Un gesso e una lavagna

Una lavagna in pietra ardesia nera, un gessetto bianco e qualche numero. In fondo è tutto quello che serve a un ardoisier, termine quasi onomatopeico, come il sibilio del gesso sulla lavagna, che racconta un mestiere del vecchio ciclismo che è sopravvissuto al tempo. Così, ancora oggi, in corsa vedete la moto ardoisier che fa la spola tra il gruppo e i fuggitivi per indicare i distacchi e la composizione della fuga. Il tutto così, facendo uso dei due strumenti più semplici che ci siano, quelli che conosciamo la prima volta che entriamo in un'aula scolastica. Per il resto bastano un casco e una divisa gialli, come la maglia gialla.

Eppure non è scontato, come tante altre cose. Pensate a un insegnante di educazione fisica in Burkina Faso, a Ouagadougou, che ogni tanto, quando passa il Tour del Burkina Faso, può uscire dalle aule di scuola e mettersi sulle strade con i suoi ragazzi a vedere i ciclisti. Si chiama Michel Bationo e la prima lavagna e il primo gessetto li ha tenuti in mano proprio sulle strade polverose della sua città. Bationo è uno di quegli uomini che ha sogni grandi e che non ha paura di raccontarli, anche se qualcuno potrebbe prenderlo per matto. «Se un giorno potessi, mi piacerebbe andare a lavorare al Tour de France, essere l'ardoisier del Tour».

Qualche mese dopo, il Tour chiama e lui risponde. È il 2002 quando parte per la Francia come racconta ai quotidiani locali: «Non ero mai stato in un aeroporto prima di quel giorno, non avevo mai visto le scale mobili, soprattutto non avevo mai visto la neve sui monti mentre si vola. Ho scattato delle foto». Michel sorride sempre e fino al 2007 resta l'ardoisier del Tour. «Jalabert una volta mi ha detto: “facciamo cambio; io salgo in moto e tu vai in bici”. Mi sembrava incredibile che un ciclista mi chiamasse per nome e mi parlasse». La stessa sorpresa l'ha provata quando qualche corridore ha accettato di farsi fotografare con lui: «Cosa gliene fregherà mai di un ardoisier, mi dicevo, e invece...».

Così un centometrista burkinabè è arrivato al Tour e vi è restato come chi, in fondo, vi era sempre stato anche se materialmente era molto lontano. Già, perché forse i sogni si vedono meglio da lontano. Forse dovremmo imparare anche noi.

Foto: Bettini


L'estate di Cavendish

In quelle ultime pedalate potenti, un po' sporche, in quelle mani sul caschetto, per una scena simile, già vista, o meglio, praticamente identica a quella di tredici anni fa su questo stesso traguardo a Châteauroux, c'è tutta l'estate di Mark Cavendish.

Nella faccia incredula, nella maglia verde, nella seconda vittoria in questo Tour, la trentaduesima in totale nella corsa più famosa del mondo, c'è tutta la sua essenza.

In quello che ieri era un pianto e che oggi diventa riso, in quella faccia rossa dalla fatica, nel gesticolare spiegando ai giornalisti la volata a fine tappa, in quegli occhi pieni di emozione, c'è tutta la classe del Missile di Man.

In quell'abbraccio con i compagni di squadra a fine corsa, in quell'urlo unanime e soddisfatto, in Alaphilippe in maglia iridata che tira il gruppo, in Ballerini che pilota Mørkøv e sembra fare a gara con van der Poel che tira il gruppo dall'altra parte, c'è tutta la fedeltà del ciclismo.

Nella battaglia per prendere il treno giusto, c'è il gusto del rischio.
Nelle sbandate e nella velocità, nelle rotonde e nella noia di una tappa di trasferimento, c'è tutto il sapore di una volata al Tour de France.

In quegli ultimi metri, in quell'accelerazione esplosiva, nel viaggiare da una ruota all'altra, nell'abbassarsi schiacciato sul manubrio, ci sono le trentasei primavere di Mark Cavendish, che sembra non sentirne mezza. E oggi è la sua estate, calda, quella del ritorno.

