Top&Flop - alvento weekly #4
TOP
Rory Townsend e Ben Healy
Nonostante i problemi che da diverso tempo perseguitano la Federazione Ciclistica irlandese e un momento storico non dei più floridi a livello di talenti assoluti (ma occhio che Healy è un gran bel corridore che potrà sorprendere anche a più alti livelli), l’Irlanda si gode una inaspettata domenica di gloria. Ben Healy conquista, con un attacco solitario (marchio di fabbrica) a 14 km dalla fine, il Gp Larciano, a pochi giorni dal successo di tappa alla Coppi&Bartali, la sua prima vittoria nella massima categoria; Rory Townsend, velocista di terza fascia di quasi 28 anni e in forza alla Bolton Equities Black Spoke, squadra appena salita tra le Professional, conquista in Francia, davanti ad alcune tra le ruote veloci più in forma in assoluto del momento come Thissen o De Kleijn, la vittoria più importante in carriera. St Patrick's day nove giorni dopo.
Uno- X Pro Cycling Women
La costanza della squadra nordica in mezzo alle altre corazzate ormai non fa più notizia ed è maturo il grande successo, tra Belgio e Olanda le giallorosse si piazzano così:
2ª Maria Giulia Confalonieri a Le Samyn
2ª Susanne Andersen alla Ronde van Drenthe (e 5ª ancora Maria Giulia Confalonieri)
6ª Anouska Koster alla Omloop Het Nieuwsblad
6ª Amalie Dideriksen alla De Panne (e 11ª Julie Norman Leth)
7ª Elinor Barker alla Gent Wevelgem
11ª Maria Giulia Confalonieri alla Nokere Koerse
Risultati ottenuti con 6 ragazze diverse, risultati ottenuti da una squadra nata appena l'anno scorso.
Matej Mohorič
Perché ci crede sempre, perché è il miglior Mohorič mai visto e non è colpa sua se si deve scontrare con tre che contemporaneamente il ciclismo non è che abbia visto molte volte eppure lui è lì, si attacca come può al treno buono, e deve inventarsi sempre qualcosa per riuscire a sfuggire al destino. Ha la fantasia giusta: e come alla Milano-Sanremo lo scorso anno prima o poi il colpo grosso arriva.
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FLOP
Soudal Quick Step
Allo sbando e il fatto di esserlo nelle loro gare fa ancora più effetto. Il pezzo fatto da Jakobsen alla Gent - va all'attacco per rientrare sulla fuga che non vede nemmeno un QS dentro e rimbalza malamente dopo aver sbagliato un paio di curve bagnate - e poi quello degli altri compagni di squadra Asgreen, Lampaert, e van Lerberghe che tirano a tutta per rientrare su quell'attacco ottenendo come risultato il rimanere senza energie e consegnando la gara ad altri, rappresentano uno dei momenti più complicati e confusionari della loro storia al Nord. Merlier, nel finale, è senza compagni di squadra, visto l'inutile sforzo dei suoi ormai staccati ed è costretto tutto da solo a inseguire il terzo posto, che poi non arriverà. Nemmeno quella magra consolazione.
Ciclismo italiano (maschile)
In una settimana di tante tantissime corse solo Ciccone alza le braccia al cielo e nelle altre gare che contano si vede solo Ganna, fino alla caduta durante la Gent-Wevelgem, e Ballerini in crescita. Nono posto nel ranking UCI per nazionali (rispetto a settimana scorsa una posizione recuperata su una claudicante Colombia) e tanta amarezza a vedere come siamo messi. Chi ci solleverà? (E come e quando?)
Richard Carapaz
È vero che è appena tornato, ma ci ha messo un po’ di tristezza vedere la sua bellissima maglia di campione d’Ecuador arrancare in quella maniera al Catalunya. Arriveranno sicuramente momenti migliori, nel frattempo saremmo disposti a fare un fioretto per vederlo al Giro invece che al Tour. L’ultima volta che c’erano lui, Roglič e un terzo litigante, sappiamo bene com’è finita….
