Un uomo solo (al comando)

Se volessimo usare un'espressione tipica o, ancora meglio, volessimo prendere in prestito una delle locuzioni più celebri della storia del ciclismo, diremmo: "un uomo solo al comando".
Ma chi scrive ha un certo rispetto per la tradizione e allora preferisce iniziare questo pezzo scrivendo: "Un ragazzo solo al comando".
Perché di questo si tratta: un ragazzo, poco più che ragazzino, nato nei primi mesi del 2000 che si fa scivolare addosso il tempo, tutto il tempo, che passa e lui appare andargli incontro. Mani basse, testa ficcata in mezzo alle spalle che - spiace contraddire la bonanima di Boskov - nel suo caso non è buona solo a portare cappello, ma anche casco aerodinamico, utile, come da definizione, a tagliare l'aria.
Un uomo solo al comando, anzi un ragazzo: c'è chi vorrebbe esserlo prima o poi come Tiberi alla sua prima cronometro individuale in un Grande Giro, ma non è quel giorno; c'è chi ci resta per un bel po' come Cavagna, che ride e fa segni eloquenti quando vede l'intertempo del suo giovane compagno di squadra che lo supera di parecchi secondi, come se quello lì vestito di rosso appartenesse a un'altra categoria; c'è chi lo è stato spesso al comando, magari non nelle crono, ma per tanto tempo e tante volte: Vincenzo Nibali, e fa male pensare che oggi è alla sua ultima cronometro in un Grande Giro, forse in carriera.
E allora quel tempo che passa oggi appartiene a Remco Evenepoel, vestito di rosso, solo, perché si è soli in bici, figurarsi in una cronometro, mentre spinge il 60x11, compatto sul suo mezzo, potente e dominatore come lo aspettavano in Belgio, come lo aspettavamo tutti, che lo cerchiamo, lo seguiamo, una sorta di stella da prima serata dalle sue parti, tanto che a volte fa persino storcere la bocca.
Quel tempo, presente e futuro, che appartiene anche a Carlos Rodríguez: la Spagna cercava un corridore vero, eccolo trovato. Un po' di invidia. Sana invidia, la stessa che si prova nel vedere Evenepoel, un uomo solo al comando, anzi un ragazzo che oggi è dominatore. Domani chissà, dopo la Sierra Nevada di quello che sta facendo il belga se ne potrà iniziare a parlare più serenamente, intanto strabuzziamo gli occhi e ci facciamo venire male alle gambe dopo averlo visto pedalare così.


Lorenzo Milesi cercava risposte

Oggi era, anzi in realtà lo è ancora, perché non è finita la giornata, uno di quei pomeriggi da tenersi liberi, accendere tutti i dispositivi disponibili e farsi una bella mangiata di ciclismo.

Si corre in Spagna, in Francia - in Bretagna per la precisione - in Germania eccetera, ma gli occhi di chi scrive erano puntati in maniera particolare sul Tour de l'Avenir.

C'era salita, tanta, c'era l'Iseran, che vuol dire 2700 metri di altitudine; c'era una fuga con tanti ragazzi dentro e quella voglia irrefrenabile di muovere le gambe pur essendo ormai al decimo giorno di corsa. Fra questi ragazzi, Lorenzo Milesi, classe 2002, DSM Development Team, ovviamente all'Avenir in maglia azzurra.

È tutto l'anno che va forte: nel pieno della stagione, eravamo ad aprile, ha avuto un incidente con un'auto che l'ha preso in pieno mentre si allenava rompendogli la mandibola; ha interrotto l'attività, ha tenuto a freno la rabbia, l'ha domata, è tornato a correre, si è preparato e a questo Tour de l'Avenir è arrivato con ambizioni.

Personali e di squadra perché uno come lui non ce l'hanno in tanti. Spigliato in gruppo, leader nato dicono, abile a limare, resistente sulle salite brevi, cilindrata di quelle importanti in pianura. Uomo ovunque: come va di moda dire in questo periodo, un coltellino svizzero.

Lo abbiamo visto tirare fuori i suoi capitani dalle difficoltà di tappe nervose nei primi giorni, provare a vincere in prima persona nella seconda tappa - ripreso sotto il triangolo dell'ultimo chilometro; lo abbiamo visto scivolare dietro fino in ammiraglia e risalire pieno di borracce per i suoi compagni di squadra.

