, da Pogačar negli ultimi due Tour de France. Inutile soffermarci su come è andata, piuttosto vediamo come potrebbe andare.

Roglič, al Delfinato, grazie a una squadra nettamente superiore alla concorrenza, sembra aver ritrovato quello smalto che, a causa di un problema fisico, ne aveva fatto scendere le quotazioni in stagione. Dopo tre Vuelta e due vittorie sfiorate tra Tour e Giro, dopo la caduta che lo mise fuori gioco lo scorso anno sulle strade francesi e vista anche la carta d'identità, per l'altra faccia della moneta slovena potrebbe essere l'ultima (o quasi) possibilità di provare a indossare la maglia gialla anche a Parigi, con l'Arc de Triomphe sullo sfondo.

 

Secondo, però, i si dice, partirà alla pari con Jonas Vingegaard; se analizzassimo grossolanamente l'ultimo Tour, il danese – che parte giocando in casa, motivazione in più - pagò da Pogačar praticamente quasi solo a Le Grand Bornand, per l'esattezza solo sul Colle de Romme dove il giovane sloveno inflisse distacchi d'altri tempi a tutti. Il giorno dopo perse altri 30 secondi, ma poi sul Ventoux lo mise in difficoltà, perdendo poi in volata nelle ultime due tappe di montagna, Saint-Lary-Soulan e Luz Ardiden. A crono si difende molto bene nonostante a vederlo paia decisamente un peso piuma, ma è capace di spingere forte e a cadenze impensabili; in stagione anche lui, a differenza di Pogačar, tanti alti e bassi, ma al Delfinato, dove ha corso in appoggio a Roglič, ha impressionato. A tratti più dello sloveno con il quale condivide lo stesso tetto. Anche se nella testa di molti si parte già battuti, qualcosa con questi due corridori gli olandesi possono inventarsela. Da capire se la squadra adotterà una tattica aggressiva fatta di attacchi fantasiosi, anticipi e imboscate, oppure deciderà di controllare per provare a piazzare qualche colpo nei finali di tappa più duri come successo nelle corse di questa stagione. L'impressione è che la seconda via potrebbe non bastare per scalfire Pogačar, mentre il primo modo renderebbe la corsa più spettacolare.

 

Foto: ASO/Pauline Ballet

 

C'è una terza stella in casa Jumbo Visma che brilla di luce propria a prescindere da discorsi riguardanti la classifica generale: Wout van Aert. Tuttofare del gruppo per antonomasia, van Aert insegue la maglia gialla il primo giorno, la maglia verde magari già dal secondo, ma le possibilità di vestire il simbolo del primato assoluto resteranno intatte fino alla prima tappa di montagna e anzi, tra ventagli e pavé sarà una pedina fondamentale nello scacchiere olandese, con la consapevolezza che un po', giusto un po', lavorerà per se stesso lanciando l'ennesima sfida alla sua nemesi, Mathieu van der Poel. Terreno ce n'è in abbondanza per farci divertire oltremodo.

 

Sepp Kuss, che vince all'ultimo il ballottaggio con Gesink e Dennis, e Steven Kruijswijk, oltremodo brillante come non lo si vedeva da anni al Delfinato, saranno gli sgrezzatori del gruppo in salita, Nathan van Hooydonck è l'uomo di riferimento per van Aert, Cristophe Laporte sarà la versione in tono minore dell'ex campione nazionale belga e dovrà lavorare tanto – se non solo - per la squadra, mentre Tiesj Benoot rappresenta il gregario jolly. A seconda della situazione lo troveremo davanti in pianura, in salita, in collina, persino sul pavé, sempre con le medesime garanzie di alte prestazioni. Otto corridori di cui almeno cinque sarebbero capitani altrove. Squadrone.

 

TUTTI (TANTI) GLI OUTSIDER

 

Foto: Vincent Kalut/PhotoNews/SprintCyclingAgency©2022

 

