La gentilezza è un atto rivoluzionario

Piccolo antefatto: ieri mattina, scendendo da una scala, a Castelnuovo della Daunia, sono caduto. Niente di particolare, solo una brutta storta alla caviglia. All’inizio, a dire il vero, neanche particolarmente dolorosa. Ma le botte, i colpi, si sa, fanno più male con il passare del tempo. E non parlo solo delle problematiche fisiche. Vale lo stesso anche per quelle dell’anima. All’inizio non hai quasi mai la percezione di ciò che ti accade o che ti è accaduto. Stai lì frastornato. Non senti male. Sei spaesato, il male arriva dopo. Arriva quando passano le ore, i giorni, i mesi e capisci che quel qualcosa ti è successo veramente. A quella storia del tempo che cancella il dolore non ho mai creduto. Se fosse così, dopo ogni grande sofferenza torneremmo come prima. Non succede così, mai. Te lo dicono tutti perché se non lo facessero dovrebbero prendersi la briga di fare qualcosa per quel dolore e, diciamocelo, spesso non ne hanno alcuna intenzione. Forse ci sono anche persone che fanno del menefreghismo per cattiveria. Più spesso, però, le persone sono menefreghiste perché già stanche dei loro problemi, perché già piene di problemi, senza voglia e quindi senza tempo. Ti affidano al tempo che loro non hanno e non considerano nemmeno per un secondo che quando soffri la cosa peggiore che ti si possa parare davanti è il tempo. Certe volte un lungo tempo. Ma ritorniamo alla mia caviglia.
Tutto questo per dire che nel corso della giornata il male alla caviglia è cresciuto e come sono tornato in hotel e mi sono steso sul letto ha toccato l’apice. Niente da fare, la soluzione è un antidolorifico. La farmacia, devo andare in farmacia. Scendo le scale, zoppicando, e chiedo alla reception dove sia la farmacia. Sono fortunato, è nel parcheggio. Sto proprio salutando l’addetto dell’hotel quando mi ferma un attimo e mi chiede: «Sai cosa? Perché oggi che hai finito prima di lavorare non ne approfitti per un giro in città? Lucera è molto carina». Ho risposto «sì, molto volentieri», solo per chiudere prima la conversazione e andare a prendere l’antidolorifico. Meglio ancora: «Vado subito».
«Ti accompagno io»
«Ma si figuri, mi ha detto che sono 400 metri, giusto? Vado a piedi»
«Non se ne parla, ho finito qui. Le chiavi della macchina? Ah eccole. Andiamo»
Diamine. Non ho preso l’antidolorifico, la caviglia fa male e non so neppure quando tornerò in hotel. Approfittando di un attimo di quiete dal male, dato dalla posizione in auto, cerco di fare conversazione. La mia domanda è semplice, sin troppo forse: «Dove andiamo?» La risposta no, la risposta vale la gita: «Ti racconto una storia. Lavoro in hotel ma per me è un passatempo, in realtà sono operaio in una ditta di Lucera. Quando arriva qualcuno in hotel chiedo sempre dove sta andando e perché. Non sono curioso, non nel senso comune del termine. A me interessano le persone che passano dalla reception dell’hotel in cui lavoro. Per questo faccio domande, per questo quando mi dicono che non conoscono la mia città le consiglio. Magari le accompagno per le vie del centro. Mi fa piacere. È una specie di piccola missione. Alla fine mi sembra che le persone siano contente. Magari tornano in albergo a distanza di qualche anno o segnalano l’hotel a parenti perché «Lucera è bella». È una piccola cosa: accompagno solo qualcuno per le vie della città e mostro qualche monumento. Mezz’ora, certe volte anche meno, ma mi sembra un modo di restituire un qualcosa. Credo che quando ci succede qualcosa di bello abbiamo il dovere di trasmetterlo, di lasciarlo per gli altri, di fare in modo che anche gli altri possano provare quella sensazione come noi. Io ricordo che, nei miei viaggi in camper, quando qualcuno mi accompagnava in posti nuovi provavo una sensazione fantastica. Cerco solo di restituire ciò che è capitato a me e se gli altri sono felici lo sono anche io».
E come potrei raccontarvi qualcosa in più, qualcosa di meglio? Come potrei aggiungere un qualcosa che non sia assolutamente inutile. In quella risposta c’è tutto. Vi dico solo che con Gianni, così si chiama questo signore, abbiamo girato Lucera per circa quaranta minuti e siamo tornati in hotel che erano quasi le sette di sera. Che ho trovato la farmacia in chiusura ed è solo grazie alla gentilezza della proprietaria se ho recuperato il mio antidolorifico. Che, in fondo, anche avessi trovato la farmacia già chiusa sarebbe andata bene lo stesso. Sì perché un modo per sentire meno male c’è ed è a portata di mano di chiunque. Il segreto è restare una porta spalancata sul mondo anche quando sembra inutile. Non sempre riuscirete a restare così, di quella porta, talvolta, il mondo lascerà solo una piccola fessura aperta. Non prendetevela troppo, avvicinate gli occhi e guardate. Guardate attraverso quella minuscola fessura e vedrete che un millimetro di bellezza passerà. Dovete solo guardare.