Il ciclismo di quelli lì
Continua a essere il ciclismo di quelli. Quelli che hanno alzato il livello e scavato un solco con la concorrenza. Quelli che sono due e poi quattro, e diventano cinque e se gliene togli un paio fa tre, almeno fino a quando la matematica non diventerà un’opinione. Continua a essere, anzi in realtà lo è da (relativamente) poco, ma ci stanno prendendo gusto, il ciclismo di Roglič ed Evenepoel che settimana scorsa al Catalunya hanno monopolizzato una corsa schiacciata dall’ingombrante presenza delle Corse del Nord, ma loro due non lo sanno o se ne fregano e hanno cercato di valorizzarla pure con numeri da record nonostante due maglie troppo brutte per essere vere: bianche con qualche inserto, uno verde e l’altro arancione. Una roba inguardabile.
Che c’azzecca il colore delle maglie con le loro prestazioni? Considerato che uno vestirebbe la più prestigiosa e riconoscibile del gruppo, quella iridata, l’altra un paio di anni fa ne sfoggiava un’altra altrettanto bella, quella di campione nazionale sloveno con il Triglav in bella vista - a proposito se non ci siete stati in Slovenia andateci, occhio solo al tratto dopo Postumia perché all’improvviso anche in una giornata di piena primavera si può scatenare l’inferno sotto forma di tempesta di ghiaccio e neve e non è un romanzo fantasy, né una corsa in Belgio - insomma considerato questo è giusto porre l’attenzione su quei pigiamoni da leader delle varie classifiche. Oltretutto così simili tra loro non si capiva chi fosse leader di cosa. Soprattutto a guardare le immagini dallo schermo di un computer.
Il ciclismo di Roglič ed Evenepeol è spettacolo ma pure avanspettacolo e qualche rubrica da seguire nel dopo cena. In Belgio ne vanno matti e per una volta pure in Spagna hanno apprezzato lo sceneggiato. Si beccano, scattano e si staccano, fingono, arrancano, concedono poco o nulla se non qualcosa a un velocista di cui si parla troppo poco - Groves, numero notevole il suo: vince la volata sulla bici di un compagno di squadra - e a un mezzo scalatore, di nome Ciccone: mezzo non perché non sia forte, ma perché l’altra metà sembra altro, un cacciatore di tappe, miste o di montagna, e chi scrive vorrebbe bramoso aizzatore di folle nelle classiche ardennesi, uno di quei corridori su cui bisognerebbe puntare per rimpinguare la magrissima pancia del ciclismo italiano ormai sempre più rachitico alla stregua di tutte le altre nazionali del ciclismo che contano da pochi anni o hanno sempre contato. Insomma quell’abruzzese che a 29 anni come da tradizione nostra è pronto e maturo per traguardi più importanti ed è pronto a lanciare una scialuppa al 2023 italico.
Catalunya, o Catalunya, dunque: cosa ci hai detto di memorabile? In a nutshell scrivono o persino dicono quelli che parlano male: al Giro Roglič ed Evenepoel continueranno a dare spettacolo, a punzecchiarsi, lo faranno per loro e per noi, ci faranno divertire e sinceramente a oggi non sapremmo nemmeno dire chi potrà prevalere sull’altro. Magari come già successo ne esce fuori un terzo, ma al momento quella lista è totalmente priva di nomi e idee. Evenepoel è uno che non le manda a dire, forse in questo senso è quello che appare più impulsivo e naturale. Prepariamo un bell'agenda per prendere appunti nei dopo tappa, il bimbo belga ci darà pagine da riempire.
Il ciclismo di quelli lì poi tocca il Nord in un pomeriggio di un giorno da cani, per loro ad Harelbeke, anzi da gattoni, perché si graffiano e trovano l’unico momento di tregua dalla pioggia tra il mercoledì di La Panne (oh finalmente Philipsen, che vittoria!) e la domenica pomeriggio del “Jumbo Visma Show" sulle strade della Gent-Wevelgem; spettacolo che non piace a tutti, e si capisce come una vittoria in parata possa far storcere il naso. Per chi scrive nulla di male nel vedere il capitano concedere la vittoria in una corsa dove tutto appare già scritto nel momento in cui Laporte e van Aert se ne vanno sul Kemmelberg lasciando gli altri a zigzagare e a fare equilibrismi per stare in piedi sulle pietre scivolose delle Fiandre Orientali. Anzi l'invito è: leggete questo pensiero ben articolato da Ilenia Lazzaro, giornalista di Eurosport, sull'argomento van Aert, corridore che come si muove sbaglia. Destino dei più grandi.
