Fino a dove potrà arrivare Tom Pidcock?
C'è qualcosa che, osservando Tom Pidcock, balza subito agli occhi. Non è la statura, né quella potenza di pedalata che, proprio perché espressa da quello che pare un corpicino, Viktor Šklovskij avrebbe definito "ostranenie" straniante, ovvero quel processo narrativo capace di "fare uscire il lettore (o l'osservatore) dall'automatismo della percezione". No quello che colpisce subito di Tom Pidcock è, molto più semplicemente, il talento.
Già, il talento, quella particolare caratteristica che pare quasi possa aiutarci a leggere il futuro di una persona. Quel "dono" che, se non viene coltivato, non può dare buoni frutti. Quel tratto peculiare che siamo soliti - anche al di fuori del mondo dello sport - ad associare a grandi artisti, a menti illuminate e geniali.
Il talento in Pidcock più che una forma d'arte appare legato ai parametri della consistenza. Più che una pennellata d'artista si infila nella categoria dello sforzo disumano. Da quando è giovane, Pidcock spinge oltre ogni limite per ridurre ogni margine alla ricerca del massimo risultato, e a fare la differenza, sentendo colleghi, ex compagni o tecnici, sono testa e ambizione: scintille che accendono e illuminano il suo talento.
"La potenza è nulla senza controllo" reclamava un tempo un famoso spot pubblicitario: assioma così banale ma quanto efficace nel voler descrivere i passi che Tom Pidcock, da Leeds, sta muovendo nel ciclismo.
Quando lo abbiamo osservato da ragazzo, in lui vedevamo questo piccoletto, forte, sì, tenace, è vero, ma fisicamente forse non del tutto pronto a fare quel salto di qualità che in una stagione come quella appena trascorsa, ha dato modo di vedere.
Ma quei margini sono stati ridotti: 3° al mondiale di Harrogate nel 2019 su strada, nel giardino di casa, tra gli Under 23, si diceva: "ottimo corridore per carità, ma deve farne ancora di strada"... eppure.
Lo stesso si diceva nel ciclocross: a livello giovanile raccoglieva di tutto un po': "ma vedrete quando arriverà tra i grandi sarà tutta un'altra cosa". E invece in poco tempo si è ritagliato lo spazio necessario per far parlare di sé, magari non alla pari, ma di sicuro subito dietro van Aert e van der Poel.
Dopo la prima stagione su strada i suoi risultati dicono tanto di talento e ambizione: 1° alla Freccia del Brabante, 2° all'Amstel battuto in un fotofinish che se visto dal suo punto di vista grida vendetta, 3° alla Kuurne-Brussel-Kuurne, 5° alla Strade Bianche, 6° al Mondiale (dove arriva dopo aver patito le pene alla Vuelta, comunque conclusa), 15° alla Sanremo, la sua prima volta in una monumento, la sua terza volta in una gara oltre i 200 km. Tutto questo a 22 anni.
Abbiamo voluto solo sottolineare quello che Pidcock ha già mostrato in 37 giorni di gara su strada in maglia Ineos, lasciando, volutamente ai margini, quello che il ragazzo è capace di fare nel ciclocross e in mountain bike. Perché il suo 2021 ha significato titolo olimpico nelle ruote grasse, bronzo mondiale nel ciclocross finendo nella stessa foto sul podio con Wout van Aert e van der Poel che Pidcock, abile nel muoversi anche fuori dalla bici, descrive così: «Conosco poco entrambi, ma di sicuro Mathieu è uno che se non vince non è felice, van Aert invece sa bene quello che può fare e difficilmente nei giorni in cui sta bene non mette a segno il colpo».
Pensa, Pidcock, parlando appunto di cross, che per restare nella storia dovrà conquistare un campionato del mondo, ma è consapevole in quel caso di dover battere quei due a cui inevitabilmente si ispira.
Ma se nel cross i limiti sono ben definiti da avversari e peculiarità della disciplina è su strada che ci chiediamo dove potrà arrivare. Ha vinto, tra gli jr, la Parigi-Roubaix, bissandola poi tra gli Under 23: potrà essere il primo nella storia a completare una storica tripletta vincendola anche tra gli élite? Secondo noi sì, basta avere un po' di pazienza. Ha vinto, tra gli Under 23, il Giro: su di lui si è pronti a scommettere che prima o poi ci proverà anche tra i grandi nei Grandi Giri nonostante la concorrenza attuale sposti decisamente verso l'alto l'asticella della competitività.
Veloce al termine di corse impegnative tanto da giocarsela persino con uno come van Aert, resistente, intelligente nel modo di correre, le grandi classiche di un giorno le può vincere tutte (o quasi) e non sono molti altri quelli che se lo potrebbero permettere - van Aert, van der Poel, Alaphilippe, Pogačar. E poi?
La Ineos oltretutto sta costruendo attorno a lui un piccolo clan di giovani britannici che negli anni lo supporteranno in tutte quelle che sono le sue idee assecondandone le scelte, accompagnandone la crescita.
E allora fino a dove potrà spingersi Tom Pidcock? Se i limiti sono quelli del suo talento, allora significa davvero molto in alto.
Di riforme e futuro sulla strada: intervista a Giovanni Visconti
Giovanni Visconti ha le idee chiare in merito alla recente riforma del Codice della Strada: «Sento dire che è ancora tutto uguale a prima, non è vero, si sbagliano. È peggio di prima, molto peggio. Ogni giorno si continua a morire sulle nostre strade, eppure si sceglie ancora una volta di non fare nulla. Restare immobili di fronte a una situazione di questo tipo è terribile». Il siciliano ammette pochi minuti dopo che, purtroppo anche in lui, si sta facendo strada la rassegnazione. «È sbagliato, lo so bene. È sbagliato perché ci sono persone che su quella strada hanno perso figli, genitori, fratelli. In quella rassegnazione di cui ti parlo c'è tutto il dolore e la rabbia per l'immobilismo di fronte a queste situazioni. C'è chi continua a lottare per una strada più giusta dopo la perdita di un figlio e chi, potendo cambiare, fa altre scelte, si pone altre priorità. Alla fine, ti rassegni perché fa male».
