Dal fondo del gruppo

«Faccio parte della corsa, in realtà la chiudo, ma mi sento a tutti gli effetti un piccolo pezzo della carovana». Basterebbero queste poche parole di Fabio Allotta per raccontare il suo compito al Giro d'Italia. Fabio è sul furgone del fine gara: l'ultima vettura che vedete transitare quando andate ad assistere ad una tappa. In quel “far parte”, in “quell'appartenere” ci sono già molte cose che lui si preoccupa di spiegarci. «Sai, con il fatto che sei il “fine gara”, molti non riescono nemmeno ad immaginare quanto si viva intensamente la corsa dal fondo. Pochi metri davanti a me ci sono tutte quelle storie che nessuno vede perché le telecamere non le inquadrano quasi mai, tutte quelle storie che nessuno racconta. Così, spesso, si parla solo dei primi». Fabio Allotta ricopre questo incarico da tre anni, prima ha anche corso in bicicletta e certe sensazioni non può dimenticarle. A livello pratico comunica con la giuria, segnala i tempi ed i dorsali dei corridori che si ritirano. Raccontarla così, però, sarebbe riduttivo.

«Ieri sono arrivato al traguardo quarantacinque minuti dopo la corsa. Voi pensate di salire il Giau con gli ultimi, di vederli faticare, mentre rischiano di uscire dal tempo massimo e di non poter far nulla. Diciamocelo, è snervante». Certo, perché poi quella del fine corsa diventa una vita parallela al gruppo ed ai suoi spostamenti, nel bene e nel male. «Quando c'è stata la caduta di Alessandro De Marchi ho fatto fatica a trovare il coraggio di guardare. Indietreggiavo come a non voler vedere. I corridori sono abituati ad alzarsi subito e ripartire anche se feriti. Quando vedi un ragazzo che non si muove per tre o quattro minuti, ti prende paura». Uno dei momenti più brutti è proprio il ritiro.

«In alcune situazioni è mio compito caricare la bicicletta dei corridori che lasciano la gara. Alcuni salgono sul furgone del fine gara e arrivano con me al traguardo. Ricordo ancora quando, l'anno scorso, Boaro si ritirò in lacrime, deluso, col morale a terra. In quel momento tu hai accanto una persona che sta soffrendo, cosa puoi fare? Devi stare in silenzio, aspettare e poi, con delicatezza, provare a vedere se ha voglia di parlare. Devi cercare di portarla per qualche attimo fuori da quel mondo perché quel mondo, in quel momento, è l'oggetto della sua delusione. Con Manuele ci sono riuscito e quando è salito sulla sua ammiraglia ha sorriso». Fabio Allotta prova a fare lo stesso con tutte le persone che incrocia sul percorso: «Mi faccio vedere, saluto. Le persone sono incuriosite anche dalla mia vettura, vogliono capire cosa faccio. Per questo cercano di sbirciare dai finestrini, proprio come fanno con le ammiraglie».

Perché, alla fine, la realtà del fine corsa è fatta proprio da questi piccoli momenti. «Non c'è molto tempo per parlare, ma i ciclisti sono una specie rara. Io ho sempre in macchina dei gel o dell'acqua. La crisi di fame è orribile, si soffre in maniera indicibile, avendola provata lo so e, se li vedo in difficoltà, passo una barretta. Loro se ne ricordano, ti ringraziano e da quel momento maturano una forte fiducia in te. A me quella fiducia fa stare bene». Forse quella fiducia deriva anche dal fatto che è proprio Fabio ad alzarsi all'alba ogni mattina per andare in un punto prestabilito, recuperare l'acqua per i corridori e portarla ai pullman. «Così ho conosciuto i massaggiatori ed i direttori sportivi. Magari scambiamo solo due parole, al volo, quando ci fermiamo a fare pipì durante la tappa, ma, in fondo, il bello della carovana è proprio questo. Basta poco, che poi poco non è mai».