Foto: Bettini


(Quasi) mille chilometri per una maglia

Forse a molti, anzi, alla maggior parte di voi, il nome di Meindert Klem dice poco, a meno che non siate seri appassionati di canottaggio. Ancora di meno vi dirà quello di Mark Putter, proprietario di un hotel per cicloturisti sui Pirenei, a meno che non vi sia capitato di pernottare da quelle parti e di aver trovato un'accoglienza talmente indimenticabile da ricordare a memoria il suo nome.

Qualcosa in più, invece, vi dirà quello di Cameron Wurf, veterano di lungo corso, si sarebbe detto una volta, attualmente sotto contratto con la INEOS Grenadiers.

E cosa collega Klem, Putter e Wurf, oltre a sembrare un trio di musica folk americana? Ma soprattutto: cosa c'entra con la nostra storia, con il Tour de France e con Mathieu van der Poel?

Beh, ieri l'olandese, storia nota a tutti questa, ha mantenuto la maglia gialla per otto secondi rispondendo all'impatto devastante che Pogačar ha avuto sulla crono. Qualcuno malignamente ha ipotizzato che lo sloveno abbia tirato un po' i freni per lasciare l'incombenza della difesa della maglia alla Alpecin Fenix, per elargire favori come fosse un novello Indurain.

Ma al di là della dietrologia, c'è da sottolineare, sì, la grande prestazione del ragazzone olandese che una crono così, a tutta, non l'aveva mai fatta né mai preparata, ma c'è anche da mettere in evidenza un particolare che spiega bene la ricerca del successo e dell'abbattimento dei margini.
Avete notato, vero, le ruote montate sulla Canyon di van der Poel? Beh pare che la storia sia andata più o meno così: il direttore sportivo della Alpecin Fenix ha contattato Klem, che da vogatore è diventato rappresentate di un'azienda che produce ruote in carbonio (le stesse che usa, ad esempio, proprio la INEOS), chiedendo la disponibilità di un paio di ruote per il suo corridore.

Klem ha risposto che in così poche ore le uniche disponibili le possedeva Wurf, ma che queste ruote si trovavano in un hotel-rifugio sui Pirenei. Il proprietario di quell'hotel, Mark Putter, ha ricevuto una chiamata, senza pensarci un secondo le ha caricate nel bagagliaio e si è diretto verso Rennes.

Quasi mille chilometri in auto, da Biert a Rennes, dieci ore di viaggio. «Mentre ero in macchina mi dicevo: "ci pensi, Mark, che follia avere con te nel bagagliaio le ruote che potrebbero aiutare van der Poel a difendere la maglia gialla?" - racconta. «Io vado matto per il ciclismo e quello che van der Poel ha fatto in questi giorni è incredibile. Se posso dargli una mano fornendogli ruote più veloci, ben venga. Anche solo bastasse un secondo a difendere la maglia gialla». In realtà non è stato un secondo, ma otto. Quando la cura dei dettagli fa la differenza.


Biglie in frantumi

C'era la luce lacrimante degli ultimi pomeriggi di giugno, mentre Primož Roglič camminava a fatica verso l'ammiraglia, stanco, medicato ovunque, fra la pelle che brucia, grattata a terra come in una grattugia, e i cerotti e le bende che sfregano ad ogni movimento. Lo sloveno, da tutti immaginato inscalfibile, quasi insensibile, ha poche parole, pronunciate a fatica ai giornalisti de “L'Equipe” in un silenzio assordante, fra gli ultimi rumori della sera di Pontivy: «Non ho niente di rotto, ho ferite e tagli ovunque. È un giorno nero, schifoso: per la fatica che facciamo, nessun ciclista merita questo. Proverò a lasciar passare i prossimi giorni, fino a quando sarò in corsa mi batterò perché tutto è ancora possibile».

Sotto quelle medicazioni c'è un dolore particolare. Non solo quello fisico della carne che grida vendetta ogni volta in cui il medico disinfetta la ferita o delle notti sudate, in piedi o su una sedia perché, appena ti muovi, il lenzuolo sembra accoltellarti. È il dolore della sfortuna che ritorna, delle troppe cose che hai già visto e che temi di dover vedere ancora. Roglič è arrivato a chiedersi se al male debba abituarsi, perché sembra non riuscire più a scrollarselo di dosso. «Non sono fatto per questo, non sono nato per tutta questa sofferenza» disse alla Vuelta del 2019, mentre Lora, la sua compagna, gli gridava contro dalla rabbia, perché quella è la frase di chi sta iniziando ad arrendersi, a mollare la presa. «Deve ricordare ciò che ha già fatto e che credeva impossibile. È il solo a poter realizzare cose come quelle che fa ogni giorno, il suo lavoro non è stato vano, deve comprenderlo». Quella Vuelta, poi, la vinse.

