Un lampo, una rosa, un saluto al Giro

Ciao Giro, come sei arrivato, purtroppo, te ne vai. Un privilegio raccontarti: con il tuo epos, i tuoi colori, le tue imprese e i colpi di scena che anche oggi non sono mancati, tra la caduta di Cavagna, la foratura di Ganna, l'incidente sfiorato da Sobrero.

Ti rendi conto di quanto il tempo passa in fretta? Tre settimane sono volate via e ci hai fatto soffrire ed emozionare. Gioire, inveire, arrabbiare persino.

Sadico e benevolo, ti abbiamo maledetto per quelle tappe noiose, ci hai fatto spaventare quando abbiamo visto De Marchi a terra, o Mohorič volare in aria. Ci hai fatto tifare per Taco e per Nizzolo. Ci hai fatto spingere per i fuggitivi e storcere il naso per quelle (troppe) fughe arrivate al traguardo.

Ci hai fatto aguzzare l'occhio per cercare i nostri beniamini in gruppo, ci hai fatto contare il tempo che passava in salita tra un corridore e l'altro, come quando da bambini si calcolavano i secondi tra il lampo e il tuono, durante un temporale.

Ci hai fatto viaggiare con la fantasia facendoci conoscere luoghi da piazzare sulla mappa, salite nuove o leggendarie, discese, sterrati e tornanti. Ci hai fatto chiacchierare sulla forma dei corridori e disquisire sulle tattiche di squadra. Abbiamo avuto freddo e caldo, ci hai fatto imprecare il giorno del Giau; abbiamo conosciuto storie e alcune abbiamo provato a raccontarle.

Hai condotto 184 passeggeri e alla fine ne sono rimasti 143. Ti sei fatto portavoce della voglia di evasione di Marengo e Tagliani, Pellaud e Zoccarato, De Bondt, Rivi e tanti altri.

Ci hai donato luminose maglie rosa, che raccontano, ognuna di loro, una storia degna di essere tramandata: quella ambiziosa di Ganna, quella fugace di Valter, quella significativa di De Marchi, premio alla carriera, quella duratura di Bernal, consacrazione.

Ci hai fatto applaudire la gioventù di Covi, Schmid, Affini, Oldani, Lafay, Mäder, Sobrero e Fortunato, hai fatto riemergere Consonni, Battistella, Ulissi e Albanese, hai mostrato i muscoli di Bettiol, la lucida follia di Vendrame, ti abbiamo visto passare così velocemente sulla strada che abbiamo maledetto come sempre il tempo che passa.

Sei stato appuntamento fisso: per le vie e dentro i borghi, in tv e al telefono, al confine, in riva al mare o in cima alla montagna.

Ci hai fatto sbadigliare e innamorare, ci hai riempito gli occhi. Ci hai stregato e ogni tanto ci hai fatto prendere la mano, e se abbiamo esagerato ti chiediamo scusa per averti raccontato con qualche eccesso di retorica e un pathos incontrollabile sfociato in esaltazione dei buoni sentimenti.

Ci hai strappato sorrisi e mostrato talento, quello di Bernal, oggi vincitore finale, quello di Ganna, oggi vincitore di tappa e ogni giorno di fianco al suo capitano a scherzare per alleggerire il carico, a farsi serio per trascinare il gruppo per chilometri.

Ci hai mostrato cadute, risalite, rinascite. Ci hai dato l'ebrezza di Caruso e la grinta di Almeida. Hai cosparso tutto di neve e avvolto di nebbia. Ci hai mostrato coraggio e fantasia, abnegazione e sofferenza, sagacia e umiltà.

Sei stato, come spesso accade, un magnifico compendio strapaesano, metafora di viaggio all'italiana e di vita. Sei stato semplicemente Giro: il miglior compagno d'avventura possibile. Arrivederci all'anno prossimo, Giro, amore, nonostante tutto, infinito.

