Chef Konrad

Non fosse stato per il ciclismo oggi Patrick Konrad avrebbe un ristorante e farebbe lo chef. «Cucina austriaca e italiana, le mie preferite» ripete spesso, anche se poi, quando cita i suoi piatti prediletti viene da sorridere. «Tortine di riso con miele e cannella: hanno lo stesso sapore dello strudel» dovere che probabilmente gli impone il suo mestiere.

Oggi ha scritto il suo romanzo, cogliendo l'attimo «come quando hanno vinto Mohorič e Mollema, anticipando» e senza quel calcolo, sul traguardo di Saint-Gaudens avrebbe forse esultato Colbrelli, che non finisce di stupire, che si vorrebbe unire alla festa italiana di questi giorni, che bastano due gocce di pioggia e un po' di freddo e si trasforma nel più poliedrico dei corridori, ma d'altra parte non può essere sempre tripudio tricolore.

E oggi, Konrad, cuoce il miglior piatto. Cuoce Bakelants, uno che viene definito l'intellettuale del gruppo, che sulla mappa di cicatrici che porta addosso potrebbe scrivere una quantità di libri inferiore solo al numero di letture accumulate durante l'anno. Una volta si lasciò andare ad un'esternazione infelice quando disse: «Mi porto dietro una scatola di preservativi, perché con le miss del podio al Tour non si sa mai». Voleva forse essere una battuta, chissà, uscì male e finì in bufera.

Tempo fa Konrad, con un cognome a metà tra la letteratura e lo sport che pratica (rad, in tedesco, vuol dire ruota) disse che il ciclismo è lo sport più figo del mondo, testuale, perché è l'unico che il tifoso può toccare con mano, perché sulle grandi montagne lo sforzo viene attutito dalle urla della gente e che per questo dobbiamo essere grati a loro.

Oggi le montagne erano spaventose, un cuore di tenebra attorniato da oscuri presagi sotto forma di pioggia o dietro la terribile fama del Col de Portet d'Aspet che rievoca il peggiore dei momenti: Casartelli, 1995. La battaglia dei fuggitivi, ci ha fatto dimenticare per un attimo le cose brutte, mentre lo Chef Konrad ci deliziava cucinando il più gustoso dei suoi piatti.


Fenomeno Lachlan Morton

Ce l'ha fatta. Lachlan stamattina è arrivato a Parigi mentre la maggior parte di noi ancora si rigirava nel letto. 5.510 chilometri percorsi in 18 giorni, oltre 65mila metri di dislivello per 220 ore di corsa.
Era l'alba quando Lachlan, fenomeno, e non stiamo nemmeno qui a discutere di una definizione che gli si addice perfettamente, ha chiuso il suo Alt Tour, una settimana prima del vero Tour de France. È arrivato sugli Champs-Élysées festeggiando a piedi nudi con una bottiglia di champagne.
Fra le sue imprese (che potete seguire su https://alttour.ef.com/) restano giornate (e spesso nottate) pedalando in montagna, Alpi e Pirenei, imprese come venerdì quando ha percorso 350 km e affrontato 5000 metri di dislivello con arrivo sul Col du Portet.
Forse una delle sue giornate più difficili. Ma a Lachlan piacciono i momenti tormentati, al limite del dolore umano, lo elevano spiritualmente e mentalmente, esempio di brillante avventuriero che ha superato altri interminabili istanti molto complicati. Come i dolori al ginocchio e ai piedi che lo hanno quasi dilaniato; giornate sotto la pioggia e con il freddo, giornate che gli hanno fatto venire qualche dubbio sulla buona riuscita dell'impresa.
Per fortuna per strada ha incontrato qualcuno che ha dato linfa alla sua idea. C'è chi ha pedalato con lui come nel caso anche del compagno di squadra Whelan, o come quando ha pranzato con sua moglie, oppure quando Rohan Dennis gli ha portato il rifornimento: pane alle banane fatto in casa.
Una delle ultime sere ha trovato lo stimolo per dare il calcio finale verso Parigi incontrando suo padre che lo aspettava al campeggio facendogli una sorpresa.
Uno spettacolo, Lachlan Morton e la sua avventura in bikepacking. Azione degna dei vari van Aert e compagnia che abbiamo esaltato in queste settimane.
«Quello che sta facendo Lachlan è pazzesco. Non ci posso credere che presto sarà a Parigi» diceva qualche giorno fa Neilson Powless, suo compagno di squadra impegnato al Tour in questi giorni.
Credeteci invece, stamattina si è chiusa la sua ennesima impresa.


