Un ananas al gusto punk

Ieri avevamo visto Dries De Bondt lungo la strada che portava in cima al "Menador". Erano passati diversi minuti da quando il suo capitano van der Poel finiva di dare spettacolo. Lo abbiamo fotografato mentre mostrava fiero e divertito un'ananas che gli aveva passato un ragazzo che si fa chiamare "il cuoco in bicicletta". Scontato dirlo: segue il Giro vestito da cuoco e sale su in bicicletta.
Oggi Dries de Bondt ha mostrato il petto sul traguardo di Treviso. Ieri un'ananas, oggi il mondo, parafrasando o forse meglio dire omaggiando in qualche modo i Ramones. Per via del gusto punk con cui la Alpecin (van der Poel, Oldani, De Bondt: tre successi al Giro per loro e tanto spettacolo anche fuori dal contesto gara) sta condendo la Corsa Rosa edizione 2022. Avanguardisti più che elementi di rottura, proiettati, a livello di comunicazione, nel futuro.
De Bondt è esattamente uno di noi. Si ferma a parlare alle transenne per decine di minuti con i tifosi; lo trovi in cima al Menador che porta in giro un'ananas come fosse un amatore e il giorno dopo va in fuga e vince.
Nei giorni scorsi Filippo Cauz ci raccontava di aver visto il corridore belga - corridore di grande livello - al termine della sua fatica nell'ultima tappa del Giro 2021, dall'altra parte delle transenne: si era messo al tavolino di un bar a chiacchierare.
E Dries De Bondt chiacchiera e poi lo vedi in fuga, come oggi, con Affini che al termine della tappa si va a congratulare con lui che lo ha battuto di un niente nonostante si possa dire come, se la fuga è arrivata al traguardo, una percentuale di merito è del corridore della Jumbo Visma, che quando tirava, dilatava il tempo tra i fuggitivi e il gruppo.
Va in fuga De Bondt, le fughe senza speranza, senza una ragione. L'altro giorno sembrava andare via così per fare, è stato ripreso a 700 metri dall'arrivo. Era da solo: «le fughe delle cause perse» le ha definite.
Oggi quella fuga è andata in porto e Dries ha vinto. Con quel sapore punk e la mente che va subito a quella foto di lui con un ananas in mano che è già simbolo del Giro 2022.


Elogio al Vanderpoelismo

Ci risiamo e non ce ne voglia nessuno: gli altri pedalano, mentre Mathieu è il ciclismo. Tempo fa qualcuno lo definiva vanderpoelismo. Abbiamo esagerato? Esageriamo volentieri.
Lo state vedendo a questo Giro? Attacca ogni giorno. Non vince? Chi se ne frega. Oh Mathieu, Mathieu, scusaci per la confidenza, ma quanto ci stai facendo divertire?!
Oh Mathieu, Mathieu, oggi più passavano i chilometri e più prendeva forma una cosa che pareva impensabile. Al diciassettesimo giorno di gara, che poi fanno praticamente venti, stavi per vincere una tappa di montagna. Non avrai mica tra le tue doti persino il recupero? Non avrai mica strane intenzioni per il futuro? Provocazione che arriva da diverse parti: e se un giorno disegnassero un Giro per te (e van Aert)?
Oggi non hai vinto? È come se avessi vinto.

Ma che motore hai? Stai facendo ricredere gli scettici, quelli del "ma tanto viene qui, vince una tappa e torna a casa". Non è nel tuo stile, quello che ti ha insegnato nonno Poulidor. Come invece è nel tuo stile concederti sempre nelle interviste prima e dopo la gara; fermarti alla partenza a firmare autografi e a sorridere ai tifosi. L'altro giorno dopo la tappa di Torino abbiamo visti due ragazzini inseguirti letteralmente dietro le transenne. Correvano in ciabatte e urlavano "Mathieu, Mathieu!". Ti sei fermato. L'altro giorno sul Santa Cristina hai avuto la lucidità di impennare e sorridere. La gente dopo il passaggio dei primi aspettava quel momento.

È nel tuo stile prendere il manubrio e strapazzarlo. Generoso in fuga – pure troppo- oggi la rinfrescata arrivata sin dalla sera prima sul percorso sembrava farti volare sulle salite. Tu, un ciclocrossista, un cacciatore di classiche, con quei dorsali e quel peso, sembravi all'improvviso come fatto per scalare le montagne. Hai rischiato in discesa, dove hai costruito parte della tua tappa e dove hai rischiato di chiudere anzitempo la giornata. Hai salvato quell'errore in curva, ma non si capisce ancora come.