Foto: Luigi Sestili


Abbagliati da Caruso

Lo abbiamo spinto, lo abbiamo tifato, qualcuno si è commosso. Abbiamo fatto i conti come ragionieri sul suo vantaggio, ci siamo riempiti il cuore come adolescenti innamorati. Un ultimo atto meraviglioso. Da impazzire. «Credo di essere l’uomo più felice del mondo» ha detto a fine tappa. Protagonista di un indimenticabile pezzo di teatro andato in scena: Damiano Caruso.
Dalla discesa del Passo San Bernardino in poi, due ore di Ciclismo. Il giorno del coraggio, oggi, in sella a una bicicletta, il mestiere di Caruso. Interpretato da chi è sempre stato il più forte tra i compagni di squadra, uno che fatichi a chiamarlo gregario se solo non sapessi che gregario è un mestiere nobile. In scia a Pello Bilbao, fedele scudiero, seguendo traiettorie bagnate, pennellandole con giusto tempismo e senza mai rischiare. Oggi è suo il palcoscenico. Oggi è sua la giornata. Oggi è suo il nome sul manifesto. Pazienza per Bernal, ne abbiam parlato, ne parleremo.
Tornanti su tornanti e intorno neve. Montagne e valli che riempiono gli occhi e selezione prima da dietro, poi sparpaglio. Strada viscida e poi asciutta, sole che si alterna a una sottile pioggerellina. Poche persone e a un tratto tifo da stadio. Gente che sembra perdere la ragione disseminata ovunque nel finale verso l'Alpe Motta.
La curva a 1,5 chilometri dalla fine presa a tutta che per un attimo abbiamo temuto come tutte quelle persone lo potessero far cadere, e invece era solo pronta a inghiottirlo di urla e gioia che esplodeva nel vedere un italiano davanti. Nel vedere Caruso lì davanti. Oggi la sceneggiatura prevedeva il lieto fine.
Dietro, l'inseguimento di Castroviejo e Martínez fondamenta su cui si basa il Giro di Bernal. Il vantaggio che scende chilometro dopo chilometro: che importa ormai se quella maglia resterà meritatamente sulle spalle del colombiano. Oggi è il giorno del coraggio, il giorno di Caruso.
Il giorno del suo sigillo, terzo in carriera, il più importante. «Sono sicuro che prima o poi la vittoria arriverà - diceva tempo addietro- ci sarà una giornata in cui potrò giocarmi le mie carte e sarò il più forte. Ne sono sicuro». Quella vittoria è arrivata, voluta, cercata, inventata. Intuizione improvvisa sua e della sua squadra. Oggi è stato il migliore.
La pacca sulle spalle quando Bilbao si sposta, nel momento decisivo di questo Giro: sineddoche del ciclismo. Nel momento decisivo della sua carriera, Caruso pensa bene di perdere mezza pedalata, un po' di fiato, per ringraziare il suo compagno. Sì, è così che si fa.
Un nuovo Caruso? Nemmeno a pensarci, figlio dell'umiltà, Caruso ciclista. Lui che ha scelto di restare a vivere in Sicilia perché: «è difficile abbandonare ciò che si ama».
Comunque vada, ci siamo detti a un certo punto temendo venisse ripreso, è un gran Caruso. Sfoderiamo senza vergogna i superlativi. Esageriamo, gonfiamoci di retorica, oggi va così. Ammirati lo ringraziamo per questo giorno. Per aver provato a ribaltare il Giro lui che così vicino non c'era mai arrivato se non forse in quei sogni di quando si è bambini. All'arrivo indica se stesso: "Caruso sono io" sembra dire con le dita che battono sul petto.
"M'illumino di Pantani" scrisse Gianni Mura un giorno, e non crediamo di fare torto a nessuno se ci siamo illuminati di Caruso. Gregario sempre, ma da oggi anche campione.


Tutte le facce della salita

La tappa di oggi è in quel gesto dei corridori annunciato ieri sera: la decisione di devolvere i premi di giornata per sostenere le vittime della tragedia della funivia di Stresa. Azione brillante, da sottolineare.
E poi all'improvviso è tutta negli ultimi 6,5 chilometri che portano al traguardo dell'Alpe di Mera, quando Almeida la innesca, macinando il rapportino, tirando fuori la lingua come un cagnaccio assetato. Perché la salita quando è vera salita non ti permette di bluffare, ti leva la maschera, ti strappa di dosso quella corazza che fino a quel momento usavi per celare ogni sensazione.
La tappa di oggi si risolve nell'attacco di Yates, poco dopo, che riprende Almeida lo lascia lì a cercare i suoi perché e si invola verso il successo. Impassibile, col cerotto sul naso, dal busto in su pare la riproduzione in scala ridotta all'osso di un colosso di pietra. Uno dei suoi tecnici lo aveva detto: «Yates uscirà fuori nella terza settimana», una precisione così, vista di rado.
La tappa di oggi è negli sguardi di Bernal. Quando vanno via Yates e Almeida sembra finita, ma in realtà gestisce. Castroviejo e Martínez gettano litri di sudore per lui e si infiammano per aiutarlo, senza atti plateali stavolta. Bernal pare uno straccio inizialmente, poi lo sguardo si incattivisce e mira dritto verso il tornante successivo. Torna in sé fin quando, tagliato il traguardo, lancia sorrisi e occhiolini.
La faccia di Caruso è quella di chi è a due tappe da qualcosa difficile da spiegare e che non diciamo. Perché per "un gregario grande così" , come scrisse una volta qualcuno parlando di lui, quello che sta facendo è incredibile. «Ho trentadue anni e non sono così vecchio. C’è ancora qualche cartuccia da sparare» si raccontava tempo fa. Lui che sosteneva e pensa ancora che «un capitano vince soltanto se ha una squadra forte che lo aiuta, che lo scorta, che lo protegge. I gregari migliori devono andare forte quasi quanto il capitano, altrimenti nei momenti decisivi quest’ultimo rimane da solo». Lui, gregario, che si è ritrovato capitano dopo che Landa ha visto infrangere i suoi sogni sull'asfalto.
La faccia di Vlasov è quasi indecifrabile, forse sono quei tratti leggermente orientali o l'accento con inflessioni lombarde, fatto sta che, come lo leggi? Risponde agli attacchi, poi cede, poi barcolla, poi rimonta: se qualcuno ha preso i tempi negli ultimi chilometri forse scoprirebbe che alla fine Vlasov è stato persino il più veloce.
La tappa di oggi è nella prepotenza della pedalate finali di Almeida, sì sempre lui, quello delle boccacce, quello che non molla mai cascasse il mondo, quello che lo scorso anno ha vestito due settimane la rosa e che qui pareva solo in soccorso di Evenepoel. Ancora una volta maledice un traguardo che si avvicina troppo presto o forse le sue gambe che si risvegliano troppo tardi.
La tappa di oggi è in Foss che non si vede mai da doverti immaginare i suoi connotati, eppure è sempre lì, oppure in Covi, oggi 13° dopo tutto quello che di buono ha combinato al Giro a suon di fughe: il futuro per lui assume un nuovo significato.
La tappa di oggi è nella salita finale che Jacky Durand aveva descritto come simile all'Alpe d'Huez: non c'entra nulla, caro Durand, ma è sentenza vera. Perché al Giro puoi bluffare, puoi provare a nasconderti per non farti prendere, ma non puoi far nulla davanti alla forza di un'ascesa e a tutte quelle facce che ti costringe a mostrare.