E insomma dicevamo: qualche giorno prima della Gent-Wevelgem, nel mini Fiandre che arriva ad Harelbeke, c'è stato un antipasto di quello che sarà questa domenica nella gara delle gare tra Bruges e Oudenaarde: Pogačar, van der Poel e van Aert che staccano tutti. Ecco il ciclismo di quelli lì. Uno che scatta qualche centinaio di volte, l’altro che accende la gara lontano dal traguardo come una sigaretta in mezzo a una platea di non fumatori, il terzo che è quello che fa più fatica a tenere certe sgasate, resiste e poi vince.
Un pomeriggio qualsiasi impreziosito dal modo di fare ciclismo di quelli lì.
Chissà come andrà in quello che sarà il Fiandre vero e proprio, la festa dei belgi, ma pure la nostra che quando si tratta di corse a quelle latitudini non capiamo più nulla, la nostra testa si riempie di spiriti come la casa de gli invasati di Shirley Jackson, e se poi i tre di cui sopra decidono di dare spettacolo in questo modo allora per noi è finita, preparate calmanti e camicie di forza.
Una giornata da Nord Europa
«Veramente non conosci Jukka Vastaranta?»
Rimango di sasso, certo che non lo conosco. La domanda proviene dall’unico finlandese alla partenza del 73° Trofeo Piva, Veeti Vainio, a cui sembra impossibile che qualcuno non sappia del «Remco Evenepoel finlandese». Nato una ventina d’anni prima di Remco, Vastaranta è stato uno dei più forti corridori del mondo a livello junior, prima di perdersi un po’ tra i professionisti. Vainio è abbondante nei dettagli e col sorriso descrive la carriera del suo mentore «Kari Myrryylainen, compagno di squadra di Miguel Indurain negli anni Ottanta alla Reynolds».
Di ciclismo scandinavo parliamo in lungo e in largo anche con un compagno di squadra di Vainio, lo svedese August Haglund. Sono gli unici due non impegnati a battere i denti. Piove così forte che viene coperto persino il rumore dei freni a disco. Qualcuno con un manico di scopa fa defluire l’acqua accumulata su una tenda e sembra di stare sotto una cascata. «Non è questo il tipo di clima che finisce sulle cartoline che rappresentano l’Italia» scherza Haglund.
Chi non sta scherzando affatto è Manuel Oioli della Eolo U23. Tremando come una foglia, sussurra che la corsa dovrà partire forte per far scaldare i muscoli di tutti. «Potrebbero esserci anche Zoncolan o Mortirolo ma partiamo sennò prendo freddo». Un signore attempato si rivolge a un corridore irriconoscibile, nascosto com’è da giubbotto e scaldacollo, dicendogli che per la prima volta non invidia chi dovrà pedalare sotto l’acqua: come risposta ottiene un paio di bestemmie, seguite da uno sguardo consolatorio al cielo: «Almeno non nevica».
Fermi alla presentazione delle squadre, in attesa della chiamata sul podio, non tutti i corridori temono il freddo. «Per me questa è la temperatura ideale» assicura il danese Anders Foldager della Biesse-Carrera infilandosi guantini a mezze dita. Addosso, oltre a una canottiera, non ha granché. Diversi atleti messicani della AR Monex, invece, si stringono le mani sotto le ascelle nel tentativo di scaldarle un minimo.
Mentre il vento fa cadere diverse bici appoggiate sugli stalli vicino al foglio firma, Giosuè Crescioli della Mastromarco rivela che il suo nome deriva da quello del figlio di Roberto Benigni in La vita è bella. Sta cercando riparo sotto una tettoia, a fianco di cilindri metallici alti diversi metri, tra i quali ci sono biciclette tirate a lucido e damigiane di vino. Il Trofeo Piva, infatti, prende il via dal quartier generale di un’importante azienda vinicola della zona, da cui viene uno dei vini più apprezzati al mondo: il Prosecco.
La corsa si snoda in un paesaggio a mosaico nel quale si alternano viti, boschi e piccoli paesini: Col San Martino, frazione di Farra di Soligo, è uno di questi. Camminando verso la chiesetta della Beata Vergine Addolorata di Collagù si notano i ciglioni, ovvero particolari terrapieni che consentono di coltivare le viti anche su pendii così scoscesi. Non passa lontano da qui la corsa, tanto che una vista aerea perfetta sui corridori è possibile dalle Torri di Credazzo.