Una maglia rosa per un anziano capitano

Quando arrivi in sala stampa e hai dei comunicati da preparare, non vorresti altro che silenzio. Così, quando ieri, nella sala stampa di Terracina, è arrivato l’ex capitano della Guardia di Finanza a salutare i giornalisti presenti, per qualche momento ho sperato fosse solo un saluto fugace. Ho ben presto capito che non sarebbe stato così. Parliamo di un signore di ottant’anni spaccati, elegantemente vestito in divisa, con voce bassa e capelli bianchi, sotto il cappello della divisa. Un signore con tanta voglia di raccontare, uno di quelli legati ad ogni singolo oggetto della propria esistenza, ai propri nipoti, di cui tiene i disegni in ufficio e alle piccole abitudine “il caffè dopo pranzo ci vuole”. E il caffè te lo porta dalla sua moka, con tanto di biscotto. Uno di quei signori che sanno di tempi andati e che ti fanno pensare ai tuoi nonni, quelli che magari non hai più la fortuna di avere qui. Quelli che ti fanno ricordare un divano fiorato e le braccia del bisnonno che ti stringevano durante il Giro d’Italia. Le carezze sulle guance, tutto il resto e il momento in cui ti sei reso conto di averli persi per sempre. Uno di quei signori che, appena ti vedono con lo sguardo perso nel vuoto, si avvicinano e «hai bisogno di qualcosa?». Magari sì, magari no, ma è bello che qualcuno ci pensi. E poi, in fondo, abbiamo sempre bisogno di qualcosa, siamo sempre monchi e una sola domanda può salvarci. Sì, perché anche un’unica persona che si interessa a te, diventa il motivo per andare avanti. Ma deve essere un interesse vero, uno di quelli che sanno delle mani calde dei nonni sul viso, quando torni da scuola in inverno e fuori fa freddo.
Già, adesso dico così. Ieri lo ho ascoltato per una buona mezz’ora. Io vivo grazie alla condivisione delle storie, delle parole, del sentire delle persone che incrocio. Ho scelto questo lavoro per questo. Avessi fatto altro, con il carattere che mi ritrovo, troppo timido, introverso, sarei rimasto in un angolo, da solo. Avrei dato il massimo ma non avrebbe avuto senso. Con questo lavoro ho liberato quella parte di me che premeva da dentro e faceva male. Ho potuto fare tutto ciò che avrei sempre voluto fare e di questo conservo una felicità bambina. Attimi, frazioni di secondo, in cui mi dico che, sí, è tutto così bello. Fuori non si capisce nulla ma dentro sì, dentro sono felice. Questo non lo cancello, non potrei mai. Ma la fretta è cattiva consigliera di parole e gesti, così nella mia mente, per qualche istante, si è affacciato il nervosismo. Sulla punta della lingua avevo uno «scusi, può lasciarmi lavorare un attimo in silenzio?». Adesso mi si rivolta lo stomaco solo a pensarlo ma ieri stavo per dirlo. Ed è grave, contraddice buona parte di ciò che racconto a tutti quelli che mi chiedono il motivo della scelta di questo lavoro. Per l'ascolto, dico. Non ho detto nulla perché so cosa significa essere zittiti, anche se elegantemente, anche se con correttezza. Le parole ti si bloccano da qualche parte nelle viscere e poi smetti di parlare. Stai in silenzio anche quando non vorresti, temendo che qualcuno ti ributti ancora giù tutta la voglia di parlare. E di parlare abbiamo tutti una gran voglia. Ho pensato che se quel signore era arrivato a ottanta anni così affamato di racconto, non avrei dovuto essere io a spegnergliela per una stupida fretta. Così è passata un'ora.
A fine tappa gli abbiamo consegnato una maglia rosa in ricordo di quel giorno. Probabilmente nei prossimi giorni la farà vedere a tutte le persone che passeranno dal suo studio e racconterà di questa giornata e di altri ricordi sciolti dentro. Ha chiesto una foto e poi ha guardato meglio la maglia. Si è commosso, gli sono venuti gli occhi lucidi, ha appoggiato la maglia sul tavolo e, indicandola: ''Troppo bello, troppo bello''. Piangeva il capitano della Guardia di Finanza. Così forte che una ragazza dell'organizzazione, vedendolo, è scoppiata in lacrime. E piangeva più forte ancora. Questo era davvero bello, troppo bello. Loro sono bellissimi. Io così sciocco che, per la fretta di finire un pezzo, non ho avuto il tempo di alzarmi e avvicinarmi a loro. Magari solo per una carezza sulla spalla, come faccio sempre quando vorrei abbracciare ma non oso. Forse dovrei essere ancora lì ad ascoltarlo quel signore. Forse un giorno ci tornerò e lontano da ogni fretta gli dirò quello che penso. Che senza uomini così non avrebbe senso.