Lo abbiamo visto dettare ritmi e tempi nella cronosquadre e negli ultimi giorni lo abbiamo visto andare forte anche in salita. D'altra parte lui a inizio stagione raccontava di aver scelto l'Olanda, la DSM, per capire che tipo di corridore poteva diventare e oggi forse qualche risposta l'ha ottenuta.

L'Italia al Tour de l'Avenir ha fatto un piccolo capolavoro, mi scuso in anticipo per i termini che possono sembrare esagerati, ma così è. E un applauso va anche a chi questi ragazzi li guida, Marino Amadori, che ha saputo trasformare un problema - l'assenza di quei corridori che qui avrebbero dovuto fare i capitani: Garofoli fuori tutta la stagione, Germani e Frigo che hanno dovuto saltare la corsa all'ultimo momento per un incidente ancora con un' auto mentre si allenavano - in un opportunità.

L'opportunità di rilanciare Fancellu, oggi bellissimo in salita mentre attacca e alla sua ruota resta solo Uijtdebroeks, oppure PIganzoli fino a stamattina in lotta per un posto sul podio.

L'opportunità di mostrare Milesi. Ieri, il ragazzo della provincia di Bergamo che corre in bici solo da 4 anni e un po' per caso, dopo essersi rotto i legamenti della caviglia giocando a calcio, è andato forte: 12° nella tappa più dura della corsa. Oggi è andato in fuga; ha resistito sull'Iseran, anzi, era lui a dettare il ritmo in un gruppo di fuggitivi: prima 18, poi 10, poi 6. In discesa ha controllato i contrattacchi e sull'ultima salita è sparito agli occhi dei suoi avversari. Con quel piglio e quel motore descritto sopra.

È partito e ha vinto, e visto quanto va forte, quella che raccontiamo oggi potrebbe essere solo una parte della sua storia.

Per la cronaca la corsa è stata vinta (dominata) dal belga Cian Uijtdebroeks, ragazzo belga classe 2003. Di lui, se non vi è già capitato, ne sentirete parlare.


Il giorno meno atteso

Sono quasi le tre del pomeriggio quando Marc Soler parte. Eccolo: il solito Marc Soler, un po' filibustiere, che prova un attacco sgangherato tutto spalle che si muovono a ritmo di pedalata in salita, e faccia da vecchio ciclista catalano, di quelli già in pensione e che ritrovi in bici sulle strade il sabato mattina.

Il gruppo pare in rimonta, quelli davanti, tanti che sembrano troppi, filano che è una meraviglia, e in mezzo si mette lui. Sono quasi le tre del pomeriggio e all'apparenza è uno di quei giorni lì, quelli superflui per farne una sceneggiatura, quei giorni dove non sarebbe potuto accadere nulla di che e invece.

Davanti succede che un monegasco (!) va a conquistare punti su punti sui gran premi della montagna di cui è disseminata la tappa dei Paesi Baschi con arrivo a Bilbao; un ragazzo, Victor Langellotti, chiamato all'ultimo momento dalla sua Burgos-BH, utile per sostituire il capitano, Madrazo, che si è beccato il Covid alla vigilia della partenza della Vuelta da Utrecht.

Per non far nascere rimpianti, Langellotti fa quello che avrebbe fatto l'occhialuto compagno di squadra che oggi sarà stato davanti alla tv a soffrire tra una partita di playstation (la sua grande passione) e l'altra e un attacco di Marc Soler. A fine tappa Langellotti vestirà quella maglia che fu di Madrazo qualche stagione fa per un paio di settimane e sarebbe superfluo dire che mai nessun atleta del Principato di Monaco ne aveva vestita una.

Intanto Marc Soler rientra sul gruppo dei fuggitivi mentre da dietro quello dei migliori decide che oggi la fuga sarebbe potuta andare all'arrivo, dopo la polemica di ieri sulle moto che avrebbero favorito quelli dietro a discapito dei facinorosi davanti.

Marc Soler attacca di nuovo. Sono le 16.46. Marc Soler si materializza pochi minuti dopo alle spalle di Jake Stewart, veloce quanto un pilota di Formula Uno e sorprendentemente in avanscoperta in una tappa classificata di media montagna

Marc Soler riparte e resta solo. Sono passate da poco le 17. Scollina in testa con un vantaggio esiguo. Gestisce in discesa mentre da dietro sembrano farsi grandi così, talmente sono vicini. Agli occhi di Marc Soler, che si gira, e si gira, e si gira da farsi venire il torcicollo, saranno sembrati enormi.