Io non ho paura

Bisogna fare come Wout van Aert quando si ha paura. Stamattina alla partenza si diceva fiducioso e motivato, ma con una sensazione dominante, che poi era la stessa che aleggiava, come uno spirito maligno, per tutti in gruppo: la paura per quello che avrebbero affrontato. Montagne, discese, caldo, partenza di quelle che ti friggono gambe e cervello.
Van Aert ha preso la paura e se l'è scrollata di dosso nel modo più naturale che ci sia: andando in fuga, facendo fatica. Perché è solo in quell'automatismo sensuale, il pedalare, che si scacciano i cattivi pensieri; è solo nello sforzo che si mandano via quei turbamenti che si annidano, silenti, nell'acido lattico che riempie i muscoli dopo due settimane di Tour.
Non solo van Aert ha scacciato la paura, ma ha aiutato Kuss a non averne. Il cuore di Kuss, sotto l'impulso di van Aert, ha preso a pulsare trascinandolo alla vittoria. Kuss, che da ragazzo la mattina si alzava e guardava le montagne rocciose con aria di sfida, che facendo sport di ogni genere ha imparato ad affrontare la vita con coraggio.
Anche Armirail è un inno alla baldanza, tira tutta la tappa per Gaudu che qualche giorno fa di paura ne ha avuta tanta sul Mont Ventoux e che oggi ha provato a ribaltare la sua sorte. Ma è andata com'è andata. E Valverde? A lui fa paura solo l'idea di smettere, e oggi a 40 anni per poco non vince e ci convince.
Quando Kuss conquistò una tappa due anni fa alla Vuelta, prima di tagliare il traguardo rallentò per battere il cinque a tutti i tifosi assiepati sulle transenne. A fine tappa disse: «Il ciclismo è l’unico sport dove si tifa anche chi arriva ultimo e sapete perché? Molti dei tifosi pedalano e sanno cosa vuol dire far fatica. Il mio è un gesto per omaggiare chi rende grande questo sport e ci aiuta a sopportare la sofferenza». E, aggiungiamo, da oggi, anche per scacciare la paura.


La solitudine dell'aquila

A vederlo pedalare curvo in bicicletta, con le spalle che ondeggiano come dicesse sempre no a qualcuno o qualcosa, Bauke Mollema appare un goffo levriero. Ma quando gli chiedono che animale vorrebbe essere, risponde senza pensarci: «Un'aquila. Per aprire le ali e spiccare il volo».
Divoratore di libri, durante il Giro per rilassarsi ha letto un romanzo di Lize Spit, qui al Tour "Utopia Avenue" di David Mitchell, l'autore tra gli altri di Cloud Atlas.
Efficace come l'abito di un sarto italiano, se lo metti in fuga lui sta, controlla, tira, parte, vince. Secco archibugio esperto, sciorinatore di causa-effetto.
Vince poco, ma bene, a lunga gittata appare quasi infallibile. Ha pure un marchio di fabbrica nelle sue azioni: gli altri si guardano e lui parte. Poi non lo riprendi più.
Ha un motto: "Se passi per l'inferno, continua ad andare per la tua strada" e non si vincono tappe al Tour per caso, né un San Sebastian, né un Giro di Lombardia, come quando nel 2019 sfruttò il marcamento per partire e, appunto, andare. Come oggi: infallibile il suo fiuto a quarantuno chilometri dall'arrivo.
Di corsa e da corsa, come quel levriero a cui lo abbiamo paragonato, soffre il freddo forse per quella forma fisica, ama il caldo, oppure in certi momenti semplicemente si trasforma. Coglie l'attimo.
Oggi scappare via dal gruppo appariva impossibile: la fuga era ustionante come il panace di Mantegazza, come l'hogweed cantato dai Genesis. Si è fatto di tutto per estirparla. Quando è partita, finalmente, era composta da corridori così forti che avresti fatto fatica a scegliere un nome e allora quando lo hai visto hai pensato: "Se Mollema fa il suo scatto, chi lo rivede più?". Veloce come un levriero ha seguito il suo istinto, ha aperto le ali, rapace, un'aquila in solitaria che fa quello che gli riesce meglio: controllare, tirare, partire, vincere.