Primož Roglič ci ha pensato spesso, per esempio ad agosto 2020, su una terrazza di uno chalet, dopo la terribile caduta sulle strade dell'Alta Savoia. «Ero in silenzio, da solo. Pensavo a tutto il tempo che avevo passato lontano dai miei familiari, ad allenarmi duramente, poi vedevo gli orribili ematomi che avevo sul corpo e che non mi permettevano di pedalare».

Ma arrivi a un certo punto in cui non ti può bastare la capacità di soffrire e reagire. Non vuoi essere un eroe che si rialza sempre. Vuoi poterti concederti il lusso di restare a terra qualche minuto di più, di rialzarti se e quando vorrai, di essere sereno e senza male ovunque. Per questo la tentazione del rifiuto, perché tutti ti chiedono di resistere, ma resistere fa male.

Ma quella è vita. Quelle sono le biglie andate in frantumi di cui parlava Baricco, gli errori e le delusioni che si appiccicano ovunque mentre la gente ti addossa ciò che non sei, senza nemmeno conoscerti. Poi arriva un giorno in cui, anche sotto il cielo ingrato di Bretagna, senti che non ti interessa più, perché, mezzo disfatto, provi sollievo al solo pensiero di andare avanti. «Quando sono in momenti come questi mi dico sempre che sono stufo e non ce la faccio più. La realtà è che esistono e vanno vissuti, non messi da parte. Nessuna recriminazione li cambierà. Poi passano e ogni volta che sono alle spalle trovo i motivi per ricominciare e faccio un elenco di quelli per cui amo il ciclismo». È forse quello il giorno in cui ti salvi: quello in cui sai che, nonostante tutto, passerà.

Foto: Bettini


I margini del progresso

Il progresso, nell'oscura visione nichilista di J.G. Ballard, assume i contorni di un futuro distopico, ma quanto mai reale. Va tutto troppo veloce, una società che sa quanto corre, ma non sa dove andrà a finire. Come un'auto lanciata a tutta, lamiere che si contorcono, frenate, botti, scintille. È un condominio che più è alto e più trovi personaggi di un tale squallore. È noia che diventa violenza, omologazione e consumismo. È voyeurismo.

Nella visione ciclocentrica del mondo, il progresso non è altro che biciclette sempre più leggere e veloci, che appena sfiori i freni rischi di assaggiare l'asfalto, di scorticarti, di lasciarci i connotati. Sono "marginal gains", diete ferree, azzardi di ogni genere. Chiedete a van Aert che in una crono al Tour due anni fa, rischiando, finì contro le transenne e sembrò lasciarci una carriera. L'asfalto ribolliva, il sole martellava sulla testa del belga la sua angosciante cantilena, pareva davvero finita. Si lacerò una gamba, si rialzò in tutti i sensi e si ricostruì. Il pubblico invece incuriosito restava a guardare.

Nei secoli il progresso ha portato la bicicletta a essere un mezzo sostenibile. O almeno a tentare di farlo, se solo l'uomo avesse fatto "in tempo a capire quale prodigio è la bicicletta" scriveva Ormezzano in "Apologia della Bicicletta". Al centro, da sempre, c'è l'uomo. Vittima, sperimentatore, carnefice, protagonista assoluto. Al centro del discorso, ecco l'uomo-bici, il corridore, animale contemporaneo per antonomasia. L'arena del nostro svago è la cronometro di Laval, Tour de France. Dove l'uomo-bici si esibisce in quello che è il ciclismo per lo spettatore: un progressista atto d'amore.

E provate a guardare le biciclette da crono oggi per capire a che punto sta il progresso. Pesano pochi chili che verrebbero da quantificare in grammi, fanno un rumore che definiresti strano, quasi impercettibile. Un mezzo lo è, ma non c'entra nulla la mobilità, è per correre sempre più veloce. Al massimo puoi strabuzzare gli occhi nel constatarne le curve da polluzioni, la livrea da non dormirci la notte. Lo scopo non è spostarsi, ma arrivare prima degli altri, portarti verso la maglia gialla, verso la vittoria di tappa, infrangere record - quello dell'ora, ad esempio: che incredibile inno al progresso è?

