“S’immagini il lettore” la lingua stretta d’asfalto, in mezzo al bosco, verticalità e tornanti, della salita de “I Cappuccini”. Non è un caso la citazione manzoniana, perché, sarà il nome del muro, sarà la follia divoratrice di metri e asfalto dell’attacco di Ben Healy, ma, vedendolo attaccare, a cinquanta chilometri dall’arrivo, ci sono tornate in mente le parole dedicate da Manzoni a Padre Cristoforo, mentre rimprovera Renzo, al lazzaretto: «una voce che aveva ripresa tutta l’antica pienezza e sonorità, la sua testa cadente sul petto s’era sollevata, le gote si colorivano dell’antica vita; e il fuoco degli occhi aveva un non so che di terribile». Quel fuoco, quel qualcosa che viene da lontano e racconta una verità, è nelle gambe di Healy quando, senza paura, sceglie di restare solo: l’unico modo per avere la certezza di vincere, l’abbiamo sentito dire. Attaccare.
Sgraziato, sbilenco in bicicletta: se fosse vera quella storia che racconta di come una coppa di champagne sulla schiena di Anquetil, in una cronometro, non avrebbe versato nemmeno una goccia, la stessa coppa, probabilmente, zampillerebbe champagne da più parti, sulla schiena Healy, ma chi ha detto che sia sbagliato, che la storia di una coppa di champagne consumata non sia ugualmente bella e piena zeppa di amori e umori. L’attacco di Healy è l’apologia della fatica, l’esaltazione della massima difficoltà, una ricerca mai finita, un viaggio disperato e di speranza. È nato a Kingswinford, nel 2000, ma ha scelto l’Irlanda, la terra da cui venivano le biciclette del padre, quelle che vedeva e da cui ha tratto ispirazione. Sopracciglia folte, barba, orecchini e capelli neri, mossi, che fuoriescono dal cappellino. Ha qualcosa del cantante, qualcosa dell’attore forse. Ha quel cognome che pare quasi vezzeggiativo e che fa pensare al verbo inglese “heal” ovvero guarire.
L’attacco è la sua guarigione, un antidoto contro l’ovvietà, anche a costo di perdere, perché quando si mette in piedi un’azione così si può uscirne non solo sconfitti, ma distrutti. Invece Healy guarisce e aumenta il vantaggio: dietro, nella fuga, quella portata via con fatica, dopo 70 chilometri, hanno volti stanchi, tirati, si attaccano e si punzecchiano. Secondo sarà Gee, terzo un ottimo Zana. Ben Healy viene da lì, ma sembra di un’altra galassia, pur con un’origine, una scintilla, comune: la fuga, per l’appunto.
Della stessa apologia della fatica, si ritrova qualcosa in Leknessund e in Roglič. Il primo prova ad andare in fuga, per aumentare il vantaggio, per sgravare i compagni di una parte di lavoro, risponde all’attacco dello sloveno, poi pagherà, ma andate a riascoltare Healy e forse questo vi interesserà meno. Roglič attacca, sorprende Evenepoel, guadagna, il giorno prima di Cesena, dove tutti aspettano Evenepoel mattatore. Un gesto, un segnale. Non solo: forse anche involontariamente un modo di arrivare dall’altra parte, di lasciare qualcosa, un dubbio (chissà) nei rivali, il pepe, il fuoco, la passione, la voglia in chi guarda. Senza preoccuparsi delle gocce di champagne che possono cadere.
Ieri, in molti, hanno parlato di Marco Pantani. Noi ne parliamo oggi, pensando alla sua frase: «Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia». Sull’agonia ci fermiamo. Lo è stata anche quella di Healy, anche se pare essersi divertito, lo è stata e si vedeva da come maltrattava la bicicletta sull’ultima ascesa a “I Cappuccini”. Verrebbe da chiedergli: «Perché hai attaccato a cinquanta dall’arrivo, quando, probabilmente, avresti potuto vincere lo stesso, gestendoti e facendo l’azione nel finale?». Verrebbe da pensare a una risposta del tipo: «Per vivere la mia agonia» E, quindi, guarire. Nascere o, forse, crescere.