Crediamo nel modo

Crediamo nel modo. Nel modo di fare le cose, qualunque sia il risultato, e lì, sul modo, ci soffermiamo. Anche guardando a Steven Kruijswijk a terra, dopo una caduta apparentemente innocua, che, invece, ha fatto male, così male da farlo restare sull'asfalto rovente, con una mano sulla spalla. Perché a pochi metri c'è Wout van Aert, che vorrebbe ripartire, ma lo guarda, cerca conferme, cerca un segnale, poi parte. Perché quando Kruijswijk viene trasportato in barella verso l'ambulanza il pubblico guarda e applaude. Un applauso nel silenzio, del silenzio: il gruppo è già altrove, certo, ma non è per quello il silenzio interrotto solo dal battere delle mani. Significa riconoscersi in un dolore e questa gente, quella che aspetta ore sotto il sole per un secondo di colore e di vento, sa cosa vuol dire.
Credere nel modo vuol dire guardare oltre a quello che si vede, vuol dire cercare oltre quello che si trova, vuol dire fare, talvolta, oltre quello che si può. Mentre scriviamo questo pezzo non sappiamo se Michael Mørkøv arriverà a Carcassonne, se lo farà entro il tempo massimo oppure no, però Mørkøv crede nel modo. Non abbiamo dubbi. Perché c'è modo e modo di non farcela. Insistere fa parte di questo modo. Qualcosa di simile vale per Benjamin Thomas: il suo modo è quello dei fuggitivi e chi fugge crede nel modo perché se credesse solo nel risultato non andrebbe in fuga, non soffrirebbe così per poi perdere tutto a pochi metri dal traguardo, col gruppo che lo inghiotte. Il risultato è importante ma credere nel modo fa la differenza perché c'è modo e modo di raggiungere lo stesso risultato e chi guarda capisce, chi guarda ama non per i numeri, ma per le modalità con cui avvengono le cose.
Wout van Aert prova ad andare in fuga, viene fermato, torna in gruppo, cade, aiuta Vingegaard e poi si lancia in volata. Non vince, arriva secondo ma volete mettere questo secondo e qualunque altro secondo posto? Poi si parla di tattica, di strategie, degli errori e di tutto il resto. Questo, però, colpisce e colpisce perché ha a che vedere col modo.
Come col modo ha a che vedere la volata di Jasper Philipsen: con il modo in cui se la guadagna, con il modo in cui sprinta, in cui non smette mai di pedalare, e anche col modo in cui parla dopo il traguardo. Col modo, ad esempio, in cui dice ad un intervistatore "sto per piangere", quasi ad avvertire di un momento di debolezza che è poi un momento di forza.
Ve lo dicevamo: crediamo nel modo. Da sempre, oggi ancor di più.