Andare a vedere il Giro

La domenica, forse, è il giorno in cui meno ci si sorprende quando si incontrano tante persone sulle strade del Giro d'Italia. Non ci si sorprende perché di solito è il giorno in cui non si lavora e non si va a scuola, così c'è tutto il tempo per venire qui, per sedersi su un marciapiede e aspettare il passaggio. Non è sempre così, però, e forse dovremmo ricordarcelo più spesso. A noi, ieri pomeriggio, a Gorizia, lo ha ricordato Guido.
Non sapevamo nulla di Guido e Guido non sapeva nulla di noi. Ci ha colpito perché era fuori dall'uscio di una casa con un grembiule azzurro, sporcato sul petto e sulle maniche di grigio. Ci ha colpito, forse, proprio perché era domenica e di domenica, al Giro, tutti si presentano con l'abito della festa. Solo scambiandoci qualche parola abbiamo capito.
Guido è un falegname, come era un falegname suo padre, e la sua è la realtà di tutte le botteghe artigiane. «Mio padre mi ha sempre detto che si fa festa quando si è fatto il proprio dovere, per questo, se alla domenica non si è finito di preparare le consegne, non è domenica. Quando hai fatto il tuo dovere, mi diceva, ti riposi anche meglio perché sei tranquillo con te stesso e non hai più pensieri».
Per Guido ieri non era domenica, perché ha molto lavoro da fare e pochi giorni per terminarlo, così era in bottega, così stava lavorando e fino a qualche giorno prima non pensava neppure al Giro d'Italia perché «dopo quello che abbiamo passato con la pandemia, con tutte le spese che ho da pagare, con tutti i problemi che mi vengono in mente appena apro quella porta, figuratevi se ho tempo di pensare al Giro d'Italia».
Fino a qualche giorno fa, perché poi ha cambiato idea. «L'altro giorno mio figlio mi ha detto se lunedì potevo farlo restare a casa da scuola e portarlo a vedere il tappone di Cortina d'Ampezzo perché “il Giro arriva anche domenica, ma la tappa di lunedì è più bella”. Cosa pensate gli abbia risposto? Gli ho detto di no, che poteva scordarselo, che il dovere viene prima del piacere, che se non va a scuola, se non studia, si troverà a lavorare giorno e notte come me, a non saper parlare come si deve, a fare brutte figure. Gli ho detto che avrebbe dovuto accontentarsi dell'arrivo di domenica». Poi, però, Guido è andato da solo in bottega, si è messo a lavorare ed ha ripensato a tutto.
«Mentre non avevo lavoro, nei mesi scorsi, ho passato davvero momenti difficili ed ho capito quanto avesse ragione mio padre: quando manca il lavoro si disfa tutto, crolla tutto. Se non riesci a mettere assieme un pranzo con una cena non c'è storia che tenga. Sinceramente, però, ho anche capito quanto avesse ragione mio figlio. No, non andare a scuola è sbagliato ed infatti non lo farò stare a casa, però anche non fare ciò che vorresti per pensare sempre e solo al dovere è sbagliato. Perché poi, se succede come è successo in questi due anni, non sei solo a terra perché non porti a casa la pagnotta per le persone a cui vuoi bene. Sei a terra anche perché col tuo modo di essere le hai rese tristi due volte: prima negandogli i divertimenti per il senso del dovere, poi spiegandogli che era stato tutto inutile perché non solo non avrebbero avuto più i divertimenti ma nemmeno le cose a cui erano abituati perché “papà non ha lavoro”. Sì, domani chiudo presto bottega e appena mio figlio torna da scuola lo porto a vedere il Giro che passa. Fosse anche solo uno sguardo da un cavalcavia, ma lo porto al Giro. Il tempo bisogna trovarlo. Stasera mi studio la cartina».
Così Guido e suo figlio oggi avranno tempo per il Giro, ma soprattutto avranno trovato tempo per se stessi. Assieme come un padre ed un figlio e questo è quello che conta davvero. Sempre.


Una questione di equilibrio

Il lavoro di Ugo Demaria è uno di quei lavori da spiegare bene. Demaria è fisioterapista e osteopata da molti anni ed è al Giro d'Italia con l'AG2R Citroën. «Credo ci sia un errore di base: alcuni pensano che dall'osteopata si vada solo quando ci si è fatti male in seguito a una caduta. In realtà non è e non deve essere così. Il nostro ruolo è anche quello di prevenire, di risolvere problemi che, magari, ad ora non sono nemmeno avvertiti come tali. Mi spiego meglio: se sali su una bicicletta con una ruota fuori centro, tu puoi pedalare comunque e, per i primi tempi, ti sembrerà anche normale. Fino a quando tutta la bicicletta si storterà e pedalare diventerà impossibile. Agli uomini e alle donne accade esattamente la stessa cosa».

Il punto centrale, osserva Demaria, è che gli umani non hanno naturalmente una conformazione fisica adatta a stare in bicicletta e molti movimenti che devono fare per stare su quella sella sono, per così dire, innaturali. «Determinate posizioni possono comportare dolore, proprio per questo motivo. Tendenzialmente sono situazioni marginali che se corrette portano un vantaggio minimo. Però un Giro d'Italia o un Tour de France spesso si giocano su pochi secondi e non ci si può permettere di trascurare nulla. Io parlo di riequilibrio: provo a fornire un equilibrio al corpo che per molte ore sta in una posizione a lui non consona».
La giornata di un osteopata al Giro inizia sin dal mattino presto, aiuta i massaggiatori, prepara i rifornimenti e poi va in hotel ad attendere l'arrivo della squadra. «Per questioni di tempo non riesco a trattare tutti gli atleti ogni giorno, così la priorità va a chi ha più bisogno di un trattamento per problematiche specifiche». Negli anni, Demaria ha affinato tecniche e capacità e, ultimamente, dopo cena, pratica anche trattamenti che aiutino il riposo.