Da sempre il Trofeo Piva è sinonimo della salita verso Combai, una frazione del comune di Miane, ma di recente è stata inserita nel percorso anche la Riva di San Vigilio: 400 metri al 16% con un tratto finale in cemento. Tre passaggi qui rendono la corsa un vero inferno: «la pioggia ha reso quello strappo scivoloso, dovevi pedalare sempre costante e fluido» dice Davide Toneatti all’arrivo. Martin Marcellusi, che vincerà la corsa, ammette di aver scollinato oltre quella mulattiera solo grazie ad un rapporto, il 39x33, montato appositamente.
«Go provào a fare chela corsa chì quando corea, ma dopo due Combai me son fermào lì» dice Diego in spiccato accento veneto. È un accompagnatore della General Store e assieme a Gianmarco Carpene stanno aspettando l’arrivo di Samuele Carpene: «Abbiamo fatto la corsa per mio fratello ed è lì davanti che se la sta giocando» afferma speranzoso mentre cerca di pulirsi la faccia dallo sporco accumulato sotto la pioggia.
Sta prendendo molto freddo, ma rimane per vedere il finale: suo fratello maggiore è un esempio per lui e «certo che può vincere oggi, è un finale adatto». È un finale meno adatto alle caratteristiche di Marco Frigo, invece, ma il ventiduenne di Bassano del Grappa conosce quelle strade a memoria ed è sostenuto dal fan club più rumoroso del Veneto: «Sulla salita del Combai si sono appostati con motoseghe, trombe, con tutto. Questa è veramente una bella gara, con tanto pubblico» continua Frigo. «Nei passaggi verso Riva di San Vigilio ho cercato di accelerare perché passare di lì e andare piano non è neanche godurioso».
Tra le vigne che circondano la chiesa di San Vigilio qualcuno prepara da mangiare, altri condividono i cellulari per la visione del simultaneo Giro delle Fiandre. Con la voce rotta dalla fatica, spingendo sui pedali in punta di sella, combattendo per non farsi passare dal fine corsa, Giosuè Crescioli chiede al fotografo di scattargli una foto con le vigne sullo sfondo. Col cielo nero, col cuore a tre battiti al secondo, la bellezza di queste colline è l’unica cosa a cui aggrapparsi.
Quante cose fa una bicicletta?
«Negli Stati Uniti cambia la dimensione del viaggio. Te ne accorgi da come le persone ti accolgono e da come, senza alcuna malinconia, senza il desiderio di trattenere, di ritardare la partenza, ti lasciano andare. Non perché non vogliano restarti accanto, ma perché per loro la strada è un luogo dove tutto scorre, dove ci si incontra, si condivide un tratto di viaggio e poi ci si lascia, separandosi, per ritrovarsi più tardi o forse mai. Non importa». A raccontarcelo è Pietro Franzese che, da qualche giorno, è tornato a casa, dopo aver percorso in bicicletta, con Emiliano Fava, ben 6000 chilometri, proprio in America, da San Francisco (Golden Gate) a Miami (Key West) e la bicicletta che, giorno dopo giorno, in due mesi, dall'inverno alla primavera, diventa casa, in un paese di viandanti, «perché c'è tutto quel serve, perché, anche se fai fatica, sai che su quelle due ruote hai tutto il necessario per farla, puoi non temere nulla, e, in più, è una casa che ha radici, le tue radici, ma, allo stesso tempo, ti porta e la porti dove vuoi andare, assieme a quelle radici».
Poi c'è la casa vera, quella in cui, quando si torna, qualcuno prepara le lasagne per festeggiare, cambiano i ritmi, e, fuori dalla finestra, c'è quello che hai sempre visto, quello da cui ogni tanto fuggi, che, però, resta ancora un sospiro di sollievo: «Hai bisogno di tornare, soprattutto dopo un viaggio lungo, dopo aver raggiunto un traguardo importante. Hai bisogno di tornare e di vedere il modo in cui le persone a cui vuoi bene ti guardano, sentire quello che ti dicono, capire quello che pensano del tuo viaggio, se ne sono fieri». E vedere anche tutto il tempo che serve per quelle lasagne, un tempo che, dall'altra parte del mondo, correva così veloce, mentre il progetto di Pietro ed Emiliano si costruiva.