Guardare Bettiol

C'è un tappeto giallo sulla Côte de la Croix Neuve a Mende. Un tappeto che, in questo sabato, coincide con i battiti che aumentano, con la posizione di chi sta guardando il televisore dal divano che cambia, il volume che si alza, quasi che la voce più alta possa cambiare qualcosa. Ci si siede, ci si mette in punta di divano, mentre le mani, che non riescono a stare ferme, continuano a intrecciarsi, a sudare. Si fa fatica anche a guardare, a volte il ciclismo è così ma a non vedere si sta proprio male. Saranno quei cinquanta e più giorni da quando un italiano non vince al Tour de France che fanno stare così, in una sensazione di sublime, a metà tra la meraviglia e un leggero dolore. Da poco è scattato Alberto Bettiol e su quella bicicletta ci sono tutti.
Su quelle gambe che hanno lavorato tutto il giorno, che hanno faticato tutto il giorno, c'è Bettiol che da dietro una curva vede Matthews, in fuga dalla fuga, che sembrava lontano e invece a lui è bastato uno scatto per tornare a vederlo. C'è quel tappeto giallo a Mende su cui Bettiol, spostandosi da destra a sinistra, riesce a riprendere la sua ruota. Bettiol va a destra e chi guarda stringe i pugni come nel gesto di afferrare qualcosa, Bettiol va a sinistra e la mano va sulla fronte a togliere il sudore. Denti stretti. Anche i piedi si muovono per terra: se si fosse lì si inseguirebbe Bettiol a bordo strada. Quei passi si fanno lo stesso.
Saranno cinque i metri che Bettiol rifila a Mathews nel tratto più duro della salita. Su quel divano ci si continua a muovere: non c'è più tempo per fare nulla se non ciò che si può fare guardando. Si beve in fretta, l'acqua calda, fuori dal frigorifero da inizio tappa. Fa nulla. Nessuno vuole vedere che quei metri diminuiscono, che Matthews sta rientrando. Nemmeno Bettiol, forse. La meraviglia si sta spezzando.
Matthews cambia ritmo, se ne va. Quei metri che prima si dilatavano per crederci, ora sono trenta, quaranta, cinquanta ma fa nulla. Si prova qualcosa anche quando Bettiol spunta in fondo al rettilineo d'arrivo mentre l'australiano già festeggia il suo capolavoro. Si prova qualcosa quando lo si intuisce sui pedali, lontano, troppo lontano. La schiena si poggia al divano dopo pochi minuti che sono sembrati troppi, infiniti. Primo Matthews, secondo Bettiol.
C'è Pogačar che attacca Vingegaard, c'è l'ennesimo testa a testa, ancora assieme. Uno spasso da ragazzi, da "ti faccio vedere cosa so fare" fra questi due. Sennò come spiegare un attacco ai centottanta dall'arrivo?
Sul tappeto giallo ora ci sono solo tifosi che vanno e tornano. Il televisore continua a parlare e qualcuno continua ad arrivare: Caleb Ewan, sofferente, dolorante, con l’unica voglia di ringraziare i compagni perché hanno finito con lui, si sono fidati del fatto che ce la facesse e ce l’ha fatta, dopo la caduta di ieri. Le mani smettono di intrecciarsi. Succede in un pomeriggio di luglio, mentre si vede il Tour de France, mentre si guarda Alberto Bettiol.


Imperfetti come l'Alpe d'Huez

È strano. Tutte quelle voci, quelle campane, quelle mani che battono, che si mescolano sui ventuno tornanti dell'Alpe d'Huez, se sentiti altrove non avrebbero nulla di armonico, sarebbero rumore. Invece lassù sono suono. Sarebbero rumore perché non c'è nulla di concorde, nulla di studiato, di preparato, perché ognuno improvvisa, si dicono cose diverse in lingue diverse. Si urla. Fra i tornanti che diventano colori, poi nazioni e sensazioni, invece, sono suoni per gli stessi identici motivi. Perché sono imperfetti.
Vogliamo parlare della piacevolezza dell'ascoltare e del vedere l'imperfetto: qualcuno che è già caduto, che si è già "sgualcito", che è già cambiato tante volte, che ha perso qualche illusione, non la speranza. È imperfetto Chris Froome perché se fosse stato quello dei tempi migliori non avrebbe avuto bisogno di andare in fuga per arrivare terzo e, anzi, non sarebbe proprio arrivato terzo. Il keniano bianco, oggi, sembra la lingua dell'Alpe, un rumore, in termini assoluti, che si fa suono. E quel suono lo capiamo tutti, è piacevole, confortante.
Giulio Ciccone che inizia l'Alpe d'Huez in testa, sui pedali, guardando verso l'alto non è molto diverso da lui. Ciccone dei rumori ha fatto suono più di una volta, delle cose belle nei momenti peggiori ci ha parlato giusto un paio di mesi fa a Cogne. Quanto peseranno quegli occhiali che Ciccone getta via quando vince? Ben poco, eppure strapparsi qualcosa di dosso ha molto a che fare con gli scalatori: quasi ad alleggerirsi, realmente o simbolicamente. Buttare via qualcosa, lanciarla, è liberarsi. Non si può fare con ciò che si è passato, si fa con quello che si ha addosso. Si resta imperfetti quando si soffre, ma liberi. Liberi di esserlo. Quando hai capito questo, sì, puoi scattare.
Il volto di Tom Pidcock che va verso il traguardo e vince porta ogni segno di questa sofferenza. C'è quel rumore a spingerlo. Ci avete fatto caso? Quelle voci vanno in sincronia con la corsa, sembrano accelerare quando la corsa accelera, rallentare quando si quieta. E i pedali di Pidcock, il suo corpo, quasi seguono quelle voci: c'è accordo. Cosa può diventare quel rumore? Non solo suono, anche sincronia che è muoversi allo stesso tempo, che è quasi musica. Un sottofondo adatto alle sue curve in discesa qualche tempo prima. Eppure era imperfetto. Era tutto imperfetto.
Anche Tadej Pogačar ieri è stato imperfetto in sella: ha perso, è stato sconfitto come mai lo era stato. Ha conosciuto un dolore che mai aveva conosciuto così e l'ha affrontato. L'ha affrontato sentendo male e poi ridendo, scherzando. Non è scontato quando non sei abituato. Quando, oggi, è scattato con Vingegaard alla ruota c'era qualcosa di diverso: la stessa forza, la stessa grinta ma un'altra leggerezza. Il permesso di perdere, di non essere perfetto e piacere lo stesso, forse ancora di più perché si assomiglia alla maggioranza delle persone che gridano, urlano, muovono quei campanacci a tempo perché si immedesimano. Sono e vogliono sentirsi come chi arriva qui in bicicletta. Non come l'atleta, come l'uomo.
Il suono dell'Alpe, la sua lingua, parla a tutti per questo motivo. Basta qualche secondo e capiamo tutti di assomigliargli più di quanto somigliamo a qualsiasi sinfonia.