«A questi atleti si chiede tutto, da loro si vuole tutto. Lo stress e la pressione sono una componente importante. Non sono uno psicologo e non mi arrogo competenze che non ho, ma sono sicuro del fatto che ogni persona che stia a diretto contatto con gli atleti debba cercare di affinare la propria sensibilità e avere particolare attenzione ad ogni dettaglio, anche quello che sembra trascurabile». E la sensibilità, che è pane per il lavoro di Demaria, è duplice. «La palpazione è fondamentale, aiutano i test e gli esami. Soprattutto, però, è necessario ascoltare e, se possibile, aver provato ad andare in bicicletta e conoscere quelle sensazioni. Conoscere la dinamica di un corpo in bicicletta, non solo a livello teorico ma anche pratico».

Il resto sono aneddoti e conoscenza personale. Per esempio quando si parla di Andrea Vendrame. «Potrebbe essere mio figlio. L'ho visto crescere. Nel primo giorno di riposo non stava molto bene, stava ancora entrando in forma. La sera prima ci ha detto che ci avrebbe provato. Diciamo che ci è anche riuscito. Noi avevamo il timore che non tenesse sull'ultima salita, quando ha scollinato poteva perderla solo lui». Demaria gli consiglia di riguardare le gare di Paolo Bettini e di ispirarsi a lui per istinto e tenacia.

Non solo, però, perché Demaria lavora anche con atleti fuori dalla squadra. «Se tutti avessero la testa di Pozzovivo, avremmo una qualità stellare. Pensate che è venuto a cena da me il 22 dicembre: c'erano tante golosità in tavola, lui no. Lui si è mangiato la sua insalata con la carne cruda. A Modolo, invece, una volta feci assaggiare il carpaccio, lo mangiò di gusto e, pensate, il giorno dopo fece scintille alla Sanremo».

Foto: Luigi Sestili


L'ultimo Giro di Manuel Belletti

Quando Manuel Belletti è partito per il Giro d'Italia era felice, ma aveva anche paura. Al Giro di Turchia, una caduta gli aveva causato delle microfratture delle costole, bastava un nulla per peggiorare la situazione ed in corsa può succedere di tutto. «Purtroppo durante la terza tappa sono caduto: il medico di gara ha capito subito la situazione e mi ha consigliato di fermarmi. Non l'ho ascoltato e all'arrivo faticavo a respirare. Nei giorni successivi ho provato a continuare, ma un colpo di vento, mentre infilavo la mantellina, mi ha messo fuori gioco. Non è possibile fare i conti solo con ciò che si vuole, arriva il momento in cui devi accettare ciò che puoi e non puoi fare. Alla sesta tappa, sono tornato a casa».

Sì, perché Manuel il suo ultimo Giro d’Italia avrebbe voluto concluderlo a tutti i costi. «Dopo la caduta ho proseguito solo di testa. Il ciclismo ti insegna anche ad usare la testa per ingannare il corpo e per arrivare dove non penseresti mai. Quando ti guardi indietro, non riesci nemmeno a capire come hai fatto, perché lo hai fatto. Sembra illogico pedalare per cento chilometri quando anche da fermo senti un male assurdo perché non respiri. Anzi, è illogico». Belletti è sempre stato così, sin da ragazzo, dopo quattordici anni di professionismo, però, c'è di più: «Ho imparato a conoscermi, ho scoperto cose di me che non avrei mai immaginato. Molti mi dicono che ora sono un uomo più forte, in parte è vero. Ma è altrettanto vero che sono anche fragile, molto fragile su certi aspetti. Senza dubbio mi conosco e questo credo sia un dovere di ogni persona. Per esempio, dopo la Tirreno Adriatico di qualche anno fa, ho capito che ho paura del freddo, l'ho accettata ed ho provato a farci i conti per superarla».

