L'altra Ronde nella più grande festa fiamminga

L'altra Ronde è quella di quattro ragazzi che si sono fatti 1.700 km in auto dall'Abruzzo. Li incontriamo ieri mattina nel bar del Museo delle Fiandre a Oudenaarde, stanno brindando, sono arrivati da poco e parlano del viaggio («Siamo partiti con il sole e arrivati con la neve, e sì che noi di neve in Abruzzo ne abbiamo quanta ne vogliamo») e della corsa che faranno il giorno dopo, ovvero oggi - per la verità a quest'ora saranno già partiti - la Ronde van Vlaanderen Cyclo. La competizione dedicata agli amatori.

Uno di loro ci racconta di averla già disputata nove anni fa, emozione indescrivibile ci dice, e afferma di essere così malato di ciclismo (ce lo dice in quanto cosciente di essere in buona compagnia) da aver organizzato il viaggio di nozze in Spagna in modo da farlo combaciare con il Mondiale di ciclismo a Ponferrada. Era il 2013.

Mentre una birra gli scioglie decisamente la lingua, ci racconta anche di essere tifoso sfegatato di Sagan e di non amare particolarmente - alleggeriamo così il racconto - Wout van Aert.
L'altra Ronde è quella di due tifosi danesi che amano l'Italia e girano con una borsa della spesa del Famila «We love Italy!» ci urlano. L'altra Ronde sono la quantità a dismisura di gente dalla Spagna - rigorosamente con bici Kuota - e dall'Italia. A volte quando li sentiamo parlare li confondiamo scambiando spagnoli per veneti e viceversa. Ci sono francesi in camper e tedeschi in golf. L'altra Ronde è un signore irlandese, Ash, che ci dà consigli su dove parcheggiare: «Vengo qui da nove anni e ormai questo posto lo conosco come fosse casa mia».

L'altra Ronde è un gruppo di ragazzi che arriva da Trento, uno di loro è orgogliosissimo della sua maglia Mapei «E venendo qui, l'abbiamo riportata a casa!» L'altra Ronde è un signore tedesco che ci chiede indicazioni su dove trovare il punto delle iscrizioni e dopo mezz'ora lo ritroviamo ancora a girare perché si è perso.
L'altra Ronde è quella di due coppie olandesi, decisamente in là con gli anni che ci raccontano fieri di aver scelto il percorso più lungo: partiranno all'alba da Anversa e percorreranno 257 km. L'altra Ronde è quella di un altro ragazzo, del Lago d'Iseo, che è arrivato qui con pullman organizzato, ma oggi sarà l'unico della sua compagnia al via della traccia più lunga: «Infatti tra un po' prendo, vado su da solo a dormire ad Anversa e gli altri li rincontrerò di nuovo qui ad Oudenaarde».

L'altra Ronde sono due che discutono su quanto l'organizzazione dell'evento può aver tirato su attraverso la quota delle iscrizioni, oppure gli australiani che stamattina han fatto razzia di banane a colazione in hotel. Sarà una giornata lunga, come lungo è stato il viaggio dall'altra parte del mondo.
L'altra Ronde è ognuno dei 16.000 iscritti alla Cyclo che, nonostante la neve caduta, il ghiaccio formato nella notte che renderà ancora più infame la forma da testa ossuta delle pietre dei muri fiamminghi, non vede l'ora di salire in bicicletta. Sanno che, comunque andrà, quello che hanno fatto non lo dimenticheranno mai. Sarà una meravigliosa fatica, sarà sentirsi parte anche loro di tutto questo.

L'altra Ronde è quella che si mescola alla Ronde dei professionisti. Di nuovo, ognuno dei 16.000 in gara oggi, domani sarà su queste strade ad assistere allo spettacolo che daranno i corridori. Dopo aver rappresentato loro lo spirito delle corse dei muri e aver acceso questi giorni di vigilia della più grande festa fiamminga.


Fiandre Bianche

Non bastavano le pietre, i muri, la competizione, il chilometraggio. Non bastava l'attesa: terribile compagna. Non bastava l'idea di una corsa dura, tremenda, altrimenti detta sporca, per fiamminghi. Non bastava il cielo nero o il fatto di correre al nord.

Stamattina i muri delle Fiandre si sono presentati imbiancati. Abbiamo il massimo rispetto per i corridori e quindi ci fa piacere che sia solo l'antivigilia e che domenica, in teoria, ma qui siamo in Belgio e con il meteo non si scherza, dovrebbe fare "solo" freddo. Allo stesso tempo il binomio Ronde-neve ha qualcosa di incredibilmente magico, poetico, epico. Qualcosa che solo il ciclismo ci sa dare.