Trascina il corridore sull'asfalto proprio come l'auto lanciata a tutta velocità. Fa scintille anch'essa, è nuova carne meccanizzata fatta a carbonio, con un tubo centrale, grasso e catene, cambi sofisticati, ruote di una tale leggerezza che sorrideresti se non fossero così variabilmente pericolose.

Il progresso è il tempo che passa tra il pensiero e l'atto. Tra il passaggio di un corridore e l'altro all'intertempo, tra due pedalate. Una posizione aerodinamica è progresso; body e casco sono progresso, un corridore che spinge a tutta "rapporti impossibili" è progresso. Come Tadej Pogačar: prototipo moderno del corridore. Forse un tipo che si è visto raramente, forse elemento ultimo di quello che stiamo cercando. Fisici scolpiti nel marmo, privazioni, lacrime, sangue, fragole, champagne. È la violenza in mondovisione di un gesto quanto mai elementare.

La bici da cronometro è il sunto del progresso: appare perfetta, ma solo all'apparenza. È il gusto sadico di chi osserva cadute che fanno accapponare la pelle, ma ti inchiodano ugualmente al televisore.

Così come ti inchioda la sinfonia di Pogačar che imprime musica al suo progredire in bicicletta. Così come ti esalta l'azione di van der Poel che resiste, illumina, rilancia. Se il futuro nella mente di Ballard era oscuro e nichilista, forse è perché ancora non aveva visto ciò che stiamo vedendo noi oggi.


L'altra faccia della vittoria

Tour de France 2010.
Tappa 16: Bagnères-de-Luchon/Pau.
Durante la salita al Col du Tourmalet Mark Cavendish scivola fuori dal gruppetto, mentre il suo compagno di squadra, Bernhard Eisel, tenta inutilmente di spingerlo a resistere.
Cavendish sta male, ha la febbre, sa che superato il Tourmalet lo attende il Col d’Aubisque e, dopo, 60 km di pianura in direzione di Pau; una tappa gestibile solo in gruppo, impossibile da affrontare in due rimanendo nel tempo limite. In un tentativo disperato di alleggerirsi getta via tutto ciò che lo appesantisce: occhiali da sole, cibo, addirittura le borracce. Eisel non lo molla, è noto in gruppo per il suo incrollabile ottimismo, è determinato ad assolvere al suo compito: scortare Cavendish fino al traguardo.
Mancano 18 km alla cima del Tourmalet e stanno perdendo 10 secondi al km dal gruppetto; Cavendish però è convinto di poter ricucire durante la discesa. Ed effettivamente, passato il Tourmalet, finiscono a tre minuti dal gruppo, ma riescono a rientrare a metà discesa. «Sapevo che eravamo al limite» ricorderà Mark in seguito.
Il gruppetto supera anche il Col d’Aubisque, ma Cavendish è in difficoltà, cerca di mantenere l’equilibrio, mentre sente la bicicletta oscillare sotto di sé, e all’improvviso, come nella migliore sceneggiatura di thriller, fora. «Dove diavolo è finita la mia radio?» impreca, poi ricorda di averla passata a Tony (Martin, suo compagno di squadra) per eliminare più peso possibile.
Mancano 10 km al traguardo di Pau e Cavendish si ritrova solo e senza radio, i suoi compagni di squadra - Bernie, Tony e Bert (Grabsch) – sono in testa al gruppetto, stanno tirando a tutta per rimanere nel tempo limite. Cavendish alza la mano, ma nessuna ammiraglia sopraggiunge: Allan Peiper, suo direttore sportivo, si è fermato per un bisogno impellente – Mark lo scoprirà solo dopo – e nessuno sembra potergli dare una mano. Arriva infine l’ultima auto e quelli dell’Astana gli cambiano la gomma.
In Place de Verdun a Pau, il francese Pierrick Fédrigo vince la volata dei fuggitivi, che comprende anche Lance Armstrong, e si porta a casa la terza vittoria nella corsa di casa; dietro di lui, con un ritardo di circa sette minuti, sopraggiungono Alberto Contador e Andy Schleck, poi un’altra larga parte di corridori, che rimangono entro i 23 minuti di distacco. E infine, 11 minuti dopo, con un ritardo di 34 minuti e 48 secondi da Fédrigo, arriva il gruppetto: 83 corridori, fra cui Mark Cavendish.
Quella sera Bernie, suo compagno di camera, preoccupato per il protrarsi della doccia di Mark entrerà in bagno, trovandolo addormentato sotto l’acqua scrosciante.
Tre giorni dopo, con di mezzo un nuovo passaggio dal Col du Tourmalet, Cavendish, ancora influenzato, sul traguardo di Bordeaux porterà a casa la quattordicesima vittoria di tappa al Tour de France.
Questa storia abbiamo voluto raccontarvela, proprio oggi, perché spiega, secondo noi, molto bene perché Mark Cavendish ieri ha vinto la sua trentunesima tappa alla Grande Boucle.