Testacoda

«Tutti mi chiamano trattore e mi piace. È vero: so di non essere una Ferrari, so di non aver mai vinto, ma ogni tanto chiudo gli occhi e immagino come possa essere vivere quel momento».

Tim Declercq in carriera non ha mai vinto una corsa: paradossale per la squadra che da anni è la più vincente del gruppo. Ieri, mentre il suo compagno di squadra Cavendish eguagliava Merckx a quota 34 successi al Tour, El Tractor, come viene chiamato da un po' di tempo per l'intuizione di un telecronista argentino, doveva ancora percorrere gli ultimi dieci chilometri di corsa.

L'importanza di Declercq in gruppo la capisci accendendo la televisione quando all'arrivo mancano centinaia di chilometri. Sempre in testa a chiudere, a tirare, a dare cambi, a portare a spasso, ad arare, come si addice a chi porta quel soprannome. Fuori dalle corse lo definiscono docile come un bambino, in corsa farebbe paura al più impavido degli eroi.

Ieri, Tim Declercq, da anni considerato il più forte gregario del gruppo, tanto da aver vinto un paio di stagioni fa un premio ideato da una rivista inglese, è caduto, ma non ha desistito. Si è rialzato ed è arrivato al traguardo nonostante le botte e le ferite. Mark Cavendish aveva un appuntamento con la storia e lui, che delle vittorie degli altri è sempre uno dei fautori, avrebbe dato in pasto ai cani anche il suo cuore pur di arrivare alla fine.

È arrivato, ultimo, ma è arrivato. Quando è arrivato, Cavendish aveva già festeggiato sul podio. Ma un pezzetto di vittoria è comunque suo e da oggi proverà a ripartire con il solito spirito: menare, menare, menare, per gli altri e per realizzare se stesso. Senza vittoria? Non importa, prima o poi arriverà anche quella, al massimo chiuderà gli occhi e inizierà a sognarla.