A Oudenaarde, durante il giorno, le facce della gente erano arrossate dalle forti raffiche di vento. Dal cielo veniva giù ormai appena qualche fiocco. Tutto si muoveva fuori tempo, atmosfera gotica, spettrale, da nord Europa. Si stava bene solo con una birra in mano dentro a un locale. Fuori da quei bar, però, si sono visti migliaia di ciclisti che a turno andavano a ritirare il pacco gara per la corsa amatoriale che si terrà domani. Mentre nel frattempo sui muri della campagna intorno, qualche professionista effettuava la ricognizione.
Si è montato il traguardo e il palco delle premiazioni, e a destra la Schelda pareva ferma, immobile, di ghiaccio. Mentre le colline fiamminghe, intorno, restavano imbiancate.

Su e giù per i muri con in testa Wout van Aert

Sarà come sarà. Sarà comunque una festa, anzi la Festa, ma ugualmente per molti belgi l'antivigilia della Ronde assume per alcuni momenti i tratti dello psicodramma.
Salivo - rigorosamente a piedi - l'Oude Kwaremont, immaginandomi il bordello che ci sarà domenica dietro la transenne e il fracasso che faranno sulle pietre i corridori, quando arriva la notizia: "Wout van Aert ammalato, forse non correrà domenica".
C'è un ragazzo che mi sta facendo compagnia lungo uno dei muri decisivi della corsa e resta senza parole quando glielo dico. Una volta montato in auto per percorrere quello che sarà esattamente il finale di gara dall'Oude Kwaremont fino a Oudenaarde - con un passaggio obbligato anche sul Taaienberg - la radio parla di van Aert.
Entro in un bar e sento dire (o meglio: capisco solamente) "Wout van Aert, Wout van Aert, Wout van Aert".
A quel punto chiedo delucidazioni: ma di cosa staranno mai parlando! Fossi io ad avere le allucinazioni e capendo da quei discorsi solo qualcosa tipo "Wout van Aert". E invece è proprio così: non si fa che discutere di van Aert e della sua possibile assenza.
Decido così di chiudere il giro e tornare a godermi le strade che faranno i corridori domenica, nonostante il freddo - e mentre scrivo in questo momento, mattina di venerdì 1 aprile, nevica e c'è un forte vento.
Qui il clima cambia repentinamente, e in dieci minuti c'è la possibilità di apprezzare a pieno tutte le sfumature: ghiaccio, freddo, cielo grigio e poi di nuovo blu quando un forte vento decide di spazzare vie le nuvole.
Su internet si susseguono le "ultime notizie" con i commenti di esperti, direttori sportivi che seminano il panico sulla corsa e sulla tattica, giornalisti che parlano del dramma di una possibile assenza di van Aert.
C'è anche chi spera possa essere solo una sorta di pretattica, magari giusto un leggero raffreddore, e oggi proprio perché nevica, Wout, te ne puoi stare al caldo a ricaricare e ci vediamo domenica perché ci aspetta qualcosa di magico, una sfida che aspettiamo da almeno un anno, come qui aspettano ogni anno questa corsa.
Inutile sottolineare come anche io, anche noi apparteniamo alla categoria degli speranzosi. O sognatori oppure ingenui, fate voi.


Bellezze locali (o cose di poco conto)

Bellezze locali oppure cose di poco conto, dal titolo. Bellezze locali: viene da pensare alle bici ed è così. A Waregem, Fiandre Occidentali, appena suona la campanella, ragazzi e ragazze escono da scuola e sono già tutti in bici. Bici, il centro del nostro mondo che qui in Belgio diventa uno degli elementi portanti della quotidianità. Cose di poco conto: sempre loro, mezzi a pedali con le ruote (per non ripetere "bici, bici, bici", anche se, facendoci caso è così musicale) come quel bolide che veniva lavato con cura dietro al pullman della UAE. Con l'attenzione che di solito si riserva ad un neonato.