Oggi hai attaccato, scusa volevamo dire, anche oggi hai attaccato. Era una tappa di montagna e pensavamo rimbalzassi all'indietro. “Indovinate chi c'è in fuga anche oggi?”. Ormai il ritornello all'ora di pranzo quando si cerca di capire chi è scattato e chi è davanti. La tua maglia verde con casco bianco e l'inconfondibile sagoma è sempre lì a prendere vento in testa al gruppo. Pensavamo fosse un altro dei tuoi tentativi "tanto per dare spettacolo". E invece.
Hai dato spettacolo, ma hai rischiato pure di portare a casa la tappa. Mica una qualunque. C'era una salita col nome fantasy, Menador, con una vista impagabile sul lago, Caldonazzo, c'erano le rocce che sfioravano la testa dei corridori e ammaccavano i camper dei tanti tifosi saliti fin su.
Ci hai provato e ti sono mancati pochi chilometri, ma chi se ne frega, dai.
Al traguardo erano tutti senza parole, un gruppo di giornalisti sudamericani si è scaldato quando ha visto partire Buitrago, degno vincitore oggi, eppure anche dentro di loro è rimasto quel piccolo rimpianto per non averti visto davanti a tutti sul traguardo. Oggi, Mathieu, non hai vinto. Domani, Mathieu, cascasse il mondo, ci riproverai.


Mutazioni sensibili

Muta il cielo sopra di noi, sembra più vicino più in alto ti spingi. Muta il paesaggio sotto i nostri occhi, muta al passaggio dei corridori. Estensioni di campi a perdita d'occhio, cime da verdi a innevate. Gente, sempre. Striscioni, una costante.
Mutano le bici, quelle di tre ragazzi appassionati di ciclostoriche sono degli anni dei pionieri: «una volta esistevano solo tre marce: in sella, fuori sella e piede a terra» raccontano.
Muta la montagna valdostana attorno a Cogne, con i suoi giacimenti minerari. Sembra friabile e dà il via all'arte dei lauzeurs. Avete presente la particolarità dei tetti sulle case in Valle d'Aosta? Ecco. Posatori o copritori, da queste parti dicono “la montagna portata sui tetti”.
Muta l'atteggiamento del gruppo, un essere complesso composto da unità multiformi.
Muta il Giro che esplode in una tappa di mezza montagna e invece quando arriva in montagna dorme un sonno leggero, ma complicato.
Muta la forma di Giulio Ciccone, muta il suo Giro, ma non dovrebbe mai mutare la sua indole d'attaccante. Un cambiamento strano perché ritorna a quello che era in origine, un corridore in fuga, dalle gambe nervose. Da tappe in salita, da vittorie in solitaria.
Muta la sua tappa, entra in fuga, insegue, e poi la spacca. Attacca: non c'è mai nessun modo per essere Ciccone. Muta la corsa. Non per gli attaccanti. Loro non mutano mai.
Non muta, finalmente, per Ciccone. Ha cambiato ed è tornato. E ora, magari, non cambierà mai.