Game, set and match

4 e 34 sulla ruota di Carcassonne. Ore 17.25 circa. Mark Cavendish conquista la quarta vittoria al Tour quest'anno, la trentaquattresima in carriera. Raggiunto Merckx.
È nella storia, se ancora si poteva dubitare di lui e del suo ritorno, quel ragazzo, che non è più un ragazzo, ma è un uomo, che forse ciclisticamente parrebbe un po' vecchiotto, ma il nostro è un sibilo, solo un pensiero fugace che appunto sfugge e rientra subito nei ranghi.
Per fermarlo, oggi, (Cav, non il pensiero!) forse ci volevano ace lanciati a velocità supersonica da Berrettini, che diversi chilometri più a nord, in quei minuti, era un altro che faceva la storia; ci volevano "lavandini e frigoriferi" parafrasando Paolo Bertolucci, per fermarlo, ma oggi la velocità supersonica è quella di Cav. Che lancia in orbita "lavandini e frigoriferi".
Per fermarlo oggi, forse si doveva mettere di traverso qualcuno. C'ha provato un po' il vento che in gruppo diventa "ventagli" oppure "echelon", così li chiamano all'inglese, visto che mai come in questi giorni tra ciclismo, calcio e tennis, quella lingua assume proporzioni ancora più popolari.
Per fermarlo oggi, forse Merckx doveva chiedere aiuto a qualcuno o a qualcosa. Forse ci voleva grandine, ma grandine è stato Cavendish; ci voleva un colpo di caldo, ma è Cavendish che bolle. Ci voleva la ragazza col cartello con su scritto "Allez-Opi-Omi" ma per fortuna lei non c'è.
Per fermarlo c'han provato, poco, ma c'han provato: Garcia Cortina per un attimo ha rischiato persino di portare a compimento un delitto in mondovisione. Ma non ce l'ha fatta, altrimenti si parlerebbe d'altro, ovvio.
Ieri Cavendish celebrava Vos, oggi è il suo turno: la palla ritorna velocemente dall'altra parte del campo, l'uomo di Man la colpisce, sbatte sulla riga, dove Morkov quasi rallenta per farlo passare - si fa per dire. Finisce a bordocampo, quella palla. Finisce dopo l'arrivo.
Perché questo è ciclismo, non è tennis, lo sappiamo, ma per Cavendish, anche oggi, è game, set and match.


Coincidenze

Quando tempo fa gli chiesero quale fosse il suo sogno, Nils Politt, corridore di mestiere, corazziere di conformazione, rispose, deciso: vincere la Roubaix o il Fiandre. Quando arrivò a un passo dal realizzarlo quel sogno, Parigi-Roubaix 2019, si diede del pazzo. «Se mi avessero detto una cosa del genere...». Philippe Gilbert, che lo superò nel velodromo, precisò: «Meritavamo di vincerla entrambi».

Se di lavoro fa il corridore, Politt è un fiammingo per vocazione. Da ragazzo approfittava della vicinanza tra Hürth e il confine belga per testarsi, appassionarsi, innamorarsi delle classiche del Nord. Ed è lì che ce lo immaginiamo prima o poi a braccia alzate, con quel sorriso che spesso fa sbracare i commentatori che si lanciano in facili ironie, con quel suo unico modo che conosce di correre: attaccare da lontano, sconquassare, scombussolare.

Forse è un caso oppure no che oggi Politt, con quel cognome che ricorda l'essere educati, vada in fuga e vinca nel giorno del ritiro di Sagan, compagno di squadra; forse è un caso, oppure no, ma in quel gruppo in fuga, pieno di corridori di un certo tipo (fisicati, da Nord) e di un certo spessore (vedi Alaphilippe) c'è anche André Greipel.

Con Greipel, Politt divide la città di provenienza, di Greipel è stato compagno di squadra lo scorso anno, di Greipel non fa che parlare bene, su Greipel disse di avere spinto affinché continuasse a correre qualche altra stagione. Di Greipel è amico: «Ha vinto Nils?». Le prime parole del velocista tagliato il traguardo, e poi il sorriso.

Oggi quando Politt è partito se avesse potuto Greipel gli avrebbe dato una mano, avrebbe fatto un buco, ma era assente dalla fuga-nella-fuga. Ugualmente non c'è stato nulla per gli altri.
Ama il vento e la pioggia, Politt, e oggi di questi elementi c'è stato solo un assaggio. Non aveva mai vinto in tutta la sua vita fuori dalla Germania e vince al Tour, e vedere rimbombare il suo sorriso sul traguardo, ci ha scaldato. «Il ciclismo non è solo il mio mestiere, è anche la mia passione. Passiamo così tanto tempo lontani da casa che oggi è tutto per la mia famiglia». Che uno così avrebbe vinto prima o poi non ci pare solo una coincidenza.

Nessuno è come Wout van Aert

Torniamo un attimo a celebrare Wout van Aert. Serve anche qualche numero, poca poesia oggi, per attirare l'attenzione e dare ancora più forma alla statura di un corridore che si fa fatica a misurare.