Un progetto che si chiama "2 Italians Across the US" e che vuole sensibilizzare sull'impatto ambientale della plastica monouso, anche attraverso un documentario con le immagini acquisite. Toccare con mano, questa è l'idea, e, come sempre, quando si tocca con mano, si eliminano pregiudizi, preconcetti, che, magari, si hanno. «Sono rimasto positivamente colpito dal fatto che non ci siano quasi mai mozziconi di sigaretta per strada: il primo lo abbiamo trovato in Arizona e l'abbiamo notato proprio perché sembrava strano vederne uno. In Italia, purtroppo, si trovano ovunque». Non solo: in California, ad esempio, c'è molta attenzione al tema della plastica, ma, in generale, i rifiuti a bordo strada non sono così tanti come si potrebbe pensare. Il problema più grosso viene dai contenitori usa e getta dei fast food e dal packaging in linea generale. Anche qui, però, si stanno adottando soluzioni: dalle multe severe per chi viene sorpreso a gettare rifiuti per strada, a progetti come "Adopt a road".
«È come se, davvero, adottassi una strada. Lo fanno le associazioni e, poi, se ne prendono cura. Si tratta di una forma di responsabilizzazione che lega la strada alle persone». Come le legano poche parole: "Be safe", ad ogni saluto, fra le altre. Oppure gli inviti: quando in California, in "The Middle of Nowhere", nome ben suggestivo per un luogo, dei signori offrono a Emiliano e Pietro del pollo e un tratto di viaggio nel loro RV. Si chiamano così e sono delle vere e proprie case, di solito connesse ad un Pick-Up, con cui si attraversa il paese.
Ma la bicicletta ha un privilegio, in ogni attraversamento: qualcosa connesso al supplemento di tempo che serve per percorrere lo spazio. Così Franzese ha notato quanto il territorio degli Stati Uniti sia uguale per chilometri e chilometri, magari anche trecento o quattrocento chilometri: «In macchina non te ne accorgi perché corre veloce accanto al finestrino, in bicicletta invece lo vedi e ti chiedi quando cambierà. Pensavo all'Italia, al fatto che, da noi, bastano cinque chilometri per vedere cambiare tutto». Ed è proprio il paesaggio sempre uguale a suscitare dubbi in Pietro Franzese, mentre pedala pensando al documentario che dovrà costruire e i dubbi, quando si è assieme a un'altra persona, sono materia delicata da trattare.
«Temevo ci ritrovassimo con immagini sempre simili, mi sono anche chiesto se avesse senso continuare. Non ho detto niente, ho solo continuato a far giare i pedali». Talvolta, Pietro ed Emiliano pedalano affiancati, ma non serve parlare, anzi, talvolta è meglio non farlo: si sa quello che si sta provando e viaggiare assieme vuole anche dire lasciare spazio ai pensieri dell'altro, che devono potersi formare e sviluppare, senza essere soffocati da troppe parole. Qualche volta si riesce a ridere delle sfortune e dei problemi che in viaggio accadono. Si tratta dell'importanza della libertà in viaggio: «Abbiamo provato a separarci per qualche giorno, uno da una parte e uno dall'altra. Certe volte, anche solo uno avanti qualche chilometro rispetto all'altro. Penso che, anche grazie a questa libertà che ci siamo imposti, non abbiamo mai litigato, pur condividendo tutto».
Nel frattempo, la stagione avanza: avere prima mezz'ora, poi un'ora, poi, grazie al cambio dell'ora, due ore in più alla sera, sembra incredibile. Aumentano i messaggi e le telefonate a casa. Ci sono sempre tante macchine sulle strade che percorrono, ma rispettose, attente, e giorno dopo giorno, appare più chiara una sorta di filosofia americana: «Non si sottraggono a ciò che è necessario. Si tratta di un parere personale, però l'ho notato: se sanno che, per risolvere un determinato problema, devono affrontare un sacrificio, anche chiesto dalle autorità, lo affrontano. È uno dei tanti aspetti che non conoscevo e ho notato».
Ora che quella bicicletta non deve più percorrere dai 140 ai 160 chilometri al giorno, sembra ancora più evidente la sua importanza: «Magari non sembra o, forse, pare scontato, ma con la bicicletta si può attraversare un continente, perché questo abbiamo fatto. Capisci cosa può fare una bicicletta? È un qualcosa che, solo a dirlo, mi fa felice».
Deda Elementi per idmatch
Deda Elementi e idmatch rafforzano la loro collaborazione.
L'occasione è stata la fiera internazionale Taipei Cycle Show, dove Deda Elementi e idmatch hanno segnato un nuovo step della loro collaborazione, svelando al pubblico una serie di componenti per bike fitting realizzati da Deda con speciali grafiche custom, appositamente sviluppati per la Smart Bike di idmatch e dedicati al simulatore automatizzato Smart Bike.