Uomini di mondo

Thomas arriva dagli Stati Uniti, ma pedala tra le strade di Cuneo. Si ferma e scende dalla sua bici, una mountain bike verde e nera, cercando di passare in mezzo alla folla. Dice ad alta voce: «Oggi qui è una bella giornata, finalmente ci sono tante biciclette e nessun'auto che passa per queste strade».
Maestri arriva da Reggio Emilia dove l'altro giorno ha provato a fare la volata. Oggi invece è andato in fuga, la cosa che gli riesce meglio in sella a una bici, per spirito e vocazione. È arrivato a poche centinaia di metri dalla vittoria. I fuggitivi (per i quali tifiamo sempre e comunque) si sono guardati, forse un po' troppo, e dietro il gruppo lanciato li ha svegliati bruscamente come da un sogno.
Xandra è spagnola, gira con una bandiera e non era in programma essere qui oggi. Sta girando l'Italia e in questi giorni era in Piemonte: «Poi ho scoperto che c'era un mio connazionale in Maglia Rosa e sono venuta qui a tifare per lui».
Démare arriva dalla Francia, ma in Italia sta trovando un legame speciale. La Sanremo, otto tappe vinte in tre edizioni, il colpo di reni con il quale rimanda indietro Bauhaus e poi un urlo che è forza e gioia.
Potente, elegante, ha una maglia ciclamino che nessuno gli strapperà più di dosso. Dalla vicina Francia sono arrivati anche i suoi tifosi: "Allez Arnaud" hanno scritto sulla bandiera. Démare si ferma alle transenne per chiacchierare un po' con loro.
Anche Prodhomme arriva dalla Francia, ma quando taglia il traguardo piange e tossisce. Ha il viso rosso per il gran caldo e l'emozione che non si può trattenere, Era nella fuga, quella che sembrava semplicemente di giornata e che poi diventa quasi giusta. È ancora giovane, forse non è ancora un uomo di mondo, ma si farà. Un gioco di coincidenze vuole che qualche anno fa in Italia vinse anche lui una "Sanremo". In versione Under 23, quella che si corre a Sovizzo e che in realtà si chiama "Piccola Sanremo".
Intorno al pullman della BORA-hansgrohe c'è una tifosa in maglia rosa che sventola una bandiera australiana e aspetta Hindley; tutta la zona è presa d'assalto dai bambini: «Borracch, borrach» dicono, letteralmente, ridendo e simulando una erre che all'improvviso diventa anglosassone. Ovunque si vada in giro per il mondo è una costante: ragazzini a fine corsa che chiedono un ricordo.
Totò diceva: «Sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo». Oggi a Cuneo era una bolgia: nella città scavata da Stura e Gesso, se non c'era gente da ogni parte del globo, poco ci mancava.

Potenza e fantasia

Ci voleva estro, un colpo di fantasia per farsi piacere la tappa di oggi. Ci voleva potenza per sfuggire al piazzamento su quel rettilineo dove una bava di vento ogni tanto portava refrigerio all'ennesima giornata calda. Perché più sali verso il nord e più pare di soffocare, l'asfalto ribolle e i corridori in gruppo hanno di che temere: contro queste temperature non c'è riparo. Nemmeno se freni o corri veloce. Niente.
C'era bisogno di furbizia, o chiamatela sapienza. Conoscenza delle leggi della fisica: prendere la scia giusta e saltare gli avversari stremati verso il traguardo in una delle tappe più veloci della storia del Giro. Ci voleva in fondo, un po' di fondo, di velocità, scaltrezza e doti non comuni.
Ci voleva senso del dovere e passione per seguire una tappa pianeggiante, noiosa, quasi spocchiosa e inefficace, ma il Giro è anche questo, strappa applausi e sbadigli: per chi lo segue in gara è attraversare città, colline, costeggiare il mare, salire passi e infilarsi dentro centri storici; per chi lo segue per strada è aspettare il gruppo che passa per pochi secondi, applaude e poi scompare nei portici come succede a Forlì verso l'ora di pranzo. Si chiama passione, oppure curiosità.
Ci voleva estro per diventare un grande scalatore nascendo sul mare. Siamo partiti, con la nostra giornata Alvento, da Cesenatico. Doveroso. Ieri a salutare Scarponi a Filottrano, oggi a rendere un omaggio a Pantani.
Ci voleva coraggio, o le leggi del gruppo che ti mandano in fuga sapendo come il tuo destino sarà quello delle prede coscienti di essere braccate: così per Rastelli e Tagliani. La legge del gruppo che poi è la legge del regno animale da cui evade, con estro, Dries De Bondt scatenato: per un attimo ha pensato persino di farcela, per spingere più forte, quando si voltava dietro e vedeva il gruppo, quella vaga e incomprensibile macchia multiforme, si sarebbe appoggiato sul manubrio persino con i denti. Avesse potuto.
C'è voluto un rettilineo, qualche sbandata, un treno, un rallentamento, qualche gomito e poi una volata. Ci voleva Dainese a farci saltare sulla sedia: «Ha vinto Gaviria! Ha vinto Bol! Ma no ha vinto Dainese!» Che è spuntato da dietro all'ultimo, all'improvviso. Con le doti di chi sa scrivere un finale ma troppo spesso gli è rimasto sulla punta della penna.
«La volata è venuta fuori un po' così» ha raccontato con quel suo fare sempre umile e costante, a fine gara, lui che diceva a inizio stagione che se non avesse vinto avrebbe iniziato a pensare a fare altro. Ad esempio il pesce pilota. Oggi il suo pesce pilota è stato Bardet.
Di gran carriera, Dainese, per una gran carriera, lanciata da lontano come una volata. Fatta con potenza e fantasia, ideale per farsi piacere una giornata piatta, calda e veloce, come quella di oggi. E alla fine godereccia come la bella Reggio Emilia.