Nella riforma non si parla di zona 30 in città, non si parla di distanza minima vitale per il sorpasso di un ciclista oppure di ritiro della patente per l'uso del cellulare alla guida. Visconti ha qualcosa da aggiungere: «Di queste cose non si dice nulla, ma anche delle cose di cui si parla, si parla a vuoto. A me sembrano norme vuote, che, alla fine, non porteranno nulla, non saranno applicate. Faccio una domanda: si parla di sanzioni per l'uso di tablet alla guida ed è giusto. A parte il fatto che trovo assurdo che la sospensione scatti alla seconda violazione nel corso di un biennio, vorrei capire quante multe si fanno ad oggi per l'uso del cellulare alla guida, situazione già normata. Mi sembra che si punisca troppo tardi. Magari dopo incidenti gravi. Vedo ogni giorno persone che usano il cellulare in auto. Le persone continuano a usare il cellulare in auto perché non sono attente, perché non capiscono ma anche perché non hanno abbastanza timore della sanzione. Dovrebbe bastare il buon senso e il rispetto degli altri utenti della strada, ove non basta servono più controlli e più sanzioni. Sia chiaro, vale anche per noi ciclisti. Perché non si passa col rosso, non si sta appaiati in mezzo alla strada, non ci si distrae. Personalmente richiamo sempre all'attenzione i ciclisti che pedalano con me».
Discorso simile, Giovanni Visconti lo apporta quando si parla del metro e mezzo di distanza. «L'iniziativa dei cartelli è lodevole ma senza controlli, senza sanzioni non andiamo da nessuna parte. Mettere cartelli e ignorarli è un'ulteriore mancanza di rispetto nei confronti di padri come Marco Cavorso che non rivedrà più suo figlio. La sensazione di non essere considerati come ciclisti l'abbiamo ogni giorno. L'altro pomeriggio, in una galleria, al buio, un camion, a velocità elevata, mi ha fatto il pelo. Una volta mi sarei arrabbiato, l'avrei mandato a quel paese. Oggi ringrazio solo di tornare a casa senza essermi fatto male». Il punto è sempre lo stesso, la strada è un luogo sempre più caotico, dove si scatena il nervosismo di ognuno. Visconti ha posto una regola a tutti coloro che escono ad allenarsi con lui: «Non voglio vedere persone che urlano o mandano a quel paese l'automobilista, il camionista o l'incivile di turno. Non voglio vederle perché tanto così non cambiamo nulla e anzi accresciamo solo quella rabbia che si vive in strada, oltre a rischiare che, di parola in parola, poi ci si metta a litigare e ci si faccia ancora più male». Certo questo non vuol dire che vada tutto bene e che si debba continuare così. «Perché non c'è una pubblicità in televisione che parli di questo? Magari alla sera mentre tutti si è sul divano. Che faccia riflettere su questo tema. Perché nelle scuole non c'è un'ora di educazione stradale? Non credo sia impossibile inserirla fra le materie».
Il ciclista della Bardiani Csf-Faizanè è completamente sfiduciato rispetto alla propria generazione, crede invece nelle generazioni future. «Noi non cambiamo più. I bambini invece assorbono tutto e non devono captare questi comportamenti. Sono loro a dirci che non si usa il cellulare in auto, che non si gettano le carte per strada, a correggere i comportamenti sbagliati che portiamo avanti da anni. Parliamo di questo nelle scuole, se vogliamo avere una strada diversa».
Qualche tempo fa, il figlio di Giovanni gli ha confessato di avere paura quando lo vede uscire per gli allenamenti. «Cosa puoi rispondere? Ha ragione. Se si pensa che io stesso, ciclista, ho paura a farlo andare in bicicletta con gli amici, ci si rende conto dell'assurdità della situazione. È triste perché la bicicletta è una delle più grandi scoperte per tutti i bambini». Anche questo, per Visconti è un discorso di cultura. «L'altro giorno ho rimproverato mio figlio: gli chiedo sempre di mettere il casco, ho visto che lo aveva ma sul manubrio, non in testa. Mi ha detto di non averlo indossato perché altrimenti gli altri bambini lo prendono in giro. Non è colpa dei bambini ma dei genitori: tutti ci fidiamo dei nostri figli, il casco serve per proteggerli dai comportamenti errati altrui, perché lo facciamo percepire come un di più?».
E si ritorna alla capacità di percepire le esigenze altrui. «Ogni volta che parlo di questi temi ho la netta sensazione che sarò ascoltato e compreso solo da ciclisti che vivono le stesse problematiche, come se agli altri non interessasse. È grave. Purtroppo, quando senti parlare di riforme e poi leggi queste cose, la percezione si amplia».
Tim Declercq, studente fuori corso
Le ultime settimane di Tim Declercq potrebbero far venire in mente la storia di Enrico Fiabeschi, personaggio creato da Andrea Pazienza, o di qualsiasi altro (celebre) studente fuori corso. Poche giorni fa infatti Tim, che noi abbiamo imparato ad apprezzare per essere "El Tractor" colui che prende in mano il gruppo e pare non mollarlo mai, si è laureato dopo «14 anni. Sia io che i miei genitori pensavamo potesse rimanere soltanto un sogno». Laurea con un master in educazione fisica, training option e coaching. «Era arrivato il tempo che mi muovessi un po' per farlo: ho iniziato questo corso prima ancora di sapere se mai sarei diventato un corridore professionista».
E fa sorridere pensare a De Clercq magari un po' impigrito e ingobbito sui libri dopo aver tirato il gruppo 200 km a corsa: perché quante volte lo abbiamo raccontato? Accendi la tv e l'unica sicurezza che c'è al mondo è quella di vedere prima o poi la sua sagoma, infinita come quella di una cisterna di birra nei sogni di un assetato, davanti a tirare. E quando lo fa non smette mai.
«La mia fortuna - racconta il 32enne belga di Leuven, campione nazionale tra gli Under 23 nel 2011 ma che in carriera deve ancora vincere la sua prima corsa tra i professionisti - è stata quella di aver presentato la parte pratica degli esami lavorando su uno studio fatto sui diversi ruoli e sulle diverse prestazioni dei miei compagni di squadra». Viene spontaneo chiedersi quanto i rapporti prestazionali studiati siano stati influenzati dalle menate di cui si rende protagonista in testa al gruppo. O chissà magari facevano proprio parte dei suoi test.