Un racconto a pois

Il corridore andò in fuga. Mossa preventiva. Appiccicato alla pipa della sua bici la cartina della tappa del giorno, evidenziati i gran premi della montagna, ben impressa nella sua mente la classifica della maglia a pois. In mattinata il briefing con tecnici e squadra: attacca qui, marca là, questo è il leader, quel corridore ha tanti punti in classifica, quell'altro ne vuole racimolare ovunque, non farti fregare, e poi occhio che ti si incollerà a ruota non appena proverai a fare una mossa.

Il corridore prese così la fuga giusta. Tagliò per primo due dei tre traguardi del gran premio della montagna vestendosi a fine giornata con la maglia di miglior scalatore. Sul palco la gioia di vestire "la pois" il simbolo più brillante, divertente e identificativo della corsa francese.

Il giorno dopo vide tifosi e macchie policrome, ma c'era qualcosa di diverso che attirava la sua attenzione. In quell'orgasmo di colori spuntavano bandiere, cappellini, magliette, persino mascherine a coprire il volto di alcuni spettatori: era un turbinio di pallini rossi. Ma soprattutto le voci: per la prima volta in carriera il corridore sentiva urlare il suo nome dai tifosi a bordo strada, gente che probabilmente nemmeno sapeva della sua esistenza fino a poche ore prima.
È l'incanto di una maglia, quella a pois, un sortilegio che premia il miglior scalatore e che fa inscenare battaglie epiche oltralpe. La classifica dei Gran Premi della Montagna fu istituita per premiare Trueba, la pulce dei Pirenei, era il 1933, ma ce ne vollero altri 42 di anni perché nascesse lei, la più iconica di tutte: la maglia a pois. Il fascino col tempo aumenta diventando convenzionale come fosse la numero dieci indossata di un grande fantasista. Si raccontano leggende tanto che in Francia Pierre Carrey, giornalista, ha dovuto scrivere un libro per mette i puntini sulle i, per spiegare il perché di quei pallini rossi.

L'idea di vestirla è ispirazione che scatena le turbolenti gambe di Virenque, eroe in Francia più per le sue sette maglie a pois indossate sul palco con l'Arc de triomphe alle spalle che per vittorie di tappa o podi, lo sarebbe stato per Bahamontes, vincitore per sei volte del premio di miglior scalatore quando ancora questo simbolo non era stato concepito, oppure croce e delizia per Van Impe colui che per primo la portò a Parigi. «Ma questa maglia ha il morbillo!» disse il corridore prima di indossarla la prima volta. Parole che oggi profanerebbero un rito. Storia d'amore per chi è cresciuto con i Tour di Chiappucci che due volte ha vestito quella maglia illuminando le roventi estati dei primi anni '90, manco fossero il primo bacio.

L'ispirazione che arriva da un pistard, Henri Lemoine, chiamato "Petit Pois" corridore di un tempo ormai antico che correva con una divisa a pallini rossi ispirata a quella di alcuni fantini - e chiamata per l'appunto "Little Spots". Lemoine, "un ometto alto come tre mele", faccia da outsider come uscito da un racconto dell'America post Grande Depressione, fu campione del mondo in pista, fu ferito e imprigionato in guerra e gareggiò fino all'età di 48 anni.
Il primo a indossare la pois fu un olandese: Zoetemelk. Il primo a portarla a Parigi quel Van Impe, "de Kleine van Mere" considerato uno dei più forti grimpeur del gruppo.