Foto: BettiniPhoto


Dopo la fine c'è sempre un nuovo inizio

Nella vita di un corridore sono più i giorni tristi che quelli felici, si dice spesso, lo raccontava ieri anche Davide Cassani. Sono più le cadute che la gloria, le sconfitte che le vittorie, e una corsa di tre settimane è un compendio di rinascite e cedimenti, ascese e tonfi, di insegnamenti, motti e morali. È un viaggio che, quando giunge al termine, ne fa iniziare un altro. È una tappa che riparte, una nuova corsa che ti aspetta in calendario, una nuova idea da far diventare aspirazione.
Arrivi in fondo e c'è una fine che ti spinge verso un nuovo inizio: quando termini un cammino, vedi la luce in fondo al tunnel, completi un progetto, giungi in cima a una salita; persino quando raggiungi uno scopo e ti poni altri limiti. Quando spingi e vedi la linea del traguardo e poi la tagli sai che il viaggio al termine del giorno ti darà altro a cui aggrapparti, poi altro ancora. Ciclo della vita, sequenza da decifrare. Per ripartire, per provare a rinascere.
Per Remco Evenepoel e Giulio Ciccone ieri, il viaggio al Giro 2021 è terminato: non c'è stata una diciottesima tappa. Una curva a gomito il giorno prima con corridori che si disperdevano sull'asfalto, e giù per terra Ciccone, sul guardrail Evenepoel.
Questo Giro per loro è stato l'inizio, idea di ascesa verticale verso la gloria, un traguardo dopo l'altro da tagliare, fatica mascherata da proclami, gioie che si mescolavano a dolori, dopo un 2020 di quelli da strapparne le pagine e dargli fuoco. Infortuni gravi, drammi familiari, e sulle strade italiane la convinzione che la loro ricerca sarebbe ricominciata.
E Remco filava a questo Giro. Filava nei primi giorni tanto che c'è stata una tappa, quella con arrivo ad Ascoli, dove tutti pensavamo che il ragazzino belga dal motore che scomoda paragoni indicibili, avrebbe persino vestito la maglia rosa - semplice errore di calcolo. Poi a Campo Felice qualche pedalata da dietro, a Montalcino la crisi nervosa, sullo Zoncolan gli scricchiolii, poi Giau e infine Passo di San Valentino, martirio e dolore.
La caduta in discesa: sofferenza in un gomito gonfio come una mela acerba; il dolore: nessuna frattura per fortuna e la tappa portata a termine perché Remco non è solo sacro talento, ma un leone che si batte fino alla fine. Volevano fermarlo già il giorno prima, ma lui è ripartito, testardo, cosciente dei propri mezzi, voglioso di rinascere. L'altro ieri una sorta di oblio rotto solo da quell'immagine che lo vedeva tagliare il traguardo con una smorfia che esprimeva dolore fisico, palesava quello dell'anima. «Lo abbiamo spinto fino al traguardo - racconta Keisse, che di anni ne ha 18 in più e divideva la stanza con lui a questo Giro - aveva così tanto dolore che non riusciva a tenere stretto il manubrio». La prima vera batosta di una carriera che sin qui lo ha visto brillare come un genio delle arti a cui tutto riesce così bene. E ieri Remco non è partito, così come Ciccone.
È salito sul palco firme, Ciccone, poi nulla da fare. Anche l'abruzzese i primi giorni fulgeva, saltellava con quelle gambe nervose e tirate, sorprendeva scalando la classifica, poi una brutta botta, la febbre e una notte insonne. Infine il ritiro. Per entrambi tutto si è fermato tra Sega di Ala e Rovereto. Per entrambi tutto ripartirà con una nuova convinzione.
Per entrambi una fine anticipata in corsa, espiazione di chissà quale peccato. Ma negli occhi una scintilla. La prossima corsa arriverà presto e con quell'aria da leoni che entrambi si portano dietro è facile immaginarceli presto già di nuovo competitivi, o comunque in sella, per una rinascita che sa di rivincita. Perché a ogni fine fa seguito sempre un grande inizio e questo Giro d'Italia gli ha insegnato qualcosa anche (o soprattutto) nell'amarezza della sconfitta.