Ha avuto tempo, De Clercq, di raccontare una stagione che lo ha visto protagonista in prima persona dei maggiori successi di squadra. «Il momento più bello è stato il Fiandre: non c'è migliore soddisfazione di vedere i tuoi compagni che vincono e poi ti ringraziano per quello che hai fatto». Al Tour Declercq è stato vittima di una brutta caduta; ha sofferto come soffre solo chi cade e si fa male e poi è costretto a rialzarsi e continuare, e non c'è sole a picco, pioggia, montagna che possa mandarti a casa, «ma l'obiettivo di aiutare Cav a chiudere a Parigi in maglia verde lo abbiamo portato a casa». Mentre per l'anno prossimo, dopo aver appena disputato «e sofferto come una bestia, non riuscivo nemmeno stare seduto in sella» una Parigi Roubaix sotto la pioggia, spera che l'Inferno del Nord si possa di nuovo correre in primavera «e che gli dei del tempo siano clementi».
Di lui un giornalista belga scrisse anni fa: "Quando Declercq accelera, pare una vecchia lumaca". Lui che c'ha messo 14 anni per laurearsi, non si scompone e rilancia. «Una vittoria personale sarebbe bella, ma se c'è una volata di sette corridori arrivo ottavo: il mio obiettivo principale resta quello di lavorare per la mia squadra». Un lavoro sporco che da oggi farà come laureato.
Il mestiere di pedalare
Il 6 ottobre del 2021 William Bonnet ha smesso di pedalare in gruppo. «Non del tutto però: prima di finire la stagione sarò impegnato ancora in due gare di ciclocross, una per fare un favore al mio amico Minard, una in memoria di Coyot (ex professionista francese morto in un incidente stradale nel 2013 NdA)» aggiunge, poi, in un'intervista rilasciata sul sito ufficiale della sua squadra, la Groupama-FDJ, di fare schifo con la bici fuoristrada e che una volta appesa davvero la bici al chiodo, la userà solo per farsi ogni tanto un giro con gli amici.
Non ha rimpianti William Bonnet, 39 anni, 17 anni da professionista, poche vittorie ma niente male: l'ultima della sua carriera alla Parigi-Nizza, 11 anni fa che è un'epoca fa, e Bonnet, fisico da granatiere, spunto veloce, superò sul traguardo un ventenne Peter Sagan. Erano esattamente i giorni in cui Sagan si rivelò al mondo - e difatti Sagan vinse due delle tre tappe successive e furono le prime due vittorie da professionista. Ma quelli erano anche i giorni in cui Bonnet iniziava a trasformarsi: da uomo veloce a uomo squadra, affidabile regista in corsa a cui gli affideresti persino il tuo cuore. Cosa che nella sua squadra faranno.
Il tempo corre via veloce e non ha rimpianti, Bonnet, anche perché di recente non si sentiva più competitivo: «Alla fine della scorsa stagione mi sentivo ancora in grado di dare ancora il mio contributo, ma adesso no e va bene così. Ho dato tutto, ho 39 anni e il mio fisico non risponde più come vorrei». Non ha paura del vuoto, di quello che sarà, e anzi subito dopo il traguardo della sua ultima corsa si è come liberato di un macigno iniziando a restituire le sue cose alla squadra. «Mi concentrerò più sul futuro che sul passato».
William Bonnet ha sempre avuto l'inflessione da poliglotta della bici, la mania del tuttofare: non potrebbe mai aver rimpianti uno che è stato capitano prima, dove poteva, e poi gregario, ovunque: in volata, in salita, nelle classiche del nord, nei grandi giri; uno che sostiene di come, la più grande soddisfazione della sua carriera sia stata quella di sapersi rinnovare, di volta in volta, di stagione in stagione, persino di corsa in corsa. «Ho partecipato a eventi che non pensavo di disputare: tutti i grandi giri, tutte le monumento; sono passato da essere uomo da treno del velocista, a corridore da pavé, da corridore da Ardenne, a scalatore. Ogni volta una nuova sfida e ciò che mi aiutava di più a crescere era la fiducia che sentivo intorno».
Ecco, fiducia forse è la parola che identifica meglio quello a cui Bonnet è andato incontro per il suo mestiere di pedalare. E poi c'è la fortuna che gli ha fatto incontrare sul suo cammino Pinot come se il cammino di ognuno fosse fatto esattamente per incrociare quello della persona giusta. «Perché ci siamo trovati così bene assieme? Ci sono cose che non si possono spiegare. Pinot è una bella persona, matura, spontanea, ti dà molto in cambio. Assieme abbiamo vissuto emozioni folli in bici, ma soprattutto momenti di vita al di fuori delle gare che mi sono rimasti impressi. Lui sa quanto lo apprezzo, sa quanto ho sempre voluto aiutarlo e sacrificarmi per lui l'ho sempre ritenuto giusto. Perché non è solo come corridore che ti spinge a fare ciò. È l'uomo Pinot che ti segna, che ti ispira, che ispira tutti»
E il 6 ottobre è la data scelta per l'ultima corsa - la Milano-Torino, per farlo proprio di fianco a Pinot. Di quel giorno Bonnet descrive la mattina, uno striscione con dedica in suo onore, le ultime chiacchiere in gruppo alla partenza, persino i genitori per strada e poi l'ultimo posto: 109° su 109 al traguardo. «Era fuori discussione non la concludessi la gara. Mi sono voluto godere ogni attimo, ho visto i miei genitori a bordo strada, ho scambiato qualche parola con chi incrociavo per strada. Alla sera mi sono concesso qualche drink prima di ringraziare la squadra».
Soprattutto Pinot, con il quale in carriera ha corso assieme 268 volte. I due hanno diviso momenti di gioia, come momenti drammatici che sono quelli poi che nella vita tendono a cementificare di più i rapporti. Le lacrime di Pinot verso Tignes al Tour del 2019 o la caduta tremenda di Bonnet al Tour nel 2015 sono un esempio concreto. E Pinot ha scritto una lettera nei giorni scorsi per ringraziare quello che è un amico prima ancora che un compagno fedele, con la solita sensibilità che fa di Pinot una delle persone più interessanti del gruppo. Chiudiamo proprio con un omaggio di Pinot al suo ex capitano: «Sarebbe riduttivo parlare di Bonnet solo come corridore. Era ed è per me tuttora un fratello maggiore, una fonte di ispirazione. Sapeva come trasmettere un messaggio in poche parole e io ne ho sempre cercato di seguire l'esempio. Non dimenticherò mai tutto quello che ha fatto per me. I leader, in un gruppo, non sono sempre coloro a cui pensi guardando i successi, i risultati. William era un leader vero e volevo che tutti lo sapessero». William conosceva davvero il mestiere di pedalare.