Forti e gentili

Forte e gentile si dice così degli abruzzesi e te ne accorgi dalla quantità di gente che ti ferma su Passo Lanciano e ti stringe la mano. Ti raccontano di tutto: chi del suo passato da ciclista, chi di quando correva contro Ciccone da bambino, chi della propria squadra del cuore, chi ti spiega nel dettaglio tutti i versanti per arrivare in cima alla Majella.
Ti parlano delle differenze esistenti tra un versante per arrivare in cima al Blockhaus e l'altro; chi ha vinto dove e quando. "Da lì vinse Merckx", "Qui su vinse Basso". "Lì, Di Luca fece il diavolo a quattro contro Menchov. E se c'era ancora un chilometro, il russo quel giorno sarebbe tornato a casa con una gamba su e una giù".
Ti offrono birra, vino e arrosticini e se la prendono nell'intimo se osi di dire di no, anche se gli spieghi che ne hai mangiati una decina prima arrivando su: "ma provate questi che sono più buoni, anzi se stasera andate giù a Pescara... quel signore lì, lo vedete? ha un ristorante dove fanno gli arrosticini più buoni di tutto l'Abruzzo".
I nomi pure da queste parti, sono forti e gentili: Lettomanoppello, Pretora, Roccamorice. Da lì partono i versanti per arrivare in cima alla “Montagna Madre”. Venerata e adorata dagli abruzzesi.
In cima a Passo Lanciano aprono la strada centinaia di amatori. La bicicletta prende possesso della montagna e unisce. Un gruppo di ciclisti di diverse parti d'Europa fa amicizia e si ferma a un ristoro e dopo qualche ora sono ancora lì con il tavolo pieno di birre vuote e rimasugli di porzioni di arrosticini. Mauro, cuoco di uno dei rifugi in cima ci apre le porte della sua piccola cucina dove prepara da stamattina presto la carne nei tipici bracieri a canalina. Si ferma a chiacchierare e non sa dirci quanti arrosticini ha già cucinato in queste ore: «Di gente ne è venuta tanta, ma speravamo anche qualcosa in più, purtroppo però già da ieri han chiuso le strade: qui d'inverno vengono così tante persone a sciare che le macchine sono parcheggiate una sopra l'altra». Con il suo accento abruzzese, forte.
Forte, molto forte, oggi è stato Diego Rosa. “Gamba paurosa” dicono i tifosi che attendono il suo arrivo cercando di capire da smartphone e tablet quanto manca al passaggio. Prova la fuga da solo, poi in compagnia, vuole la maglia azzurra. Quando la fuga si spacca lui la riprende. Quando Tesfatsion in fuga con lui cade, non si turba. La sua sorte è segnata, ma va bene così, ci saranno altre volte in questo Giro dove mostrare la sua forza, il suo viso, dai lineamenti così gentili.
Porca Majella, ti viene da dire poi, ripetendo divertito uno striscione e osservando poi il gruppo dei migliori riprendere Rosa e salire verso l'arrivo del Blockhaus. Porca Majella, gustosa, grondante fatica come quei pezzettini di carne infilati in un lungo stuzzicadenti che i ristoratori offrivano persino ai ciclisti che assiepavano la terribile salita abruzzese. «Prendine uno! Prendine uno!», urlavano.
Forte e gentile, il viso di Pozzovivo: lasciateci dire di quanto forte è andato. Ha un'età che potrebbe fare tutt'altro eppure resta lì a soffrire. Va su tutto storto che ti chiede come faccia. La risposta è semplice: è Pozzovivo. Forte è Nibali, che si salva pochi giorni dopo aver annunciato l'addio al ciclismo. Mentre Landa, Carapaz e Bardet, forse i più forti oggi di questo Giro, giochicchiano un gioco tirato all'estremo, si passano la palla senza andare a rete. Forti, loro sin troppo gentili, forse potevano osare di più.
Forte e poco gentile il caldo per tutta la tappa, Yates lo soffre, salta e si stacca, all'arrivo si accascia come tramortito sulle transenne, mentre una calca di persone attorno cerca di capire il perché. Come poi fosse facile per un corridore dare una risposta di questo genere.
Almeida fa un gioco strano, brutale, è forte ma non appare mai gentile in bici nonostante quegli occhi che intorno sembrano sempre aver un filo di matita come a rendere più morbidi i suoi lineamenti. Si stacca e poi rientra, sembra saltare e invece resta lì come se dovesse fondere il motore da un momento all'altro: resisterà fino alla fine del Giro andando così?
Juanpe Lopez è la scoperta. Sia come corridore forte che come corridore gentile. Forte: salva la Maglia Rosa per pochi secondi; gentile come le sue parole a fine tappa: «Voglio scusarmi con Oomen per avergli tirato una borraccia. Lui mi ha fatto andare fuori strada e ho perso la testa per un attimo».
Due parole poi su Hindley, forte e gentile: non poteva che essere così, lui il più abruzzese di tutti gli australiani che vince in quella che è stata una terra che per un periodo lo ha visto crescere come ragazzo e corridore.
E domani riposo per la carovana. Sulla Majella orsi e lupi stanno nascosti mentre il sole viene coperto da nuvoloni grigi. Il ristoro del ciclista erano birra e arrosticini. Il riposo della grande montagna segna la fine di un'altra lunga giornata al Giro d'Italia.