Bellezze locali: le patatine fritte. Guarda un po'. Belle unte che restano sul tavolo a quantità industriali anche quando il cliente se n'è andato. Qui friggerebbero anche la birra se non fosse qualcosa di più di una bellezza locale. Cose di poco conto: i muri, in pavé oppure senza. Comunque ti spaccano le gambe e ti mandano in acido i pensieri. Chilometri di ciclabili che accompagnano la strada statale che gira tra Waregem, Gent, Kortrijk e Oudenaarde, attraversando quei paesini che, per chi è cresciuto con le classiche del nord, hanno nomi usciti da una fiaba.
Viuzze che si infilano tra una principale e l'altra sporche del fango dei campi trasportato dai trattori. Mucche e pecore. Due corridori della Lotto e della Topsport Vlaanderen che si lanciano a tutta velocità - nei dintorni di Nokere - perché ha iniziato a piovere. Da come filano più che sembrare due in fuga, o in allenamento, sono due ragazzi che stanno tornando a casa al caldo.
Bellezze locali: la cortesia belga. Sempre un sorriso, un saluto, un modo per aiutarti tra inglese e olandese - sarà forse il cappellino da ciclista. Perché qui tutto è bici, tutto è ciclismo. E quella loro lingua dura ma dal suono avvolgente. Cose di poco conto: l'asfalto insidioso, la pioggerellina, il cielo grigio che pare immenso verso un orizzonte che da Kapelmuur - bellezza mondiale - spinge verso l'infinito. Il pavé a tratti dissestato a tratti no. Il bar aperto in cima con i tavolini che guardano verso il punto più alto e il barista che parla in spagnolo sostenendo di conoscere bene l'italiano. Il parcheggio riservato a "Miss Belgio".

Bellezze locali: quelle che oggi andranno in escandescenza sulle strade della Dwars door Vlaanderen. Arrivano da posti più lontani - Pogačar e Bastianelli per fare due nomi - o sono praticamente di casa: van der Poel e van Vleuten. Tanti altri, e tante altre a darsi battaglia nell'ultimo pasto prima della sacra domenica del Giro delle Fiandre. Motori a pieni giri. Quel giorno sarà letteralmente pieno di bellezze che si andranno ad aggiungere, ma non ci sarà più nulla di poco conto.


MiTo in fissa

A cosa si pensa quando si parla di Milano-Torino? Facile: la classica più antica del mondo... ma ora qualcosa di (completamente) diverso: la “Milano-Torino in fissa”, 145 km per una sfida cavalleresca, come la definisce uno dei suoi organizzatori, con bici a scatto fisso.
«"Milano-Torino in fissa" nasce nel 2008 ideata da quella che fu, credo, la prima crew in assoluto di bici a scatto fisso presente a Milano - ci racconta Riccardo Volpe, 46 anni, ingegnere e una passione smodata per le due ruote tanto che quando lo definisco come "folle per la bici" si fa una risata e ribatte: «Qualcuno diceva che quando non si è in bici si pensa alla bici. Questa è una definizione in cui mi ritrovo».