Foto: Tornanti.cc


Di passi incontro

Alla fine, quasi tutto il tuo valore personale, quello che resta di te oltre tutto ciò che la vita ti mette addosso, si riduce a ben poche cose. Una di queste crediamo, fondamentalmente, abbia qualcosa a che vedere con i passi che muoviamo per andare incontro a ciò che sta sotto il nostro stesso cielo. I passi degli umani sono così simili e così diversi. Muovere un passo lascia sempre un segno, devi solo decidere molto bene che senso vuoi abbiano i tuoi passi, il tuo potere. Prendere una direzione è un potere enorme. Puoi scegliere di andare incontro solo strettamente al tuo bene e quindi risparmiare ogni passo in più che non sia a quello finalizzato. Ti stancherai molto meno e arriverai prima dove vuoi arrivare, questo è certo.
Diversamente scegli di usare alcuni dei tuoi passi, che sono solo tuoi, che ti appartengono, per qualcuno o qualcosa che non avrà un riflesso diretto sulla tua vita. Lo avrà sulla vita di qualcun altro e in questo caso devi solo augurarti che sia un buon riflesso. Che non sia qualcosa di troppo pesante o di invasivo. Devi essere capace di avere tatto, di mantenere la giusta distanza anche quando non vorresti, anche quando quel tuo passo è talmente dedicato ad altri che vorresti sentirli vicini, ancora più vicini. In questo caso soffrirai, verrai deluso e rifiutato. Se avrai una meta dovrai sapere che il tempo per raggiungerla sarà molto più lungo. Ma, se deciderai di muovere i tuoi passi verso gli altri, non dovrai avere timori. Dovrai continuare a farlo. Solo allora la tua scelta avrà veramente senso. Solo allora l'avrai davvero sentita.
Se scegli questa via ti troverai a camminare quando non ne avrai voglia, quando sarebbe sconsigliato farlo, quando tu potresti stare al tuo posto e sostanzialmente non cambierebbe nulla, almeno apparentemente. In realtà qualcosa cambia sempre, certe volte talmente dentro da non vedersi neppure. Magari rotto in mille pezzi. Se sei una ciclista professionista, una campionessa del mondo in carica, in maglia rosa, sul podio del Giro Rosa dopo una tappa immersa in una canicola estiva d'altri tempi, fare un passo verso gli altri vuol dire scendere dal podio e andare verso il pubblico. Vuol dire fare attenzione a tutte le norme anticovid ma non rinunciare ad andare dove si sono posati gli occhi. Fare un passo incontro a qualcuno vuol dire averlo visto, avere interiorizzato qualcosa di suo, condividere parte del suo destino pur non conoscendolo. Così ha fatto Annemiek Van Vleuten, ieri, quando ha visto una signora fissare il suo mazzo di fiori, sul podio. L’ha guardata, ha guardato tutte le persone riunite in piazza e poi è scesa dal palco. La cercava l’addetto stampa della squadra, gli ha fatto cenno di aspettare. Si è avvicinata alle transenne, restando a un metro e mezzo di distanza e ha allungato la mano porgendo i fiori. Vedi una signora prendere i fiori e ringraziare con un filo di voce. Vedi la stessa signora sorridere continuando a ringraziare e vedi Annemiek Van Vleuten fare cenno “basta” con la mano. E ancora “basta”. Come a dire che quel ringraziamento non serve, che non vuole essere ringraziata, che quei passi in più fatti li ha scelti senza dubbio alcuno. E non li cambierebbe con nessun altro passo al mondo, nemmeno col più vantaggioso. Cosa cambiano quei passi per Annemiek Van Vleuten? Poco o niente. La domanda è: cosa cambiano quei passi per quella signora. La ragione di quei passi è lì. La grandezza di quei passi è nello sguardo che li ha suscitati e nella volontà che li ha compiuti, sapendo che con così poco sarebbe cambiato così tanto. Succede così, quando si sceglie di andare incontro agli altri, diventa una missione. Senza se e senza ma. E noi ci immaginiamo quella signora con quel mazzo di fiori nel salotto di casa e sentiamo fresco anche se oggi, a Terracina, fa ancora più caldo di ieri.

Foto: comunicato stampa Mitchelton Scott


Il mondo di Katarzyna Niewiadoma

«Il futuro lo immagino in un piccolo paese di montagna. Magari simile a Ochotnica, dove sono cresciuta, in Polonia. Vorrei vivere in una di quelle casette nella natura, con un orto davanti. Uscire di casa, al mattino presto, sentire l’aria fresca sul viso e, oltre qualche nuvola, vedere i monti. Poi scendere nell’orto e raccogliere frutta e verdura. Portarla in casa, sedersi al tavolo, pulirla e prepararla per il pranzo. Vorrei una famiglia e dei bambini. Stare con loro al caldo, accanto a un camino, a guardare da una finestra mentre fuori nevica e la brina ricopre i cancelli». Katarzyna Niewiadoma ama parole semplici, gesti genuini e sensazioni primordiali: «Provo una sensazione bellissima quando vedo le macchie di colore mescolarsi sul mio foglio. Non dipingo per esporre, dipingo perché mi fa stare bene. Mi rigenera. Se poi tra quei colori spunta il giallo ancora meglio. È il mio colore preferito. Dipingere è un gioco». Così quella maglia, quella della Canyon Sram Racing, così variopinta, come calata da qualche universo futuristico e parallelo, le sta proprio bene. È una seconda pelle che fa riaffiorare ciò che la prima cela.