Su a Viggiano tra le foglie

Per arrivare a Viggiano da Diamante, tagliando - si fa per dire - per la strada che porta verso le Grotte del Romito e poi per il Parco Naturale del Pollino, non è facile come sembra dalle indicazioni studiate con attenzione certosina e riportate poi su Google Maps.
Chi guida - che non è chi scrive - ha la situazione sotto controllo, i passeggeri - tra cui chi scrive - , maledicono invece il momento in cui hanno preso un'arancia dal fruttivendolo. Quel frutto così gustoso in un primo momento, decide di fare su e giù nello stomaco a ogni curva, buca, tornante.
Interessa poco al racconto della corsa, è vero, ma è importante per capire che, prima o poi a Viggiano, per seguire il passaggio del Giro d'Italia, ci siamo arrivati veramente. E se lo scriviamo è perché non sembrava di fatto così scontato. Abbiamo attraversato zone che lasciavano a bocca aperta, dove il verde intenso della macchia calabrese (se uno decidesse di "darsi alla macchia" qui probabilmente non lo ritroverebbero più) a un certo punto lasciava spazio alle infinite vallate della provincia di Potenza. Una sorpresa. Alpeggi, borghi mozzafiato appesi alle montagne che ricordavano le biciclette colorate di rosa che avevamo visto penzolare da alcune finestre poche ore prima dalla partenza di Diamante.
Quando si arriva Viggiano, in paese, la luce si fa forte, gialla come nascosta da una lente color limone. Gruppi di persone salutano, bambini vestiti di rosa battono le mani e urlano, scritte ovunque per l'idolo lucano: Domenico Pozzovivo.
Su, invece, sulla Montagna Grande di Viggiano (che da ora in poi chiameremo per semplificare semplicemente Viggiano), situata a circa sessanta chilometri dall'arrivo, una bella salita; strada larga, ben asfaltata e con tratti di pendenza davvero infidi. Da fare in bicicletta. La luce fatica a passare in mezzo al verde degli alberi - e a dire il vero anche il segnale di ogni compagnia telefonica: un paio di ore, per noi, di totale black out in attesa del gruppo.
Ma su a Viggiano abbiamo dato un senso a tutto vedendo i corridori passare al massimo del loro sforzo, mentre comandavano perfettamente la loro arte. Davide Formolo appariva bello in viso, prendeva una borraccia dal primo massaggiatore, rifiutando quella offerta dal secondo pochi metri più avanti: segno di freschezza o poco lucidità? Vedendo il finale di gara di Formolo, che quella fuga l'ha portata via convinto, scegliamo la prima ipotesi. Ha osato troppo nel finale, forse, è vero, ma verso Potenza è stata una lotta anche di nervi e di attimi. E lui ha scelto le sue armi migliori: grinta e rapportone.
Dumoulin, con i suoi labbroni e il naso ingrossato da occhiali e fatica, comandava quel gruppo di fuggitivi: conosceva già la sua sorte personale e quella poi vincente del compagno di squadra Bouwman? Villella zigzagava, segno di fatica estrema. Buttava via la borraccia, che come altre raccolte dal ciglio della strada era piena, probabilmente calda, caldissima, e quasi si fermava per prenderne un'altra fresca. Ulissi, in quel tratto di forte pendenza, chiudeva invece il gruppo della maglia rosa. Rosso in viso, chiedeva a gran voce: "avete acqua?".
Su a Viggiano un tifoso francese quasi fermava l'ammiraglia della Groupama: «Merci Démare! merci Démare!», gridava scalmanato. Su a Viggiano, Cavendish, invece, malediceva il gruppetto - la rete. «State andando forti come se fossimo in una c**** di fuga! Se volevate andare così potevate stare davanti!».
Su a Viggiano bastava un urlo, una serie di "alè alè alè" per dare forza ai corridori che ringraziavano. Giù a Potenza, invece, Koen Bouwman batteva Bauke Mollema e Formolo, specialisti delle evasioni in giorni duri. Da oggi anche Bouwman si scrive al circolo; ricorderà la luce fioca che passava tra le foglie e quello strano silenzio interrotto solo dalle urla di qualche tifoso. Su a Viggiano è andata proprio così.