Grazie ciclismo per questi momenti indimenticabili
Ciclismo e anno 2021 un binomio perfetto. Qualcosa che vorremmo riuscire a raccontare meglio ma forse più di ogni altro modo è stato lui a raccontarsi in maniera perfetta: esagerato, romantico, epico, preciso, spettacolare. Quello che abbiamo sempre chiesto e che spesso, nell'ultimo decennio, abbiamo solo visto (quando siamo stati più fortunati) a metà, relegato a episodi isolati.
Ciclismo e anno 2021 un pissi pissi bau bau tra due innamorati, e in mezzo noi; in realtà noi più che altro a fare da contorno ad applaudire; con gli occhi a cuoricino come la vignetta di un fumetto, persino il cuore che batte che pare uscire dal petto; o perché no, momenti irrefrenabili nei quali ci siamo alzati dal divano e non riuscivamo più a stare fermi nell'attesa di una volata, di un giro finale, di un centesimo in più o in meno, di un attacco decisivo, o anche scriteriato. A cercare con lo sguardo quel corridore su cui tanto puntavamo, a immaginarsi rimonte e rinascite, abbozzando per le delusioni, ma applaudendo tutti dal primo all'ultimo.
Ciclismo e anno 2021: un'intesa perfetta. Abbiamo provato a estrapolare alcuni momenti battezzandoli come “i momenti migliori della stagione”, ma potete immaginare quanto sia costato lasciarne fuori almeno altrettanti.
10) Bernal a Cortina (e sul Giau)
E chi se la dimentica quella giornata? Era il 24 maggio del 2021 e si imprecava perché le immagini non arrivavano: per via del maltempo non c'era copertura televisiva. Ci siamo affidati a una sorta di radiocronaca, come si usava una volta, ed ecco il gesto di Bernal che abbiamo definito quel giorno come di totale rispetto verso la corsa e i suoi tifosi; Bernal che sbuca sul nostro televisore solo nel finale, si leva via la mantellina nonostante freddo e fatica, con l'unico intento di mostrare la Maglia Rosa regalandoci una delle immagini simbolo del ciclismo 2021.
9) Roglič a Tokyo
Parrebbe uno sgarbo non inserire Roglič che in stagione ottiene 13 successi, uno più significativo dell'altro. Abbiamo scelto l'oro olimpico della prova a cronometro: perché è simbolo e perché vincere ai Giochi resta per sempre sulla pelle di ogni sportivo. Su un circuito pesante come un mattone, lungo e vallonato come una crono da Grande Giro, nonostante ciò, ahinoi ingenuamente pensavamo fosse tutto apparecchiato per Ganna, ma fu un dominio assoluto dello sloveno. 55'04'' il suo tempo volato via sopra i 48 orari di media. Oltre 1' sul secondo in un podio stellare, per una top ten degna di una prova di altissimo valore.
8 ) Viviani a Roubaix 2021
Il biennio a due facce di Elia Viviani vede dipinto il suo volto migliore in quel finale della corsa a eliminazione, solo pochi giorni fa, nel velodromo al coperto di Roubaix, mondiali su pista. Viviani che scalza via con una volata imperiosa il più giovane Leitão, come se la freschezza non contasse, ma solo colpo di pedale e talento; Viviani che da Tokyo in poi (bronzo nell'omnium, non va dimenticato) ha fatto nuovamente click: nella testa e nelle gambe. Viviani che a conti fatti porta a compimento una stagione iniziata fra i mugugni, conclusa con sette successi su strada, una medaglia olimpica e due mondiali su pista. Mica male.
7) Pogačar sul Col de Romme
Davanti c'era una fuga, mentre dal cielo pioggia grossa come biglie di vetro. E poi freddo e quindi mantelline, mica troppo normale a luglio seppure siamo sulle Alpi. Condizioni ideali per esaltare il ragazzetto col ciuffo biondo che spunta dal casco e che arriva (il ragazzo, ma volendo anche il ciuffo) dalle parti di Komenda, Slovenia. Siamo sul Col de Romme e mancano poco più di 30 km al traguardo: zona Pogačar. Lui attacca, stacca tutti, continua a guadagnare sul Col de la Colombière, devasta il Tour, prende la maglia gialla, alimenta (stupide quanto inutili) polemiche. Tra i suoi avversari diretti per la classifica generale il migliore è Vingegaard che paga 3'20''. Distacchi d'altri tempi per un corridore che riscrive la storia (di questo sport, sottolineiamo, altrimenti pare che esageriamo).
6) Van Aert Ventoux
E se si parla di storia (eheh) e Tour come non citare l'impresa di van Aert sul Mont Ventoux? Come non cantare le lodi di un ragazzo che, con la maglia tricolore belga, vince al Tour rispettivamente: in salita in fuga, dopo aver scalato il Mont Ventoux due volte e aver staccato fior fiori di corridori; a crono qualche giorno dopo; in volata sugli Champs-Élysées. Altro campione che pare essere arrivato da tempi diversi, ma in realtà è perché il ciclismo del 2021 è questo. Pochi calcoli, attacchi da lontano, corridori completi. La gente ringrazia.
5) Van der Poel Strade Bianche
E c'è Roglič, c'è Pogačar, c'è van Aert, non poteva mancare van der Poel. Era l'alba di una stagione magnifica e la Strade Bianche ci offrì uno spettacolo contornato da fuochi d'artificio. A giocarsi il successo il meglio del ciclismo mondiale con van der Poel che sullo strappo di Santa Caterina portava a scuola tutti, facendo segnare wattaggi mai visti. Staccava tutti, compreso Alaphilippe che poi qualche mese più tardi si rifarà invece con una serie di sparate delle sue. Di van der Poel si poteve mettere anche il sigillo sul Mur de Bretagne con quella maglia gialla simbolica a compimento di un finale lasciato in sospeso da nonno Poulidor. Abbiamo scelto gli sterrati senesi, non abbiamo fatto torto a nessuno.