Foto: BettiniPhoto


Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol

Come brillano i muscoli di Bettiol quando sul traguardo leva le mani dal manubrio, sorride, li mostra, ci crede, occhi nascosti dagli occhiali che riflettono la luce del sole che abbaglia Stradella.

Ci crede, sì, ma fino a un certo punto. Ci ha creduto, pareva non arrivasse più questa vittoria, in una giornata dura, da fuga pazza, da finale a tutta, chiama all'appello il pubblico che risponde, e quel punto esclamativo davanti al suo nome scritto sugli appunti si cerchia di rosso.
Un gladiatore, Bettiol: gettato nell'arena mostra i pericoli delle sue zanne. Infligge ferite: chiedete a Cavagna. Ripreso sull'ultima salita esplode per tenergli la scia come se davanti alle sue ruote la forza di Bettiol emanasse vapore bollente.

Ci hai fatto urlare, Alberto Bettiol. Finalmente Bettiol, ci vien da dire. Vittoria cercata e arrivata, suggerita da ogni angolo del globo ciclistico. Dopo aver mostrato di andar forte ovunque a questo Giro, pure in salita, Hugh Carthy se lo è tenuto stretto. Bettiol vicino a lui, una guardia, una coperta in inverno, con tutto il freddo che hanno preso. Francobollato alla sua schiena, Carthy, come se dalla linfa di Bettiol prendesse forza. Come se i suoi muscoli bastassero per due.

E non poteva esistere, in un mondo fatto di ruote, grasso e catena, che uno così avesse vinto solo due corse in carriera. E non poteva esistere che in un gruppo di bei nomi come quelli oggi in fuga, uno come Bettiol non fosse tra i favoriti.

E non poteva scegliere tappa migliore. Infinita da non sembrare vero con i suoi 231 km al diciottesimo giorno di corsa. Da attaccanti, da lunghi rapporti in salita che lui spinge con la naturalezza di un animale nato per vincere oggi. Salite spacca gambe che ispirano il talento, discese più che pennellate affrontate in sicurezza. Uno scenario da cartolina da mandare a casa e scrivere: "Ciao mamma, oggi ha vinto Bettiol!" e di fianco una faccina sorridente, un cuore scarabocchiato, un altro punto esclamativo di fianco al suo nome.

Occhialini tricolori e casco rosa: apoteosi della partigianeria in salsa Giro. È uno strano animale da corsa Bettiol, a volte te lo aspetti e non arriva, oggi lo vedi lì, frizzante, ma quando parte Cavagna pensi di nuovo all'occasione sfumata.

Invece appare calcolato: animale razionale che usa finemente il cervello, sfrutta muscoli d'annata, e una pedalata, oseremmo dire, da giorni migliori. Da giorni forse mai visti. Quei giorni che un paio di anni fa gli permisero di staccare altri animali, quelli da pavé al Fiandre.
Quel giorno come oggi dove tutto fila liscio come l'asfalto dell'Oltrepò Pavese che si insinua seguendo curve e controcurve, dove la pianura cozza con la collina.

E così ha vinto Alberto Bettiol. Scattando a Cigognola, sgasando a Broni, sfogandosi a Canneto Pavese, traduzione maccheronica di quel Oude Kwaremont che lo ha reso grande.
Cavallo di razza, estroverso e simpatico, coinvolgente, con quell'accento toscano, lui che sogna la Strade Bianche, ma vince il Fiandre e una tappa al Giro. Speciale come ogni animale ciclistico e col merito di averci fatto urlare oggi: Alberto Bettiol!

Foto: Luigi Sestili


Giocando col tempo che passa

"Che sport incredibile il ciclismo" è un messaggio che ricevo mentre i corridori stanno affrontando gli ultimi chilometri. E lunghi sono stati quegli ultimi chilometri, perché la relatività del tempo applicata al ciclismo trova oggi pieno significato.
È impressionante quanto il tempo sia soggettivo e risponda a leggi fatte di fatica e sensazioni, di impulsi e riscontri. Come si modifichi a seconda del soggetto che lo vive, del momento e delle emozioni.