Nibali, borracce e ragazzini, in una calda giornata siciliana

I ragazzi dietro le transenne che urlano "borracce! borracce!", più che chiederle sembra che stiano trattando i prezzi al mercato, per il modo, la cadenza da venditori smaliziati, per quell'insistenza che è l'insistenza ingenua e tipica che si ha quando si è giovani.
Scene di un ordinario Giro d'Italia che se le racconti sembrerebbe di sfociare nella finzione. Come i due bambini senza casco che in zona pedonale sfrecciano su uno scooter che dal rumore pare elaborato.
Stanno inseguendo Lennard Kämna - ci stiamo ancora chiedendo cosa ci facesse la maglia azzurra in via Loggia dei Mercanti a fine tappa. Kämna si gira e gli passa una borraccia come di solito l'ammiraglia la passa al corridore.
Messina è questa. Calore e passione. Tifo sfrenato per Vincenzo Nibali che dopo la tappa si commuove annunciando il ritiro a fine stagione: «È arrivato il momento di restituire alla mia famiglia tutte le ore che ho dedicato al ciclismo». Ha scelto la sua Messina per dirlo, oltre che gran corridore, mossa da narratore navigato.
Quella Messina dove sua sorella stamattina nella cartoleria di famiglia sorrideva, timida, riservata, e ci raccontava quasi con un filo di voce: «È una cosa bellissima quella che ci fa vivere Vincenzo, ma – sorride - è anche un po' stressante». Sulla parete dietro la cassa una foto con Antonio e Vincenzo, e poi la maglia gialla incorniciata. C'è anche Manuel, il nipote di Vincenzo, sta seguendo l'inizio della tappa sul computer nel retro del negozio.
La Messina di Nibali è quella di Salvatore "il re degli arancini", un fiume in piena che ci racconta di quando il corridore siciliano girava in bici fin dentro la sua rosticceria: «Faceva avanti e dietro e non se ne andava finché non gli davamo un arancino».
La Messina dei tifosi è quella di altri due ragazzini, hanno la tuta e lo zaino del Team Nibali e fanno foto a ogni ammiraglia che passa accompagnando tutto con un “olè!”.
Messina oggi non è stata né di Cavendish né di Ewan, ma di Démare, che si sfilava in salita con intelligenza, soffriva come può soffrire un velocista in salita, ma lo faceva per non perdere un filo di energia. Rientrava mettendo subito i suoi a tirare e poi battendo tutti sul rettilineo controvento di via Garibaldi.
Messina è quella del signore che ci racconta di suoi figlio che ha corso in una squadra toscana per qualche anno: «Ma costava troppo, le trasferte, la bici... sapete quanto l'ho pagata la sua Colnago? Cinque milioni di lire, e quando ha voluto mollare gliel'ho tagliata in due».
Ciclismo, passione, e un po' di follia: siamo in Sicilia, non potremmo che definirla trinacria. A fine giornata il sole batte ancora forte sulle nostre teste e sullo sfondo si vede la Calabria, da dove domani la carovana riprenderà il suo viaggio.