L'ultimo chilometro lo viviamo con le stesse sensazioni di chi stava pedalando in quel momento con il numero 171 appicciato alla maglietta della UAE Team Emirates. Quello tra i protagonisti di un documentario sulla sua ex squadra, la Movistar; accusato di avere un carattere morbido, ma che poi aveva concluso una tappa del Tour de France con le ossa rotte e un'altra chiusa a decine di minuti dal gruppo, prima di ritirarsi, in preda al mal di pancia, solo qualche settimana fa.

Sembrano riprenderlo quelli dietro, quando mancano poco più di mille metri al traguardo che detta così sembra un'infinità; sembrano riprenderlo, alimentati dalla voglia irrefrenabile di distruggere il sogno altrui, ma poi rallentano in preda non si sa che e Marc Soler vince, con un numero che ne certifica il talento, riportando una vittoria in un Grand Tour in Spagna dopo 121 tappe consecutive. Non poteva esserci corridore più strano a interrompere la striscia.

Un gesto alla fine, anzi due. Prima il pollice in bocca con gli inseguitori sgranati dietro a giocarsi la volata per il secondo posto, e poi una sorta di liberazione.

Sui suoi gestacci passati e litigi, con annessi "vaffa" all'ammiraglia, sui suoi attacchi scriteriati, il suo carattere un po' così a detta di chi lo conosce bene, le sue vittorie e le sue debacle, ci si potrebbe aprire un capitolo intero, ma oggi è quel giorno lì, quello meno pensato, quello del nostro cavallo pazzo preferito, quello di Marc Soler, strano catalano.


Rosso Affini

Breve quanto giusto tributo a Edoardo Affini, se La Roja non dovesse bastare. Sabato Gesink, ieri Teunissen, oggi lui.

Corridore affidabile e generoso; intelligente - anche ai microfoni - un treno in pianura, persino veloce o perlopiù con lo spunto da finisseur se e quando ha l'occasione di potersi mettere in proprio.

Un piazzato: difficile dimenticarsi il 2° posto al Giro lo scorso anno quando anticipò la volata del gruppo a Verona partendo quasi di soppiatto, se è corretto parlare di sordina quando lo fa un corridore con quella cilindrata.
Fu superato da Nizzolo sulla linea del traguardo.

Impossibile dimenticarsi quest'anno, sempre al Giro, sempre in Veneto, stavolta Treviso. Va via con un quartetto - De Bondt, Cort e Gabburo con lui - e viene battuto dal belga della Alpecin allo sprint, mentre dietro il gruppo incasinava i calcoli strada facendo non riuscendo più a riprendere i corridori in fuga da oltre 150km.

Breve quanto giusto tributo ad Edoardo Affini, uomo squadra, qui per dare una mano a Roglič, per contribuire alla buona riuscita della cronosquadre, per allungare il gruppo nel finale cercando di tenere i suoi fuori dai pericoli.

Breve quanto giusto tributo ad Edoardo Affini da oggi leader in classifica alla Vuelta.

Impossibile dimenticarselo: «Essere leader qui è qualcosa di pazzesco. Ringrazio i miei compagni di squadra per il regalo che mi hanno fatto». Che poi non è un regalo ma è da leggersi più come un meritato attestato di stima e di fiducia.

Domani ci sarà riposo per passare dalle strade olandesi a quelle basche. Domani ci sarà riposo e non potrebbe essere più dolce per Edoardo Affini in rosso.