Belletti è un ragazzo sincero, lo capisci quando gli chiedi come stia e non si limita alla risposta di circostanza. Te lo dice chiaramente, prendendo seriamente la domanda ed ancor più la risposta: non sta ancora bene e si sta sottoponendo a fisioterapia. Una domanda che, quando sei un ciclista, ti senti fare dai tuoi familiari al telefono, ogni mattina ed ogni sera. «Loro vogliono solo che io stia bene e di questo si preoccupano. Però, nel tempo, ho capito anche che non puoi pensare di ascoltare sempre tutti, di non far mai torto a nessuno. La tua fatica e le tue scelte ti appartengono: devi imprimere tu la direzione che vuoi».
Lui spiega di averlo sempre fatto, anche quando ha deciso che sarà l'ultimo anno da professionista. «Proprio perché credo al valore delle decisioni, voglio scegliere io quando smettere. Non voglio arrivare ad essere obbligato a farlo per mancanza di contratti. La mia testa dice così. Chi mi conosce, pensa che avrei potuto ottenere di più nella mia carriera se, in qualche occasione, non mi fossi accontentato. Credo sia vero. Io, così critico con me stesso, mi sono accontentato diverse volte. Continuare a pensarci, però, non cambierà la situazione. Ad un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di una vita più regolare. Meglio: ho iniziato a sentire la necessità di vivere il mondo che c'è la fuori, quello reale».

Ed è a proposito di quel mondo che Belletti ha la sua paura più grande. «Ho fatto tanta fatica in bicicletta, ma chiunque lavori fa fatica. Sono stato un privilegiato perché sono stato pagato per fare ciò che mi piaceva. Molte persone, per portare a casa uno stipendio, devono fare cose che non amano, che odiano nel peggiore dei casi. Ora che anche per me viene il momento di andare là fuori, ho il timore di non esserne capace. So di non avere le competenze per fare un altro lavoro, so di dover ripartire da zero e questo mi fa paura. Ma l'ho scelto e lo farò. Senza dubbi».


Giancarlo Brocci e le strade polverose

«Gaiole ha tanti pregi, ma anche un limite: il telefono prende male. Che è un limite ma pure una risorsa».

Giancarlo Brocci risponde così alla nostra telefonata nella serata della tappa dello sterrato, del suo sterrato. Basta questo aneddoto per descrivere Brocci, anima e ideatore dell’Eroica.
Lui, testa bassa, come si direbbe in gergo ciclistico, inizia subito a parlare. «Intanto, forse, abbiamo capito che lo sterrato è un valore. Per molto tempo non lo si era considerato così, ogni tornata elettorale era quella giusta per promettere di asfaltare strade polverose. Più in generale credo sia anche un fatto di mentalità: se qualcuno viene a chiedermi una mia bicicletta per correre L'Eroica, gliela cedo volentieri. Torna impolverata, sporca? Certo, qual è il problema? Le cose vanno adoperate e nell'uso si sporcano o si rompono. Mi sembra così normale, così bello».

Quel “forse” porta la mente di Brocci indietro di undici anni, al Giro del 2010, a Gianni Mura.
«Era ospite fisso del Processo alla tappa, poi accendeva il sigaro ed iniziava a scrivere. Quella sera, a Montalcino, dopo la vittoria di Evans, mi disse: “Avevi ragione, Giancarlo. Il ciclismo ha bisogno di tornare al passato per guardare al futuro”. La redazione di Repubblica gli aveva appena chiesto di raddoppiare le battute del pezzo. Alle persone questo ciclismo piace. Sapete a chi non piace? Ai maniaci della programmazione, dei watt, delle tabelle e dei numeri. A loro non piace e non piacerà mai, perché questo ciclismo le costringe a cambiare. Ma il vecchio ciclismo continuerà ad esistere e ad entusiasmare, non possono farci nulla, se non accettarlo».

Così Brocci è rammaricato per l'esito della tappa di ieri. «Il rispetto va in maniera indiscriminata a tutti, però la mia sincerità mi impone di dire che me l'ero immaginata diversa. Per questo mi sono emozionato di più domenica, coi giovani che hanno corso l’Eroica juniores. Perché lì non ci sono stati calcoli, lì si è dato tutto ciò che si aveva con la voglia di arrivare al traguardo, di vincere o anche solo di concludere. Si tratta di rispetto di quello che è il ciclismo, della fatica. Quando ti disinteressi della fuga e la lasci naufragare a minuti e minuti, forse non stai dando alla strada il rispetto che merita».