Per Martin gli ultimi quattromila metri sono interminabili. Almeida forse avrebbe chiesto qualche centinaia di metri in più. Yates arrivava quasi sorridente al traguardo, mentre Bernal, dopo un'imbeccata di Martinez, arrancava, ondeggiava ma si salvava: oggi una giornataccia la sua, ma lo è stata per molti.
Il tempo. Quello di una corsa come oggi che parte in discesa, veloce, velocissima, bevi un caffè e loro sono già a Trento. Il tempo che si dilata salendo verso il Passo di San Valentino, duretto non c'è che dire, o verso Sega di Ala, salita dura, vera, bellissima come il disegno di una frazione fatto come si deve.
Il tempo relativo a guardarsi indietro: due settimane già volate via, tra noia e domìni, colpi di scena, fughe e sprint. Polemiche, lacrime, cadute, persino oggi e forse decisive per qualcuno. Ferite, rinascite, vittorie e sconfitte; pioggia, neve, sole e il caldo odierno, finalmente, che di sicuro esprime nuovi valori in campo. E poi vento, mare e montagna, colline e splendide vallate.

Il tempo che sfugge: fra pochi giorni saremo a Milano, e un altro Giro sarà finito. Tre settimane così maledettamente veloci e tutto questo sembra già mancarci.

Il tempo che si comprime: la tappa degli sterrati durata un attimo, quella di Verona non finiva più. Cronostasi sul Giau senza immagini che era come entrare nella Casa di Foglie di Danielewski. O come oggi: per noi è un flash ridotto a brandelli di minuti su quell'ultima salita dove succede di tutto un po'.
Il tempo che plasma, che esplode o che invecchia. Il tempo di Covi: giovane di quelli che però il tempo non lo vogliono perdere. Oggi ancora in fuga, mosso, racconta, da passioni immotivate - lo capiamo benissimo, perché è come quando ci chiedono: perché ti piace il ciclismo?
Il tempo come un inganno che vola veloce, come quello di Luis Leon Sanchez che in un attimo si è guardato indietro ed è il più anziano in fuga.
Il tempo nel ciclismo, come un gioco a cui giocare, anche se qualcuno avrà da ridire: definirlo così è roba da pazzi. Definirlo un gioco, oggi, un azzardo impensabile.

E col tempo Martin non ci gioca, esulta sul traguardo con faccia e stile da sgangherato Paul McCartney, «non ho bisogno di vincere per stare bene con me stesso - sosteneva tempo fa - Mi basta aver dato il 100%». Oggi quel tutto lo ha dato e in cambio ha ricevuto qualcosa.
Quel tempo oggi per lui è durato un attimo, oppure un'eternità. Sarà una foto che non dimenticherà mai e conserverà per sempre, magari in una di quelle giornate in cui un momento sembrerà non passare più.
Come quegli attimi finali, vividi, impressi a tratteggiare questo Giro. Che chissà, forse possono aver cambiato faccia alla corsa.
E se ci dovessero chiedere di nuovo: perché ti piace il ciclismo? Risponderemmo senza timore: perché in giornate come questa sa essere uno sport incredibile.