La prima "Milano-Torino in fissa" è del 2008: «L'idea è stata quella unire due grandi città con una forte connotazione ciclistica e all'inizio è pure una sorta di gioco di parole: fino al 2010, infatti, si partiva da via Torino a Milano per arrivare in via Milano a Torino. Poi dal 2011 al 2017 siamo riusciti a unire due simboli della storia del ciclismo: il velodromo Vigorelli di Milano e il motovelodromo Coppi di Torino. Si partiva e si arrivava fuori da questi due luoghi di culto. Il primo anno in 12 al via, veri pionieri».
Dopo le prime edizioni si decide quindi di dare risalto ai templi del ciclismo, luoghi per antonomasia delle bici a scatto fisso: i velodromi. «Dal 2012 al 2017 - ultima edizione disputata - si è partiti davanti al Vigorelli con arrivo davanti al Coppi. Questo ha contributo, in parte, a spingere le città a fare qualcosa: il Comitato Vigorelli ha fatto un lavoro eccezionale riportando la pista a essere tutelata per sempre ridando alla città di Milano e agli appassionati un luogo che fu di assoluto culto. A Torino l'associazione Pezzi di Motovelodromo ha aiutato a portare avanti un progetto che sfocerà nell'inaugurazione ufficiale del 10 aprile. Il Comune ha istituito un bando per salvaguardare il ciclismo all'interno del Motovelodromo, luogo che con le sue paraboliche da fare a tutta velocità in stile autodromo non potrà essere mai omologato ufficialmente dall'UCI, è vero, ma che diverrà una risorsa importante per chi gira in bici, oltre che situata in un punto strategico». Tutt'intorno, infatti, specifica Riccardo, circa 30 km di ciclabile in sterrato, oltre alle colline: «E di fatto sei praticamente in centro».
La spinta che porta all'ideazione, dunque, è tanto semplice quanto il suo svolgimento: «La mattina del 10 aprile alle 8 si partirà dal Vigorelli. Si attraverseranno otto città della Bassa padana per arrivare a Torino». Semplice, sì, tranne per un piccolo fattore: «Ovviamente non si smetterà mai di pedalare». D'altra parte è questo che sta alla base delle scatto fisso. « Sarà un po' come una competizione gravel dove hai una traccia da seguire. Ma ciò che conta nello spirito di questa manifestazione sarà la possibilità di godersi il viaggio». Qualche ora in libertà su bici a scatto fisso.
Arrivo al motovelodromo, quindi, che tra le tante cose significa un po' un richiamo a una grande classica: «L'arrivo sarà una sorta di piccola Roubaix: da Corso Casale tagli dentro, fai il sottopasso carrabile e arrivi direttamente in pista dove sarai chiamato a effettuare un giro e mezzo prima di tagliare il traguardo». Suggestivo.
Tutto si mescola, resta viva pure la connotazione in stile alley cat, («Alla partenza daremo una card con il logo della manifestazione e il numero scritto dietro: ma questo servirà solo per la birra a fine corsa») mescolata a quella della critical mass: «Fino ad Abbiategrasso - una sorta di km 0 – uscendo dalla città si pedalerà tutti assieme». Con un tocco di ciclismo agonistico: «L'ultimo paese che attraverseremo, Settimo Torinese, sarà lo spartiacque: è un posto che ha un'urbanistica del tutto incasinata. Sarà un po' come il Poggio per la Sanremo. Ogni volta che ci siamo passati io ho fatto una strada diversa. Ho visto ragazzi con una gran gamba saltare in aria di testa dopo aver fatto chilometri su chilometri in più ed essere arrivati alla fine svariati minuti dopo altri partecipanti».
Riccardo specifica come ci sarà una quota d'iscrizione, ma nessun premio: «Vorremmo devolvere il ricavato al fondo di emergenza dei corrieri in bici» e racconta in che modo lui parteciperà: «Con un tandem da pista insieme a un caro amico, un ragazzo non vedente che fece i Giochi paralimpici ad Atlanta '96 nel judo».
E poi, a chiudere, cita una frase simbolo che racchiude lo spirito punk alla base di tutto, lui che definisce la bici a scatto fisso qualcosa che, con il suo minimalismo, resta quanto di più affascinante sa dare il mondo delle due ruote a pedali. "Gamba tonica e rasata, bici in ordine e tutto il necessario per l'autoriparazione in strada. Pillola di cianuro in caso di fallimento." Uno dei consigli, ci dice Riccardo, che arriva dal “Reverendo Marcello” dello storico negozio Ciclistica Milano, ideatore e patron della competizione, pardon della sfida cavalleresca.
La bici, ancora una volta, che sia gioco o competizione, si dimostra il mezzo ideale per portare avanti un pensiero, un punto di vista, attraverso la fantasia, il divertimento, e grazie alla libertà di un gesto tanto semplice quanto liberatorio: pedalare. Che sia a scatto fisso o a ruota libera non importa.