Il primo ricordo che Brocci ha del Giro lo riporta agli anni di Vittorio Adorni ed alla sua attesa di ragazzo per sentire alla radio le prime notizie riguardanti la tappa del giorno. Sostiene che, negli anni, il Giro lo ha deluso, ma allo stesso tempo confessa di non aver mai smesso di seguirlo. Per questo ieri era a Montalcino. «Perché c'è la fatica e, dove c'è fatica, c'è la parte buona dell'uomo. Noi, adesso, tendiamo ad anestetizzarla in ogni modo: non conosciamo più il vero senso della fame, della sete, della stanchezza. Questi giovani hanno scelto la fatica in un mondo che fa di tutto per cancellarla. Qualcosa vorrà pur dire».
E parlando di sterrati, di campi e di Giro, si parla di Alfredo Martini. «Mi diceva: “Noi uscivamo al mattino presto a pedalare e nei campi c'erano i contadini. Facevamo molti chilometri, poi tornavamo, e nei campi c'erano ancora i contadini. Noi eravamo fortunati, almeno eravamo riusciti a fermarci in trattoria a mangiare. Loro no”. Capisci? Si sentivano fortunati per poter fare tutta quella fatica».


La forza di ripartire: intervista a Franco Pellizotti

Il Giro d'Italia della Bahrain Victorious non è di certo iniziato nel migliore dei modi. Nel discusso finale della quinta tappa, a Cattolica, la caduta con conseguente ritiro di Mikel Landa ha stravolto ogni piano. Franco Pellizotti, direttore sportivo della squadra, quella sera ha dovuto parlare agli atleti. «Sono situazioni difficili, ma quando parti per una corsa a tappe di tre settimane sai che possono capitare. Il punto su cui ho fatto leva è stato uno: Mikel Landa aveva fiducia in questa squadra perché composta da ciclisti di valore. Questi ciclisti cosa vogliono fare? Vogliono affrontare tutto il Giro a testa bassa perché la sfortuna ha colpito Landa? Non credo sia una buona idea. Il Giro continua in ogni caso, a questi uomini l'opportunità di dimostrare quello che valgono». Sì, perché Pellizotti non ha dubbi: ogni situazione difficile può essere affrontata e risolta con successo. Tutto dipende da ciò che si sceglie di guardare.

«Credo sia fondamentale la chiave di lettura con cui si fronteggia ciò che accade. L'incidente a Landa poteva essere un alibi dietro a cui nascondersi per giustificare un Giro infruttuoso, incolpando tutto e tutti, oppure la spinta per reagire e portare ognuno a fare ancora di più. Ciò che ti arriva addosso e sembra farti solo male, spesso è anche portatore di grinta, coraggio e volontà. Certo non bisogna piangersi addosso. La squadra è ancora qui, si cambia tattica e si prosegue». Queste cose, il direttore sportivo della Bahrain le ha ripetute anche domenica, dopo lo spaventoso incidente di Mohorič, che fortunatamente ora sta bene. Anche se, continua Pellizotti, in questo secondo caso le cose sono state diverse.

«Un conto è ciò che dici, un conto ciò che accade. Per fidarsi di te, la squadra deve vedere che ciò che hai detto è vero. Che se fa in un certo modo, si può far comunque bene, seppur non puntando alla classifica generale ma alle tappe».

In questo senso, fondamentale è stata la vittoria di Gino Mäder ad Ascoli Piceno, la tappa successiva alla caduta di Landa. «Lì c'è stata la svolta. Avevo detto ai ragazzi di pensare alla Ineos Grenadiers che, l'anno scorso, dopo la caduta di Geraint Thomas ed il suo ritiro, ha costruito la vittoria del Giro. Loro hanno messo in pratica il tutto con un capolavoro tattico. In quel momento è tornata la fiducia: hanno visto ciò che possono fare. E Mäder ha trovato quella vittoria che gli sfuggiva da troppo tempo».

Franco Pellizotti è un direttore sportivo giovane e, quando si parla di esperienza, fa leva su quella accumulata da atleta. «Dirigo, ma in realtà mi sento sempre su quella sella, mi sento sempre un ciclista. Capisco bene quello che può passare nella testa in queste occasioni». Così va nelle camere degli atleti e parla singolarmente con ciascuno. «Quando accadono queste cose è giusto parlare a tutta la squadra, ma anche avere un approccio individuale. La direzione da prendere è generale, ognuno però ha un proprio carattere ed una propria sensibilità. Ciò che sprona un ragazzo, può ferirne un altro. Bisogna considerarlo».
Per farlo è imprescindibile la conoscenza. «Nella vita di ogni atleta ci sono molteplici spigolature. Quello che l'atleta è, come si comporta, non dipende solo da quello che vive nel ciclismo. Se conosci bene gli uomini con cui lavori, sai su che aspetti far leva, sai cosa hanno passato e di conseguenza che parole dire e che modi usare».

Foto: Luigi Sestili


Quando scatta Ciccone

Qualche mattina fa, alla partenza di una tappa del Giro, Giulio Ciccone si è accostato all'ammiraglia di Roberto Reverberi, direttore sportivo della Bardiani-CSF-Faizanè. Ciccone è cresciuto ciclisticamente con lui, così Reverberi si è sentito di dargli un consiglio. «Gli ho detto che deve stare tranquillo, di non perdersi per la foga di far troppo. Bernal ha una squadra molto forte, credo che la Trek-Segafredo non debba prendere in mano le sorti del Giro d'Italia. Ciccone può attendere e provare ad approfittare di un momento difficile del colombiano».