Foto: Luigi Sestili


Una lezione di rispetto

Il ciclismo è una lezione di rispetto. Leva e dà, assorbe, ma soprattutto insegna. Perché Bernal rispetta il Giro. Lo capisci in quell'attacco sul Giau dove riprende di nerbo e con grazia quelli davanti, va in discesa e te lo puoi solo immaginare fino a quando non sbuca dall'oscurità.
Lo scorgi in un attimo dopo aver passato quaranta minuti a guardare facce festose al traguardo, invece che la corsa, perché sì, il Giro è nell'attesa dei tifosi all'arrivo - e su Pordoi e Marmolada, ma quelli non hanno visto passare nessuno - ma anche nel nervosismo di chi impreca davanti alla tv.
Perché Bernal voleva venire da anni qui per vincere. Niente frasi di circostanza, in Italia è diventato corridore e qui si vuole consacrare - lo ha sempre detto. Perché nel suo gesto di levarsi via di forza la mantellina, accomodandola nel taschino posteriore e senza più badare a pioggia o a intoppi, ma solo per mostrare la sua maglia rosa, c'è il rispetto per una giornata che difficilmente dimenticheremo. Perché qualche giorno fa, quando vinse a Campo Felice, non esultò, convinto che davanti ci fosse ancora la fuga e quella cosa non gli è andata giù.
"Davanti continua la cavalcata meravigliosa di Egan Bernal", la spiegava così Pancani. Un momento surreale - moderna radiocronaca. Catapultati nel passato: perché chi vuole pensare in grande cercando paragoni con il Tour dovrebbe prima guardare in casa propria. E in un tappone diventato tappino ma che farà ugualmente i suoi danni, non può lasciare tutto il mondo senza immagini.
Perché il rispetto per il ciclismo è in Gorka Izagirre a tutta e che finisce lungo in discesa e solo lui lo sa come ha evitato quell'auto parcheggiata in curva. Perché nonostante il freddo, la pioggia, la stanchezza e la paura, i corridori e le squadre dicono che avrebbero corso la tappa originale, ma si è preferito fare altrimenti - e le motivazioni non convincono del tutto, e la poca chiarezza sull'argomento resta tale anche dopo la tappa.
E partono sotto una pioggia che non cessa un secondo e vanno all'attacco, per conto proprio o in compagnia, ma sempre alla ricerca di qualcosa che solo loro possono capire.
Perché i gesti più belli, anche in una giornata da dimenticare, ma che non dimenticheremo, arrivano da loro: uomini spettacolo, ma soprattutto uomini. Caruso, che dopo una vita per i suoi capitani, oggi è più vicino al podio. Bettiol e Ganna che da soli potrebbero trainare il gruppo per giorni. Nibali che ieri cade e si fa male, oggi va in fuga. Ciccone, Vlasov e Carthy che soffrono, ma resistono. Almeida, che ha sacrificato i suoi sogni per la causa di Evenepoel.
Evenepoel, arrivato dietro, tanto dietro che non te lo potevi immaginare, congelato, che non riusciva più a pedalare e nemmeno a scendere dalla bici. Perché come lui altri che non abbiamo visto e mai vedremo, come Guglielmi e van den Berg in fuga nei giorni scorsi e oggi ultimi a quasi un'ora. O Formolo e Pedrero che ci provano in una giornata tremenda, accorciata e mutilata, sì, ma pur sempre dura. Ci provano e, possiamo giurarci, ci riproveranno.
Perché il ciclismo insegna, toglie, offre spunti. Eccellente educatore. Oggi ci ha tolto tanto, in una giornata ai limiti del grottesco, ma ci ha restituito tutto - o almeno c'ha provato - in quegli attimi finali in cui Bernal è spuntato dalla curva, dopo il buio. Degno padrone di una corsa, oggi, ahinoi, più piccola di quello che pensava di essere, ma resa grande dai suoi protagonisti.

Foto: BettiniPhoto


Suggestioni

Chi conosce bene il Friuli conosce altrettanto bene i suoi richiami. D'altra parte lo spiega anche lo slogan che fa più o meno: "dal mare alla montagna in poche ore". Oppure il giro inverso, come in questo caso, grazie al potere della Corsa Rosa.
Ieri Carnia, montagna, alta, ma non proprio cime che toccano il cielo. Lingua dura, caratteri chiusi. Poche ore dopo si scende e si parte dal mare, da Grado, per poi superare la collina e vedere Gorizia.
Da Grado, vocali aperte, con quel centro storico che ha qualcosa di pregiato, che può far perdere la testa a chi, romanticamente, schiude il cuore all'inflessione del mare.
Barchette pastello attraccate ovunque, il molo, il consorzio dei pescatori dove chiedere se preparano il boreto, e poi la partenza della tappa attraversando il ponte che collega Grado ad Aquileia. Una volta a Grado ci potevi venire solo in barca.
C'è ancora il sole alto e qualche leggera bava di vento, e Campenaerts ha già attaccato quando una caduta estromette Buchmann dal Giro. Era appena passato il chilometro zero e si era proprio lungo quel ponte. Il giro di Buchmann, sin qui perfetto, finisce contro l'asfalto. La partenza viene fermata e ritardata, quando si riparte scappa la fuga rilanciata ancora da Campenaerts.
Si sono lamentati in molti anche oggi, ma se c'era un giorno in cui era permesso e logico andare via era proprio questo. I rimpianti, piuttosto, sono da ritrovare negli animi di chi non è scappato, poco lesto, stanco o forse distratto, o, piuttosto, nelle altre tappe.
Suggestioni, a riprendere il filo: perché dalla montagna si passa al mare, per arrivare al mosso confine attraversando il Collio, passando in mezzo a tenute, castelli, vigneti, ettari su ettari di prati ben tagliati.
In poche ore abbiamo sofferto in montagna, amato il mare, per poi guardare le colline verdi intorno a Gorizia, passando sopra strade ruvide e con il cielo che via via tendeva al nero.
Vento e suggestioni friulane, dove il tempo cambia repentinamente con il battito di un'ala. Dove le strade si fanno strette, si arrampicano, scendono, si amalgamano con curve a gomito, attraversano il confine per poi rientrare. Dove in pochi minuti si parla in un modo e poi in un altro, dove lingue e accenti si mescolano.
Suggestioni: come quelle che prova Victor Campenaerts all'arrivo dopo aver battuto Riesebeek e dopo averci provato in ogni modo. In fuga sempre, o quasi, in questa stagione e in questo Giro. Ce lo ricordiamo per quella dichiarazione in mondovisione al Giro del 2017 quando arrivò al traguardo mostrando sul petto una scritta grezzamente fatta con un pennarello: "Carlien Daten?". Era la richiesta di un appuntamento. Carlien, la ragazza, acconsentì per poi farlo piangere: "preferisco se restiamo amici" gli disse. Quel giorno al Giro Campenaerts fu anche multato e declassato.
Ce lo ricordiamo anche per il record dell'ora, poco non è, ma da un po' di tempo Campenaerts ha cambiato modo di correre: più aggressivo e sempre all'attacco, stanco di piazzamenti e forse anche di due di picche.
La pioggia batte incessantemente e poi dà tregua. Caldo, poi freddo e vento. Ci si inzuppa: "Ciò che zima che xe oggi", direbbero da queste parti. Ma per Campenaerts la suggestione rimanda a un giorno caldo dove mostrare il cinque a tutti, dove il suo mondo ha funzionato alla perfezione. Suggestioni, per lui che rilancia l'impegno della sua squadra in Africa affermando come «la bicicletta ti può cambiare la vita».