«Ringrazio Taylor Phinney, il mio ragazzo, per tutta la sua magia». Niewiadoma ha scritto così al termine della prova che la ha vista terza all’Europeo di Plouay e noi siamo sicuri che parlasse di questo, come della bellezza del fare il pane in casa, impastandolo a mani nude, o del raccogliere le albicocche in giardino prima che venga a piovere. «A Ochotnica non c’era molto. Ma per me bastava: c’era la mia famiglia, la mia casa e quel paesaggio che qui in Spagna, a Girona, mi manca. Amo ogni singolo sentiero del mio paese di origine. Lo sento palpitare. Lo porto dentro di me». Da qualche parte, in lei, ci sarà anche quella sera in cui papà, tornato a casa con una bicicletta da regalarle, le chiese: «Questa è tua. Mi piacerebbe se qualche giorno venissi con me in bicicletta, mi piacerebbe partecipare a qualche gara con te. Ti va?». Non abbiamo visto i suoi occhi in quel momento, ma possiamo intuirli. Alla fine, per quanto ogni iride sia diversa, quello che ci luccica dentro può ricondursi a ciò che tutti conosciamo. Più o meno intensamente. Figlio della vita.

«Ho una paura che mi ha sempre accompagnata. Ho paura, nel tempo, di vedere il ciclismo solo come un lavoro. È un lavoro, inutile negarlo. Ma non è solo quello, non posso immaginare che sia solo questo. Il ciclismo è quella sensazione di pace che senti quando vai dove vuoi, magari scappi o magari insegui, ma nelle orecchie hai solo il suono della bicicletta. Se scappi non devi mai voltarti, tu stai andando altrove. Perché pensi ai luoghi che stai lasciando? In bicicletta non hai più l’assillo che tormenta ogni nostra giornata: il tempo. Vorresti averne di più, vorresti che tutto il tempo fosse lì per te, per non dover mai scendere dalla sella». Le piace l’Italia, Siena, le stradine del centro città che sanno di antico e il nostro cibo. Le piace vincere. E voi direte che, in fondo, è ovvio per un’atleta. Non così tanto per Katarzyna; a lei, oltre che per tutto il resto, piace vincere per un motivo ben preciso. «Puoi andare in conferenza stampa e rispondere a tutte le domande. Puoi raccontare, puoi raccontarti. Non è bellissimo?».

Foto: Katarzyna Niewiadoma, Twitter


Badlands, quando l'utopia diventa realtà

«Amavamo la gravel, le montagne, i deserti, la neve e il mare. Amavamo la bicicletta, il bikepacking e l’autosufficienza che regalano. Avevamo una sola domanda: è possibile mettere tutto questo assieme in un unico evento? Abbiamo cercato, esplorato, ribaltato ogni angolo di mondo e trovato la risposta. L’abbiamo messa in pratica, le abbiamo dato un nome evocativo ed oggi Badlands è realtà». Sono dei visionari con il futuro in una mano ed il presente davanti agli occhi gli organizzatori di Badlands 2020, evento organizzato da Transibērica Ultracycling. I partecipanti sono partiti questa mattina alle otto da Granada, in Spagna.

Ad attenderli 700 chilometri e 15000 metri di dislivello, attraversando luoghi remoti e sperduti ai confini del continente: Hoya de Guadix, deserto Gorafe, deserto Tabernas, Cabo de Gata, sino a 3212 metri del Passo della Veleta. Percorsi caratterizzati all’85% da fuoristrada, è consigliata una bicicletta gravel ma l’avvertimento è chiaro: «tu e la tua bici siete i benvenuti, sempre». Un percorso da attraversare da soli od in coppia, immergendosi nella natura. Con poche e semplici regole: «Passerete in ecosistemi delicati, rispettateli. Non lasciate traccia del vostro transito. Studiate prima il percorso, preparatevi. Viaggiate leggeri, tralasciate il superfluo e ricordate l’essenziale. Ricordatevi di usare gentilezza e comprensione per tutti coloro che collaborano all’organizzazione dell’evento. È importante».

La libertà è il sapore di tutto: «Potete abbandonare il tracciato predeterminato, liberamente. Ma dovete ritornarci, se volete restare in gara. Il tempo scorre e non si ferma mai: quando mangiate, quando bevete, quando dormite o quando vi fermate a prenotare un posto dove trascorrere la notte. Non sempre lo troverete e le condizioni meteorologiche potrebbero essere complesse. Passerete dai quaranta gradi a temperature inferiori allo zero. Portate una borsa da bivacco e avrete tutto ciò che vi servirà».

Non chiedetevi se è una gara. Dipenderà da voi. Se vorrete correre per vincere o per arrivare in fondo. Ci sarà una classifica finale ma nessun premio per il vincitore. Sarà bello, soprattutto se ci avrete creduto in ogni singolo momento. Ed arrivare alla fine, forse, non vi sembrerà neanche vero. Al via anche due italiani: Bruno Ferraro e Alessandro Pace.

Un’esperienza inimmaginabile solo fino a qualche anno fa. Almeno per i più. Non per gli organizzatori. Badlands, letteralmente terre cattive, sarà una perfetta miscellanea di desiderio di competere, di migliorarsi, di sfidare l’impossibile e di sogno di tranquillità, di visione incantata su altri mondi, di terra, acqua, sabbia, ghiaccio e neve. Dell’uomo e della natura. Ecco perché Badlands è Alvento. Ci riguarda e vi riguarda.