Chi conosce bene l'abruzzese spiega, infatti, che potrebbe essere proprio l'istinto ad ingannarlo. Giulio Ciccone ha sempre ottenuto buoni risultati nelle corse a tappe a cui ha partecipato ed al Giro, dove è già riuscito a vincere due tappe, nel 2019 ha anche conquistato la speciale classifica degli scalatori, senza naufragare nella generale, sedicesimo nell'occasione. Non facile, in quanto per difendere quella maglia servono scatti a ripetizione per far punti in vetta alle salite, rischiando di rimanere a secco di energie. Ciccone, che per Reverberi può centrare il podio, non può correre in quel modo, affidandosi solo alla voglia di fare. Deve programmare.

Sappiamo che studiare la tattica è una delle sue passioni ed è ciò che ha sempre preferito del passaggio al professionismo, perché ogni corsa si attaglia ad una tattica diversa e mettere in campo la tattica giusta è ciò che fa di un corridore un buon corridore. Chi ci ha corso assieme racconta che è minuzioso nell'analisi di ogni dettaglio, anche per quanto riguarda la bicicletta. Lo sanno i suoi primi meccanici. «Capitava di discuterci perché in ogni occasione voleva rivedere tutto. Quando è tutto pronto, è inutile continuare a mettersi in discussione».

Qualche anno fa, diceva che avrebbe voluto assomigliare a Vincenzo Nibali per essere un corridore da corse a tappe. L'anno scorso, dopo la vittoria al Laigueglia e la dedica alla madre, una stagione sfortunata a causa del Covid-19, quest'anno è tornato al Giro ed i più lo davano al servizio di Nibali, mentre ora le cose potrebbero invertirsi. «Non è un male. Anche per questo dico- prosegue Reverberi- che la Trek non deve “fare” la corsa e mettersi in testa a tirare nelle tappe decisive. Se lo fa, induce pressione e di conseguenza lo porta a sbagliare. A Ciccone serve la mente libera».

Ma Ciccone è anche l'uomo dei contrasti. Come uno scalatore puro che sente il fascino delle classiche, la Liegi-Bastogne-Liegi la sua preferita, e si ispira a Purito Rodrìguez per inventiva e voglia di gettarsi all'attacco. Uomo dei contrasti come il suo profilo che emerge dalla foschia, dal freddo e dalla pioggia del Mortirolo in quella tappa del 2019, come un uomo solo al comando verso Sestola ed il gruppo che non lo recupera. Come Giulio Ciccone che domenica sullo sterrato è stato uno dei pochi a reagire all'attacco di Bernal ed è arrivato secondo. Ciccone che, nel primo giorno di riposo, sa che il Giro è appena cominciato.

Foto: Luigi Sestili


La speranza di Arturo

Sono una manciata le persone appostate nella parte alta del borgo di Villalago per vedere il passaggio del Giro d'Italia. Per arrivare quassù non si contano gli scalini e le pietre dissestate, i balconi con steso qualche panno e le mollette accumulate in sacchetti appesi accanto alle persiane. Ogni insegna da queste parti sa di mani artigiane e di antico. Chi si siede fuori dalle case, arroccate in viottole, spesso senza uscita, lo fa su vecchie sdraio a righe, con una sedia di vimini accanto per poggiare gli attrezzi, per maneggiare il legno o il ferro. Sì, perché qui la gente lavora anche la domenica.

Se ci fosse qui Arturo saprebbe spiegare molto meglio di noi cos'è questo borgo. Così ci dice Maddalena, la nipote di Arturo: «Noi non abitiamo più qui, siamo solo della zona, ma per mio zio non ci sono storie che tengano. La sua città è questa. Vi racconterebbe di certo di quel gradino di pietra che è davanti ad una vecchia casa salendo qui, del fatto che pesi circa cinquecento chili. Poi vi chiederebbe, secondo voi, come hanno fatto a portarlo qui più di cinquecento anni fa. Credo non lo sappia neanche lui ma, sin da quando ero bambina, mi parlava di quel gradino. Come mi raccontava di tutto il pavimento di una casa da queste parti, pietre di venti chili che un signore ha posizionato personalmente perché “sono artigiano e le mani le ho per usarle”.»

