L'ultimo passo del ballo del freddo

L'ultimo passo, anzi, l'ultima pedalata, dal ballo del freddo, a Campo Imperatore, al Gran Sasso, è di Davide Bais. È un passo segnato dalla fatica e dalla rabbia. È un passo segnato da tanti sogni spezzati come sono spesso le fughe, l'ultima proprio ieri, a Napoli, per De Marchi e Clarke. È il passo perfetto, a chiudere la danza, prima di levare le braccia verso quella che pare quasi una creatura mitologica di altri tempi, la montagna. Simile a un ghepardo, ma dal manto verde, maculato di bianco, dove riposa la neve, un manto che, con la crescita dell'animale, con l'altitudine che sale, diventa sempre più bianco. L'ultimo passo, dal ballo del freddo, è lo scatto decisivo, a pochi metri dal traguardo, è un passo raro, mai riuscito, nonostante tante prove. Riuscito solo nel giorno del ballo del freddo, quassù, al Gran Sasso. A Davide Bais.

Ha caratteristiche peculiari il ballo del freddo: gambali in battere e levare, indossati e tolti, per la pioggia dei primi chilometri e per il sole che proietta le prime ombre. Mantelline chiuse, riaperte, richiuse, poi tolte, buttate in ammiraglia. Acqua che si asciuga e diventa freddo e, poco dopo, sudore, maglie aperte, slacciate, promesse di neve e vento, che spazza queste zone. Mani rivestite da guantini e dita fuori: bianche per la pioggia fredda e rosse per il caldo della fatica.

Davide Bais, Simone Petilli, Karel Vacek, in fuga sin dai primi chilometri, fatica per fatica, freddo per freddo, questo è il mestiere della fuga. Il mestiere della fuga è quel sogno spezzato a cui si accetta di andare incontro ed alla fine, forse, ci si abitua anche al fatto che la moltitudine, ovvero il gruppo, lo spezzi, ma nella progressione di un uomo in fuga, nei rilanci per allontanare il gruppo, nell'elastico per restare attaccato alla ruota di chi è all'attacco con te, nel controscatto, c'è l'infinito di quel verbo, del verbo sognare. Un infinito che affascina, che attrae, di segno uguale e contrario a qualunque ciclista. Infinito ovvero consapevole del fatto che le fughe non finiranno mai. Non sarebbero mai finite lo stesso, ma Davide Bais, che vince a Campo Imperatore, è un monito in più, per ricordarselo, per ricordarlo a chi, magari, stava pensando che domani non sarebbe andato in fuga, perché stanco dalla prima settimana di Giro d'Italia, o quasi certo che tanto la fuga non sarebbe arrivata oppure spaventato dalle due settimane restanti. Ogni tanto un ciclista ci pensa, non lo dice, ma ci pensa. Soprattutto nei giorni del ballo del freddo.

In tre, assieme per ore, in tre all'atto finale di questo ballo. Simone Petilli, che attacca già ai meno sei dal traguardo, che forza l'andatura, che, dirà, poi, di aver sbagliato, perché era meglio aspettare. Karel Vacek, che avrebbe smesso solo qualche tempo fa, che non lo ha fatto per rispetto dei sacrifici che, invece, ha sopportato per poter anche solo pensare di essere un ciclista. Vacek che si stacca più volte, rientra, sembra quasi fare la differenza e torna a patire. Davide Bais che controlla l'uno e l'altro, mentre lo sguardo, celato dagli occhiali, è rivolto solo alla strada. La concretezza di chi, a forza di confrontarsi con la fuga, ha capito che non resta altro da fare che controllare la propria strada, e gli altri faranno quello che faranno. L'uomo in fuga lavora solo sul proprio istinto, lo affina, e sulla propria solitudine, anche se non è materialmente solo, su come affrontarla, gestirla, su come fare i conti solo su una bicicletta e un pugno di muscoli.

L'ultimo passo del ballo del freddo è questo: un passo di libertà, di prospettiva, di indipendenza, che è la base di ogni legame. Il fratello, Mattia Bais, esulta durante gli ultimi due chilometri: in questo linguaggio comune, costruito dal fuggire, dall'andare, dall'affrontare la moltitudine inventando una via, un linguaggio conosciuto, scavato, vissuto. In gruppo non succede molto, è vero, anzi, quasi nulla. Solo un allungo di Evenepoel sul finale, che precede Roglic. Ma non è il momento di parlarne.