Semplicemente Biniam Girmay

Se ci pensate attentamente, ciò che distingue la normalità dal talento è la semplicità. La semplicità nel fare tutto così bene. La semplicità nel correre in gruppo, nel muoversi e nell'imparare a limare, nonostante queste siano le prime volte che ti trovi a correre al Nord.
Il far sembrare normale elementi chiave che ad altri non riescono così facili, appunto, così bene. E può essere anche che il nodo sia in quel suo modo di essere che poi è una delle prime parole che aveva imparato a dire in francese: "Tranquillo", che presto è diventata una delle sue parole preferite, uno stato dell'anima che lo distingue.
E bisogna essere tranquilli che poi non è così diverso dall'essere semplici. Queste sono terre dove ci vogliono anni per imparare: i muri, le stradine, quei tranelli che in una corsa del Nord spuntano ovunque, sotto forma di strappi in pavé, di tratti accidentati, fuorigiri da gestire, e gli spartitraffico, e lo scegliere la ruota giusta, e le folate di vento che ti travolgono di lato o ti possono frenare quando ti arrivano in faccia, e il sapere ascoltare i consigli dei compagni e della propria ammiraglia.
Ciò che distingue Biniam Ghirmay è proprio la caratteristica di chi, se non è un campione, poco ci manca. Se per un attimo pensiamo non sia un fuoriclasse, beh, allora forse stiamo guardando un altro sport.
La semplicità (o la tranquillità, apparente almeno) nello scollinare il Kemmelberg sempre attento, davanti, senza sprecare un briciolo in più di energia, mentre magari Wout van Aert mette al servizio della gente lo spettacolo, sgasando a più non posso; mentre Pedersen invece le energie le dilapida. Oppure c'è Démare che fa paura a vederlo passare i muri nelle primissime posizione.
L'attenzione e il colpo d'occhio: come quando dopo l'ultimo passaggio sul Kemmelberg, dopo una serie di scatti e contro scatti, Biniam Girmay si infila dentro l'attacco decisivo in un gruppetto che comprende Stuyven, Laporte e Van Gestel: fortuna o talento, o del saper scegliere il momento giusto.
L'idea, quella dei campioni navigati, dei furbi dove per furbi si intende talento al servizio dello sport. L'idea di iniziare lo sprint in quarta ruota, partendo prima degli altri nonostante il vento che colpisce: «Perché ho anticipato? Non lo so, ero fiducioso... woah, ancora non ci credo!»
Anticipare, perché si sa che quello è un modo per sopravvivere e dove sopravvivere significa vincere la Gent-Wevelgem a 22 anni, e fare la storia, perché di questo oggi parliamo quando troviamo Biniam Girmay davanti a tutti sulla linea del traguardo.
La semplicità nel rispondere alle domande, la tranquillità dietro un sorriso che non riesce a trattenere, lui che vorrebbe vincere la Roubaix e il Tour, che pare un pensiero tanto banale detto da un corridore, quanto tutt'altro che fuori luogo.
Quella mezza risata a fine gara, alla domanda: «E ora cambio di programma? Tra una settimana c'è il Fiandre, ti vedremo anche lì?».
«Non penso. Sono in giro da tre mesi. Mi manca mia moglie e le mie figlie e ora voglio solamente tornare a casa». E poi ti aspettiamo al Giro, Bini, per continuare questo racconto.


Di forza e talento

Due scenari completamente differenti, un esito simile, più o meno: la vittoria dei due personaggi più attesi. Due scenari differenti, due modi differenti, esiti simili: la vittoria della forza, intesa come singola e di squadra. La vittoria del talento. Siccome non guasta mai lo rimarchiamo.
Due mondi ciclistici differenti: da una parte la Coppi & Bartali, la fuga di giornata, lo scatto per riprendere la fuga di giornata, poi far parte di quella fuga, essere ripreso, avere lo stesso la forza di sprintare e di vincere: primo successo stagionale e una bella mortazza come premio. E no, non può mai ottenere la ribalta in maniera tradizionale uno come Mathieu van der Poel.
Dall'altre parte, o meglio più in su, ad Harelbeke, l' E3 o quello che volete voi, con quel nome che cambia continuamente. Una corsa che è un veloce ripasso in chiave Ronde.
Si dà il via a quelle due settimane di gare che sono il momento più atteso per una buona fetta di appassionati. Le classiche del Nord. Le corse delle pietre e dei muri. Di quelle strade che si allargano e poi si restringono, curve e controcurve, di quei nomi duri ma che ormai abbiamo imparato a memoria. Di quelle curve sbagliate dove a volte finisci lungo nei campi e c'è sempre un tifoso con una bandiera fiamminga che ti fa una foto o prova a darti una mano a rialzarti. Di gruppetti con corridori sparpagliati ovunque come se fosse un giro la domenica nei campi dietro casa.

Col gruppo a tutta che rilancia e se sei dietro è come una sberla all'improvviso, poi quegli strappetti e alcuni persino senza pavé, che sembra quasi una bestemmia. Poi quando mancano ottanta chilometri all'arrivo - circa un paio di ore - l'attacco (di van Aert) , sul Taaienberg, non un posto normale, ma iconico per i fiamminghi, fra tutti i "bergen", il "berg" di Boonen.
E allora c'è chi finge e chi fa sul serio: si studiano volti e gambe, sensazioni e azioni. Si dice: "questo va su facile" (Girmay), mentre "quello va su elegante che pare non far fatica" (van Baarle). "Quello fa un po' di scena" (Mohorič), sembra al limite, sembra si stia staccando. Poi resta lì, dove lì, però, non è la ruota di van Aert, né quella di Laporte.
La forza e il talento: c'è il Patenberg con van Aert che accelera e stacca tutti tranne Laporte, fedele gemello di questo inizio di stagione. C'è la parata fino all'arrivo che non piace a tutti, ma tant'è. Oggi da Montecatini fin su nelle Fiandre hanno vinto la forza e il talento. Tanto basta.