Foto: Luigi Sestili


Pensieri sparsi su fughe e Zoncolan

C'è qualcosa che non convince della giornata di ieri, qualcosa che torna a metà.
Diverse cose interessanti e da salvare, raccontare e tramandare: la parabola zoncolaniana di Fortunato sul quale si spendono parole di elogio ormai da ore, entrato nella storia dopo aver vinto su una salita che in pochi anni è leggenda; il talento (sbocciato, ma aspettiamo il successo pesante) di Covi, secondo a Montalcino e terzo sullo Zoncolan, ovvero le due tappe più attese, in attesa, perdonate il bisticcio, di domani, Cortina.
L'eleganza di Bernal, degna maglia rosa, si sarebbe detto una volta. il suo scatto (l'unico tra i big) nel finale a dimostrare che a oggi solo la schiena o qualche intoppo potrebbero fargli perdere il Giro. C'è Yates (il suo più che uno scatto, un allungo per testarsi e testare) che forse ha davvero calibrato la sua crescita man mano che si sarebbe andati avanti con le difficoltà in aumento. Ciccone e Caruso colpiscono perché non mollano: due italiani tra i primi 5 a fine Giro si possono sognare.

Due parole su Evenepoel, superata la crisi cognitiva (copyright di Kristian Perrone su Cicloweb, andate a leggere il pezzo) di Montalcino, ieri di nuovo in difficoltà lungo la discesa del Monte Rest.

Davanti Izagirre si esibisce nel solito spettacolo di famiglia non appena la strada scende (poi un giorno qualcuno spiegherà la capacità dei baschi di guidare così bene la bici) e Remco si stacca, e poi rientra grazie ai compagni. Sulla salita finale cede (quasi) subito sul forcing Ineos, ma va su del suo passo chiudendo a meno di 20" da Vlasov che aveva acceso la corsa, che sembrava dovesse metterla a ferro e fuoco e invece ne esce come lo sconfitto di giornata.

Il ragazzino belga per quanto abbia ancora dei limiti e per quanto siamo d'accordo tutti non è, oggi, Merckx, sul passo ha un motore con pochi eguali e una gran testa, quella che fa la differenza. Il suo limite, però, viene amplificato dal fatto che i suoi due maggiori rivali generazionali, Pogačar e Bernal, fanno proprio dell'abilità nella guida, sia in gruppo che in altre situazioni, uno dei loro punti di forza. Remco in questo dovrà migliorare, perché così sarà sempre attaccabile.
Aspetti che non convincono. Intanto le fughe. Abbiamo detto: piacevole, anche di più, celebrare le vittorie di Lafay, Schmid o Fortunato, vedere Covi brillare ovunque, oppure Vendrame e van der Hoorn, e le loro storie da raccontare. Però qualcosa non torna quando su 13 tappe in linea ben 7 vedono la fuga arrivare e un'ottava è ripresa da Bernal (unico uomo di classifica a vincere una tappa) a pochi metri dal traguardo.

Sia chiaro, a noi la fuga piace, ma non così. Non quando è un libero lasciapassare tattico e politico da parte del gruppo. Non questa esagerata quanto plateale concessione. Il contentino dato dai più forti. Non questo ridurre ogni giorno a una sfida inclusiva tra fuggitivi, per la tappa, e tra gli uomini di classifica, per piazzamento e distacchi.

Chi vi scrive si era distratto su alcuni fatti ciclistici, come gli succede spesso nella vita di tutti i giorni, e non si era reso conto fino a qualche settimana fa che lo Zoncolan era da Sutrio e non da Ovaro. Due salite non paragonabili. Lo Zoncolan continua a non convincermi del tutto, in realtà, e perde il confronto tecnico rispetto a tante salite e tanti finali di corsa, non solo tra quelli disegnati nell'arco alpino.