Ricominciare a scrivere

A chi, in questi tempi di cinismo e sfiducia, si fosse disamorato di qualcuno o di qualcosa consigliamo solo di dare un’occhiata qui sotto. Guardate la foto, sì, quella di Thomas Pidcock che firma la maglia rosa all’arrivo di tappa di ieri, nella splendida Colico, al Giro Under23. Voi guardate, il resto ve lo raccontiamo. Vi raccontiamo della delicatezza con cui Piddock, o Pidders come lo chiamano, ha preso in mano le maglie, dopo essersi passato le mani sudate nei pantaloncini. Per non sporcarle. Vi raccontiamo della sicurezza con cui ha afferrato il pennarello e si è chinato sulla prima maglietta per autografarla. Come a dire “sei mia, sei ancora mia”. Vi raccontiamo della sua reazione quando, nell’autografare, le magliette si sono scostate e la sua scritta ha traballato. Le lettere del suo nome hanno traballato e quella firma è diventata sbiadita, storta, poco decifrabile.

Tom Pidcock se ne è accorto subito. Ha messo una mano sotto le magliette e con l’altra ha provato ad allungarle, a stirarle, per meglio vedere. La vista lo ha deluso. Aveva firmato male, quella scritta non era più un decoro, quella scritta stava male lì. Messa così era quasi meglio non ci fosse. Cosa fare adesso? Tom Pidcock ha avvicinato il viso alla maglia, ha guardato meglio e ha deciso. E dovevate vederlo. Dovevate vedere l’attenzione con cui ha riavvicinato il pennarello alla maglia. Non è facile avvicinarsi a qualcosa di rovinato o di sgualcito. Non è facile avvicinarsi al dolore, alla malinconia, alla tristezza. Puoi avere la migliore delle attenzioni e peggiorare la situazione. Come quando pensi di pulire una piccola macchia su un divano ed in realtà sbagli prodotto, sbagli modo di strofinare, sbagli tutto e la macchia si ingrandisce.
Dovevate vedere la leggerezza con cui ha iniziato a ripassare con il pennarello le lettere scritte male, nel tentativo di renderle migliori. Scriveva e allontanava la testa per vedere l’effetto che avrebbe fatto quella firma così corretta. Lo ha fatto per una, due, tre volte. Poi ha guardato un’ultima volta ed è passato alla maglia successiva. Con una cura raddoppiata, triplicata, quadruplicata, se possibile. Era soddisfatto. E pensare che non ci eravamo mai soffermati con tanta attenzione sugli atleti alla firma delle maglie, dietro il podio. Pensare che lo ritenevano un gesto quasi scontato, ripetitivo. Uno di quei gesti ufficiali che poi contano fino ad un certo punto. Ci eravamo sbagliati. Di grosso.

Ogni tanto, nella vita, qualcosa sbiadisce, scolora, traballa. Qualche volta, purtroppo, è qualcuno a perdere salde radici, ad abbandonarci, a cambiare così velocemente da non lasciarci tempo di capire. Nella peggiore delle ipotesi è la vita stessa ad apparirci così, a perdere bellezza e meraviglia. Noi vi auguriamo una cosa: trovate il coraggio di Thomas Pidcock. Non rinunciate per paura di peggiorare la situazione o per la certezza che la situazione non cambierà. Non potete saperlo. Tornate ad avvicinarvi. Riaprite quel pennarello. Ricominciate a scrivere. Fate qualcosa, qualunque cosa. Non trovate scuse, non cercatele, non le avete. Poi riguardatela, la vita. Riguardatela bene. Vi piacerà. Più di prima.

Foto: Claudio Bergamaschi


Farsi ricordare

La telefonata con Marta Cavalli era in corso da circa mezz’ora. La linea telefonica, nelle gallerie attraversate dal treno che la riportava a casa da Napoli, veniva spesso interrotta. Così le parole si inseguivano fra pause e ripetizioni. Ho atteso qualche minuto, giusto il tempo di arrivare alla prima fermata e come ho intuito che, almeno per qualche istante, la linea sarebbe stata buona le ho chiesto quello che meditavo da qualche giorno: «Marta cosa significa per te farsi ricordare? Come fai a farti ricordare?». Proprio così.

Per come la intendiamo noi, la preparazione di un’intervista è un insieme di atti estremamente delicati, in certi momenti anche invasivi. Cerchi notizie sulla vita dell’intervistato, ovunque. Passi in rassegna vecchi articoli di giornale, social, dichiarazioni rilasciate alla televisione. Vai a letto la sera con la cuffia nelle orecchie mentre risenti cronache di vecchie tappe o frammenti di dialoghi intercettati dai microfoni. Magari ti addormenti anche con quelle voci in sottofondo. Ti svegli la mattina e, al tavolo della colazione, cerchi foto, immagini, video di corsa in cui osservare ogni minimo dettaglio. Dal modo di pedalare allo sguardo. Dalla mimica dopo una vittoria alla delusione e agli occhi lucidi dopo una sconfitta. Insomma, entri nella vita di un’altra persona che, magari, non ti conosce nemmeno. Lo fai perché tu vuoi conoscerla, tu hai bisogno come il pane di conoscerla. Per l’intervista, certo. Ma non solo. Hai bisogno di conoscerla perché non c’è nulla di più brutto che spegnere il registratore dopo una chiacchierata e sentire che non ti è rimasto nulla. Sentire che in te non è cambiato nulla. Che è come se fossi stato davanti al computer o ad un muro. Tu eri con un’altra persona, tu hai raccontato e ti sei fatto raccontare, qualche modifica in te deve essere avvenuta. Devi avere sentito qualcosa, altrimenti che senso ha?