La lotta al podio e alle posizioni alte della classifica sarà incandescente come l'aria che si respira (“respira”, si fa per dire) in queste settimane. A guidare la fila dei pretendenti al podio Alexander Vlasov. Il russo, 4° al Giro lo scorso anno - senza mai farsi notare troppo - è forse una delle rivelazioni di questa stagione. Rivelazione si fa per dire: spieghiamoci. Vlasov era un corridore atteso al salto di qualità dopo le belle cose fatte vedere da giovane - vincitore del Giro Under 23 nel 2018 davanti ad Almeida e Stannard e 4° nella stessa stagione al Tour de l'Avenir dietro Pogačar, Arensman e Mäder - un corridore che già aveva fatto cose interessanti tra i professionisti (vittoria al Giro dell'Emilia post confinamento per la pandemia), ma quest'anno è sempre stato protagonista ovunque ha corso, gare a tappe o gare di un giorno, in montagna, a cronometro, sugli strappi e persino negli sprint ristretti. Un altro Vlasov a tratti scalatore (ma con alcuni limiti quando le salite superano un certo chilometraggio), a tratti puncheur, a tratti cronoman, che, se confermerà la crescita, sopporterà il grande caldo, riuscirà a dare continuità ai suoi risultati, resta come uno dei nomi più credibili nella lotta al podio. La BORA-hansgrohe, oltretutto, uno scherzetto lo ha già combinato e pure grosso al Giro, andando a vincere per la prima volta nella sua storia una corsa a tappe di tre settimane. Niente male per la squadra tedesca che nel giro di pochi anni è passata da essere una Professional invitata con tanto di polemiche al Giro (era il 2012) a una delle squadre riferimento in gruppo. Di fianco a Vlasov una squadra interamente dedicata alla sua casa: Lennard Kämna, fresco di titolo nazionale a cronometro, dopo la vittoria al Giro sull'Etna ci riprova con il Tour, dove per altro ha già conquistato un successo nel 2020: in salita sarà uno spauracchio delle fughe, ma potrà essere una pedina preziosa per la classifica di Vlasov. A caccia di tappe in casa BORA-hansgrohe anche Schachmann, lottatore e fondista per antonomasia, non disdegna le lunghe fughe, oltre a Konrad e Politt, entrambi andati a segno al Tour nel 2021, con questo ultimo che correrà con la maglia di campione di Germania e Grossschartner, lui invece fresco campione d'Austria. Infine presenti Danny van Poppel e Marco Haller; il primo veloce, regolare, utilissimo alla causa, darà una mano al suo capitano magari nella tappa delle pietre, ma proverà anche a togliersi qualche soddisfazione: potrebbe essere un abbonato alla top ten, mentre il secondo, anche lui veloce, coraggioso, sarà uomo squadra fondamentale: dalle fughe, agli sprint, al tenere al sicuro i propri capitani.

 

 

Sarà invece una Ineos Grenadiers a tre teste per la classifica. In origine doveva esserci Bernal, ma sappiamo com'è andata e dopo aver dirottato Carapaz al Giro, la squadra britannica si presenterà al Tour con buone credenziali, è vero, ma senza un nome così pesante da far pensare a un podio. Ai due capitani designati alla vigilia per fare classifica, Adam Yates e Daniel Felipe Martinez, si è aggiunto Geraint Thomas, 36 anni e in arrivo da mesi molto complicati. La vittoria al Tour de Suisse del gallese, maturata è vero dietro circostanze particolari visti i tantissimi ritiri per Covid e malanni vari, lo ha rilanciato anche nelle gerarchie di casa Ineos e grazie anche allo storico (una vittoria e un podio al Tour) e al pedigree di qualità, Geraint Thomas, per tutti G., partirà alla pari degli altri due. L'importante per lui sarà superare indenne le prime complicatissime tappe. Daniel Felipe Martinez, dopo il Giro 2021 chiuso al quinto posto e in crescita pur correndo da gregario, arriva un po' a fari spenti , ma occhio perché il ragazzo colombiano ha grandi qualità da mettere in strada, si difende a cronometro, sa scattare, ha coraggio. Coraggio che non si può certo inserire tra le caratteristiche principali di Adam Yates. Chi scrive lo vede un gradino inferiore agli altri due, ma la sua squadra la pensa diversamente e anche alcuni risultati maturati in passato potrebbero smentirci: 4° per esempio nel 2016 al Tour, quando vinse anche la maglia bianca e arrivo a poco più di 37” dal secondo posto di Bardet, oppure 4° lo scorso anno alla Vuelta quando riuscì ad andare anche più forte di Bernal. L'idea è quello di vederlo lottare comunque per una dignitosissima top ten oltre a inseguire quel successo di tappa che ancora gli manca in un Grande Giro. Il resto della squadra vedrà Tom Pidcock pronto a sfruttare le diverse tappe adattissime a lui e a lanciare l'ennesima bellissima sfida con gli altri due giganti del ciclocross, Filippo Ganna per la prima la maglia gialla della sua carriera e del Tour 2022, Luke Rowe, Jonathan Castroviejo e Dylan van Baarle invece per dare (quasi esclusivamente) il loro enorme contributo al lavoro di squadra.