Arturo che è cresciuto qui, quando per queste vie c'erano ancora i pollai e qualche gallina libera che arrivava all'uscio di casa, quando qui passavano ancora i muli con il loro carico e giù, accanto alla strada sterrata, si vedevano i pastori d'Abruzzo pascolare le pecore. Arturo che è appassionato di ciclismo e quelle strade le percorreva con Maddalena quando lei era ancora bambina. «Gli altri bambini raccontavano dei loro eroi, io sentivo zio che mentre pedalava per andare in campagna cantava “vai Girardengo, vai grande campione” e immaginavo chi fosse questo Girardengo». E poi tutte le rivalità che Arturo le ha raccontato. «Mio zio non ha un carattere semplice, sa essere freddo, duro, ma raccontare gli piace. Forse, per chi ha fatto la sua vita non può essere altrimenti. L'Abruzzo è una terra stupenda, ma aspra. Gli alberi scompaiono in un attimo e vedi le rocce, le pietre. Qui gli inverni sono lunghi, per quello c'è quella legna ancora accatastata».

Del ciclismo, spiega Maddalena, Arturo rispetta la fatica. «Ora che ha una certa età si commuove quando il gruppo passa e la gente applaude. Dice che fino a quando qualcuno starà ad aspettare una persona in bicicletta che sale da una montagna, sudata e malmessa, anche chi ha la sua età può sperare».
Lui sostiene che fino a ieri non si era mai perso un passaggio del Giro d’Italia nella sua terra. Maddalena dubita ma «lo dice così sicuro che contraddirlo dispiace anche. E poi si arrabbierebbe, se non gli credessi». Ieri non c’era perché un mese fa, cadendo, ha rotto il femore ed il recupero è lungo. Al mattino Maddalena è passata da lui, prima di salire al borgo, ma non gliel’ha detto, temendo di ferirlo. «Mi ha fissato e mi ha rimproverato: “Faccio finta di non sapere dove stai andando. Guarda che al Giro tornerò anche io, cosa credi? Il femore si sistema. Anzi, ti conviene sperare succeda in fretta perchè voglio tornare al borgo e, se non ci riesco con le mie gambe, vi toccherà portarmi in spalla”. Cosa volete farci, quell’uomo è fatto così».


Riuscirci comunque, crederci sempre

Qualche giorno fa, Cyclingtips ha scritto che meno dello 0,02% delle persone che vivono nei Paesi Bassi si chiama Taco: nei Paesi Bassi vivono circa 17,5 milioni di abitanti, il conto è presto fatto: 1300. E si chiama Taco proprio il vincitore della terza tappa del Giro d'Italia. Pensate che questo ragazzo, solo pochi mesi fa, avrebbe voluto smettere di correre in bicicletta. Già, pochi fronzoli per la testa e tanta serietà: serve un lavoro, se non può esserlo il ciclismo, si cercherà altro. Il suo mito è Graeme Obree, uno scozzese che è riuscito a battere il record dell'ora correndo su una bicicletta costruita con vecchie parti di lavatrici. Nulla a che vedere con quella di Taco e con i suoi studi sull'aerodinamica che lo hanno portato a vincere a Canale con soli quattro secondi di vantaggio sul gruppo.
Il motivo per cui siamo partiti da lui è semplice: perché la sua storia ciclistica avrebbe potuto finire ed invece continua che è un piacere. La sua squadra, la Intermarché-Wanty-Gobert Matériaux di storie simili ne conosce tante. Come non parlare di Rein Taaramäe, ad esempio. Lui è nato in Estonia, a Vandra. Oggi, quando si parla di Taaramäe si pensa ad uno scalatore. Peccato che nella sua nazione la cima più alta scalabile sarebbe una passeggiata anche per un velocista. Taaramäe ha fatto come molti suoi compagni tra Estonia, Lettonia e Lituania, si è spostato in Francia ed ha iniziato a correre lì, con le categorie amatoriali, pur di poter diventare un ciclista.

Forse anche la sua storia avrebbe potuto non esserci, ma lui ha creduto al contrario ed è qui, al Giro. Spesso in fuga.
Riccardo Minali, a fine novembre dello scorso anno, era ancora senza squadra e non sapeva spiegarselo. Diceva che, alla fine, è ben strano questo mondo. Magari quando sei in giornata buona non ti vede nessuno ed invece quando ti stacchi e non riesci a muovere i pedali sono tutti a guardarti. Lì si fanno un'idea su di te e poi fargliela cambiare è quasi impossibile. Anche perché cambiare idea costa fatica e l'essere umano è conservatore per indole. Poi la squadra l'ha trovata, in Belgio. Sì, perché anche Minali è in Intermarché.