4) Caruso al Giro 2021
Una delle emozioni più grandi di questo 2021 ce l'ha regalata Damiano Caruso al Giro d'Italia. Il suo podio non è figlio della retorica del gregario che finalmente si traveste capitano e vince, ma semmai è il sigillo di una carriera sempre ad alto livello. La vittoria sull'Alpe Motta con la curva dei tifosi che lo incita, la sua resistenza, l'aver staccato persino Bernal in maglia rosa ci danno la dimensione di quello che il corridore ragusano è. E secondo noi potrà ancora essere anche la prossima stagione, anche (o soprattutto) a 34 anni, nonostante il ciclismo dei giovani fusti.
3) Quartetto olimpico
Simone Consonni, Filippo Ganna, Francesco Lamon, Jonathan Milan: in rigoroso ordine alfabetico. La mattina dell'inseguimento a squadre a Tokyo è emozione pura. Lamon che lavora ai fianchi, poi si stacca, Consonni e Milan che fanno il loro lavoro pulito e di qualità, Ganna che trascina alla rimonta. E che rimonta! incredibile, impensabile a tratti insensata. Danimarca, dette Furie Rosse per un motivo, lo spauracchio da anni, i grandi favoriti: battuti sul filo dei centesimi. Una goduria che ci porteremo addosso tutte le volte che chiuderemo gli occhi e penseremo al 2021.
2) Mondiale su Strada (Da Remco a Julian)
E sì, perché domenica 26 settembre tra Anversa e Lovanio abbiamo assistito alla Corsa e non solo per l'assegnazione della maglia più bella del ciclismo (di tutto lo sport ?), ma perché due corridori hanno fatto in modo che difficilmente ce la dimenticheremo. Evenepoel ha esaltato; ha attaccato da lontanissimo come fosse uno di quei corridori di terza fascia che ci provano perché siamo a un mondiale ed è sempre bello portare in giro la maglia della propria nazionale; ha azzardato e non ha guadagnato, anzi, ancora oggi paga un presunto carattere poco accondiscendente secondo i due compagni di squadra che erano con lui nel finale (van Aert e Stuyven). Ma tant'è: a noi esalta con quel carattere che poi è il carattere del corridore vincente. Alaphilippe si è consacrato, invece. Ha attaccato tre, quattro, forse cinque volte: l'ultima è stata decisiva, nessuno ha avuto le gambe per seguirlo. Ci ha fatto letteralmente impazzire.
1) Colbrelli a Roubaix
E pensavamo di aver visto ormai tutto la settimana prima in quel bagno di umori e fragorosi pensieri. Pensavamo, in stagione, credevamo di aver visto un ciclismo italiano competitivo su (quasi) tutti i terreni. Pensavamo di non vincere più una corsa come la Roubaix poi è arrivato lui, Sonny Colbrelli e pochi minuti prima poteva esserci Moscon, ma la sfiga c'ha visto benissimo. Colbrelli invece è stato un sogno, per lui, per noi, per tutti.
Mungere le vacche
Arnaud de Lie deve ancora farsi conoscere dalla più vasta platea dei ciclofili - non potrebbe essere altrimenti: esordirà tra i professionisti nella prossima stagione con la maglia della Lotto Soudal e presumibilmente lo farà prima di compiere 20 anni (è nato nel marzo del 2002).
Di recente, nell'intervista che ha rilasciato a DirectVelo, ci ha colpito qualche passaggio da cui emerge un personaggio che, con ogni probabilità, sarà tutto da seguire.
MUCCHE - De Lie vive a Vaux-sur-Sûre un piccolo villaggio della Vallonia. Suo padre ha una fattoria e Arnaud, sin da quando ha 4 anni, la mattina si sveglia presto per dare una mano con le bestie. Lo ha fatto anche prima di conquistare la sua più prestigiosa vittoria sin qui: la Omloop Het Nieuwsblad Under 23. «La mattina della gara, prima di viaggiare per Grotenberge mi sono svegliato presto e sono andato a mungere le vacche». Quel giorno De Lie vinse la volata del gruppo pur sentendosi particolarmente stanco durante la gara. Chissà perché.
Racconta, de Lie, di farlo praticamente tutti i giorni, si sveglia all'alba, munge, torna a casa e poi è pronto di nuovo per uscire, ma dall'anno prossimo sarà più complicato visto l'impegno nel World Tour. «Il problema sarà doverlo dire a mio padre. Con il mio DS della Lotto ne abbiamo già parlato in passato e abbiamo ridotto il carico di lavoro: solo che io lo faccio volentieri, perché, quando hai un padre che ti dà tutto, è giusto ricambiare».
VITTORIE - Ha vinto moltissimo in stagione, anche se avrebbe preferito persino di più viste le caratteristiche da velocista resistente. 10 vittorie in tutto e qualche rammarico. «Al mondiale nelle Fiandre è stata la più grande delusione della mia vita». Cadde, sprecò energie per rientrare e non poté essere d'aiuto nemmeno per la squadra.
AMBIZIONI - Dall'anno prossimo sarà il secondo velocista della Lotto, il leader sarà un certo Caleb Ewan. Alla domanda sul come farà a gestire le volate visto che il treno sarà in blocco per il corridore australiano, sentenzia: «Meglio così. Preferisco gestirmi la volata da solo: non ho bisogno di compagni che mi aiutano nell'ultimo chilometro. Forse qualcuno che mi aiuta in gara a non prendere buchi quello sì».
LEFEVERE - Infine il suo temperamento sfocia raccontando un aneddoto su Lefevere: «La Quick Step mi ha cercato, ma io ho scritto su Instagram un messaggio privato a Lefevere dicendo di smetterla di perdere tempo che tanto avrei firmato con la Lotto». Così.
Foto: Gregory Van Gansen/PN/BettiniPhoto©2021
Alex Dowsett c'è riuscito lo stesso
Abbiamo visto Alex Dowsett provarci. Era quel ciclista velocissimo e appallottolato ieri notte dentro una divisa rosso vinaccia e nera, che girava e girava dentro il velodromo di Aguascalientes, Messico. Lo abbiamo visto andare oltre la prestazione di Victor Campenaerts per 150 giri, con un picco iniziale di 56,9 km/h e poi una bella media record che si assestava intorno ai 55,2.