Domani, più o meno alla solita ora, qualcuno proverà ad andare in fuga. E domani, più o meno alla solita ora, avrà un motivo in più per scegliere di farlo, piuttosto che di non farlo. Perché dall'ultimo passo del ballo del freddo è uscito Davide Bais, che a forza di sogni spezzati, di fughe interrotte, ne ha ricostruito uno di sogno e, con tutti i pezzi che c'erano in giro, è uscito un gran sogno. Una grande fuga.


«Meravigliosa corsa umana»

Una definizione particolarmente calzante del Giro d’Italia è firmata da Alfonso Gatto: «meravigliosa corsa umana». Come il poeta campano, anch’io oggi mi sono convinto del fatto «che i sogni sono fatti di montagne e di cielo, di città popolose abitate da uomini felici che stanno alla finestra a veder passare il mondo». Quelle di Gatto dal Giro del 1947 erano cronache intrise di «originario stupore per quei benedetti ragazzi che riusciranno a volare su due ruote sole come angeli»: era un’epoca, quella, in cui le macchine della stampa potevano transitare tranquillamente in gruppo. I giornalisti potevano parlare coi corridori durante la corsa o fare colazione a fianco dei campioni.

Oggi l’accesso è molto più limitato. Non mi era mai capitato, prima di ieri, di seguire la corsa da dentro. Poi è successo che Shimano avesse un posto libero in macchina, mi hanno detto vuoi montare su? Sono andato. La tappa di Napoli era nel mirino di tanti: per il suo disegno su e giù tra la penisola sorrentina, per il fatto di accadere in una città che festeggia la fine di un’attesa di 30 anni, per il poter tornare - dopo l’anno scorso - a mangiare la pizza sul lungomare. Sono quindi salito in macchina per godere di tutta la tappa da un punto di vista privilegiato: mai come nella tappa di oggi mi sono reso conto di quante persone attendano l’arrivo del Giro. Si è passati in zone popolate, calorose, colorate: un San Siro e un Anfield lunghi 160 chilometri.

È difficile citare quali comuni ci abbiano riservato un’accoglienza migliore di altri, ma ne cito tre per motivi diversi. Il primo è Pollena Trocchia, perché non avevo nemmeno idea di cosa fosse prima di oggi e, travestito a festa per il Giro, mi ha fatto una gran impressione. Il secondo è Sant’Antonio Abate, per tutte quelle persone che se ne sono infischiate delle transenne del traguardo volante e hanno voluto incitare Alessandro Verre più da vicino, pur rispettando la distanza di sicurezza. Il terzo è Sorrento, perché non capita spesso di vedere due ali di folla a lato strada e sopra di te striscioni per tutta una rosa di calciatori.

La tappa di oggi è passata due volte attorno al Vesuvio, da Pompei, sulla costiera amalfitana e poi su quella sorrentina. È passata la fatica nelle gambe di Alessandro Verre, che per 80 chilometri ha inseguito vanamente. È passata la splendida vista verso Furore e il suo fiordo. È passata una giornata a Napoli, e io a malapena me ne sono accorto, stupito com’ero di tanta bellezza.


Come la festa per Napoli

Ci hanno detto che, a Napoli, il concetto di festa, tra le altre cose, è racchiuso in una domenica insieme, mentre sul fuoco c’è il ragù. A dire il vero, la festa è nel ragù che inizia a “pippiare”, ovvero a sobbollire. Quel pippiare è l’inquietudine dolce e turbolenta della felicità, di un attimo di dimenticanza, per dirla con Totó.

Quel “pippiare” è quel classico sbuffo che è ben più di un suono: è un profumo, un posto a tavola aggiunto all’ultimo, un tavolo, anche piccolo, attorno cui possono stare tante persone, “perché a quello serve una tavolata”. Abbiamo ascoltato e abbiamo pensato che se è così, festa è, in fondo, la possibilità del circostante di realizzare il proprio significato, oppure uno dei propri significati. Festa è l’azzurro delle decorazioni per il Napoli Campione d’Italia, perché i bambini, quando giocano a pallone la prima volta, sognano un tricolore sul petto. Festa è Diego Armando Maradona perché manifestazione di un talento, di un divertimento che fa divertire, che porta dimenticanza. E, nel frattempo, quel che non va resta sospeso, da solo, e quasi perde di peso.