Vi potremmo parlare di tanti altri, ma vi parliamo di Andrea Pasqualon. Lui che ci ha sempre creduto, più di chiunque altro. Qualche tempo fa diceva: “Se fossi un direttore sportivo scommetterei su di me”. Difficile restare così sicuri quando le cose non vanno. Lui ci è riuscito. Pasqualon lo ha fatto con il ciclismo e quando, nel 2017, è tornato a vincere, dopo due anni di digiuno, piangeva come un bambino. Lì ha capito che fermarsi sarebbe stato un errore.
E via, avanti così perché qui le storie si somigliano tutte e hanno a che vedere con la fame, la voglia di riscatto. Hanno a che vedere con ciò che provi quando rischiano di strapparti via ciò in cui credevi mentre stavi crescendo.

Valerio Piva, direttore sportivo della squadra, spiega che in Wanty si fa così perché non c'è altra possibilità, perché non c'è un uomo di classifica. Noi vorremmo dire che il mondo non si divide fra chi può far classifica e chi no. Il mondo, forse, si divide tra chi ha già lasciato perdere e chi non smette di provarci. Loro non hanno smesso ed alla fine ci sono riusciti.

Foto: Luigi Sestili


Ultimo uomo

Per Fabio Sabatini, quello iniziato sabato scorso a Torino è l'undicesimo Giro d'Italia. Eppure, a pensarci bene, di uguale non c'è praticamente nulla. «Sarebbe come paragonare il giorno alla notte. Il mio primo Giro è stato nel 2007, in Milram. Posso citarti ancora il treno a memoria: Petacchi, Velo, Sacchi e Ongarato. Il clima era diverso, c'erano ancora i treni dei velocisti. Ad oggi non c'è più una squadra che ne abbia uno definito. Forse è anche perché la dinamica dei punti UCI costringe le squadre a frazionare i compiti al loro interno. Noi eravamo al Giro solo per Petacchi. Ora, in Cofidis, ma vale per ogni squadra in realtà, ci sono tre uomini a supporto di Viviani per le volate e gli altri quattro che si giocano le altre tappe. Il treno che partiva ai tre chilometri dal traguardo non è nemmeno lontanamente replicabile».
Il lavoro di questi giorni al Giro, spiega Sabatini, è lavoro di esperienza per mettere il velocista nella migliore posizione. «Io tiro sempre le volate. Una volta lo facevo di potenza, ora di esperienza. Per Viviani ci sono io e c'è Consonni, per Gaviria ci sono Richeze e Molano. Solo la Deceuninck - Quick Step ha ancora un treno ben definito per Bennet ma perché loro lavorano così. Ricordo quando correvo lì, i meccanismi erano talmente fissati che era quasi impossibile sbagliare. La squadra partiva ai due chilometri, io ai quattrocento metri e mi spostavo ai duecento. Poi potevi vincere o perdere».
Un punto fisso resta: la fiducia. Non si diventa “ultimo uomo” dopo pochi anni di professionismo e questo è importante perché «puoi perdere il picco di potenza, quello che hai imparato, anche sbagliando, non lo perdi». Anzi, nel tempo, provi a metterlo a disposizione degli altri. «Simone Consonni è molto bravo ed essendo un ragazzo davvero intelligente capisce al volo ciò che c'è da fare, forse gli manca ancora un poco l'occhio. Non ci sono segreti particolari. Consonni, venendo dalla pista, è molto scaltro e riesce ad infilarsi in ogni varco del gruppo. Va bene, però non deve farlo quando pilota un velocista altrimenti lo costringe a fare continue volate per tenergli la ruota e, all'ultima volata, le gambe non ci sono più. Ma è giovane ed impara in fretta».
Anche la volata di ieri, aggiunge Sabatini, è stata basata sul riuscire a scegliere le scie giuste per essere nelle prime posizioni all'uscita dall'ultima curva. «Ora si lavora sempre più sull'anticipare la volata e per farlo è questa l'unica via». Crede che Viviani sia uno degli uomini più completi con cui gli è capitato di lavorare e, se pensa al passato, chiosa: «Gran parte di quello che ho imparato lo devo ad Alessandro Petacchi. Lui e Mario Cipollini erano maestri in tema di volate. Sono quegli atleti unici, inimitabili».
Quando gli chiediamo se sia soddisfatto del lavoro svolto sino ad oggi al Giro, Sabatini non ha dubbi: «Noi siamo venuti qui con l'idea di lavorare bene e credo che questo, per quelli che sono i nostri mezzi, lo stiamo facendo. Ci manca la vittoria, solo quello. Si sa, però, che, quando la cerchi troppo, non arriva. Magari, poi, incappi in una circostanza fortunata, ti sblocchi e da lì tutto scorre. Ogni giorno è il giorno buono. Ricordiamocelo sempre».

Foto: Luigi Sestili