Compagni di camera

Francesco Gavazzi e Lorenzo Fortunato possono parlare del significato del silenzio. Lo hanno imparato essendo compagni di camera e sono certi che il loro rapporto sia fatto anche in buona parte del silenzio. Entrambi spiegano che il compagno di camera è fondamentale perché, lontani da casa, è la persona con cui condividi tutto, dentro e fuori dalla gara. Non è, però, scontato trovarsi bene. «Può capitare di sentirsi a disagio anche solo a vedere la lista delle camere- dice Gavazzi- ed è il peggio perché non ti senti libero nemmeno nelle ore del rilassamento e questo porta stress». Con Fortunato non è capitato e Lorenzo sa il motivo: «Non abbiamo paura di stare in silenzio e questi momenti in cui non si parla, in camera, non tolgono nulla. Questo silenzio lascia tranquillità. Lui legge, io guardo un film. Possiamo parlare, ma non siamo obbligati a farlo. Non ci giudichiamo, se non lo facciamo».
In realtà Fortunato e Gavazzi parlano molto, anche fuori dalle gare e le cose che sanno l'uno dell'altro derivano proprio da questo tempo parallelo. Francesco Gavazzi racconta una sua telefonata con Fortunato questo inverno: «Mi ha parlato di tantissimi impegni e della difficoltà di incastrarli tutti. Credo quello sia stato il giorno di uno dei consigli più importanti: imparare a dire no». Da quella vittoria allo Zoncolan, il mondo attorno a Fortunato è cambiato e, per Gavazzi, Lorenzo non è ancora abituato a questa concezione.
Amici? Sì, anche amici. «La squadra è comunque un ambiente di lavoro- precisa Gavazzi- e anche il compagno che ti aiuta sta pensando al proprio contratto, al rinnovo. Se c'è amicizia è più semplice, perché non hai timore nell'affidarti e anche per l'altro è più facile fare fatica per te». Una fatica che, aggiunge Fortunato, si fa comunque perché, dove non arriva il rapporto, arriva la professionalità: «Da un lato, l'amicizia non può e non deve fare sconti all'impegno. Dall'altro lato, anche chi non diventa tuo amico, deve mettere il massimo per te e state certi che, se una squadra è una squadra, succede senza alcun dubbio. Non esiste alternativa».
Fortunato può parlare dell'autorità di Gavazzi, della fiducia che è cresciuta come ha visto che le sue indicazioni si verificano prontamente.
«Una volta, Gavazzi si arrabbiò per una mia distrazione in corsa, perché non ero davanti, e, sono sincero, subito pensai che fosse esagerato. Poco dopo, nel luogo in cui mi trovavo ci fu una caduta, se non mi avesse rimproverato, sarei caduto anche io». Già, ma come prende questi rimproveri Fortunato? «All'inizio, resta lì, ascolta e non dice nulla. Magari la sera o la mattina dopo arriva e ti dice: “Avevi ragione, Gava”. Vuol dire che riflette su quello che gli dici, che ci pensa, ci tiene, che non se lo fa scivolare addosso».
L'ultima volta alla Tirreno-Adriatico, nella prima tappa vinta da Pogačar. Gavazzi spiega che, ogni tanto, Fortunato si perde in gruppo: «Quel giorno lo portai davanti due volte e due volte finì indietro. Glielo dissi: "Se lima Pogačar, perché non limi tu?". Io sono brusco su queste cose. Ci ha pensato e da ragazzo intelligente qual è ne ha fatto tesoro per le tappe dopo».
Dalle cose più serie, alle più divertenti. Gavazzi si sveglia molto presto al mattino e magari scende a fare colazione mentre Fortunato è ancora a letto, ma Fortunato si addormenta prestissimo la sera, «appena tocco il letto» dice lui. E Gavazzi precisa: «È illegale. A venticinque anni non si può dormire alle dieci e mezza di sera».
Di sicuro, una cosa protegge Fortunato dalla pressione o dagli errori che si possono fare quando si sale di livello ancora in giovane età. «Ha una leggerezza buona che gli permette di lasciare da parte in fretta gli errori o le delusioni e guardare avanti. Difficilmente lo vedi arrabbiato. È una caratteristica che deve preservare, è la sua forza». Nel mentre Fortunato scherza: «Tanto Gavazzi continua a dire che vuole smettere, ma per altri due anni lo tengo in gruppo. Vedrai».
E Gavazzi risponde a tono: «Ma io gli dico sempre di non preoccuparsi per me. Continuerò a scrivergli e usciremo ancora a cena con le nostre compagne, per il resto, però, dovrà arrangiarsi da solo». Poi il ragionamento torna a farsi serio e le parole aumentano di peso: «Non gli auguro vittorie, perché, se continuerà così, vincerà molto altro di sicuro. Gli auguro di continuare a godersi il ciclismo come sta facendo adesso. Io, forse, non l'ho sempre fatto. In questi ultimi anni lo sto vivendo davvero con piacevolezza, avendo lasciato da parte il dover dimostrare. Lorenzo vive bene questo aspetto pur essendo molto giovane. Spero sarà sempre così, perché fare ciò che facciamo è un'opportunità rara e bisogna godersela».