Festa è il gruppo che pedala sulle strade della Costiera Amalfitana: perchè quelle biciclette sembrano perfette per stare lì, perché i mille colori di una canzone, che da queste parti si sente spesso, sono dentro e attorno il gruppo. Festa non è solo musica, grida di gioia e notti con la luna a vista, festa è anche il silenzio di chi sa che, oggi, la propria festa sarà diversa. Sarà un dolore quietato, il sollievo di un lettino dei massaggi, di una doccia, la consapevolezza di essere stati coraggiosi, perché, ricordate, festa è realizzare la propria possibilità. Pensiamo ad Andrea Vendrame, che è partito con una “disgiunzione alla spalla sinistra” dopo la caduta di ieri. Lasciate stare i termini precisi, vuol dire dolore, male, vuol dire non potersi girare nel letto senza sentire male e faticare a tenere il gruppo quando “mena”, come si dice in gergo, in una tappa mossa, agitata. La sua festa è così, dolorante, opposta al concerto di festa tradizionale, ma identica al coraggio, alla volontà. Alla realizzazione di ciò che si ha dentro, anche se fa patire.

Un discorso simile e diverso vale per Alessandro De Marchi e Simon Clarke. Nelle sensazioni, guardandoli, seguendoli, sperando in quella fuga, che si tifa sempre ma oggi forse di più, c’è il “pippiare” del ragù. Uno sbuffo dentro, un tuffo di qualcosa che salta e zampilla, che può essere preludio alla gioia o all’amarezza, alla mancanza. La fuga è la loro personale festa, il loro sentire, il loro manifestarsi, la loro radice che si espande e cerca altri luoghi. La loro festa è una curva, un momento in cui il gruppo scompare. Vengono ripresi a trecento metri dall’arrivo dopo aver scosso polmoni e nervi all’indicibile. Si cercano con una mano sulla spalla, mentre poco più avanti Mads Pedersen vince, esulta.

Quella di Pedersen è, forse, la festa classica, è forse una domenica, anche se è giovedì: è il traguardo dopo la fatica, dopo il lavoro, dopo quasi una settimana di Giro. È la soddisfazione costruita lentamente, come lentamente si costruisce una volata: nei meccanismi, nei tempi, nella velocità e nel caos che riempie quei momenti. Pedersen che stringe la mano a Milan, un’altra sfumatura di festa.

E nell’aria c’è quell’inquietudine che fa presagire la festa, la realizzazione di qualcosa. Diverso per ciascuno come diversa per ciascuno è la festa.


Quando piove al Giro

Quando piove, il Giro d’Italia assume tratti diversi. Sono già diversi giorni che il tempo non è esattamente quello della scorsa edizione: non c’è caldo, il sole non picchia sulla corsa, nessun ciclista sta in pantaloncini e maglia corta. Durante la Atripalda-Salerno, però, il meteo è peggiorato. Una pioggia da Blade Runner si è abbattuta sul percorso di gara dal chilometro zero, anzi da ancora prima: Damiano Caruso si è accorto della «giornata umida» già in albergo, quando lo abbiamo incontrato lungo in corridoio.

Forse l’ibleo era ironico, forse sottostimava l’assurda quantità di pioggia che cade ogni anno in Irpinia: «Siamo a soli 200 metri d’altitudine, ma qui fa sempre così. Secondo me piove almeno 300 giorni l’anno» afferma Mary, che col compagno gestisce il bar Moon’s Face, davanti al quale i bus delle squadre hanno parcheggiato per preparare la partenza. Mentre mi riparo come posso, due britannici stanno vivendo temperature molto diverse, a giudicare dalle apparenze: Mark Cavendish è in maniche corte, quasi rilassato, mentre Tao Geoghegan Hart ha tirato su lo scaldacollo fin quasi ai capelli.

Con la pioggia sul Giro, si fa più timida la gente a bordo strada e diventa meno colorato il plotone dei ciclisti: le mantelline, per esigenze di fabbricazione, sono spesso tutte nere. Remco ne ha una con l’iride e poco altro. Nemmeno Cavendish ha la mantellina di campione britannico. Sul percorso, la gente sfida la pioggia sotto gli ombrelli, come Lukas Pöstlberger per andare al foglio firma. Le strade sono più scivolose, il freddo entra nelle ossa dei corridori e avrà effetti imperscrutabili nei prossimi giorni, si bagnano le scarpe di tutti i meccanici. Anche i ciclisti più esperti possono attraversare la linea del traguardo separati dalla loro stessa bici, com’è successo a un rotolante Cavendish. Eppure il Giro va avanti e oggi scriverà un’altra pagina del suo romanzo: magari non più intrisa di pioggia.