L'ultimo, oggi, in ordine di tempo, a chiudere temporaneamente il cerchio, un altro olandese, Schelling, che non è forte in salita quanto gli altri, ma si ispira a quei fomentatori di corse, che a modo loro lasciano il segno. Si ispira a quella maglia per cercare la celebrità e sentire urlare il suo nome lungo le strade del Tour.

Ed ecco quel corridore che va di nuovo in fuga. Chi glielo fa fare? Le gambe sono dure, sono messe anche peggio del giorno prima. Cerca conforto nelle parole del suo direttore sportivo: "Vai, attacca per difendere la maglia".

Cerca conforto in un messaggio al telefono della sua ragazza, legge i commenti sui giornali e si gasa, altri messaggi arrivano da tifosi conquistati strada facendo, che magari il suo nome lo avevano scorso distrattamente nella lista di partenza. E poi spuntano, sempre per strada, striscioni dedicati a lui, che fino a ieri era uno dei tanti.

È la forza della maglia a pois che ti travolge come un insolito destino e ti fa conoscere in tutto il mondo.


Il primo passo per ripartire

Sonny Colbrelli, stamani, è andato subito a cercare Roglič. Voleva parlare con lo sloveno e provare a chiarire quel gesto di stizza di ieri pomeriggio, proprio nel giorno in cui il corridore Jumbo Visma, cadendo, si è ferito in ogni dove. «Ho fatto quel gesto perché non capivo dove volesse passare, ma me ne sono pentito subito quando l'ho visto cadere. Ho avuto paura, per questo mi sono innervosito». Non ha voluto nemmeno parlare dei dubbi sui percorsi o sulla frenesia di corsa, «sinceramente ora come ora non mi interessa, voglio solo capire come sta Roglič e scusarmi».

All'apparenza può voler dire poco, in realtà racconta perfettamente questo viaggio in Francia, anche quello di oggi, su un piattone tra Redon e Fougéres. Un viaggio che è soprattutto comprensione, perché i ciclisti si conoscono e sanno bene quali siano i sacrifici di chi corre al loro fianco. A questo ha pensato Colbrelli quando ha visto Roglič a terra e quando lo ha visto pieno di fasciature al villaggio di partenza: a tutto ciò che quella caduta poteva buttare alle ortiche. Si è scusato perché quel “va a quel paese” non l'avrebbe mai accennato con più calma, perché ieri, se fosse stato un metro più avanti, sarebbe franato addosso a Ewan e si sarebbe ritrovato nella stessa situazione. I corridori queste cose le sanno.

Kwiatkowski, ad esempio, ha fatto il buco ai propri compagni per permettere a Alaphilippe di agganciare la ruota del suo treno. Poteva non farlo e non sarebbe cambiato molto, lo ha fatto perché sapeva che lui, nella situazione del francese, avrebbe avuto necessità di prendere quella ruota a tutti i costi, oggi invece no, oggi quella ruota poteva lasciarla, poteva capire. Come le pacche sulla schiena che si danno in gruppo per segnalare a un corridore di spostarsi, lo sguardo di assenso dei corridori in fuga come il gruppo rinviene, la scia delle ammiraglie anche per gli avversari in difficoltà.

Perichòn e Van Moer hanno condiviso la fuga, ma con un passato diverso. Van Moer stamattina ha parlato con il suo capitano, con Caleb Ewan, che malconcio, ha voluto partecipare alla riunione di squadra. Lo ha sentito dire: «Sono orgoglioso di voi» e siamo certi che in fuga se lo sia ricordato, quando i suoi compagni rompevano i cambi dietro e persino quando ai trecento metri il gruppo lo ha inghiottito senza pietà.

Capire metro dopo metro. Quello che Mark Cavendish ha fatto in questo Tour e ben prima nella sua vita. Quando vinceva e sembrava quasi arrogante, troppo sicuro di se stesso, forse qualcosa ancora gli sfuggiva. Non sapeva cosa volesse dire non riuscire più a fare ciò che ti era naturale, perché un virus ti ha talmente debilitato da non sapere più chi sei, mentre la gente non lo capisce e chiede, pretende. Ha compreso cosa significhi sentirsi nessuno e non avere altro pensiero che quello di poter tornare a credere al fatto che la serenità esista. Piangeva quando ha lasciato, piangeva lacrime pesanti.