La Sanremo ci racconta l'adrenalina

Sedetevi tifosi, appassionati, suiveur, insomma, chiunque abbia assistito alla Milano-Sanremo di oggi, che proviamo a raccontare l'adrenalina. Sedetevi perché ne avete bisogno anche voi dopo quello che si è visto dalla Cipressa in poi.

Quasi 300 km con la fuga di giornata con Tonelli e Rivi, gli ultimi superstiti che meritano una menzione per tutti gli altri, che pareva non volessero farsi più riprendere: d'altronde è il destino di chi scappa.
Quasi 300 km ma ne bastano poco più di una ventina per mettere in pari ogni giudizio. Per trasformare gli sbadigli in cuori che battono all'impazzata. Per far pendere l'idea generale verso la più semplice delle sentenze: ma che bella Milano-Sanremo abbiamo visto?

Il mare che attende il gruppo a Sanremo è sul nervoso andante, oggi. Le tonalità spingono decise verso il grigio, i saggi di qui dicono sia così perché il mare lavora continuamente con le onde, su e giù, dentro e fuori; si consuma, riflettendo la luce soffusa di un sole pallido che riempie l'aria di bianco panna. Si consuma, come le gambe dei corridori in una corsa che pare facile, ma che ti cuoce.

«È una corsa così lunga che abbiamo avuto tempo di scherzare in gruppo e a un certo punto ho detto: se mi seguite in discesa lo fate a vostro rischio e pericolo», racconterà a fine corsa il vincitore.

Il gruppo, quando scende dal Turchino, vede il mare ma non si fa domande, sa che manca ancora tanto prima di conoscere il destino. Si sente quel vento, però, che spinge forte da dietro, di fianco da ovunque: i marinai dicono che sulle navi non bisognerebbe mai fischiare perché così risvegli Eolo che rischierebbe di farti naufragare.

Credono che, fischiando, si possa evocare una tempesta, e oggi, il mare di Matej Mohorič è in burrasca. Una Cipressa fatta dal gruppo a testa bassa come si è vista di rado e poi un Poggio (ma quanto ci siamo divertiti sul Poggio?) di scatti, rallentamenti, di mal di gambe, dove fischiavano al vento i ciuffi di Pogačar, dove van der Poel inseguiva tutti, dove Turgis c'era, ma magari non lo notavi, dove a un certo punto Kragh Andersen pareva andarsene via, dove van Aert, invece, pensava di poter controllare meglio, ma le gambe, spesso, chi va in bici lo sa, non mantengono le promesse fatte la sera prima al centro di comando.

Tempesta, adrenalina pura, è la discesa di Mohoric che rischia tutto - anche di più: pazzo! avremmo voluto urlargli da bordo strada, lungo quei tornanti infami che caratterizzano la discesa del Poggio.
Allunga, va, costruisce, a un certo punto potrebbe pure distruggere tutto. Ma lui racconta che è stato tutto calcolato: un nuovo reggisella che gli permette di prendere più rischi, una discesa provata e riprovata, salvo due intoppi: azzardi del mestiere del discesista. «Un lungo e poi una sbandata su un tombino, è stato l'unico momento in cui ho temuto di non farcela». Glaciale: ci lascia a bocca aperta e vince.

A noi invece tocca sederci e riprendere fiato, far scendere l'adrenalina e stavolta chiedere scusa alla Sanremo se a volte dubitiamo di lei.