L'attimo

Probabilmente giornate come queste sono quelle in cui risulta più difficile concepire l'attimo, gli attimi. Sì, perché, con la pioggia battente già sui vetri della finestra dell'albergo, all'alba, le ore di corsa, quattro e mezza in totale, ma apparentemente infinite, sono solo un ammasso nebuloso, informe. Un peso da portarsi sulle spalle, lì dove continua a battere fitta l'acqua, un banco di nebbia da attraversare, cercando qualcosa dall'altra parte. Qualcosa che, spesso, in giorni come oggi, non si ritrova. Un mestiere duro quello del ciclista, forse, soprattutto in giorni così, in cui i rischi sono più delle opportunità, almeno apparentemente. Non è l'altimetria a complicare una giornata che potrebbe essere una delle tante, ma un cielo cattivo che rovescia acqua e un asfalto viscido su cui si pattina quasi. Eppure l'attimo esiste anche oggi, anzi, esistono anche oggi gli attimi.

Della fuga abbiamo parlato più volte, e pare ovvio ribadirlo, ma per Champion, Gandin e Zoccarato l'attimo è stato a inizio gara, quello che li ha separati dal gruppo e li ha illusi di trovare qualcosa al di là di quella nebbia. Non ne valeva la pena se doveva essere un'illusione, dirà qualcuno. Invece, si va avanti anche per illusioni, che, se non fosse per loro, giornate così non si inizierebbero neppure. L'attimo è quello di una borraccia che, abbandonata da un corridore, finisce a bordo strada, e in quell'attimo c'è qualcuno che è proprio lì, che può raccoglierla, portarla a casa. Un attimo solo, di tempo e spazio: un attimo prima o un attimo più in qua o più in là e non c'è borraccia, non può esserci, resta l'attesa e lo sguardo verso chi quella borraccia la stringe in mano.

Gli attimi sono quelli che precedono una caduta, una scivolata, l'ultima cosa che si vede prima di finire a terra, l'ultima cosa a cui si stava pensando prima di quel momento in cui la bicicletta va altrove e si resta "senza". Gli attimi sono quelli dopo una caduta: Remco Evenepoel a terra, seduto, senza muoversi, senza parole. Gli attimi in cui si cerca di capire cosa sia successo, si teme di sentire male a muoversi, di scoprire un dolore che immobile non si sente, di non riuscire a ripartire. Sono attimi senza fine, attimi che vengono riempiti dal nervosismo del dopo, che altro non è, se non paura passata. Due cadute in una giornata per Evenepoel, apparentemente senza grosse conseguenze fisiche, ma con quegli attimi farà comunque i conti Remco. Sono attimi che fanno sentire fragili, che tolgono la sicurezza anche all'uomo più forte del momento.

Attimi che dovrebbero far riflettere anche chi è a bordo strada, a vedere, perché dalle scelte di un attimo possono dipendere quelle cadute. E anche quando si è spettatori, anche quando si sta a guardare, forse soprattutto, l'attenzione è fondamentale: non è un gesto passivo guardare, è attivo. Quando si guarda, si fa, si è lì, presenti. Quando si è presenti, ovunque, serve cura.

Anche le gallerie conoscono i loro attimi: momenti in cui le spalle, gli occhi, le mani, il volto trovano pace dall'acqua e non sembra vero. Sono attimi in cui le gocce non scorrono sulla mantellina per poi piovere a terra. Si trova l'importanza delle cose in giornate come questa, la si inventa, si conferisce una nuova importanza a quel che si attraversa.

La volata è attimo per eccellenza. L'attimo in cui l'ultimo uomo lancia il proprio velocista, l'attimo in cui il velocista stesso parte e ancora l'attimo in cui si mette la propria ruota davanti agli altri e quello in cui si arriva per primi su una fettuccia bianca che è la fine del mondo. Kaden Groves vince così, dopo una caduta, dopo una giornata difficile. Gli abbracci con i compagni sono, in realtà, uno scambio di acqua, che ha impregnato tutto. Stamani chi avrebbe cercato un attimo come questo, un attimo di felicità pura, in un alba di pioggia e freddo? Ben pochi, probabilmente. Ma è così che funziona: gli attimi importanti vanno cercati pure in mezzo al nulla, al vuoto, anzi, soprattutto lì, perché è lì che si annidano. È lì che hanno la possibilità di cambiare qualcosa. Questa è la loro funzione. La nostra, quella di chiunque, è di non smettere di cercarli, di credere che ci siano.