Per una bicicletta

Il distacco tra Biniam Girmay e la Maglia Rosa più che in qualche decimo lo si potrebbe quantificare in biciclette. Una? Forse "una bicicletta e un po'", direbbe qualcuno, per dare un'idea più precisa alla misura. Girmay ci è andato vicino.
Era diviso il pubblico, tra lui e van der Poel, perché poi finisce sempre così, per quanto si vogliano salvare le apparenze, per quanto non si voglia perdere di vista il fatto che "nel ciclismo si tifa tutti, altrimenti finisci per non godertela". E allora c'è chi urlava: "Vai Bini!", e chi: "Vai Mathieu!"
Mancavano veramente pochissimi metri al traguardo per il sogno dell'"History Maker" come lo definisce sui social la sua squadra, l'Intermarché-Wanty-Gobert, ma poi vince van der Poel e va bene lo stesso.
Sorride Bini Girmay dopo essere rimasto accasciato vicino le transenne. «Deluso? Per nulla! È un grande risultato». Sorride mentre indossa la maglia bianca di miglior giovane a fine tappa.
Sorride in foto con Mathieu van der Poel. «È stata la volata più dura della mia vita, ma ci riproverò già domenica».
L'History Maker ha segnato il Giro 2022 come passaggio obbligato: vuole trasformare il suo universo attraverso una bicicletta. «Voglio diventare il primo nero africano a vincere una tappa in un Grande Giro» diceva nei giorni scorsi.
Si dice pronto a prendersi sulle spalle un intero continente, mentre un'intera nazione è diventata matta per lui: «Nel calcio i giocatori africani sono tra i migliori al mondo, nel ciclismo siamo ancora lontani, ma io voglio essere un esempio. Perché vincere una tappa in un grande Giro potrebbe essere da impulso alle nuove generazioni».
È stata una bicicletta di distacco a impedirgli di fare la sua ennesima rivoluzione, ma di certo non a impedire di parlare di lui. E di occasioni ne verranno ancora, e ancora, e ancora.


I colori di Mathieu van der Poel

Aspettavamo il Giro e aspettavamo Mathieu van der Poel come si attende sempre qualcosa di bello, lui - van der Poel - senza esagerare troppo, accelerando nel momento giusto, quello sì, è arrivato. Ha fatto sentire il rumore che fanno le sue gambe liberando potenza come un motore a quattro cilindri, e ha deflagrato.
Avete presente quel rumore? Chiedetelo a Girmay, Ewan, Bilbao, Kelderman che si sono visti superare dall'onda verdina della nuova maglia che sulle spalle di van der Poel è durata poco. Lo spazio di poco meno di 200 km: da domani sarà in rosa.
Aspettavamo anche Girmay è vero, c'è mancato poco. Sarebbe stata una storia interessante da raccontare, ma ce ne sarà l'occasione. Ha chiuso vincendo la Gent-Wevelgem, ha ripreso sfiorando la prima tappa del Giro - sì è vero in mezzo ha corso a Francoforte, ma tant'è.
Abbiamo atteso a lungo. Chiacchierando con amici, conoscenti e parenti e guardando distrattamente la fuga di giornata: erano Bais e Tagliani.
Abbiamo visto il Danubio oggi con tonalità sul verde. Abbiamo sorriso al folclore di diversi tifosi, cavalli, amazzoni e cavalieri che correvano di fianco al gruppo, abbiamo visto campi di colza, ottimi per scatenare api e fotografi.
Arrivava il traguardo sul Castello di Visegrád e quel traguardo lo guardava da lontano Lawrence Naesen, che vuoi per un gioco di prospettiva, vuoi per le pendenze che via via progredivano, pareva non riuscire ad avvicinarlo in nessun modo, nemmeno cambiando rapporto. Quel traguardo lo guardava da vicino Kämna, pareva il momento giusto. Niente, scartato.
Poi sono scattati. Fine dell'attesa a meno di un chilometro alla fine, curvi sulle loro bici con lo striscione che man mano sembrava farsi sempre più grande in faccia ai corridori. E mentre gli altri parevano attaccati con la forza, persino con i denti, alle loro biciclette, Mathieu van der Poel li superava, pareva ciclismo.
Aspettavamo van der Poel colorato di verde. Da domani e chissà, magari fino in Sicilia, lo troveremo colorato di rosa. Il colore del Giro d'Italia.