Lo abbiamo visto calare, quasi all'improvviso, in quello sforzo assurdo dove le gambe fanno così male che te le strapperesti di dosso, la vista e i pensieri sono come nebbia burrosa, le spalle iniziano ad ondeggiare, ti fai domande, non ottieni risposte, hai la bocca spalancata perché i polmoni che bruciano richiedono ossigeno, ti guardi attorno e non dovresti, e iniziano a mancarti le forze.
Lo abbiamo visto, Alex Dowsett, percorrere 219 giri e chiudere in 54,555, nuovo record personale e britannico (se si può consolare e lui si ritiene, giustamente, soddisfatto) a mezzo chilometro dalla migliore prestazione mondiale di Victor Campenaerts (55,089 km) .
Lo abbiamo visto scendere dalla bici, Alex Dowsett, distrutto, aiutato dalla moglie e dal suo allenatore, ma con l'idea di averci provato. E per noi c'è riuscito.
Lo abbiamo visto farsi intervistare e dirsi orgoglioso della sua prestazione, ma in generale di tutto quello che ha fatto in questi anni, in queste settimane: «Il messaggio più importante che voglio inviare è che chiunque abbia l'emofilia, chiunque abbia una condizione rara, chiunque stia affrontando qualsiasi tipo di avversità, beh, dico solo: provateci. Perché il più grande fallimento oggi sarebbe stato non essere qui».
Abbiamo visto Alex Dowsett sensibilizzare l'opinione pubblica su una malattia che lo affligge dalla nascita ma che contro ogni idea non gli ha precluso di diventare un ciclista molto competitivo. «Grazie all'aiuto della mia famiglia non solo siamo riusciti a trasformare in positiva una condizione negativa, ma abbiamo ottenuto il meglio assoluto».
Lo abbiamo visto raccogliere fondi per la sua campagna mirata a sostenere i giovani con disturbi emorragici e a supportare le loro famiglie (nel momento in cui scriviamo ha raccolto oltre 30.000 sterline quando l'obiettivo era di raccoglierne 15.000, e il contatore sale): la vittoria più grande, forse l'unico, vero, grande traguardo di questi giorni.
Alex Dowsett, a prescindere dalla prestazione finale (che forse un po' brucia dal punto di vista agonistico, ma tant'è, e a noi non piace sentire parlare di "fallimento"), è andato forte, e noi siamo orgogliosi di raccontare la sua storia, supportare il suo messaggio, sostenere quello che sta facendo.
Foto: Jesus Gonzalez
Il record dell'ora per Alex Dowsett
Alex Dowsett dice: «Sì, sono pronto per la sfida». Prendete nota: domani sera, quando da noi saranno circa le 23, proverà ad agguantare quel record dell'ora che fu suo per un regno più breve di quello di Pipino IV: era il 2 maggio del 2015, quando Dowsett firmò, nel velodromo di Manchester, 52,937 km.
Migliorò di quasi mezzo chilometro la prestazione che Rohan Dennis stabilì nel febbraio di quell'anno - che fermento il 2015 per il record dell'ora! Ma il primato di Alex Dowsett durò il tempo di qualche intervista, servizio speciale, un po' di fama, un battito di ciglia; durò un mese e qualche giorno, per la precisione un mese e un po'.
A Londra, infatti, il 7 giugno del 2015, (Sir) Bradley Wiggins migliorò quel risultato. Nettamente: 54,526 km. «Quando ho fatto il record nel 2015 sono andato abbastanza forte, ma sapevo di averne ancora alla fine» raccontò Dowsett qualche tempo dopo in risposta alla prestazione di Wiggins; un po' amareggiato, più o meno avrà detto così: “I am a little bit disappointed”. «La cosa è stata frustrante perché tutti abbiamo lavorato per fare il meglio possibile» riportano più precisamente i giornali.
Disse però che ci avrebbe riprovato, così come dirà spesso di sentirsi un privilegiato per avere la possibilità di farlo, e domani ci proverà con a fianco sua moglie Chanel che lo sta aiutando in tutto per tutto nella preparazione dell'impresa, e con il suo coach Michael Hutchinson: calzoni corti, capello biondo lungo che corre appiccicato alla faccia, sguardo nascosto dietro gli occhiali da sole e che a ogni giro gli darà un feedback sulla prestazione: «Lui starà lì a darmi indicazioni: finché mi atterrò alla tabella di marcia potrò stabilire il nuovo record».
Come voleva riprendersi quel record il 12 dicembre del 2020, pungolato, poiché Campenaerts si era permesso di spostare ulteriormente l'asticella verso l'alto. Ma il Covid lo fermò: «È un tipo di gara che amo e ci riproverò ancora» dirà all'indomani di quella rinuncia.
33 anni - compiuti da poco - Dowsett, attualmente corridore della Israel StartUp Nation, combatte con l'usura di una lunga carriera su strada che gli ha visto anche vincere due tappe al Giro e spesso lottare per trovare un contratto da una stagione all'altra. «Decisiva la vittoria di tappa nella Corsa Rosa del 2020: è stata dura perché nostra figlia stava per nascere e pensavo che la mia carriera ciclistica stesse finendo. Il problema è che dal ciclismo arriva l'unico reddito che abbiamo mia moglie e io» ha raccontato nelle scorse ore al The Guardian.
La sfida domani per Alex Dowsett sarà riprendersi quel record che, dopo Wiggins nel 2015, passò, come detto e come noto, sulle spalle larghe e l'andamento un po' bizzarro di Campenaerts nel 2019. Il belga lo stabilì ad Aguascalientes, Messico, proprio dove Alex si sta preparando in questi giorni; si sta adattando all'altura ed è pronto a scrivere per la seconda volta il suo nome in quel lungo elenco di “detentori del record dell'ora”. Campenaerts, per dovere di informazione, prese a picconate il muro dei 55 km firmando un incredibile 55,089 km.
La sfida per Alex Dowsett parte da lontanissimo prima di arrivare “laggiù”, il termine che userebbe Truman Capote, come fece in uno degli incipit più belli della storia della letteratura moderna.
Alex quando aveva un anno e mezzo di vita cadde, si ruppe un labbro, iniziò a sanguinare. Il problema è che quell'emorragia sembrava non arrestarsi mai. «Ha una grave forma di emofilia» dissero i medici ai suoi genitori e Alex crebbe così velocemente che all'età di nove anni imparò a farsi la così detta auto-infusione, da solo. «A volte quando sanguinava, perlopiù accadeva dal gomito sinistro o dalle caviglie, faceva di tutto per nasconderlo» raccontano mamma e papà Dowsett.