Wiebes-Balsamo: la forza delle idee

Monaco, da qualche giorno, pensava alla forza delle idee. Le idee che sono forse l'unico modo per cavarsela quando ci si trova davanti a qualcosa di così spropositato da sembrare ovvio, inevitabile, ineluttabile. Qualcosa che contrasta con l'essenza stessa della bicicletta perché pensare a una bicicletta è, in fondo, pensare a qualcosa per nulla scontato, semplice o intuitivo. Perché la bicicletta sceglie l'equilibrio precario, la fatica, sceglie di non avere alcuna protezione, di esporsi al vento, all'acqua o al sole, al caldo o al freddo, porta ovunque, certo, a patto che sia tu a portarla ovunque: in questo senso è il contrario dell'ovvio, di ciò che è facile, che è comodo. Somiglia più a ciò che è bello e quindi, spesso, difficile.
A Monaco, alla prova su strada degli Europei femminili, l'inevitabile, l'ovvio, poteva essere la volata finale, poteva essere Olanda e quindi Lorena Wiebes. Talmente veloce, reattiva, da vincere in volata, che è gruppo, vicinanza per definizione, quasi sempre staccando le avversarie. Wiebes, oggi, era uno spettro, da qualche notte era un incubo: quelli che arrivano quando non te lo aspetti e se ne vanno lasciandoti senza altro che domande. Quelli privi di comprensione.
Allora sono arrivate le idee e, in fondo, non sembra neanche difficile, quasi una conseguenza, a parole, perché nei fatti è difficilissimo. Prima bisogna mettere in difficoltà le olandesi, sfaldare quel treno, stancarle. Perché non si sa mai che si riesca ad andare via da sole, senza di lei oppure con lei, quasi un'imboscata per sorprenderla e poi batterla, per una volta sola, magari in difficoltà. Poi perché se volata deve essere, le olandesi devono guadagnarsela, sudarla, devono fare più fatica delle altre visto che, almeno sulla carta, sono più forti delle altre.
Difficilissimo e non solo per questo. Difficilissimo perché chiunque ha provato a scattare oggi, tante francesi, tedesche, italiane, sapeva bene che avrebbe potuto essere tutto inutile, che le olandesi avrebbero potuto essere così forti da non patire quegli scatti che anzi avrebbero potuto essere un'arma a doppio taglio contro chi li aveva pensati. La volata arriva per tutti e se il treno che paga dazio non è quello olandese ma quello italiano, ad esempio? Che si fa? Che si dice dopo aver fatto tanto, dopo aver dato tanto? Un rischio ma, se ricordate, l'ovvio con una bicicletta ha poco a che vedere.
E dopo tutti questi "se", questi "chissà", si arriva davvero in volata e le azzurre sono lì, una striscia di colore, quasi uno stralcio in una tela. Sembra un assolo di chitarra il modo in cui lanciano la volata: dapprima Fidanza, Sanguineti, Cecchini, Guarischi e Confalonieri poi Barbieri, lì dietro non solo la maglia iridata di Elisa Balsamo ma anche quella di Lorena Wiebes. Già, perché quel treno olandese ha effettivamente pagato la fatica, quasi sfibrato da tutti gli agguati e Wiebes nel finale deve arrangiarsi da sola.
È un tempo sospeso quello della volata, come lo sguardo e le mani di Ilaria Sanguineti, che sperano, quasi esprimono un desiderio a una stella cadente solo immaginata. È un tempo sospeso anche quell'attesa perché Wiebes e Balsamo arrivano talmente vicine che non si capisce chi abbia vinto. Prima Wiebes, seconda Balsamo: serve rivedere la volata per saperlo. terza Rachele Barbieri.
E allora? Allora le idee non sono servite? Allora è stato tutto inutile? No, è il contrario. Quello che è successo oggi è la dimostrazione che proprio le idee sono più forti. Di tutto, anche di Wiebes. Perché l'ovvio ha dovuto faticare a materializzarsi, grazie al difficile, al faticoso. Grazie alla squadra. Di quella fatica che fa piangere Marta Bastianelli che oggi avrebbe voluto fare di più. Sono state le idee a costruire quel tempo sospeso e quella speranza.
Attraverso la fatica, la decisione, l'abnegazione, la volontà anche quando sembra inutile. Wiebes è campionessa europea e chi ha visto la prova di oggi ha imparato qualcosa in più. Se le idee sono così potenti, allora si può essere felici anche secondi, terzi. Persino fuori tempo massimo a patto di aver creduto a quelle idee e di averle costruite.