Cavendish che aveva già vinto trenta tappe al Tour ed ha gioito come fosse alla prima, Cavendish che, con altre tre vittorie, uguaglierà Eddy Merckx. Poi ci sono i suoi compagni, gli altri atleti del gruppo, che, in fondo, sono contenti per Cavendish, perché sanno, perché vivendo nel plotone hanno capito tanto la necessità di fermarsi, quanto quella di ripartire.

Hanno avuto le sue stesse paure, almeno qualche volta e oggi hanno un motivo più per credere. Sì, perché se lo hanno fissato bene mentre piangeva sull'asfalto, oggi, hanno capito qualcosa in più. Non bisogna aver paura di fermarsi: è il primo passo per ripartire.


Il drappo rosso del Diavolo

A ogni passaggio del gruppo sotto lo striscione dell'ultimo chilometro, appeso in alto, un triangolo rosso sventola, sbattuto dal vento. In Francia la chiamano “flamme rouge”, la fiamma rossa, qualcosa di vagamente infernale, in Germania, ad inizio anni novanta, un telecronista parlò di drappo rosso del diavolo.

Davanti alla televisione, quel giorno, c'era Dieter Senft: «L'idea di diventare il diavolo rosso, con corna e tridente, che insegue i corridori gridando, negli ultimi chilometri delle tappe alpine o pirenaiche, mi è venuta da lì» racconta in un'intervista. «Quel drappo rosso doveva venire dal vestito di un diavolo vero, appostato al bordo della strada».

Siamo nel 1993 e Didi si dota di un vestito di lycra rosso, delle corna, un tridente, si lascia crescere una folta e arruffata barba che sta ingrigendo e va al Tour de France, insieme alla moglie Margitta su un tandem di più di tre metri.

«Ho girato tutto il mondo al seguito del ciclismo, ma al Tour de France accade davvero qualcosa di particolare. Tu sei lì, sul ciglio della strada, arrostito dal sole di luglio, magari anche con poca acqua ed una sete incredibile, ed hai accanto norvegesi, australiani e canadesi. Non capisci quasi nulla di ciò che dicono e non riesci a comunicare a parole. Eppure, per qualche strana ragione, vi capite benissimo, condividete lo stesso entusiasmo».

Senft ha quasi settant'anni, non è più giovanissimo e di corse ne ha viste, eppure quando parla del ciclismo lo fa come fosse una scoperta di pochi giorni fa. Come i ragazzini che ogni giorno immaginano un futuro diverso con la stessa felicità.

La sveglia è sempre puntata all'alba. Vedete quelle scritte ritmate che si susseguono negli ultimi metri? Spesso è lui a disegnarle sull'asfalto. Qualche anno fa, in Svizzera, è stato anche multato, ma non ha cambiato idea: le scritte servono e lui continuerà a lasciarle. Un personaggio del folclore, ormai, non solo del ciclismo.

La sua casa è un museo perché Dieter è anche un inventore: «Ho ideato la bicicletta più grande del mondo, quella più lunga ed anche quella più alta. Sono tutte a casa e la mia casa è aperta a chiunque, tutti possono venire a visitarla, a vedere. Alcune di queste invenzioni sono entrate nel libro dei record. C'è la macchina a pedali più grande del mondo ed anche una “football bike”, quella con cui andai agli Europei di calcio nel 2008. In Austria ho aperto e registrato un bike garden».

Il Diavolo ha vissuto la rivalità Ullrich-Pantani e un dettaglio lo ha impressionato: «Essendo tedesco, Jan Ullrich è stato il mio corridore prediletto. Non sembra ma il contatto diretto a tutte le corse crea quasi una sorta di familiarità con gli atleti, la condivisione della stessa lingua fa il resto. Marco Pantani, però, era ipnotico: la gente impazziva appena presagiva il suo arrivo. I tornanti sembravano esplodere».

Negli anni tante difficoltà e nel 2014 anche l'idea di smettere, «ormai prendo delle mance e con soli cinquecento euro non posso permettermi di seguire le corse». Erano gli anni dell'operazione alla testa, subita nel 2012: «Per la prima volta fui costretto a vedere il Tour in televisione. Ero dispiaciuto, certamente, ma mi accorsi ancora meglio di molte cose che dalla strada non notavo. Al Tour corre tutto veloce e rischi di perderti qualcosa, fosse anche solo l'elicottero delle riprese televisive che sorvola il gruppo. È un peccato».