Lo sport lo ha aiutato in ogni modo, ed è incredibile pensare a dove è riuscito ad arrivare con questo tipo di malattia. Papà Phil, grande appassionato di motori ed ex pilota di British Touring Car lo ha spinto a essere competitivo, trasmettendogli la passione per velocità, competizione, numeri. Ha praticato nuoto, tennis, ma è stato nel ciclismo che Dowsett ha trovato il suo progresso: «Non ho mai conosciuto la vita senza emofilia, quindi non posso confrontare la mia esistenza con le esperienze di qualcun altro. Quello che posso dire è che una vita in cui ti viene detto cosa non puoi fare ti fa venir voglia di andare là fuori e mostrare al mondo cosa invece puoi fare, e il ciclismo è diventato un'ancora di salvezza, un modo per dimostrare che si può. Tutto».
E attraverso il ciclismo che ha portato in giro il suo messaggio: «Grazie ai miei risultati spero di ispirare le altre persone affette da emofilia» resta uno dei suoi refrain e uno degli obiettivi dietro l'organizzazione di questo evento, non solo sportivo. Perché grazie a quello che ottiene in bicicletta riesce a far conoscere in giro il suo progetto di beneficenza (https://www.littlebleeders.com/) e il lavoro fatto per The Haemophilia Society.
E tutto passerà da domani sera in Messico: con il suo nuovo tentativo di battere il record dell'ora, un hashtag, #hourofbloodswettandtears, da far girare; una prova che spinge in là il limite del ciclista, affascinante quanto basta, a tratti drammatica nella sua durezza incomprensibile.
È arrivato il momento di riprendere quel lavoro interrotto sei anni fa: e se ci fosse di nuovo il suo nome di fianco a quello di detentore del record, a noi non dispiacerebbe affatto, anzi.
Forza Alex, c'mon Alex: harder, better, faster, stronger.
Se volete seguire in diretta il tentativo di Alex Dowsett potete farlo dalle 22.35 di domani sera sul suo canale YouTube https://www.youtube.com/alexdowsettofficial
La gerarchia prima di tutto: intervista a Fausto Masnada
Il senso di rispetto di Fausto Masnada per i ruoli appare evidente, lapalissiano, quasi eclatante: «Siamo pagati per rispettare i compiti assegnati: uomo squadra, seconda linea, gregario, definitemi come preferite. È vero: è importante avere ambizioni personali, però bisogna essere realisti, sono in un grande team con grandi capitani ed è giusto rispettare ciò che ci viene chiesto».
Corridore sempre a disposizione per la sua squadra «e miei compagni lo sanno. Al termine del Lombardia sono uscite fuori polemiche inesistenti: Alaphilippe e gli altri ragazzi della Quick Step erano felicissimi del mio risultato e per come era maturato. A me non piace fare il furbo e prima di provare in prima persona avevo lavorato come mi era stato richiesto. Poi quel giorno stavo particolarmente bene anche se in partenza le gerarchie erano altre».
Inevitabile partire proprio da quel risultato maturato sul traguardo di Bergamo: 2° posto dietro Pogačar, una delle prove più convincenti della carriera del 28enne che proprio su quelle strade ha vissuto la maggior parte della sua vita, agonistica e non. «Mentirei se dicessi di non essere rimasto un po' deluso. Ma cosa ci vuoi fare: ha vinto uno dei corridori più forti del gruppo, uno che oltre ad avere la gamba ha una testa incredibile». Per Masnada, infatti, quello che caratterizza il 23enne sloveno è l'intelligenza: «Non vinci due volte un Tour se non hai anche la testa per farlo. E nel finale contro di me ha mostrato furbizia e freschezza».
Racconta, Masnada, puntuale e preciso, la preparazione e lo svolgimento dell'ultima Monumento della stagione: «Come ho detto la gerarchia in squadra era stabilita. Tre punte: Remco, Almeida e Alaphilippe e io in seconda battuta. Stavo bene ("benissimo!" gli diciamo noi); il mio compito era stare con le antenne dritte e muovermi dalla media distanza da Dossena in poi. Quando è partito Tadej sulla salita di Orezzo ho avuto il via libera da Bramati per fare la mia corsa».
D'altra parte, aggiunge Masnada, in corsa a volte le strategie prestabilite possono essere rimescolate. «Non tutti possiamo partire con il ruolo del leader, ma capita che uno dei capitani designati non si senta bene, oppure che la corsa prende una certa piega: la nostra forza in squadra è quella di essere un gruppo compatto, affiatato, ci parliamo spesso e se hai la tua opportunità come è successo con me al Lombardia allora devi essere pronto a coglierla». La pazienza come canone, la disciplina per alimentare la forza interiore.
E giù dal Passo Ganda, nella discesa del Selvino, Masnada, bergamasco doc, le sue carte se le è giocate come un abile prestigiatore, tracciando linee, prendendo rischi calcolati e riuscendo a piombare a fine discesa su Pogačar. «Quelle strade le conosco a memoria: capitava, quando mi allenavo da questa parti, di fare anche una cinquantina di volte all'anno il Selvino. Sono sceso con intelligenza, ma fondamentale doveva essere rientrare prima del tratto in pianura, altrimenti avremmo dovuto cambiare spartito».
Ma nel finale non c'è stato nulla da fare, Pogačar si è gestito in pianura, ci racconta ancora Masnada, tirando sempre con un certo margine: «E sulla Boccola ha fatto un'andatura pazzesca: ho raggiunto un wattaggio che non avrei mai creduto dopo sei ore di corsa», ma il segreto dietro quei numeri è stata anche la spinta del pubblico. Bandiere, urla, cappellini, tifosi ovunque. Davanti Pogačar seduto, potente, a scandire il ritmo, con una accenno di bocca aperta, dietro Masnada in piedi sui pedali, i denti di fuori. Si direbbe: a tutta. Forse di più. «Quanta gente che c'era a spingermi per tutto il percorso! Emozioni immense, indescrivibili. I bergamaschi sono tutti grandi appassionati di ciclismo, ma quello che ho visto in gara ha dell'incredibile. Sulla Boccola sono salito grazie al tifo del pubblico che mi ha fatto passare il mal di gambe e mi ha spinto fino in cima».