Tutta di un fiato

Come una tazza piena fino all'orlo, sbattuta sul tavolo e poi tracannata in un solo sorso. Il liquido da mettere dentro sceglietelo voi.
Tutto in poco più di sessanta secondi, da quando Bissegger pennella la rotonda che porta verso il Siegerstor, l'arco di trionfo che segue Ludwigstrasse a Monaco di Baviera e che interrompe l'arrivo a tutta velocità del plotone. Ma per lo svizzero è solo un'illusione, quella di poter anticipare, a poco più di due chilometri dalla fine, la sacrosanta e già sancita volata di gruppo.
Tutto in circa un minuto a complicare le manovre di un treno, quello italiano, blu più che azzurro, che si perde ai 600 metri dal traguardo; vengono a mancare un po' le gambe, un po' il tempismo, un po' il coraggio e qualche vagoncino, e alla fine «da dietro arrivavano più forte e ci è andata male» ha detto Guarnieri, mentre Dainese, con Viviani, veniva risucchiato dall'inerzia del gruppo.
Tutto in quegli attimi a dividere speranze e sfiducia, oppure la realtà dai sogni che oggi per Fabio Jakobsen sono più o meno la stessa cosa. I sogni (e la realtà), come quelli dell'Olanda con van Poppel che oggi prova a sancire il sorpasso su Mørkøv come miglior pesce-pilota del gruppo, trascinando Jakobsen alla conquista del titolo europeo e di quella maglia che vestirà fino all'anno prossimo. «È stato bello, molto bello» ha detto van Poppel, raggiante, a fine corsa. «In questi giorni io e Fabio abbiamo diviso la stanza e questo è servito anche a capire e concordare alcune cose. Ad esempio: Jakobsen preferisce essere portato davanti e lasciato dove vuole lui possibilmente in scia a un avversario per poi aprirsi e sfogare la sua potenza, mentre Bennett (con il quale corre tutto l'anno in maglia BORA, Nda), vuole essere lasciato con la strada libera davanti».
In quegli attimi Jakobsen sceglie la ruota giusta, quella che vuole lui, in quegli attimi dove sarà passato di tutto dalla sua testa, ma oggi non ci interessa, se n'è già parlato sin troppo e Jakobsen è un anno che va di nuovo forte, fortissimo.
Quello che conta è che tutto d'un fiato Jakobsen, fatto di velocità e potenza, affianca Merlier e lo sorpassa. Quello che conta è stato aver scelto la ruota giusta e aver rimesso la propria davanti, dove merita di stare.


Quelle foto, quelle volte e poi domani

La prima immagine è del 2018, dell'estate del 2018. Quel giorno la pioggia era come un incessante ticchettio che rivoltò il percorso dell'Europeo di Glasgow: da semplice contesa per uomini veloci, ma resistenti, a gente avvezza a contesti più impegnativi, una sfida tra uomini - ragazzi - granitici.
Quell'immagine è del 2018, e quell'arrivo fu il primo a regalare i quattro titoli consecutivi che l'Italia di Cassani è riuscita a conquistare nelle rassegne continentali. All'epoca qualcuno forse si fece sfuggire l'importanza di quel podio - non del successo in sé. Davanti arrivò Trentin che, dopo una condotta di gara dai tratti somatici vicini a quelli della perfezione da parte dell'Italia, conquistò uno dei suoi successi più importanti in carriera (ah, maledetta volata di Harrogate poco più di dodici mesi dopo!), dietro di lui van der Poel e van Aert immortalati sul podio con delle facce poco convinte, poco sorridenti, a dimostrazione di quello che è da anni la loro fame, ma ancora con le sembianze di chi sembrava aver intrapreso da poco la strada dell'adultità. Primo Trentin, secondo van der Poel e terzo van Aert: a leggerlo oggi sembra qualcosa a cui si farebbe fatica a crederci.
2019, siamo ad Alkmaar, Olanda. È l'anno di Viviani e anche qui, la nazionale va che è una meraviglia; su strada è il migliore (o quasi) Viviani di sempre, ed è un Viviani che non si ciba di sole volate pure: l'arrivo con cui sconfigge Lampaert e Ackermann andati via nel finale è la dimostrazione. Ancora un percorso facile, sulla carta, ancora una nazionale che corre come si deve, ancora un successo. Poi arriva il 2020, a Plouay, Francia, ed è volata quasi vera e pura stavolta, e Ballerini che pilota Nizzolo, e poi Nizzolo che vince. Secondo Démare, terzo ancora Ackermann.
Infine a Trento è il giorno di Colbrelli, lo ricordiamo bene. Colbrelli che va via con Cosnefroy ed Evenepoel; Colbrelli che resiste agli affondi di Evenepoel; Colbrelli che batte Evenepoel davanti al Duomo di Trento e lo fa ammattire ma fa impazzire tutti.
E poi arriva domani in un lampo: Nizzolo - si è chiamato fuori dopo una caduta in gara in Belgio qualche giorno fa - e Colbrelli - ahinoi - non ci saranno, Trentin e Viviani sì, ma soprattutto non sarà più la nazionale di Cassani, ma quella di Bennati. Soprattutto non sarà la nazionale da battere - Belgio (Merlier), Germania (Bauhaus e Ackermann) e Olanda (Jakobsen) favorite, occhio alla Francia (Démare) e alla Danimarca (Pedersen). Ci sarà Dainese che sta andando dannatamente forte da mesi a questa parte. I favoriti sono altri, abbiamo detto, ma domani sogniamo lo stesso che tanto è gratis.