Il Re Giallo

Quando Jonas Vingegaard attacca Tadej Pogačar sul Galibier, ad un certo punto, lo guarda. Sembra la restituzione dello sguardo dello sloveno alla Super Planche de Belles Filles: ora è solo. Scatta Vingegaard, scatta Roglič, ci riprova Vingegaard e ancora Roglič. Il Re giallo, quasi uno scacco impazzito, insegue prima l'uno e poi l'altro. Vede i corridori della Jumbo Visma compulsare le radioline, non sembra avere paura, ma certamente si chiede quale sarà la prossima mossa. Solo come si è soli sul Galibier, in ogni caso, e tutti pensano alla solitudine di Marco Pantani quando lì attaccò nel 1998. Ma la solitudine può ammalare, può indebolire, può lasciare nudo anche il Re giallo.
Non c'è pietà, non può esserci oggi: non per Barguil, in fuga dal mattino, non per Quintana, nemmeno per Bardet. Quella pietà non può essere scolpita sulle pietre del Col du Granon: duro, granitico, freddo. Forse davvero Pogačar non se lo aspettava, forse per questo scherzava nonostante il plotone della Jumbo Visma a fare il ritmo in testa. Per lui cambia tutto come cambia il tempo in montagna, quando Vingegaard riparte e questa volta gli sguardi sembrano non incrociarsi. Una provocazione, un'altra. Ma il Re giallo non risponde: probabilmente Majka davanti, a scortarlo, non era la preparazione di un attacco, era il tentativo di un bluff, di una difesa dopo tutti quegli scatti, quelle risposte a domande sospese.
È freddo lo sguardo di Vingegaard mentre sale, qualcosa che ricorda l'inverno danese. Ha caldo Pogačar, si slaccia la maglia, si scompone: vede Thomas attaccarlo, staccarlo. Vede molti corridori affiancarlo e superarlo con apparente facilità. Soffre, non gli vediamo gli occhi ma li intuiamo. Solo di quella solitudine che inghiotte. Svuotato, senza forze.
Solo come solo davanti è Vingegaard che vince, conquista la maglia gialla e rifila quasi tre minuti allo sloveno. Che pare impossibile perché Pogačar sembrava non poter andare in crisi, assomigliava a quelle pietre, quelle rocce, su cui piove da anni e anni ma restano così, sfregiate, ma immobili. Lo sloveno oggi è immobile perché sconfitto, col caldo che diventa freddo dopo l'arrivo quando si realizza che bisogna ricominciare da capo, attaccare, e che proprio adesso non si sentono le forze per farlo.
Parigi è lontana. Stanotte i sogni, gli incubi, i momenti di questa tappa che torneranno in mente. Domani l’Alpe d’Huez. Il Tour de France, intanto, ha un altro Re. Solo in vetta al Granon dove, oggi, un ragazzo venuto da lontano ha pianto.