Così mi sono ricordato di quella didascalia ad una foto che Marta Cavalli aveva dedicato al ricordo. Ho pensato che sarebbe stato bizzarro chiedere ad una ciclista qualcosa di simile. Poi ho anche pensato che forse proprio per questo sarebbe stato interessante. Perché nessuno lo chiede ma, forse, in tanti se lo chiedono. Si chiedono chi sono queste ragazze una volta scese dalla sella. Ed è bello così, è giusto così. Marta ci ha pensato qualche secondo, dubbiosa, sicuramente stupita. Poi ha iniziato a parlare.

«Credo che per una ragazza con il mio carattere sia molto più difficile farsi ricordare. Lo sai, no? La società oggi tende molto a ricordarsi dei gesti appariscenti, delle battute ironiche, degli estroversi. Più volte mi sono chiesta quale sia il posto degli introversi nei ricordi. Sì, perché anche noi abbiamo un mondo dentro di cui vorremmo gli altri si ricordassero. Io vorrei essere ricordata, eccome se vorrei. So che dovrò fare molta più fatica perché non parlo molto, per i miei silenzi, perché sono timida. Ma so anche che questa fatica intendo farla tutta. Se sei come me devi dare ancora di più, devi fare ancora di più, devi essere ancora più precisa e meticolosa per essere ricordata. Ce la farai. Facendo così ci riuscirai. Vorrei che si ricordassero di Marta come di una ragazza che fa tutto quello che può al meglio, come di una professionista seria, come di una ciclista che ama il suo lavoro. Lo vorrei tanto e credo succederà».
È passato un anno, forse poco meno. Eppure, quando si parla di ricordi, a noi torna in mente quella telefonata. Ci sarà un motivo, non credete?

Foto: Bettini


Siate veri

«Sai, la maglia di campionessa europea è qui in camera con me. È lì, distesa sul letto. Ogni volta che passo la guardo, la fisso. Mi invento anche qualche scusa per tornare in camera a vederla. Devo ancora capire se è vero oppure no. Ma mi sembra proprio realtà, altrimenti tu come faresti a saperlo? Stanotte la terrò nel letto con me, deve essere bello dormire con tutte quelle stelle». Sono le sei di sera del giorno in cui ha conquistato l’Europeo, quando telefoniamo ad Eleonora Camilla Gasparrini e lei ci risponde così. Forse per questo il pensiero va ad una notte speciale. Sono sempre insonni le notti che succedono a giorni belli: quando dormi perdi la cognizione del tempo e se sei felice ti spiace buttare via anche solo qualche granello di sabbia della clessidra che scorre. «Sono stanca ma forse stanotte starò ad occhi aperti a fantasticare. Del resto non ho debiti col sonno, la scorsa notte ho dormito davvero bene. Non ero preoccupata. Avevo coscienza del fatto che mi aspettava una prova importante ma sapevo anche di aver fatto tutto il possibile e di avere al mio fianco delle compagne fantastiche. Perché avere paura? Ero emozionata, certo». Qualcuno diceva che le emozioni le viviamo tutti, solo che alcuni si spaventano quando si sentono diversi. Parlano tanto della normalità che uccide ma poi, quando incontrano lo speciale, rimpiangono il normale. Perché lo speciale ti ribalta la vita e non è detto sia sempre così piacevole. Il segreto è trasformare quello scombussolamento emotivo in adrenalina. Magari in euforia.

C’è una regola personale: quando scrivi, vai sempre di prima impressione. È quella giusta. Eviti l’errore? No, però, hai imboccato la via giusta, quella della realtà. Nuda e cruda, talvolta. Non piaci? Pazienza, il vero difficilmente piace. La società si è ammalata del brutto vizio di edulcorare. Eleonora no, sarà perché è così giovane e crede ancora a quel manicheismo esistenziale che l’età tende a smussare. In parte va bene, in parte è un errore. Per esempio è un errore quando parli con il cervello che tiene sotto stretto controllo ogni virgola del pensiero. Quando nelle parole non lasci uno spazio, il giusto spazio, al tuo sentire. Quando ogni parola è una ponderazione esasperata per restare dove più ti conviene. Eleonora, per fortuna, non sa cosa significhi questo o, se ne è cosciente, lo respinge. Tra le nostre domande e le sue risposte non passano mai più di tre o quattro secondi. Per questo siamo certi di raccontarvi il vero, perché in così poco tempo non si può assemblare una bugia. «Cosa vuol dire la maglia azzurra? Ma vuol dire tutto. Molti dicono che è un onore. È vero ma c’è di più. Per la maglia azzurra devi essere disposto a morire. Tu rappresenti la tua nazione. Tu sei figlio di quella terra che hai sulla pelle. Non vale una sola scusa».