Per colpa di una bicicletta

Non lo faccio apposta, giuro. Vorrei davvero dormire. Lo stress di un mese di Giro d’Italia è enorme, quindi recuperare col sonno è fondamentale: semplicemente non mi sta riuscendo. Anche stamattina le tapparelle chiuse hanno funzionato all’opposto di quello per cui sarebbero preposte: sembrava che il sole sorgesse nel palazzo a fianco. Non mi resta – realizzo in cinque millesimi di secondo nonostante l’andatura cadaverica da sette del mattino – che mettermi in bici.

Non ho preparato alcun tour, perché appunto l’idea era dormire. Ricordavo però la strada percorsa il giorno prima. Per la prima volta, infatti, avrei percorso il tracciato di gara non il giorno stesso né il giorno prima, ma il giorno dopo la corsa. Meno palloncini rosa, meno entusiasmo e gente per le strade. Ci si riabitua a una vita senza Giro d’Italia: così pure a Barile e Rionero in Vulture, comuni tra i quali abbiamo fatto finta di dormire.

La strada del giorno prima, dicevo. Splendida: dai laghi di Monticchio al valico La Croce molta natura, tutto verde attorno, senza traffico. Salendo così presto al mattino, però, il freddo e la nebbia erano ben più presenti: si potevano quasi toccare. Si sono resi materia in piccole goccioline di condensa che trovavo sui freni, sul manubrio, sugli occhiali. Freddo a parte, non ci sono molte cose migliori di una salita, un bosco e la nebbia tutte assieme: sull’asfalto svariate scritte rosa “I <3 Vulture” spezzano l’armocromia di colori cupi, scuri, che il sole non ha ancora riscaldato.

Non mi aspetto di trovare nessuno, ai laghi di Monticchio, ma di nuovo le previsioni vengono disattese. Prima incontro diversi mezzi dello staff della Jumbo-Visma, che evidentemente ha passato qui la notte. È una nutrizionista della squadra olandese quella che vedo correre a bordo strada: si chiama, mi dirà poi alla partenza, Monique, e non ce la fa proprio a non tenersi in allenamento anche durante il Giro.

Poi a bordo strada trovo tante persone con casacchina catarifrangente arancione. Sono raggruppati a piccole squadre, attorno a macchine dalle quali estraggono scope e badili. Così tante mi fermo a chiedere chi fossero e cosa stessero facendo. Mi risponde una signora mentre accende sotto un fuoco da campeggio, sul quale un’altra anziana donna sta issando una moka gigante da caffè. Sono qui per pulire il bosco e la strada, in poche parole. Lo fanno ogni anno: ci tengono a tenere puliti questi luoghi che in estate si affollano di turisti. Ci mettono alcuni giorni, ma tutte (la stragrande maggioranza di chi lavora qui è donna) sembrano divertirsi e sfruttare l’occasione per passare tempo assieme.

Tra le mille cose, il Giro è anche sveglie controvoglia e incontri inaspettati. Le persone incontrate oggi sono comparse nella nebbia, quando pensavo di essere solo. E sono comparse, alla fine della fiera, grazie o per colpa di una bicicletta.


Inseguire, lasciare andare

Si era parlato così tanto di fughe, di fuga, che stamani pareva proprio che il primo scatto, quello sulla sinistra del plotone, appena sventolata la bandierina del via, per intenderci, dovesse essere quello buono, quello giusto. Invece no. Per lasciare andare la fuga, ci sono voluti quasi cento chilometri, quasi due ore di corsa, c'è voluta una discesa, mentre tutti ci provavano sugli strappi. Stasera non parlate di fuga "lasciata andare" a De Marchi, Scotson, McNulty, Cepeda, Healy, perché loro quella fuga l'hanno inseguita per minuti e minuti, in una nebbiolina di umidità insistente, ma, oggi, non era la loro giornata. Delicato equilibrio quello fra "inseguire" e "lasciare andare". Vero che il gruppo lascia andare la fuga con Andreas Leknessund, Aurélien Paret-Peintre, Toms Skujiņš , Vincenzo Albanese e Nicola Conci, fra gli altri, altrettanto vero che tutti coloro che ci avevano provato prima hanno a loro volta lasciato andare, non solo la fuga: la stessa idea di fuga, lo stesso ideale. Forse la parte più difficile. Certo anche che Leknessund e Paret-Peintre, il primo maglia rosa a Lago Laceno, il secondo vincitore di tappa, hanno inseguito la possibilità di essere lasciati andare, hanno inseguito il respiro quieto del gruppo, che mette la mantellina, torna alle ammiraglie, mangia, beve, molla la presa.