Il prezzo della libertà

Viene da pensare alla libertà, pochi metri dopo il traguardo di Megéve. Al fatto che, forse, l’ultima volta che ci abbiamo pensato così intensamente eravamo adolescenti. Non alla libertà in generale, ma alla libertà al modo di un ciclista che può sembrare quella di una casa al mare con le finestre aperte, di un pomeriggio al cinema e di una corsa a perdifiato verso l’orizzonte. Perché la libertà di un ciclista è così piena di coraggio che sembra non sentire il peso del suo prezzo.
Che in realtà la libertà non è solo un volo libero: può esserlo certo, ma dopo quanto tempo? E soprattutto per quanto tempo? La libertà ha un peso, un costo, un prezzo. La libertà di un ciclista è, ad esempio, quella di Bettiol di cui tutti abbiamo contato i metri ad ogni pedalata, immaginando un giro di pedali che potesse colmarne sempre più per avvicinarsi al traguardo. La libertà può anche essere girare attorno a una macchina, in uno spazio stretto, quando la corsa è bloccata, quando quella è l’unica possibilità per ripartire. La prendi a morsi con fame: anche se è poca cosa.
In fuga vanno in pochi, il resto è gruppo, il resto è plotone. Perché in fuga si è più liberi, lontani, con più spazio attorno e con una visuale sgombra davanti eppure la maggior parte dei corridori stanno in gruppo. Lì dove c’è un poco meno di tutto ciò che abbiamo detto, ma c’è altro. Non devi rischiare di dover mollare dopo aver attaccato tutto il giorno, come Bettiol, se resti in gruppo. Non devi rischiare di essere maglia gialla virtuale per tutto il giorno e perderla sul più bello come Leonard Kämna. Chi non sogna quella libertà, quella dei ciclisti, forse preferirebbe non sognarla nemmeno la maglia gialla piuttosto di essere deluso. Noi preferiamo essere delusi, forse, ma aver provato. Esserci stati.
Quella libertà che sembra non aver prezzo tanto ti attrae è quella di Magnus Cort Nielsen che oggi ha vinto, per poco, dopo così tanto. Bella la libertà di Cort? Certo, bella per quello che è stato capace di vederci dentro. Che se non la riempi con gli applausi del pubblico a fiumi sulle strade, con esultanze e un pizzico di follia anche quella libertà fa male, come il mal di gambe, come la solitudine.
Più di venti fuggitivi, quasi altrettante storie di cosa sia la libertà. Quella di Ganna che è una libertà di regole e tempi, di far meglio in quelle regole, in quelle posture rigide e in quei tempi. Quella di Velasco che è la libertà di chi va in fuga al primo Tour e forse somiglia più che mai a quella idealizzata da adolescenti. Quella senza limiti, senza storie, senza punti e solo virgole o forse neanche quelle. Flusso di coscienza e desideri.
La verità è che le finestre di una casa al mare si chiudono, dal cinema si torna e non ci sono corse infinite nei prati. La libertà ha un prezzo e solo quando accetti di pagarlo sei veramente libero. Un ciclista lo fa e se quando lo guardiamo stiamo così bene è proprio per questo.