"Questa collaborazione rafforza ancora di più la presenza del nostro brand all'interno dei negozi di alta gamma che hanno scelto idmatch come partner per la valutazione biomeccanica del ciclista. Le diverse geometrie offerte nella nostra gamma rendono i componenti Deda ideali per il lavoro del bike fitter. Come azienda, infine, crediamo fortemente nella collaborazione tra marchi italiani del settore, un plus riconosciuto a livello mondiale", ha detto Fabio Guerini, responsabile marketing di Deda Elementi.
Idmatch infatti è l'unico sistema di bike fitting completo che, attraverso un'analisi scientifica dei dati, aiuta il ciclista a individuare la miglior configurazione e posizionamento in bici per migliorare la sensazione di comfort e benessere, oltre alla performance.
"Da molto tempo utilizziamo prodotti Deda nei nostri laboratori di bike fitting. L'ufficializzazione della collaborazione con un brand di riferimento per la componentistica non può che renderci orgogliosi e ci dà la consapevolezza di poter offrire ai nostri ciclisti informazioni di una ulteriore migliore qualità rispetto alla scelta dei corretti accessori per le loro bici" ha riferito Matteo Paganelli, idmatch di Brand Manager.
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Il sogno è nelle Fiandre
Ilaria "Yaya" Sanguineti ha un rapporto complicato con i sogni. Dice che a sognare è bravissima, precisa che custodisce sogni bellissimi, ma, allo stesso tempo, racconta di una sorta di pudore nei sogni: «Qualche volta penso di aver paura di sognare fino in fondo, perché ho paura di restare delusa. È brutto accorgersi che, in certi momenti, ti sforzi di rimpicciolire ciò che desideri per questo motivo, ma so che mi accade». Il sogno principale, quello di essere una ciclista, è nato per caso il giorno in cui da bambina ha visto tornare a casa suo fratello con una divisa da ciclista piena di colori. Lei voleva una divisa simile più che una bicicletta, fu suo padre a dirle: «Se vuoi la maglia, devi correre in bicicletta». Provocazione accettata, prima gara vinta e una crescita costante e graduale.
«A diciotto anni, magari, riesci a guadagnare duecento euro al mese e ti sembrano tantissimi, sebbene cosa puoi fare con quella cifra? Adesso, se sei brava, a quell'età puoi già avere uno stipendio che ti permetta di vivere da sola, dieci anni fa era diverso. Però, quando parlavo con gli amici, dicevo che avevo trovato un lavoro, che lavoravo e avevo uno stipendio, mi sembrava di essere cresciuta». Non è facile, prosegue Yaya, perché per la maggior parte delle persone il ciclismo non è un mestiere, non riescono a concepirlo come tale e per farlo capire è spesso necessario aggiungere spiegazioni: «La frase più comune è: "Ah sì, vai a divertirti”. No, è un lavoro, può anche divertire, ma resta un lavoro e certe mattine ripartire è proprio difficile». Ilaria Sanguineti per carattere è estroversa: la si vede spesso ridere e scherzare, così molti racchiudono in quelle risate il suo mondo. In realtà, c'è qualcosa che la fa spesso pensare: «Si tratta della consapevolezza in me stessa. Non sono molto capace di credere alle mie capacità, di riconoscermele. Probabilmente l'unica certezza che ho è che, quando sono l'ultimo vagone del treno, nelle volate, sono nel posto giusto. Però sono serviti anni per credere di "essere abbastanza" almeno in quel ruolo».
Dopo anni in Valcar, «una famiglia, in cui ho appreso che avrei potuto lanciare le volate», è tornata a rivestire quel ruolo in Trek. Il giorno in cui il suo procuratore le ha detto che Trek-Segafredo la cercava, ha ammesso candidamente: «Vado anche a portare le borracce, se mi vogliono». Ultima donna, come dice lei, della stessa velocista: Elisa Balsamo. Pensare che, quando avvenne il passaggio di Balsamo in Trek, fu proprio Elisa a dirle in una chiacchierata: «Chissà, magari, un giorno, ci ritroveremo». Si sono ritrovate, loro che hanno molti ricordi assieme e Sanguineti a questo tiene molto: a costruire ricordi condivisi anche fuori dal ciclismo. Per l'addio a Valcar, ad esempio, è partita per Santo Domingo con Chiara Consonni, Vittoria Guazzini, Dalia Muccioli ed Eleonora Gasparrini: «Credo sia uno dei ricordi più belli, perché quando pensi a quelle persone sai che non hanno fatto parte solo del tuo lavoro, ma hanno creduto in te anche per i giorni di vacanza».