Inseguire, ovvero i battiti che aumentano, il rapporto più duro, le gambe che girano veloci e l'acido lattico che assale, oppure lasciare andare, respirare, alleggerire la pedalata e pensare a domani: equilibrio, legame stretto, talvolta imposizione con cui fare pace, altra scelta difficile, seppur senza possibilità. Prendete Bruno Armirail: quanto insegue la fuga ormai partita? Quanto ci crede, mentre è da solo e la vede avvicinarsi? Inseguire è speranza, forza, lo si intuisce. Più difficile è capire che lasciare andare non è da meno. Siamo tutti Armirail, forse, soprattutto, nel momento in cui ha detto basta, si è arreso e ha pensato che ci riproverà. Un atto di coraggio. Lasciar andare è anche questo, oltre a lasciar andare una maglia, quella rosa, come fa Evenepoel: solo che di Evenepoel dicono tutti che la ritroverà, che è ovvio, quasi certo, di Armirail non lo dice nessuno. Deve saperlo e crederci da solo: capite che è diverso, non paragonabile.

Nicola Conci insegue quello scatto, sulla salita di Colle Molella, anche se apparentemente sono gli altri a inseguirlo. Conci prima insegue lo scatto, poi lascia andare. Albanese fa il contrario: prima lascia andare, poi insegue. Warren Barguil lascia andare e basta, dopo una fuga così lunga, dopo aver inseguito quella stessa idea per tanti chilometri e probabilmente aver avuto anche buone sensazioni, altrimenti non sarebbe stato lì davanti. Il modo più difficile di lasciare andare: quello in cui credevi, quello di cui ti eri illuso o di cui il tuo corpo ti aveva illuso.

Andreas Leknessund, solo qualche tempo fa, si chiedeva: «Chissà se un giorno lotterò per la generale di un Grande Giro». Non lotterà per la generale, ma la maglia rosa l'ha addosso e non ci pensava neppure lui, forse. Il suo è un inseguimento in due tempi: dapprima nel gruppetto all'attacco, cercando anche di non dare troppo peso a quella maglia rosa virtuale, per non cadere nelle illusioni e farsi troppo male, poi attaccando e spingendo la bicicletta, persino con i denti, per evitare brutti scherzi, da quel gruppo tirato dalla Ineos. Anche Aurélien Paret-Peintre, che a Lago Laceno vince, ha lasciato andare, per qualche attimo, ha lasciato andare Leknessund e lo ha ripreso. Qualcosa vorrà pur dire, forse che, come ci sforziamo di inseguire, dovremmo imparare a lasciar andare, senza vergognarcene, perché si può vincere lo stesso. Oppure semplicemente perché nella quotidianità non è solo vincere che conta.

Andreas Leknessund, dalla Norvegia, pallido e colorato solo dallo sforzo e dalle sensazioni, ha inseguito tutto il giorno quell'idea, quella della maglia rosa di cui sistema anche il colletto. Al traguardo, ha pianto, felice. Ha lasciato andare tutto quel che c'era dentro. Anche lui.


Sfera di cristallo

C’è un motivo se tanti giornalisti, o facente funzione, si sorbiscono decine di minuti di camminata. A ogni tappa, a ogni arrivo, anche con la pioggia che inumidisce l’arrivo di Melfi. Potrebbero fare il loro lavoro dalla sala stampa (la conferenza è video-collegata anche con essa) e godersi il buffet a pochi passi.

Se tanti di noi quasi ogni giorno vanno al furgone allestito per la conferenza stampa in presenza, col vincitore di tappa e il leader della classifica generale lì a due metri, è perché lì si spera di trovare qualcosa di più interessante, occasioni in più, qualcosa che non ha nemmeno il tempo di entrare in GIRONIMO. È una speranza vana, a volte: oggi in diversi hanno preferito evitarsi il terzo giorno di domande da sfera di cristallo a Remco e l’intervista a Matthews, notoriamente non il più loquace dei grandi corridori.