Una stagione chiusa bene, in crescendo (prima del Lombardia, Masnada volava, letteralmente, anche alla Milano-Torino), ma che lo vede soddisfatto a metà per via dei problemi fisici avuti al Giro, chiuso in anticipo per una tendinite dopo essere partito da Torino con l'influenza, e per una frattura rimediata alla Settimana Ciclistica Italiana in Sardegna che gli ha fatto saltare la Vuelta.
Ma nel 2021 ha potuto approfondire le conoscenze su due compagni di squadra per i quali ha lavorato in più fasi, in modo egregio. «Differenze fra Almeida e Evenepoel? Intanto le similitudini: hanno un talento incredibile e sono così giovani che ancora devono imparare a correre da capitani. Almeida è tranquillo, quasi pacato. Trasmette serenità in corsa. Evenepoel ha una forza devastante in tutti sensi: nervoso, istintivo, a volte non si riesce a farlo ragionare. Testardo, emana cattiveria agonistica e quando corri per lui ti senti ancora più motivato e concentrato perché trasmette professionalità e ti motiva con la sua stessa grinta».
Chiediamo a Masnada quale futuro, quali margini, quali obiettivi per lui. Al solito è laconico, essenziale; vola basso, ma più che dimesso appare concreto e ambizioso: «Anno dopo anno sto crescendo: mi pongo obiettivi nuovi che servono per stimolarmi, diventare ancora più forte e tirare fuori il meglio da me stesso. E questi miglioramenti sono la benzina che mi motiva ad andare avanti. È vero: ho fatto 2° al Lombardia e voglio continuare a migliorare, ma niente voli pindarici, preferisco commentare dopo una corsa che fare dei pronostici prima».
Gli piacerebbe fare il Giro nel 2022, anche se i programmi non sono stati stabiliti, la corsa alla quale si sente più legato e che sente più adatta. «Però, se mi dovesse essere chiesto di fare il capitano al Giro, mi farò trovare pronto».
Tour, infortuni e sofferenza: lo stallo alla messicana di Chris Froome
Soffrire, soffrire, soffrire. Scritto tre volte ma forse non basta. Quanta banalità all'apparenza - sembra sempre la solita solfa – dietro questa parola ripetuta come una nenia, ma è da qui, all'occorrenza, che parte ogni corridore.
D'altra parte cos'è il ciclismo se non atletismo, fantasia e sofferenza? Se vi siete mai allenati in bicicletta sapete di cosa parliamo, se avete mai provato a mettere vicino qualche chilometro magari condendolo con qualche salita, magari avete beccato la pioggia, magari vi siete districati su un tratto di lastricato, non potete che immedesimarvi in questo stereotipo.
Il soffrire per un corridore professionista con un passato importante è spesso finalizzato al tornare (o a provare) a essere quello che è stato, riassaporare la vittoria o arrivarci vicino. Soffrire per superare quella soglia, arrivare in cima e dire: ce l'ho fatta. Maledire – a tratti - quei momenti in cui si sale in bici, o si sceglie quel mestiere; ripensare al passato, gettare le basi nel presente per ricostruire il futuro, anche quando ti analizzi e pensi: ho quasi trentasette primavere, dove posso andare in un ciclismo dove si vincono i grandi giri appena superati i vent'anni?
Chris Froome riparte proprio da questi pensieri, si riempie d'orgoglio raccontando la propria sofferenza. Parole sue, testuali. La sofferenza l'ha messa al centro del discorso in una lunga intervista rilasciata a Cyclingnews nei giorni scorsi.
«La sofferenza - racconta Froome che tra 2011 e 2018 ha vinto 4 Tour, 2 Vuelta, 1 Giro - ha dato una nuova prospettiva alla mia carriera e alla mia vita». Dice che soffrire gli ha fatto capire quanto debba essere grato per i privilegi che ha vissuto e vive; che vuole sfruttare questa seconda occasione che ha avuto come ciclista professionista. «So che molti non lo capiscono – aggiunge - e questo mi dà ancora più forza per tornare al mio vecchio livello»
E riparte da una sorta di stallo alla messicana, cliché cinematografico che dagli anni '90 è stato riproposto in maniera assidua da Quentin Tarantino: Froome, infortuni, sofferenza e Tour de France come quattro temerari dal linguaggio un po' sboccato e magari dalla battuta piccante e fuori luogo e che si puntano la pistola addosso, l'uno verso l'altro, e sembra non ci sia modo di uscirne.
Ma ci crede Froome. Ha intenzione di uscirne. Che ce la faccia o no, ha intenzione di fuggire come Mr Pink o Mr Blonde, col bottino in mano o come voleva una certa parte di narrativa messicana: con i soldi o con la vita. «Non c'è alcuna garanzia di poter vincere un altro Tour, dopo quello che è successo e quello che ho passato. Lo so, ma rimane il mio obiettivo. Questo è ciò che mi spinge a dare il 100%» riflette il corridore della Israel.
Da giugno 2019 a giugno 2021, dall'infortunio al Delfinato alla preparazione verso il ritorno al Tour, racconta di aver sentito finalmente la gamba ferita mettersi alla pari con tutto il resto del corpo. «L'incidente nella prima tappa di quest'anno però ha nuovamente ribaltato i miei piani. Non fossimo stati al Tour mi sarei ritirato. Ero ferito dall'anca fino al gluteo, sentivo tanto dolore fino alle costole». E invece ha stretto i denti, fino all'ultimo giorno: «Arrivare a Parigi è stata una vittoria personale fondamentale».
E quei giorni di gara a fine stagione sono diventati 68, mica pochi. Da questi numeri riparte come base per essere al meglio in vista del futuro.
Froome insiste e insisterà per provare a vincere di nuovo il Tour (sic): «Nel 2022, l'anno dopo, o l'anno dopo non importa. Ciò che conta è che continuerò a lavorare fino a quando non mi renderò conto che non sarà più possibile. Questo è ciò che mi fa salire sulla mia bici ogni giorno».
Questo è ciò che intende Froome per uscire dallo stallo in cui si trova. Questo è ciò che lo spinge ogni giorno a superare i limiti imposti dalla sofferenza. Ce la farà?
Foto: A.S.O./Bruno Bade