Al traguardo Eleonora Gasparrini è scoppiata in un pianto liberatorio. Lacrime grosse, anche quelle tipiche solo di una certa età. Crescendo si impara a mentire anche con le lacrime. Non le lasciamo più uscire, non le lasciamo più libere. «Appena ho rivisto le mie compagne mi sono messa a piangere. Piangevo e mi asciugavo il viso nelle loro magliette. Poi c’erano mamma e papà, loro sono ovunque io sia. Questa vittoria li fa felici e questo è il mio primo motivo di felicità: vedere mamma e papà contenti». Del ciclismo le è sempre piaciuta la velocità, e, quando questa primavera, a causa del lockdown, non ha potuto correre, soffriva: «Sono sempre le sensazioni a mancarci. Sin da piccola mi sono abituata a vivere quelle sensazioni e mai avrei pensato ad una situazione come quella di marzo. È come se ti portassero via ciò che provi. Come puoi fare? Adesso disputerò il Giro delle Marche e poi aspetterò ottobre per altre gare. L’attesa in questo periodo è snervante. Vorrei questo tempo passasse velocemente per essere già lì. Per buttarmi in una nuova corsa con la certezza che nulla potrà impedirmelo. È bello buttarsi a capofitto nelle cose che ci fanno stare bene. Per carattere lo ho sempre fatto, so che ci sono persone più riflessive o meditative. A me piacerebbe provassero anche loro a fare così. Credo potrebbero essere felici».

Foto: comunicato stampa Vo2 Team Pink


Pensieri e parole

Quando Annemiek van Vleuten ha tagliato il traguardo di Plouay, ha guardato il cielo e mischiato sorriso e pianto. La gola, probabilmente, avrebbe voluto sorridere ma dagli occhi scendevano già alcune lacrime. Ci rendiamo conto che dire una cosa del genere per van Vleuten rasenti l’assurdo ma, forse, l’olandese non era la più forte, ieri pomeriggio. C’è stata molta tattica psicologica nella gara in linea delle donne élite e Annemiek van Vleuten ha giocato d’astuzia sino al rettilineo d’arrivo. Si è messa nella scia di Elisa Longo Borghini e Kasia Niewiadoma, non ha tirato un metro. Della serie: «Sono la più forte e dietro, in gruppo, ho una squadra altrettanto forte. Vogliamo andare via da sole? Bene. Tirate voi. Noi potremmo vincere lo stesso». Questo il messaggio da consegnare. Forse nella sua mente pensava altro e non tirava appunto perché non ne aveva le forze. Perché se avesse collaborato maggiormente, poi, non avrebbe avuto la stessa brillantezza per lo sprint. Van Vleuten ha raccontato una bugia senza proferir parola. E, consapevoli della straordinarietà della atleta di Vleuten, ci abbiamo creduto quasi tutti. Sì, perché chi era lì qualcosa ha intuito. Forse perché quando è rientrata Chantal Blaak è stata proprio van Vleuten a mettersi in testa al drappello, come per salvaguardare la compagna. Longo Borghini e Niewiadoma devono averlo pensato: «Strano. Sono in due e si limitano a controllare la situazione. Annemiek non scatta: o sta a ruota o si mette in testa e fa calare l’andatura. Queste vogliono portarci alla volata e metterci nel sacco».

Nella mente di Longo Borghini è balenato un fulmine in quel momento. Ed è partita Elisa. Uno, due, tre scatti. Blaak si stacca. Van Vleuten non risponde subito, perde qualche metro e poi rientra. È la conferma: «Ho ragione io. Non sei la stessa, Annemiek. Non sei la stessa». Se lo dice, si volta e riscatta Elisa. È la più brillante di quello che ormai è rimasto un terzetto. Lei e Niewiadoma si guardano negli occhi, come a trasmettersi quel messaggio. Van Vleuten è sola ed inizia a capire: «Se mi mostro vulnerabile è la fine. Dai, dai uno scatto. Uno solo. Magari si staccano, potrebbero avere già speso tutto. In ogni caso devo intimorirle. Vai Annemiek, vai». Ognuno si racconta ciò che può e muove le pedine come in una partita a scacchi. Quando Annemiek van Vleuten parte, la paura è che sia un arrivederci a dopo il traguardo. Anche Longo Borghini lo pensa: «Mamma mia se fai male quando parti. Altro che storie. Questa è sempre la stessa. Che male, che male». Per un attimo crolla il fine meccanismo psicologico costruito per tanti chilometri. Poi Elisa cambia rapporto, si alza sui pedali e guarda a terra: non vuole vedere dove si trova l’olandese. Spinge più che può e rialza la testa: «Ti torno sotto, ti torno sotto. E no, Annemiek, troppo facile così. Devi sudartela». Così si riforma il duo che andrà sino al traguardo: Annemiek van Vleuten ed Elisa Longo Borghini per l’oro europeo.

Lo sanno tutti e lo sa anche lei: le volate non sono mai state il punto forte di Longo Borghini. Mentre l’olandese quando lancia l’affondo è irresistibile. «Devo fare attenzione a quando parte. Devo essere concentratissima. Se le prendo la ruota, è fatta. Devo prenderle la ruota e uscire nel finale. Sì, devo fare così». Ancora nella testa. È lì che si rimescolano le carte mentre la pioggia lascia spazio a qualche raggio di sole sulle strade bretoni. La volata è lanciata: van Vleuten parte in testa, Longo Borghini le prende la ruota. Da un momento all’altro tutti si aspettano che Elisa sbuchi a destra o a sinistra. Niente da fare. Le immagini schiacciano, tra la ruota posteriore di van Vleuten e quella anteriore di Longo Borghini ci sono diversi centimetri. Troppi per prendere la scia e tentare un sorpasso. Van Vleuten oro, Longo Borghini argento, Niewiadoma bronzo. A un passo dal tris, dopo Balsamo e Nizzolo. Ma non conta. Non così tanto almeno. Elisa è stata commovente. Non si è mai arresa sino alla linea bianca, ha rilanciato anche mentre van Vleuten stava alzando le mani dal manubrio per festeggiare. I cinici, o forse solo quelli che non hanno mai preso in mano una bicicletta, diranno che non arrendersi è un dovere. Che conta solo vincere. Che dei secondi non si ricorda nessuno. Noi diciamo che il loro mondo ci fa un poco tristezza. Dei primi si ricordano gli albi d’oro e le persone, magari dopo averli consultati. Dei secondi, a certe condizioni, si ricordano solo le persone. Senza nemmeno bisogno di controllare. Perché quello che dai ti qualifica. Solo quello. Punto e basta.