13 le vittorie nel World Tour (su 23 totali) e indovinate un po'? Lo stesso numero realizzato dal suo rivale, Mathieu van der Poel. Destino pazzesco: il marcamento continua.

Quello che i numeri spiegano sono anche, o soprattutto, le caratteristiche di corridore a tutto tondo. Un'ampiezza di possibilità di marcare il territorio come, chi scrive, fatica a ricordare.

Al Tour ha vinto in volata tre volte (battendo Viviani, Ewan, Bennett, Sagan) e la quarta vince sul Ventoux staccando scalatori e campioni del mondo in carica. Lui che scalatore non è, col tricolore forse più significativo del gruppo: quello belga. Tricolore che svetta in salita per la prima volta da Merckx nel 1970: era stato infatti il Cannibale, prima di lui, l'ultimo a vincere una tappa di montagna al Tour in maglia di campione nazionale (fonte: GCN).

Il Belgio che, da secoli verrebbe da dire, cerca disperato uno scalatore, si ritrova a vincere la tappa più significativa del Tour con uno che scalatore non è. Che il giorno prima del Ventoux si piazzava in volata battuto al fotofinish da Cavendish.

Ma che corridore è, quindi, van Aert? Vince volate, vince al Nord (Gand-Wevelgem), sullo sterrato (Strade Bianche), vince classiche imprevedibili (Milano-Sanremo, Amstel). Ha vinto campionati nazionali, in linea e a cronometro, e sempre contro il tempo ha vinto prove di ogni genere. Fra qualche settimana punta pure all'oro olimpico. Quest'anno, se togliamo l'86° posto nella tappa di Tignes dell'altro giorno, il peggior risultato è un 25° posto.

Nel pomeriggio di ieri, chiacchierando con amici e colleghi, cercavamo un paragone. Un corridore che, negli ultimi trent'anni, ovvero da quando seguo e ho memoria del ciclismo, gli assomigliasse. Trovavo solo risposte vaghe, mozzicate, dubbi e perplessità. Il motivo è semplice: non c'è nessun corridore come lui. Nessuno assomiglia a van Aert, van Aert non assomiglia a nessuno. Ennesima rottura col recente passato di un ciclismo specializzato a priori. Ennesimo esempio da seguire. Ennesimo vantaggio per chi segue il ciclismo in questa età dell'oro.

Ah, avremmo potuto parlare del palmarès nel ciclocross o della sua caratteristica principale: la tenacia. Ma lo abbiamo dato per scontato.


Seduti a teatro

Se il ciclismo fosse teatro, il Mont Ventoux sarebbe un palcoscenico da sogno. Con quella specie di pennacchio messo in alto a incorniciare la scenografia, la stele, la ghiaia, la vegetazione che via via scompare ad atterrire pubblico e interpreti. Una Broadway francese d'alta montagna, per chi passa tutta la vita a immaginarsi di interpretare un musical, anche se oggi la musica al massimo i corridori la sentiranno per rilassarsi un po' nel fresco (si spera) delle loro camere da letto.

Se Il ciclismo fosse teatro, Alaphilippe sarebbe il più geniale degli improvvisatori. Il ruolo dell'istrione sarebbe perfettamente ritagliato su quella faccia che, non le abbiamo contate a dir la verità, mentre era in fuga avrà assunto almeno un centinaio di migliaia di espressioni differenti. Nei giorni scorsi raccontava di non conoscere bene il Ventoux, di come non abbia potuto fare la ricognizione perché stava per nascere il figlio proprio in quei giorni, ma oggi si è fatto guidare dall'intuizione, tipica degli artisti. Ha interagito con il pubblico: tipico elemento della Commedia dell'Arte. Peccato abbia ceduto, ma il terzo atto prevedeva altri protagonisti.