 

Foto: Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2022

 

Punta il podio il duo Bahrain formato da Damiano Caruso e Jack Haig. Il siciliano ha chiuso 4° al Delfinato pur senza brillare e questo ci dà un'idea della dimensione in cui si trova in questo momento il classe '87 di Ragusa, secondo al Giro dello scorso anno dove a un certo punto fece pure tremare la maglia rosa di Bernal. Smaltiti i carichi, Caruso, sempre capace di correre davanti, superate le insidie delle prime tappe, in salita si propone come uno dei corridori più forti. Al suo fianco Haig, che ha caratteristiche differenti, meno solidità a cronometro, persino meno appariscente, partirà forse leggermente defilato, ma attenzione, l'australiano, lo scorso anno, dopo il ritiro al Tour a causa di una caduta (era partito anche fortissimo nelle prime due tappe) ha disputato una Vuelta così consistente da salire sul podio, e dunque sarà difficile tenerlo fuori dai discorsi di alta classifica. Squadra robusta, di livello quella di fianco ai capitani, seppure con qualche assenza. Senza Mäder ammalato, sarà Dylan Teuns a dare una mano in salita e perché no, potrà timbrare il cartellino dalla fuga, cosa che gli è già riuscita altre volte (l'ultima a Le Grand Bornand dodici mesi fa), con l'eterno Luis Leon Sanchez che avrà un occhio di riguardo per i suoi su tutti i terreni. Matej Mohorič è uno dei corridori più attesi per i successi di tappa, il jolly capace, se in giornata, di vincere su (quasi) tutti i terreni, mentre sarà compito di Fred Wright e Jan Tratnik muleggiare un po' ovunque e di Kamil Gradek farlo quasi esclusivamente in pianura.

 

Foto: Rafa Gomez/SprintCyclingAgency©2022

 

Per la classifica come non considerare Enric Mas, Movistar, il più regolare dei regolaristi, uno che ogni tanto ci prova a sferrare l'attacco che puntualmente viene riassorbito ma che comunque può fare male: quando ha la giornata buona riesce a essere tra i due/tre migliori scalatori del gruppo. Il 27enne spagnolo è un habitué dei piani alti della classifica dei Grandi Giri, due podi alla Vuelta e un quinto posto, un quinto e un sesto posto al Tour e il riscatto della Movistar, sin qui autrice di una stagione totalmente mediocre, passa proprio dal Tour di Mas, il quale però non va dimenticato arriva da un brutto ruzzolone al Delfinato. La squadra con Carlos Verona, Imanol Erviti (al suo 28° grande Giro, 1 in più di Nibali e LL Sanchez, tra i corridori in attività solo Valverde ne ha disputati di più, 32)), Gorka Izagirre, Matteo Jorgenson – occhio all'americano per le vittorie di tappa- , Gregor Mühlberger, Nelson Oliveira e Albert Torres è tutta per lui.

 

Foto: ASO/Pauline Ballet

 

C'è Ben O'Connor, AG2R Citroën, una delle rivelazioni dello scorso anno; una bella vittoria di tappa che lo ha lanciato in classifica, una discreta resistenza a crono e poi in tutte le tappe di montagna. Morale? 4° posto finale con l'intenzione di confermarlo o persino migliorarlo quest'anno. Va forte in salita, è regolare a crono, non ha paura di attaccare, ma in un Tour che rischia di essere chiuso per le prime tre posizioni, potrebbe, tramite la costanza di rendimento confermare un piazzamento nei primi cinque, sei della generale che sarebbe poi un risultato di grandissimo spessore.

Di fianco gli è stata costruita una formazione che cercherà comunque le vittorie di tappa, attesissimo da questo punto di vista Benoît Cosnefroy, con Mikaël Cherel gregario al suo ultimo Tour prima del ritiro a fine stagione, e Geoffrey Bouchard e Bob Jungels uomini da salita. Occhio all'ex commesso decathlon che potrebbe inseguire la tripletta dopo aver vinto la maglia dei GPM sia al Giro che alla Vuelta, mentre il lussemburghese sembra ritrovato dopo un paio di stagioni da incubo con problemi anche di natura psicologica. Aurélien Paret Peintre è un bel talento completo che pare un po' smarrito, Stan Dewulf andrà all'attacco quando potrà e infine Oliver Naesen che vince il ballottaggio con Van Avermaet (uno degli esclusi di lusso da questo Tour) e proverà a piazzarsi nelle volate – e perché no, potrebbe aver cerchiato di rosso la tappa di Arenberg.