Il rumore che fa Annemiek van Vleuten

Tutte se lo aspettavano, nessuna ha potuto fare nulla. L’attacco da lontano di Annemiek Van Vleuten era dato per certo da tutte le rivali: la prima frazione di montagna avrebbe sconvolto la classifica e la più forte scalatrice di questo secolo avrebbe dovuto recuperare dall’ottava posizione in classifica generale in cui si trovava. A circa 85 (sì, ottantacinque) chilometri dal traguardo, all’inizio della prima terribile salita di giornata, Van Vleuten attacca. Si porta dietro l’unica atleta in grado di spingere wattaggi simili, Demi Vollering. Presente e futuro del ciclismo olandese.
È un attacco che non vede nessuno, le immagini sarebbero arrivate una mezz’oretta dopo. Su Twitter il ciclocrossista olandese Jens Dekker si chiede, parafrasando un noto indovinello filosofico sulla percezione della realtà: se attacca nella foresta e non c’è nessuna telecamera a riprendere, Van Vleuten fa rumore? Il fracasso dev’essere stato troppo forte nelle gambe delle rivali: tutte le più forti tranne Vollering non riescono a seguire, si raggruppano indecise sul da farsi. Sono Juliette Labous, Elisa Longo Borghini, Cecilie Uttrup Ludwig, Evita Muzic, Kasia Niewiadoma e Silvia Persico, tra le altre. Queste ultime due erano seconda e terza in classifica generale, ma non hanno potuto fare altro che andare su col proprio ritmo.
Chi non ci sta e prova a recuperare sulle due olandesi è Elisa Longo Borghini. È una fuga strana, la sua, quasi una ribellione scriteriata. Rimane a lungo da sola, a bagnomaria, tra le due battistrada e il gruppo successivo di inseguitrici, che intanto inglobava altre atlete, come una terza FDJ – Suez – Futuroscope (Grace Brown) e una rediviva Urska Zigart. La prime due salite – nel bosco e sopra l’8% medio – sono davvero dure e pian piano l’inseguimento di Longo Borghini perde brillantezza.
Sembra una cronometro individuale lunga più di ottanta chilometri. Van Vleuten accelera sul secondo gran premio della montagna e si lascia Vollering alle spalle. Longo Borghini è ripresa dalle inseguitrici e staccata. Le prime venti terminano tutte in solitaria o a gruppetti di due. All’arrivo Elise Chabbey (decima in classifica generale) e la sua compagna di squadra Pauliena Rooijakkers (decima nella frazione odierna) dicono che sì, se l’aspettavano, ma che ci potevano fare? Van Vleuten ha reso una tappa di montagna una lotta alla sopravvivenza: che lei, ovviamente, ha vinto