Qualche anno, l'operazione, la guarigione e il ritorno: «Conto di restare per molti anni. Cercatemi». Sarà perché, come ci disse un amico, alla fine, i ricordi ti portano sempre dove sei stato bene e dai ricordi non puoi fuggire, ma noi continuiamo a cercare Didi, a ogni tornante bruciato dal sole e punzecchiato dal suo forcone, giallo per l'occasione.


Il Tour in un attimo

Ogni giorno, a ogni tappa, c'è in moto la sofferenza. Ogni mattina ci si sveglia, un piede giù dal letto, poi un altro. C'è chi è ferito e va avanti, nonostante tutto; chi è motivato, chi sente qualche dolorino, chi sta bene, chi mente, chi guarda avanti e sa che ci sono ancora venti giorni in quel gran casino che è una corsa a tappe di tre settimane. Chi si guarda indietro è perduto.

Ogni giorno si pensa ai sacrifici che si fanno - ciclofachirismo - poi bum, basta un attimo. Si analizza e si racconta come per un ciclista il dolore provocato da una caduta non sia mai un'esperienza nuova, ma una riscoperta. Il prezzo da pagare per diventare corridori. E così che si cade e ci si rialza, tremenda quanto ingiusta metafora dell'esistenza. Tremendo quanto ingiusto meccanismo di uno sport che a volte appare maledetto.

Si cade e si sbatte sull'asfalto, c'è il casco sì, per fortuna, ma le ossa del corpo scricchiolano ugualmente, poi si rompono. La pelle si brucia. Bum, basta un attimo.
Così oggi Thomas: stamattina raccontava ai giornalisti di avere sempre con sé alcuni talismani, ma Geraint, andiamo, la prima regola della scaramanzia è che non si rivelano mai gli oggetti che ci proteggono dalla malasorte. Oggi appena c'è stata la prima caduta è andato giù. Ci ha messo un po' per rialzarsi, ha stretto i denti e poi il manubrio, poi è rientrato: chissà se ha pensato a quando ha rivelato ciò che lo protegge dalla cattiva sorte. O chissà, qualcuno dirà, forse è risalito in bici grazie proprio a quel rituale ormai non più segreto. Ci piace pensare come, dietro a un mondo ammalato di razionalismo, sia sempre viva l'influenza di qualcosa di magico che protegge, stimola, ti dà la giornata di grazia, ti fa alzare al mattino convinto, nonostante la sofferenza, nonostante se guardi davanti a te vedi ancora venti giorni di Tour. Quella magia che ti fa sognare, urlare, tifare, pedalare, rialzarti da ogni caduta.
Chissà a cosa si appiglia Gesink, pensando alla sua sofferenza, come quella di chiunque abbia perso qualcuno di caro, come chiunque abbia visto la sua carriera volare via da predestinato a incompiuto, a uno dei tanti. Oggi è caduto e si è ritirato mentre sognava di passare da casa sua (vive a El Tarter, Andorra, dove passerà il Tour più avanti) per salutare suo figlio. Era raggiante, magicamente illuso. E invece oggi è caduto, mentre domani si ralzerà come ha già fatto quando si ruppe le gambe. Quando subì un trauma cranico, e poi vinse quando nessuno se lo aspettava più.
E non c'è rito a cui attaccarsi per Roglič: è un attimo anche per lui quando si arrota con Colbrelli. In una frazione di decimi la sua corsa può essere svanita – un pugno assestato dispettoso, dove fa più male. Lo scorso anno c'è voluta una cronometro, oggi l'incontrollabile: le maledette cadute, di uno sport, che ti illude e poi manda tutto in frantumi.

E poi si cade ancora e ancora, vanno giù Haig e Démare, Pogacar resta in piedi per miracolo, e poi in volata – vince Merlier - un'altra caduta: Ewan stavolta, il suo Tour è finito.

C'è qualcosa di magico, di incontrollabile, di maledetto nel ciclismo. È un attimo: la sofferenza è in moto e non si ferma. Domani ci si rialzerà, feriti, ma guardando avanti. Nonostante tutto.