 

Foto: Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2022

 

Restando in Francia: Groupama-FDJ con un terzetto che non fa della continuità la sua arma migliore, ma che se dovesse trovare le tre settimane di grazia potrebbe dare fastidio a molti in salita e anche in classifica. David Gaudu (leader designato dopo un po' di gavetta e qualche piccolo passo falso, arriva da un Delfinato dove ha battuto van Aert in uno sprint in salita, salvo poi cedere in montagna), Thibaut Pinot e Michael Storer hanno potenzialmente tutto per essere tra i migliori scalatori della corsa e gli arrivi in cima di questo Tour potrebbero vedere il loro nome stampato in grande al termine della tappa.

La Cofidis punta alla top ten con il regolare Guillaume Martin e con il più discontinuo Ion Izagirre, stesso discorso per la Intermarché Wanty Goubert che lancia Louis Meintjes all'inseguimento di un bel piazzamento in classifica generale e per la DSM con Romain Bardet alla ricerca del riscatto dopo il ritiro dal Giro. Il francese ha le carte in regola per poter provare ad avvicinare il podio, ma resta più plausibile un piazzamento nei primi otto, dieci con una vittoria di tappa in montagna. A sentire lui ci sono ancora incognite sulla sua condizione fisica dopo il malanno che lo ha colpito sulle strade italiane.

Foto: Luca Bettini/SprintCyclingAgency©2022

 

 

Se la EF Education First avrà Rigoberto Uran e Ruben Guerreiro in lotta per la classifica - e il secondo anche per vincere qualche tappa e magari provare a indossare la maglia a pois - c'è un altro colombiano che scalpita per prendere il volo in salita: Nairo Quintana. L'Arkéa Samsic punta tutto su uno dei soli tre colombiani al via (record negativo da diversi decenni), schierandogli di fianco Warren Barguil che di recente ha sfiorato il successo nel campionato francese. In chiave classifica, da considerare anche Aleksej Lutsenko per l'Astana – che non arriva però da un momento felice a causa di problemi fisici e incidenti - , l'attempato duo Israel Premier Tech formato da Jakob Fuglsang (il più acclamato di tutti alla vigilia durante la presentazione dei team a Copenaghen) e Michael Woods (al via per la squadra israeliana ci sarà pure Chris Froome! senza alcuna ambizione, sarebbe bello vederlo in fuga ogni tanto), e poi ancora Pierre Latour per la TotalEnergies, il quale però viene da un brutto infortunio ed è sempre un corridore abbastanza difficile da decifrare e pronosticare. Infine citiamo anche Mattia Cattaneo Quick Step Alpha Vynil che, insieme a Caruso, rappresenta l'unica speranza di classifica per il ciclismo italiano al Tour. Che di questi tempi non è nemmeno poco.

RUOTE VELOCI (ANCHE VELOCISSIME)

Foto: ASO/Luis Angel Gomez/Foto Gomez Sport

 

Non saranno tantissime le volate (fino al secondo giorno di riposo rischiano di essere tra le 2 e le 4 in tutto) e quindi occhio alle sfide tra Jasper Philipsen, Fabio Jakobsen e Caleb Ewan che se le daranno di santa ragione per dividersi il risicato bottino di questo Tour. Jakobsen avrà la squadra più forte per questo tipo di esercizio: Yves Lampaert, Kasper Asgreen, Michael Mørkøv terzetto ultra collaudato al quale nelle ultime ore si aggiunge il neo campione di Francia Florian Sénéchal che sostituisce Tim Declercq positivo al Covid. Ewan, invece non avrà al Tour nessun componente del suo treno (Selig, Kluge, De Gendt, De Buyst) e dovrà cavarsela più o meno da solo se non con l'aiuto del sudafricano Reinardt Janse Van Rensburg. Per Philipsen c'è la possibilità di sprintare sia nei volatoni più classici che anche di tenere duro tra tappa del pavé e qualcosa di più impegnativo (e magari provare a insidiare van Aert per la maglia verde, diciamo insidiare perché la sfida sulla carta pare chiusa), senza dimenticare però chi avrà in casa, ovvero Mathieu van der Poel. L'olandese, dopo aver dato spettacolo al Giro, ci riproverà al Tour dove il livello è sicuramente più alto, ma non sarà certo questo a spaventare un corridore che sguazza nell'eccellenza. In generale la Alpecin (non più Fenix ma Deceuninck da questo Tour) ha una squadra equilibrata sia per dare l'opportunità ai due capitani di esprimersi al meglio (Silvan Dillier, Alexander Krieger, Edward Planckaert, Kristian Sbaragli e Guillaume Van Keirsbulck), sia per beccare le fughe nelle tappe più impegnative con Michael Gogl e Xandro Meurisse, quest'ultimo che potrebbe anche guardare alla classifica, magari non ai piani altissimi.