Entrambi, invece, hanno detto o fatto cose inusuali. Michael Matthews si è presentato con una vaschetta di plastica contenente pasta: fusilli con pomodorini, per la precisione. In un’altra bustina di plastica ha arrotolato dentro un tovagliolo le posate e durante le domande si riempie la bocca. Non di parole, appunto, ma di cibo. «Ho preso il covid durante la Parigi-Nizza e non ho potuto fare la Sanremo e tante altre classiche. Poi una brutta caduta al Giro delle Fiandre mi ha costretto ad una stagione difficile finora» esordisce Bling, un soprannome che deriva dalla felicità con cui vive la vita. Fino a poco tempo fa, invece, stava «contemplando se continuare col ciclismo o meno» a causa di tutti i problemi avuti. Tuttavia, dopo il momento di riflessione, era così rilassato nei chilometri finali di oggi che gli è sembrato di fare «una di quelle volate ai cartelli fuori dalla città, che facciamo in allenamento»

Il circa mezzo miliardo di colleghi belgi ha permesso a Remco di arrivare in conferenza stampa solo un quarto d’ora dopo Matthews. Il belga è di nuovo nascosto dietro una mascherina rossa, ma concentratissimo: afferma di non poter certo «regalare tre secondi» a nessuno, «sarebbe stato stupido non gettarmi nella mischia» nello sprint intermedio di Rapolla. E dice una banalità, ma è bene ricordarselo per il primo arrivo in (più o meno) salita: «Chi avrà una brutta giornata, sarà nei guai».


Pensieri-rumore

Quando passa il gruppo, in un qualunque tratto di strada, tra Vasto e Melfi, si vedono e si ascoltano molte cose. Ma è quello che non si può sentire che vogliamo portarvi oggi. Sì, parliamo dei pensieri dei corridori e del loro suono. Sceglieremo alcuni rumori, per darvi l'idea di cosa sarebbe il transito del gruppo se davvero tutto si ascoltasse. Consapevoli del fatto che se ne potrebbero scegliere molti altri, ma soprattutto certi del fatto che sia un bene che non tutto si senta, perché, solo così, in ogni professionista può esserci una parte di chiunque sia mai andato in bicicletta, anche per pochi chilometri, anche per un viaggio. Le sensazioni sono le stesse, semplici, primitive, cambia il contesto, ma chi ha provato le conosce bene e così guardare la corsa è anche provare la corsa.

Veljko Stojnic e Alexander Konichev che attaccano, pronti-via, pensando che qualcuno li segua, invece restano da soli. Non si fanno riprendere, continuano. Il primo pensiero assomiglia a quello dei vetri rotti, di quando qualcosa che ci si aspetta non accade, ma bisogna lo stesso proseguire, perché è la gara. Poi subentra un pensiero simile all'acqua che lava via la polvere da una superficie da troppo impolverata: piacevole quella pioggia, un temporale estivo, l'afa che se ne va. Il pensiero si alleggerisce e si guarda a quel che c'è: tanti traguardi intermedi, per ingannare la mente, per pensare di avercela fatta prima ancora di farcela, perché si è in testa e quando si è lì bisogna dare valore al momento, perché non si sa quando ricapiterà. Non chiedersi il motivo di tanta fatica vana, ma l'opportunità.

Pensieri che sono tonfi sordi: Roglič che cerca di sorprendere Evenepoel al traguardo volante ma viene sorpreso e finisce secondo. Si volta verso il gruppo: «Pure qui sprinta adesso? Che facciamo?». Dice così, con gli occhi, con la gestualità. Quelli di Almeida, di quella bici danneggiata su cui si sforza di continuare a pedalare. Pensieri che sono aghi che trafiggono un cartone: Pedersen che, dopo aver fatto lavorare la squadra, si ritrova in coda al gruppo, di poco staccato, in vetta al Gran Premio della Montagna. Sono aghi che trafiggono perché arrivano e se ne vanno: in un momento, c'è la delusione ed il senso di colpa, nell'altro un respiro a pieni polmoni e le gocce di pioggia che, invece che dare fastidio, rinvigoriscono. Basta trovare una pedalata più rotonda delle altre, rientrare, e ci si sente di nuovo bene.

Alcuni pensieri stridono come un gesso su una lavagna: la bicicletta che, a causa dei cambi di asfalto, in discesa verso Melfi, sembra lasciarti. Resti in piedi, ma, alla curva dopo, tiri i freni, ricordi quella sensazione e ti prende il timore: «Se cado, siamo solo alla terza tappa, fra poco iniziano le salite». Una sfilza di pensieri negativi. Sono pensieri fastidiosi perché ingabbiano la libertà di improvvisare in sella e di scendere a tutta, per una volta senza fatica. Rumori che sono suoni, inizi di suono, prime note: Pinot che conquista i punti per la maglia azzurra e scatta per essere sicuro di vestirla stasera. La sua è una ripartenza, da molto tempo, e le ripartenze hanno questo di bello: non finiscono, sono un inizio continuo.