Weird oppure bizzarro, e i milanesi che volevano spianare il Turchino

Metti una mattina presto al Velodromo Maspes-Vigorelli. Operai a lavoro. Cielo grigio e un po' di vento. Noi dentro ad annusare l'aria di un luogo sacro. Incrociamo quattro ragazzi, scopriremo subito essere olandesi, che hanno avuto la nostra stessa idea. E hanno la nostra stessa reazione: sgranano gli occhi davanti a quello che gli si mostra davanti. Sono qui in Italia per la Milano-Sanremo, ci dicono, «e una tappa qui al velodromo era dovuta».

Uno di loro prende e va sulle sue gambe. Goffo e ingobbito simula un pistard in piena azione – chissà nella sua testa chi era quel corridore - e prova a lanciarsi correndo a piedi fino in curva. Si ferma, sembra ansimare - in effetti le pendenze non sono mica male fino alla balaustra. Urla: «Weird!», bizzarro diremmo noi. Poi si gira e fa un segno con il pollice come dire “ok”.

Gli diciamo che è arrivata la notizia che al via della Milano-Sanremo ci sarà anche van der Poel, sgranano di nuovo gli occhi, ripetono «Weird!», e poi ci danno appuntamento a domani, saranno sul Poggio a tifare. Con la presenza di van der Poel, avranno uno stimolo in più nella lunga attesa prima che i corridori giungeranno sul bitorzolo occhiuto che guarda Sanremo. Loro lì dalla sera prima per un momento che durerà si e no qualche secondo. Tutto sul Poggio che, come da copione, deciderà e sconquasserà la corsa nei folli e adrenalinici quindici minuti finali.

Weird, davvero, bizzarro. Vigilia particolare. In una laterale dietro il velodromo ci sono bici parcheggiate su un cartello che recita “vietato appoggiare le biciclette”. Trasgressione. Attraversiamo Milano perché il così detto Quartier Generale è situato dall'altra parte della città rispetto alla partenza di domani che avverrà, per la prima volta, proprio dal Vigorelli.

Bizzarro, weird, davvero. Domanda: «Ma cosa intende lei per spianare il Turchino?». Risposta: «Portarlo letteralmente al livello del mare». Alcuni milanesi ci raccontano questa storia: qualcuno sosteneva che la presenza del Turchino fosse la causa della nebbia in Val Padana e in effetti c'è un video su YouTube che testimonia la teoria. A fine anni '70, in un programma che andava in onda sulla Rai condotto da Enzo Tortora, un personaggio che potremmo definire bizzarro sosteneva che abbattendo il Turchino la nebbia sarebbe scomparsa. Oggi il Turchino – vorremmo ben vedere – è ancora lì. Fa ancora parte del percorso. La nebbia in Val Padana c'è sempre, un po' meno di una volta, è vero. Pure la Milano-Sanremo resta lì, solida, nonostante tutto.

Bizzarra la vigilia, defezioni una dietro l'altra. Alaphilippe, Ewan e Stuyven fra i nomi più interessanti. Poi, invece, appare quello di van der Poel che destabilizza la vigilia degli appassionati e che si affiancherà a quelli di van Aert, Pogačar, Pedersen e diversi altri.

Diversi come gli scenari. Si prende da lontano la Milano-Sanremo. La si critica per un copione prestabilito, poi man mano che si avvicina ci si immaginano scenari di ogni genere. E Se Pogačar attaccherà sulla Cipressa? E se Roglič gli va dietro? E se arrivano tutti assieme? E se c'è vento a favore oppure contro? E se qualcuno spianerà il Poggio? L'importante è che nessuno spiani il Turchino. A 150 km dall'arrivo ci sembrerebbe un po' troppo, pure in un ciclismo bizzarro e spettacolare come quello di queste ultime stagioni.

I FAVORITI DI ALVENTO

⭐⭐⭐⭐⭐ van Aert
⭐⭐⭐⭐ Pogačar, Pedersen
⭐⭐⭐Kragh Andersen, van der Poel
⭐⭐ Laporte, Coquard, Démare, Matthews, Ganna, Mohorič
⭐ Pidcock, Hayter, Philipsen, Jakobsen, Kristoff, Roglič, Consonni, Garcia Cortina, Aranburu, Kwiatkowski, Sagan, Covi, Bouhanni, Nizzolo, Sénéchal, Van Avermaet, Turgis, Bettiol