Lo Zoncolan è una meravigliosa operazione di promozione del territorio, ha un nome che suona bene, bello e misterioso, dà agli spettatori la possibilità di vedere i corridori passare lenti come non mai, ti fa ammirare e rispettare la loro fatica, lo scenario è quasi geniale per quanto appare perfetto - ieri nebbia e neve, sull'altro versante le meravigliose curve da stadio, ma la domanda è: lo Zoncolan è così interessante dal punto di vista tecnico? È vero che la gara l'accendono i corridori, ma ieri come da previsione non è successo nulla fino a poco prima del chilometro finale - i più ottimisti speravano di vedere qualcosa intorno ai -3, ovvero l'inizio del tratto mortifero.

Almeno lo Zoncolan da Ovaro ti mette in un angolo da subito, pur restando poi una salita dove è (quasi) impossibile scattare davvero, dove con i rapportini ci si salva, dove la selezione arriva da dietro. E in aggiunta: perché non sfruttare per indurire la tappa anche qualcuna delle tante salite lì intorno?
Una sfida che più che ispirare, spaventa, anche se poi alla fine è vero, emergono sempre i valori dei più forti, come ieri Bernal o come tre anni fa Froome.

Foto: Luigi Sestili


This must be the place

"Piedi per terra, testa nel cielo" cantava con timbro ispirato David Byrne. Lassù, dove il mostro Zoncolan si erge chiazzato di bianco e immerso nella nebbia. Lassù, dove si può fantasticare, proiettandosi nel mito.

Lassù, dove tutti ora conosco Lorenzo Fortunato. «Mi piacerebbe vincere una tappa al Giro» diceva qualche settimana fa.

Sognare e poi fuggire, con uno scatto senza volo. Costante, scandito. Scappare via. Da Bennett, Mollema e Covi, forse più forti, ma non oggi. Riprendere Tratnik che qui in Friuli è di casa. Nato al confine, a Idria, dove si dice che gli abitanti siano un po' matti perché l'acqua del fiume che la bagna è stata contaminata dal mercurio delle miniere. Dove il piatto tipico sono gli Idrijski Žlikrofi una sorta di ravioli ripieni di patate, e, volendo, lardo ed erba cipollina.

È fatto così, Tratnik, famiglia di giocatori di basket. Grosso com'è non ce lo vedresti andare forte in salita, e infatti gli ultimi metri li percorre a zig zag vedendo la sagoma azzurra dello scalatore bolognese andare via. Vinse a San Daniele del Friuli pochi mesi fa. «Ho tenuto duro perché ad aspettarmi c'era la mia ragazza» disse. Vinse poco lontano dallo Zoncolan dove se oggi ci fosse il sole vedresti il cielo a un passo, scorgeresti la Panoramica delle Vette, ti potresti immaginare anche il mare.

Zoncolan. Un muro di nebbia. Da giorni non si parla che di lui, e portiamo pazienza per un Giro che, con un solo padrone in Rosa, a tratti inscalfibile, vede gli altri quasi in disarmo.

Giochi di fughe. Concessioni nemmeno troppo celate. Fughe che arrivano sempre e ciò non riscalda. Una sorta di Moloch contro cui lo spettatore combatte. Sarebbe auspicabile vedere i migliori lottare per la vittoria di tappa, ma poco importa, almeno per Fortunato.

Zoncolan, come il ritornello di una canzone osannata. Scendono lacrime da un incredulo vincitore che intervistato smette di parlare in inglese: «Adesso non ce la faccio» esclama radioso. Leggero su quelle rampe che non demordono, che più sali e peggio è, che più vedi la cima e più senti il petto esplodere. Prima vittoria in carriera per lui, che arriva da Bologna, dove invece dei ravioli si fanno i tortellini, lui che al basket preferiva il calcio. Prima vittoria nella storia della sua squadra guidata da Basso e Contador che in salita, a tratti, hanno fatto quel che han voluto.

E quel tifoso che a un certo punto gli si avvicina e per la troppa esultanza rischia di farlo cadere? Assomigliava a Basso, lo abbiamo pensato in diversi. Un segno del destino.

E mentre Fortunato sale, prima sul velluto, poi su un asfalto che pare infilzare le sue unghie nelle ruote, tutto intorno aumentano neve e spettatori. E mentre sale aumenta il vantaggio, e, increduli: "vince davvero Fortunato". E mentre sale, ancora nebbia, neve grigia, spettatori scalmanati, alcuni al solito travestiti, altri con un campanaccio che chissà, forse l'avranno preso in prestito da qualche mucca al pascolo.

E quando arriva: "Occhi che si illuminano, sono solo un animale che cerca casa", sempre David Byrne, caldo e intonato. Immaginavi o forse solo lo sognavi che questo sarebbe stato il posto giusto, Fortunato, "this must be the place". E oggi sullo Zoncolan, è andata proprio così.