Bussare alle porte del sole

Sembrava davvero di essere alle porte del sole mentre il Tour de France andava incontro alle Alpi. Alle porte del sole mentre il ghiaccio sulla schiena dei corridori si scioglie e diventa acqua, mentre l'acqua si asciuga dimentica di se stessa. Nel paesaggio e nell'erba a tratti ingiallita, nella luce cattiva dell'estate. Si sta così alle porte del sole.
Si arrivava a Les Portes du Soleil, un paese reale, in montagna, ma ognuno a quelle porte arriva, almeno una volta, anche se non sa quando. Talvolta lo spera, talvolta dispera. Nel caldo terribile, in quello che i corridori aspettano, e sentono già l'acqua, calda, che non basta nelle borracce, il vento smosso dalla bicicletta che soffoca, le ferite che fanno più male nelle bende e gridano. Giorni brutti in cui non si sa quanto male possa bastare per farcela. Vlasov, per esempio, ha detto che giorni così non sa per quanto potrà sopportarli, "anche se poi passa".
Chi spera, alle porte del sole, aumenta la velocità, sul Col de la Croix come fa Bob Jungels. Dopo due anni difficili in cui sembrava impossibile fare ciò che oggi ha fatto, ciò che oggi stava facendo. Ad un certo punto si dubita del ritorno, delle possibilità. Jungels avrà pensato a questo e questo gli avrà dato la forza di continuare perché, alla fine, può succedere, gli altri non ti tengono. In questo pomeriggio sei più forte di loro.
Non fosse che dietro parte Thibaut Pinot, scala come sa fare, la testa ciondola in "sì" che è fatica ma è anche affermazione: "Sì, è la giornata giusta. Sì, sono sempre io, non sono cambiato così tanto". Si avvicina, si avvicina di continuo e chi guarda non sa più cosa pensare, cosa sperare. Nei duelli del ciclismo, il più difficile è quello che mette di fronte due uomini che stanno curando una sofferenza, una passata disperazione.
Cosa si dice in questi casi? Di tutto. Si può anche mentire sul distacco, sulla pendenza delle salite che mancano, perché quando hai sofferto sentirti dire che non è così dura può salvarti e quando torni a crederci non è più dura del solito, delle tante volte in cui è stata dura.
Un elastico: Jungels rallenta e Pinot si avvicina, Pinot rallenta e Jungels si allontana. Così per molti chilometri, fino a che Jungels è troppo lontano da Pinot e troppo vicino al traguardo. Fino a che Jungels vince, dopo tanto tempo, dopo troppo tempo. Pinot arriva quarto superato da Castroviejo e Verona. Staccato dopo aver attaccato, come Uran.
Pogačar fa la solita cosa strana e bellissima, di quelle che non ti lasciano mai tranquillo ma, in fondo, il senso di tutto questo non può essere la tranquillità: allunga sul traguardo, con solo Vingegaard dietro. Pochi, pochissimi secondi guadagnati ma essere alle porte del sole vuol dire, anche, preparare qualcosa, come prima di aprire una porta o di chiuderla.
Essere alle porte del sole vuol dire farcela e tornare o sentire male e basta e sperare qualcosa cambi nel giorno di riposo. Soprattutto vuol dire bussare fino a farsi far male le mani. Perché per questo ci sono le porte.


La categoria dei Pogačar

Sembra tutto un gioco per lui ed è bello così. Lo sguardo di traverso mentre supera sul traguardo Vingegaard dice tutto: "C'hai provato, eh?".
"Sorrideva sempre", si dice. Così come saluta tutti quando scende in senso contrario rispetto all'arrivo. Compagni di squadra, «compatti e che si sono fatti in quattro per me», e tifosi con i cappellini gialli. «Qui all'arrivo c'era la mia compagna e la mia famiglia, oggi per me era un giorno speciale e ci tenevo». A fare bene, che poi per uno così vuol dire vincere.
Eppure. Eppure è come quando fai un gioco da bambino, ma vinci sempre e magari decidi che per una volta lasci agli altri il piacere del successo, ma niente, c'è dentro di te una scintilla, una miccetta sempre accesa, pronta a divampare. La differenza tra i corridori forti e quelli della categoria Pogačar.
Sembra quasi che Vingegaard su quel traguardo scattandogli in faccia abbia alimentato quel fuoco all'apparenza addormentato. Come avesse tirato dentro a Pogačar dei petardi. Come gli avesse dato una di quelle sberle che si dà a chi non riesce a risvegliarsi dal torpore. E quello ha reagito d'istinto.
Pogačar pareva controllare, ma non affondare il colpo, osservando Kamna da lontano, in progressione e con la testa leggermente abbassata per lo sforzo, spingeva forte, con i polpacci tirati, ma «Ero a tutta, è stata una tappa difficile [ma va! Nda], e ritengo Jonas in questo momento lo scalatore più forte del mondo». Già perché tu sai di appartenere a un'altra categoria.
Quello allora lo sorprende, ma non c'è scampo. La differenza è troppa con tutti su quasi tutti i terreni. Sempre. Anche se ti serve un metro, ti basta un metro per vincere in maglia gialla. Un altro capitolo, un altro successo e poi magari a fine carriera faremo i conti per capire a quale categoria appartenere. Al momento di sicuro a quella dei Pogačar.