Le gambe che scappano di Remco

Nel ciclismo i segnali sono tutto perché lì resta l'attenzione. Così in un sabato qualunque, neanche una settimana dopo la conclusione di un Tour de France che è stato racconto e romanzo scivolato nella realtà, vedere la Quick-Step Alpha Vinyl in testa al gruppo alla Classica di San Sebastian, col traguardo ancora lontano, ha fatto tornare nella mente di chiunque stesse guardando le sensazioni dell'ultimo mese. Lo stupore costante è diventato abitudine, l'imprevedibilità una risorsa.
"C'è Remco Evenepoel" pensavamo tutti questa mattina. La presenza è un dato di fatto, ogni corridore, poi, riempie questo dato con quello che è, che sa, che gli piace. Il gusto dello stupore appartiene a Remco Evenepoel, lo sapevamo già, ma un sabato di fine luglio l'ha riportato in scena, quasi un temporale, quasi un'impressione. Un'impressione è naturalezza e istantaneità ovvero far sembrare semplice il difficile e farlo così, come si bevesse un bicchiere d'acqua.
Tutto questo è successo quando Remco Evenepoel è scattato ai quarantacinque chilometri dall'arrivo e solo Simon Yates è riuscito a tenergli la ruota, seppur per pochi chilometri. Con quella gamba avrebbe vinto anche stando assieme agli altri, magari portando via un piccolo gruppo? Probabile, a quelli come Evenepoel non interessa solo il risultato. C'è qualcosa dentro di loro che li chiama a divertire e divertirsi, a cercare il massimo grado di difficoltà, a lasciare qualcosa che va oltre i numeri, le statistiche. Un talento particolare. Ci ha colpito lo sguardo di un ragazzino sull'ultima salita: "Vorrei essere come lui". Quando si vede questo, quando si percepisce questo, si ha la netta sensazione che vada bene così, a prescindere da come va a finire.
Evenepoel ha vinto da solo, con la maglietta slacciata, con le gambe che scappano via come si dice nel ciclismo. Rende l'idea perché è come se le gambe fossero automi in grado di fare da sole, fregandosene del corpo. Invece restano lì, parte del corpo, nel corpo, e per andare così deve essere tutto perfetto, tutto in ordine, una sinfonia, un'armonia, uguale alla posizione di Evenepoel in bicicletta.
Più bello forse sarebbe stato solo con Pogačar a combatterlo, due ragazzi con lo stesso istinto, la stessa naturalezza. Invece Pogačar ha mollato prima, dopo le fatiche del Tour. Ci saranno altre occasioni e le aspetteremo guardando ai segnali come in questo sabato.
Mentre guardiamo Evenepoel esultare e ascoltare tutto quello che c'è attorno. Indica l'asfalto, indica la terra, dove tra venti giorni tornerà alla Vuelta a España. Non sappiamo cosa succederà, sappiamo però che non avere più nulla di scontato, non sapere più cosa aspettarsi, sarà ancora una volta bellissimo.


Le storie dei sogni

Silvia Persico ci ha provato. Sapeva bene che la frazione tra Saint-Dié-des-Vosges e Rosheim era l’ultima di possibile calma prima delle montagne, ma voleva prendere la maglia gialla già oggi. È la capitana di una piccola squadra, la Valcar, ma incredibilmente si trova al secondo posto della classifica generale del Tour de France Femmes. Quindi tanto vale provarci, consapevole di non essere una scalatrice pura. Persico ha messo davanti tutte le compagne di squadra con l’obiettivo di tenere a bada la fuga numerosa e far staccare qualche velocista. La più forte di tutte, però, non si è staccata.
Marta Bastianelli arrivava da un paio di giorni difficili. Ne ha parlato anche nella quarta puntata di “Cherchez les Femmes”, il podcast di Alvento che segue il Tour dalla Francia; dopo la quinta tappa, era in lacrime dal dolore dopo una caduta. Oggi si sentiva meglio perché ha provato a recuperare sulle quattordici fuggitive da sola. Il gruppo l’ha riassorbita, ma lei non si è persa d’animo e ha tenuto la scia delle migliori in salita. Nella volata di Rosheim, è stata scaltra a tenere la ruota giusta. Un solo problema: era la ruota della più forte di tutte.
Lorena Wiebes, la velocista più forte del mondo, ha provato a rimanere con le migliori. Poi cade e con lei Alena Amialiusik Lotte Kopecky. Sono all’esterno di una curva nel bosco: Kopecky riuscirà ad alzarsi e a rientrare, Wiebes no. Era al secondo posto nella classifica a punti, dopo la volata di ieri: vincendo oggi, la più forte di tutte ha chiuso il discorso maglia verde.
La storia di Marianne Vos, la più forte di tutte, può essere raccontata anche tramite le storie dei sogni e degli obiettivi delle rivali, che continuamente e irrimediabilmente spezza. In questo primo, rinato Tour de France, non è ancora arrivata oltre la quinta posizione. Domani vestirà la maglia gialla per il sesto giorno consecutivo. Non si tratta di lascia il segno sulla corsa, si tratta di prendersi tutto. Domani giura che non riuscirà a tenere il primato, ma chi sarebbe davvero sorpreso, in caso contrario?