 

Per gli sprint ci sarà anche Wout van Aert che già il secondo giorno a Nyborg si getterà nella mischia, ma attenzione anche al nostro Alberto Dainese. Dopo i piazzamenti alla Vuelta, il velocista veneto della DSM si è sbloccato con una meravigliosa volata al Giro meritandosi la convocazione per la corsa francese. Di fianco a Dainese la squadra di matrice olandese porta l'esperienza e la classe di John Degenkolb con il quale potrebbe dividersi i compiti, magari lasciando al tedesco la possibilità di fare la propria corsa nella tappa di Arenberg. Ricordate come finì l'ultima volta che il Tour corse sul pavé? Vinse proprio lui.

La Cofidis fino a poche ore fa avrebbe puntato su Brian Coquard per le volate, ma il Covid lo ha fermato (sostituito da Périchon) e dunque ci sarà il tedesco Max Walscheid che arriva da una primavera di ottimo livello interrotta solo da un bruttissimo incidente mentre si allenava. Il tedesco punta a un bel risultato anche nella crono di apertura.

La Intermarché Wanty Goubert si affiderà ad Alexander Kristoff. Molto interessante oltretutto il trenino della squadra belga: con il norvegese, due corridori in grande forma come Andrea Pasqualon e Adrien Petit. L'Arkéa Samsic porta sulle strade francesi una coppia niente male di piazzatoni come Hugo Hofstetter e Amaury Capiot, ma la squadra bretone capitanata da Quintana e Barguil sarà tra le guastafeste soprattutto nelle prime tappe con un occhio a quelle nel nord della Francia: Matis Louvel e Connor Swift potranno scatenarsi su quei terreni.

Foto: Vincent Kalut/PhotoNews/SprintCyclingAgency©2022

 

Finito il discorso velocisti? Assolutamente no: TotalEnergies punta su Peter Sagan che è tornato al successo di recente al Tour de Suisse per poi rivincere pochi giorni fa per l'ottava volta negli ultimi dodici anni il campionato nazionale slovacco, mentre il Team Bike Exchange, escluso l'emergente Groves (che il prossimo anno andrà a correre con la Alpecin Deceuninck), porta una squadra interamente dedicata alle volate di Dylan Groenewegen e ai piazzamenti di Michael Matthews. Per gli australiani sarà vitale raccogliere più punti possibile in chiave salvezza. Jack Bauer, Luke Durbridge e Amud Jansen saranno i componenti del treno in pianura, Luka Mezgec il pesce pilota. Cristopher Juul Jensen il jolly che se in giornata potrà anche provare a vincere dalla fuga di giornata, mentre Nick Schultz avrà il compito di curare la classifica fin dove possibile. C'è spazio ancora per nominare un corridore italiano, Luca Mozzato. Il vicentino della B&B Hotels-KTM è corridore davvero interessante, veloce, ma non abbastanza per provare a battere i mostri della velocità che saranno al via del Tour; ha una certa attitudine nell'infilarsi nelle fughe e nel superare indenne i percorsi mossi (e chissà la tappa con arrivo ad Arenberg...). Resta da capire, vedendo alcune prestazione, quanto possa influire sul suo rendimento il grande caldo. Il Tour ci darà tutte le risposte.

 

Foto: ASO/Alex Broadway

 

Abbiamo lasciato da parte uno dei corridori più talentuosi e indecifrabili del gruppo: Mads Pedersen. Si parte dalla sua Danimarca, la condizione sembra essere la migliore (al Giro del Belgio non è mai uscito dai primi 9 posti), le motivazioni anche. C'è una crono il primo giorno che lo stuzzica, potrebbe chiudere nelle prime posizioni – ne ha le qualità – e poi provare ad andare a caccia della maglia gialla. Cosa potrebbe mai andare storto? Che è Pedersen, uno dei profili più difficili da leggere del gruppo. Talento che corre in proporzione alla discontinuità. Tuttavia difficile non pensare al suo nome nelle volate del Tour anche se presumibilmente si dividerà il compito e lo spazio in gruppo con Jasper Stuyven, mentre il mitico Tom Skuijns, insieme ad Alexander Kirsch, darà una mano importante ai due.