Wout van Aert, invece, sarebbe quell'attore che interpreta decine di ruoli diversi: l'antagonista se c'è di mezzo van der Poel, col quale lotta e poi rilancia, l'aiutante di Roglič, il trattore su ogni terreno, il ciclocrossista, il velocista, il cronoman, l'uomo di classifica, quello del Nord, lo scalatore, il protagonista: dategli una mansione da svolgere e lui vi farà vedere come si fa. Alla perfezione. Oggi ha persino asfaltato e spianato, ha mostrato a tutti che cos'è l'indole del campione. Abbiamo pensato fosse pazzo, lo abbiamo fatto in maniera sincera, ma lui, forte e genuino, è stato semplicemente geniale. Voleva dimostrare e ha dimostrato.

Se il ciclismo fosse teatro, noi saremmo spettatori privilegiati di quest'epoca. Non resta che alzarci dal nostro posto e applaudire allo spettacolo.


Metempsicosi

In quella che appariva un'azione fine a se stessa, e poi lo era. In quella che sembrava essere la classica fuga già segnata, e poi lo è stata. In questo e in altro, nell'apparente inutilità della fatica, nel timore di rendersi quasi ridicoli agli occhi del mondo, oggi Houle e Van Der Sande hanno voluto dimostrare come nel ciclismo non conta solo vincere.

Perché attacchi per attaccare, per essere il primo a prenderti gli applausi del pubblico, perché c'è sempre qualcosa da trovare: d'altra parte andare in bici che cos'è se non ogni giorno una meravigliosa scoperta? Sarà capitato anche a voi di correre vicino casa e di vedere svelati ogni volta nuovi dettagli. Ed è così oggi per Houle che è canadese, ma queste parti le conosce molto bene. E a Valence, dove si arrivava, è praticamente di casa.

Pare fosse, non che c'interessi troppo per la verità, ma tant'è, la giornata mondiale del bacio, e se davvero vuol dire qualcosa, allora assume un significato per Hugo Houle. Ogni giorno pensa a suo fratello, a Pierrik, con il quale da bambini passavano il tempo guardando il Tour, perché nel paesino da dove viene non c'era altro da fare; Pierrik, nove anni fa mentre si allenava, fu investito e ucciso da un ubriaco, e proprio Hugo lo trovò sul ciglio della strada agonizzante. Corre per lui, ogni giorno, come se sentisse il suo fuoco dentro, perché «quello che gli è successo mi ha distrutto ancora prima di aiutarmi, ma oggi mi spinge: voglio provare a vincere una tappa al Tour per lui».

Oggi, Hugo Houle è uno dei pochi canadesi del gruppo e lo trovi spesso all'attacco. Tosh Van Der Sande, invece, è uno dei tanti belgi ed era venuto qui al Tour per aiutare Ewan. A Tignes, due giorni fa, è stato fotografato mentre cercava di mangiare qualcosa, ma appariva totalmente stravolto dalla fatica da non riuscire nemmeno a mandare giù il boccone. Nemmeno 48 ore dopo ed eccolo lì, all'attacco, per una sorte già segnata, per scoprire, farsi vedere, fare fatica.

In quella che appariva un'azione fine a se stessa e poi lo è stata, Houle ha voluto regalare un bacio a suo fratello, perché da quel 2012 non può più. E anche se non è arrivata la vittoria non importa, ci riproverà, glielo ha promesso. Van Der Sande, invece, ha voluto scrollarsi di dosso la fatica, facendone altra. Anche lui ci riproverà: è il destino di ognuno.

E in una giornata così chissà se si aspettava un bacio quella ragazza con le treccine che reggeva un cartello con su scritto "Sagan: I Love You". Mentre dopo il traguardo Cavendish dedica effusioni alla sua squadra che lo ha consegnato alla terza vittoria in questo Tour, a un passo da Merckx che fa quasi ridere a dirlo. Un Cavendish reincarnato in qualcosa di completamente diverso rispetto a pochi mesi fa. Un tipo davvero tosto, il Cav.