Con Elisa Balsamo, poi, il rapporto è particolare: «Dopo la prima vittoria alla Volta a la Comunitat Valenciana, in camera, scherzando, mi ha detto: "Mi tratti sempre male". Quel giorno, in effetti, avevo davvero perso la pazienza, bonariamente ma l'avevo persa. Non mancavano ancora dieci chilometri al traguardo, quando ha iniziato a dirmi che eravamo troppo indietro. Me lo ha ripetuto qualche volta, fino a che: “Elisa, stai tranquilla e pensa solo a seguirmi". Beh, mi ha seguito e, devo dire la verità, quando l'ho vista partire come sa fare lei, ho avuto la certezza che avrebbe vinto. Lei non lo sapeva, io sì». Tra l'altro, a poco dal traguardo, Balsamo aveva affiancato Sanguineti e le aveva detto di stare male: «Bisogna preoccuparsi quando non lo dice. Se lo dice, è bene aspettarsi grandi cose». Un ruolo delicato quello di Sanguineti perché ha anche a che vedere con il saper instillare fiducia.
«Magari pensiamo di passare a sinistra, sul rettilineo d'arrivo. All'ultimo momento, può capitare che io scelga di andare a destra. Se è così, faccio un cenno della testa verso destra e Balsamo deve seguirmi. Non è facile e, se non hai la certezza che la ruota davanti alla tua ti sta portando nella posizione giusta, puoi tentennare». Di certo c'è che l'ultima donna deve pensare per due, sia in termini di velocità che di spazi, e ogni scelta presa deve essere quella migliore per due cicliste, non per una. Poi ci sono i dubbi: tranquillizzare la propria velocista, ma anche gestire i propri timori.
«La volata, dall'interno, non fa paura, se la guardi da fuori, invece, sì. Vero che non sono abituata a credere in me, ma una certa autostima serve, anche solo per pensare di fare uno sprint. Di fatto, io faccio uno sprint potente, ma anticipato di circa trecento metri: il mio traguardo è lì. Ci sono giorni in cui le gambe non vanno, allora bisogna essere sinceri e parlarne. Si può lavorare prima, ci si può rendere utili nelle fasi preparatorie alla volata, ma è necessario dirlo. La tua velocista deve saperlo». Ilaria Sanguineti si muove nel gruppo e Elisa Balsamo la segue: se perde la ruota, se ha un qualunque problema, grida solo "Yaya" e entrambe sanno cosa fare. Sanguineti è "meno pignola" di Balsamo, questo fa bene ad entrambe, tuttavia si definisce "troppo testarda": «La testardaggine va bene, io, però, sono esagerata».
Fra le certezze, il fatto che lavorare per Elisa Balsamo la rende felice e che aiutare a vincere le restituisce qualcosa che altrove non trova: «Per la prima vittoria di Elisa Balsamo in Trek Segafredo, in questa stagione, ho pianto io, non lei. E se ci ripenso ancora mi sembra irreale: ritrovarsi e confezionare subito qualcosa di così perfetto».
Con le domande, continuiamo a cercare quei sogni grandi e rimpiccioliti, quelli che non dice per paura di non esserne all'altezza, allora ci dice che vorrebbe partecipare all'Olimpiade, poi, però, cambia subito discorso, quasi per non pensarci troppo. «Tornando alla consapevolezza, credo che un passo importante sia stata la vittoria dell'anno scorso alla Dwars door het Hageland. Non tanto per la vittoria in quanto tale, quanto per quella frase detta dal mio direttore sportivo nella riunione del mattino: "Oggi facciamo la corsa per te, oggi vinci tu”. Essere riuscita a sostenere quella responsabilità ed essere riuscita ad ottenere il successo mi ha fatto bene».
Si torna un'ultima volta nei paraggi dei sogni e questa volta le parole raccontano tutto: «Vorrei portare Elisa Balsamo a vincere il Fiandre». Un gran bel sogno, non c'è che dire, un sogno che noi stiamo già sognando: al vento, a tutta verso il traguardo.