UNA QUESTIONE DI FUGHE E DI TAPPE

Si è iniziato ad accennare ai cacciatori di tappe, non per forza quelli che si muoveranno anche per la classifica e nemmeno quelli da volata. Un accenno agli assenti, o per meglio dire gli esclusi, perché hanno fatto rumore: su tutti Alaphilippe, Van Avermaet, i velocisti Groves, Merlier e Cavendish, e poi ancora Soren Kragh Andersen, Nibali, Valverde o Stannard. Mancherà purtroppo anche Bini Girmay il quale rimanda al Tour dell'anno prossimo il replay della sfida vista al Giro con van der Poel.

 

Ecco proprio Mathieu van der Poel sarà uno dei fari tra fughe, arrivi dove ci sarà da scattare (vedi tappa numero sei) o perché no se in gruppo si resta in pochi o c'è un ventaglio e magari non ci sono tutti i velocisti lui sarà pronto, e si farà trovare caldo già dalla cronometro.

La Francia andrà a caccia di successi parziali con il già citato Cosnefroy, ma anche con il terzetto della Cofidis formato da Victor Lafay, corridore che dopo il successo di tappa al Giro 2021 ha fatto un notevole salto di qualità, Anthony Perez – atteso nelle fughe che inseguirà probabilmente anche tanti punti dei GPM e Benjamin Thomas. Il talentuosissimo fuoriclasse della pista sarà al suo esordio al Tour e quando entrerà nella fuga giusta sarà uno degli uomini da temere maggiormente. La Groupama, detto di Pinot e Gaudu (e Storer) avrà altri due corridori di valore assoluto: Stefan Küng che non nasconde di andare a caccia della maglia gialla nelle prime tappe, è nella migliore stagione della vita e gli manca, incredibilmente, solo il successo. Partirà nella crono di Copenaghen con la maglia di campione europeo e nei giorni successivi, soprattutto con il rientro in Francia, ci sarà diverso terreno su cui dare spettacolo. C'è anche Valentin Madouas - sul podio al Fiandre quest'anno - corridore forte su tutti i terreni, ma da capire quale sarà il suo ruolo all'interno di una squadra che schiera anche Kevin Geniets, lussemburghese utilissimo alla causa dei suoi capitani.

Foto: ASO/Aurelien Vialatte

 

Sempre per quanto riguarda le squadre francesi detto degli Arkéa Samsic, completiamo citando diversi corridori delle altre due squadre Professional: TotalEnergies e B&B Hotels. I primi lanciano un terzetto temibilissimo due di loro hanno già lasciato il segno quest'anno in fuga in corse a tappe WT disputate in Francia: Mathieu Burgaudeau (vincitore di tappa alla Parigi-Nizza) e Alexis Vuillermoz (al Delfinato), con loro Anthony Turgis eterno piazzato, mentre dopo l'esclusione dello spagnolo Cristian Rodriguez, la squadra ha inserito all'ultimo momento Edvald Boasson Hagen. Fa sorridere vedere il norvegese al Tour nella stessa squadra di Peter Sagan: i due, ormai una decina di anni fa, erano pronti a lanciarsi una sfida epocale su tutti i terreni, sfida che non ci sarà mai a causa della notevole discontinuità del corridore norvegese e della superiorità a conti fatti dello slovacco. A chiudere il roster citiamo, se non altro per partigianeria, Daniel Oss, fedelissimo scudiero proprio del campione slovacco e uno dei 14 italiani al via, forse quello con meno ambizioni personali, forse quello più utile alla causa di un compagno di squadra. La B&B Hotels, invece, vuole ritrovare Franck Bonnamour, uno dei protagonisti delle fughe al Tour dello scorso anno, ma quest'anno un po' limitato da una brutta caduta a inizio stagione (miglior risultato per lui un 2° posto di tappa alla Parigi-Nizza dopo una lunghissima azione partita da lontano), mentre quest'anno pare abbia ritrovato una vecchia conoscenza delle montagne francesi: Pierre Rolland. Se cercate un candidato alla maglia a pois, il suo nome è uno dei più gettonati. Cyril Barthe, Alexis Gougeard e Jérémy Lecroq proveranno a lasciare il segno in fuga, mentre Cyril Lemoine per una manciata di giorni non sarà il corridore più vecchio al via: primato che appartiene a Philippe Gilbert.