Foto: Bettini


Per noi stessi

Domenica, dopo aver conquistato il campionato Italiano, Giacomo Nizzolo si è accomodato nella mixed zone per le interviste. Una delle prime domande dei cronisti, probabilmente se la aspettava. «A chi dedichi questa vittoria?» gli hanno chiesto. Tutti rispondono parlando di famiglia, di amici, di tifosi. Lui ci ha pensato qualche secondo e poi ha esordito con: «Non vorrei sembrare egoista, davvero. Indubbiamente la dedico alla mia famiglia e a tutte le persone che mi sono vicine e che mi sono sempre state vicine ma la dedico anche a me stesso. Per quanto ho saputo soffrire in questi anni, per quanto ho saputo insistere, per non aver mai mollato ed essere qui”. Non è facile dedicarsi qualcosa in questa vita. Soprattutto non è facile dedicarsi qualcosa e avere il coraggio di dirlo forte e chiaro: “Questa è per me. Solo per me. Per quello che sono». Eppure ogni tanto bisogna farlo. Di più. Ci sono circostanze della vita in cui, volersi bene e dedicarsi i propri successi, è un dovere. Per restare a galla. Perché il nostro corpo e la nostra mente danno segnali, ci fanno capire quando qualcosa ci sta facendo male, quando hanno sofferto per troppo e hanno bisogno di liberarsi, quando hanno bisogno che venga riconosciuta la loro tenacia. Insomma, quando dovremmo essere noi stessi a darci una pacca sulla spalla e a portarci in salvo. Giacomo Nizzolo lo ha fatto: si è riconosciuto i meriti che ha, senza superbia alcuna ma con consapevolezza. È come se si fosse detto: «Vali Giacomo, ricordati che vali». Dovremmo farlo tutti ogni tanto.

Due colpi di reni, uno al campionato Italiano e uno all’Europeo, per buttar fuori quella rabbia, quel dispiacere, per due anni di difficoltà lasciati alle spalle. Due vittorie, prima campione d’Italia, poi campione d’Europa. Riccardo Magrini racconta che Nizzolo gli ha confidato che, in fondo, gli dispiace non poter indossare la maglia tricolore. Ci teneva, ci teneva tanto. Invece indosserà quella di campione europeo perché nella gerarchia delle casacche è più importante. È grato. Oggi più che mai, infatti, tornano quelle parole che ci disse qualche mese fa: «Sai, sono stato bravo ma anche fortunato. Mi piace dire le cose come stanno. Volevo diventare un velocista e sono nato con le caratteristiche giuste per esserlo ad ottimi livelli. Da bambino vedevo i colpi di fioretto tra Mario Cipollini e Ivan Quaranta e pensavo che mi sarebbe piaciuto somigliare a loro. Al primo per forza e costanza, al secondo per l’estro che dimostrava ogni volta che batteva il primo». Gli hanno sempre detto che le volate sono cambiate e forse è anche vero ma non nel senso in cui lo intendono certi. Il livello si è alzato, per questo ci sono più nomi fra i favoriti. Nizzolo non è mai stato spaventato da ciò. Nizzolo cercava come l’aria la possibilità di tornare dove era stato, con orgoglio e dignità, prima delle problematiche e dell’infortunio. Come chi non ama le scuse, come chi non crede al destino scritto da altri ma bensì alla possibilità di scriverlo da soli.

E per questo serve tanto coraggio. Perché, quando ti fai autore di te stesso, l’errore è dietro l’angolo. Poi ci sono le voci: se avessi aspettato, se avessi fatto così, se avessi evitato quello, se fossi stato più attento, più bravo. Ovviamente tutte cose dette da chi, della tua vita, non sa assolutamente nulla. Tutte frasi che dietro il sembiante del consiglio, nascondono una certa superbia. Ovviamente a fatti avvenuti: «Se uno potesse sapere cosa gli riserverà la sorte, sarebbe un bel vivere, non credete? Tocca prendere quello che viene e regolarsi di conseguenza. Può darsi che in alcuni frangenti abbia anticipato fin troppo il rientro, ma finché uno non rientra alle corse come fa ad accorgersene?». Perché ancora prima dell’attenzione alle frasi da dire, per portarsi in salvo serve attenzione alle frasi da ascoltare e da ricordare. Perché devi farti del bene, devi volerti bene, per tornare dove la natura ti ha concesso di poter essere. Qualcuno diceva che le qualità che possediamo sono un dono che riceviamo dalla natura, l’uso che ne facciamo sono il nostro modo di ricambiare il dono. È necessario fare sempre il massimo, non buttarsi via e riconoscersi errori e meriti con onestà e gentilezza. Il colpo di reni che ci serve, nelle gare e nelle vita, arriverà proprio da lì.

Foto: Bettini