Pensieri-frastuono: quelli di Pedersen, Groves e Albanese che erano lì a giocarsela e ci hanno creduto perché la linea del traguardo continuava ad avvicinarsi senza arrivare mai. Quelli di Matthews, invece, sono pensieri-silenzio, al massimo pensieri-grido: volata lunga, vittoria, soddisfazione, la prova che va bene, che, da stasera, al Giro sembrerà tutto più facile, anche quando sarà più difficile. Almeno per qualche giorno. Basta un attimo di felicità, è semplice la regola.

Avremmo potuto sentire tutto questo, ne siamo certi. Non potendo sentirlo, abbiamo ascoltato ciò che c'era, abbiamo guardato le cose, i tetti, le strade, le maglie, le biciclette, gli scatti, le cadute. Le braccia alzate e la vittoria, la testa bassa e la sconfitta. La gara, insomma. Il Giro. Il resto, alla fine, lo sappiamo, perché quei rumori li abbiamo tutti dentro.


Ho portato una bicicletta al Giro

Non l’ho detto ieri, ma ho portato una bicicletta al Giro d’Italia. Anzi, non una: la mia bicicletta! È questo il miglioramento più significativo rispetto alla scorsa edizione della Corsa Rosa: più della presenza di Remco, più del ritorno dei buffet in sala stampa. Pedalo un po’ al mattino, prima che cominci il delirio. Dalle 9:30 circa alle 21 si lavora sostanzialmente senza sosta al Giro: riuscire a staccare la testa fa bene, ogni tanto.

Giusto una volta, per ora, sono riuscito ad alzarmi presto e inforcare la bici. Sabato, prima della cronometro, ho raggiunto Ortona da Montesilvano. Nel farlo ho percorso alcuni chilometri che i corridori hanno fatto ieri, nella Teramo-San Salvo: splendidi, soprattutto quelli vallonati verso Ortona, impreziositi dalla vista sul mare. Assetato com’ero e ignaro della dislocazione delle fontanelle sul territorio, ho trovato l’oasi nel deserto in un bar alquanto strano, in località Contrada Schiavi. L’insegna fuori, innanzitutto, non recava un nome e nemmeno sulle mappe è segnalato. C’era uno di quei cartelloni coi loghi di varie aziende telefoniche, ma scolorito e vecchio.

La prima cosa che noto, entrando, è una cesta di uova messe su uno sgabello: certo che sono in vendita, mi conferma l’anziana signora dietro al bancone. Vista la bici mia appoggiata fuori, si ferma un altro ciclista. Mentre riempio le borracce di acqua fresca (la bottiglia stava nel frigo del bar da prima del Giro di Hesjedal), l’altro avventore del bar e la signora chiacchierano in dialetto abruzzese dell’origine dei loro genitori: storia lancianesi e teatine. Poi la signora Martelli (il nome, però, non vuole dircelo) ha il fermo desiderio di portarci a vedere le galline, quelle delle uova. Sono più di 80, ma in diminuzione da quando nel vicinato sono comparsi alcuni cani di grossa taglia.

Mentre si aggira per l’orto ci racconta di un ciclista che si fermò lì, quattro anni prima. Si fermò al bar mentre la signora stava zappando l’orto, attratto - ricorda lei - dalle bellissime primule sul vialetto. Si trattava di uno psicologo di fama di Palermo, che aveva parenti in zona. Egli presto si affezionò alla signora e andava sempre a trovarla, nelle sue uscite in bici. Finché, nonostante la devozione di questo psicologo per Santa Rosalia, non ha trovato una prematura morte in circostanze sconosciute. La signora Martelli si commuove raccontando l’epilogo perché sia io che l’altro avventore del bar siamo dello stesso segno zodiacale della persona deceduta, l’ariete.

È una storia piccola, certo, del tutto laterale nell’economia del Giro. E non c’entra nulla con la tappa odierna: bravo questo Jonathan Milan, che certo non aveva bisogno di presentazioni e del quale sentiremo ancora parlare a lungo. Il bar, la storia e le uova della signora Martelli, invece, andavano scritte perché possano rimanere. Non ne ho scritto ieri perché iniziare queste cronache dal Giro con un racconto in prima persona sarebbe stato come affrontare la crono dei Trabocchi in triciclo, ma la storia della signora Martelli è più Giro d’Italia di tanti ordini d’arrivo e tante startlist. Domani torno ad inforcare la bici e magari ne verrà fuori un altro incontro come questo: o magari pedalerò e basta, e andrà benissimo comunque.