Proprio dalla Lotto Soudal proseguiamo la carrellata dei cacciatori di tappa: cinque di loro hanno le carte in regola per vincere almeno una tappa con una bella azione a lunga gittata. Philippe Gilbert, Andreas Kron, Brent van Moer, Florian Vermeersch e Tim Wellens, cinque corridori che non hanno bisogno di presentazioni. Il capolavoro per loro sarebbe quello di riuscire a muoversi da lontano in più di uno sfruttando così qualità e superiorità numerica.

 

Foto: ASO/Alex BROADWAY

 

La Trek Segafredo punta sulle fughe di Giulio Ciccone e Bauke Mollema in montagna e sulla verve del giovane Quinn Simmons che sicuramente farà divertire il pubblico con la sua indole da attaccante, mentre a livello di carta d'identità sta quasi agli antipodi Simon Clarke, che insieme a Krists Neilands e Hugo Houle animerà le fughe per la Israel-Premier Tech.

In casa Quick Step da seguire Andrea Bagioli che avrà carta bianca per dire la sua nelle fughe e in alcune tappe impegnative (ma non durissime, occhio alla sesta e all'ottava tappa che sembrano disegnate per lui) mentre l'Astana punta forte su uno dei gioielli del ciclismo italiano, quel Gianni Moscon suo malgrado, a causa di problemi fisici, autore sin qui di una stagione anonima. Con lui Joe Dombrowski l'uomo per la tappe di montagna, Fabio Felline, tuttofare insieme all'inossidabile Andrey Zeits, Simone Velasco che a 26 anni e mezzo farà il suo esordio in un Grande Giro dopo una carriera passata tra le Professional e Alexander Riabushenko, inserito all'ultimo causa l'esclusione per Covid di Samuele Battistella.

 

Foto: Kei Tsuji/SprintCyclingAgency©2022

 

Se per la EF Education-EasyPost proveranno a vincere le tappa Alberto Bettiol, Magnus Cort Nielsen, Neilson Powless e Stefan Bissegger, e hanno tutti e quattro concrete possibilità, chiudiamo il discorso con la DSM che oltre a Bardet e Andreas Leknessund per la classifica - il norvegese dopo essersi sbloccato al Tour de Suisse, cerca conferme importanti al Tour - e a Dainese e Degenkolb per le volate, si farà vedere con Chris Hamilton in salita, ma occhio anche a Kevin Vermaerke e Nils Eekhoff (quest'ultimo aiuterà Dainese allo sprint) che proveranno a infilarsi nella fuga giusta magari in tappe non troppo dure.

Chiudiamo con quello che potrebbe essere il guastafeste per antonomasia di questo Tour, uno che se va in fuga rischi pure di non riprenderlo e che lo scorso anno con questo modo di fare irriverente ha dato la svolta alla vita agonistica della sua squadra, la Intermarché Wanty Goubert. Parliamo naturalmente di Taco van der Hoorn citando il suo successo al Giro. L'olandese sarà uno dei corridori da seguire con maggiore simpatia ed entusiasmo a questo Tour e l'occasione per fare il tifo per lui di certo non mancherà.

IL PERCORSO

 

Foto: Pauline Ballet

 

Si parte dalla Danimarca, storia arcinota ormai, con una breve crono di 13 km, il giorno dopo la tappa dovrebbe sorridere alle ruote veloci ma occhio al vento e a quel lungo ponte che potrebbe sensibilmente ribaltare la corsa spezzando il gruppo. Il terzo giorno sarà ancora appuntamento per i velocisti mentre quarta e quinta tappa, quella di Calais e poi quella del pavé con arrivo ad Arenberg hanno un pronostico del tutto aperto e potrebbero provocare diversi scossoni anche alla classifica generale.
La sesta tappa, quella che si concluderà a Longwy, oltre ad essere la più lunga del Tour con i suoi 220 km presenta un finale tortuoso che strizza l'occhio ai corridori tipo van der Poel e potrebbe tagliare fuori invece i velocisti.

 

È il preludio del primo arrivo in salita di questa edizione, l'8 luglio, tappa numero sette, finale a La Super Planche des Belles Filles, non una vera e propria tappa di montagna, ma un arrivo impegnativo che segnerà i primi distacchi, quello sì. Il giorno dopo si sconfina in Svizzera con arrivo su uno strappo, ma vista la prima parte sulla frazione numero 8 campeggia in grande la scritta “fuga all'arrivo”. Domenica 10 luglio, invece, prima del secondo riposo tappa di montagna quasi interamente in Svizzera con rientro in Francia proprio per l'ascesa finale, il Pas De Morgins, antipasto degli ultimi chilometri verso Chatel Les Ports du Soleil. Anche qui lecito immaginarsi una fuga all'arrivo. Il 12 luglio si riparte con un'altra tappa fatta di su e giù, tracciato suggestivo e con l'arrivo finale all'Eliporto di Megève, ascesa lunga ma tutt'altro che dura, stesso finale della tappa del Delfinato 2020 quando vinse Sepp Kuss.

 

È solo l'anticipo però di quello che succederà nei due giorni successivi con le due tappe più attese dell'intero Tour de France. Il giorno 13 da Albertville: Télégraphe, Galibier e arrivo sul Col du Granon dove Bernard Hinault vestì per l'ultima volta la maglia gialla al Tour. Era il 1986 e il corridore francese si staccò sull'Izoard. Il giorno dopo si arriva in uno di quei luoghi di culto per antonomasia del ciclismo: Alpe d'Huez. Tappa decisiva e come contorno anche il fatto di disputarsi il 14 luglio, con Galibier, di nuovo, Télégraphe, di nuovo, e l'infinita ascesa verso la Croix de Fer prima di scendere verso Bourg d'Oisans e iniziare la salita verso la mitica Alpe d'Huez, domata e dominata da Pantani, tanto che i primi tre migliori tempi di scalata continuano a essere i suoi. La due giorni successiva, Saint-étienne prima e Mende poi, chiamano a raccolta fuggitivi e delusi, sorte simile per la quindicesima tappa, domenica 17 luglio, con conclusione a Carcassone.

Riposo ed ecco l'ultima settimana di corsa. I Pirenei si avvicinano. A Foix chiamata a raccolta per chi vorrà fare la differenza non solo in salita, ma anche indiscesa: giù dal Mur de Péguère c'è spazio. Il giorno dopo tappa d'alta montagna con il duro arrivo di Peyragudes, 8 km a quasi l'8% di media. L'ultima volta che si arrivò da queste parti – ma con un disegno differente – vinse Romain Bardet. Giovedì 21, tappa 18 con l'arrivo classico a Hautacam sarà l'ultima occasione per gli scalatori di provare a fare la differenza e terreno, soprattutto nella seconda parte di gara ce ne sarà a volontà. Week end finale dedicato aalle ruote veloci con le tappe di Cahors e la conclusione sugli sugli Champs-Elysées, ormai classica per le volate all'interno di un Grande Giro e in mezzo l'impegnativa cronometro di 40,7 km di Rocamadour che darà l'ultimo decisivo (qualora ce ne fosse bisogno) scossone alla classifica.

I FAVORITI DI ALVENTO

MAGLIA GIALLA

⭐⭐⭐⭐⭐ Pogačar
⭐⭐⭐⭐ Roglič
⭐⭐⭐ Vingegaard
⭐⭐ Vlasov, O'Connor, Martinez, Mas, Gaudu, Fuglsang
⭐ G.Thomas, Bardet, Yates, Caruso, Haig, Guerreiro, Uran, Martin, Woods, Lutsenko, Cattaneo, Quintana, Latour

MAGLIA VERDE
⭐⭐⭐⭐⭐ van Aert
⭐⭐⭐⭐ Jakobsen
⭐⭐⭐ Sagan
⭐⭐ Philipsen, Matthews, Pedersen, van der Poel
⭐ Ewan, Mohoric, Vlasov, Pogačar, Roglič

MAGLIA A POIS
⭐⭐⭐⭐⭐ Pinot
⭐⭐⭐⭐ Rolland
⭐⭐⭐ Quintana, Barguil, Guerreiro
⭐⭐ Bardet, Bouchard, Perez, Ciccone
⭐ Mollema, Gaudu, Pogačar, Roglič, Vingegaard, Latour

MAGLIA BIANCA
⭐⭐⭐⭐⭐ Pogačar
⭐⭐⭐⭐ McNulty
⭐⭐⭐ Leknessund
⭐⭐ Storer, Pidcock
⭐ Jorgenson, Bagioli, Simmons

Foto in evidenza: ASO/Aurélien Vialatte