Così va la vita

«Così va la vita», rispondeva Billy Pilgrim alle (cattive) notizie che gli davano. Così va la vita: sono tante le questioni che ci frullano in testa dopo la tappa di oggi. Non stiamo ad arrovellarci troppo il cervello, però, i ciclisti sono matti come cavalli, imprevedibile e calda come l'ancia di un sassofono questa generazione di corridori, e le domande in uno sport del genere, spesso, restano bagnate.
Dopo una giornata come quella di ieri sul pavé, cosa gli è venuto in mente di fare nella tappa più lunga della corsa? Attaccare dal primo metro andando a oltre cinquanta di media nelle prime ore (49, 376km/h la media finale del vincitore e che vincitore) dopo aver passato la serata di ieri a leccarsi le ferite. Poveri coloro - e ce ne sono già tanti, vedi Hirschi, Kirsch, poi ritirato, Moscon, Turgis - che tra cadute e malanni a malapena riescono ad arrivare al traguardo.
Ha iniziato Wout van Aert la fiera del capriccio: se n'è fregato, ha portato in giro la maglia gialla dal primo metro, allungava il gruppo perché voleva fortemente farlo. Fare che cosa? Appendere un altro quadro nella sua collezione: la fuga da lontano in maglia gialla. Non ha vinto? Così va la vita.
Si è disinteressato di ogni tattica, sta bene così. Ha perso la maglia gialla? Pazienza.

Quanto esalta vedere la maglia gialla in fuga? Chiedetelo al pubblico per le strade - per altro strade belghe per i primi chilometri; chiedetelo a chi lo ha spinto a ogni metro mentre il gruppo in fila indiana cercava di ricucire lo svantaggio; abbiamo fatto un tifo spudorato per lui come di solito si fa per una fuga qualsiasi di gente qualsiasi: anche oggi questa generazione è stata capace di ribaltare l'idea che ci eravamo fatti del ciclismo. Si tifa la maglia gialla in fuga. Quando mai? Il tutto mentre Fuglsang all'attacco con lui si rialzava e Simmons cedeva nel finale. Van Aert, invece, continuava la sua danza, che è potenza, cadenzata. Affannato, avremmo sperato di vedere dietro il gruppo tentennare, ma così va la vita.
Perché tirava la EF Education? Perché riprendendo van Aert, che nei piani (corretti) avrebbe ceduto per lo sforzo fatto, Powless sarebbe andato in maglia gialla. Non c'è andato? Così va la vita. Perché non l'ha presa? Perché davanti c'è l'altra faccia di questo ciclismo, di questa giornata, benedetta faccia, quella del bambino che normalizza gli avversari con uno scatto che devasta gambe e sentimenti, e che oggi, vincendo, già in qualche modo ipoteca il Tour. Al sesto giorno. Avevate dubbi? No, così va la vita.
Possiamo farci tutte le domande che vogliamo, la risposta è che così va il ciclismo, questo ciclismo, benedetto ciclismo. Di campioni diventati epocali che scrivono a carattere cubitali il loro nome dopo averlo forgiato a suon di imprese, tentativi che possono essere vani oppure splendidi modi di finalizzare. Idee prepotenti: bastano quelle per farci sognare. Abbiamo un dominatore? Pazienza. Alziamo le spalle, perché come diceva Billy Pilgrim, così va la vita.


Il sapore di quelle giornate lì

Succedono così tante cose nella "mini-Roubaix", come l'avevano presentata, che sembra difficile raccontarle tutte. Un po' sui generis una giornata del genere, è vero, ma solo per la nostra scarsa abitudine; manna del cielo una tappa così, per accendere un pomeriggio estivo passato a guardare il Tour de France e non riuscire mai a staccare gli occhi dal televisore.
Una di quelle tappe da "Lasciami stare! c'è il Tour de France!". Squilla il telefono? "Vai tu a rispondere, non vedi che oggi c'è il pavè?" Una di quella giornate da empatia con i corridori: facce stravolte e visi impolverati con il segno degli occhiali, la bava incrostata di terra; una di quelle giornata da mani e gambe che faranno così male che le scorie se le porteranno dietro in questi giorni fino al riposo di lunedì. Che lavoro avranno da fare i massaggiatori stasera!
Succedono tante cose: proviamo in ordine sparso. Si cade sin dal chilometro zero: è solo il preludio. Van Aert poi va giù, recupera, sembra impaziente, rischia di tamponare un'ammiraglia; quando è in gruppo non pare riuscire mai a rimontare la testa perché davanti si prendono i settori a tutta velocità: diventerà essenziale, quasi superbo, infine, il suo lavoro nel ricucire il più possibile il distacco da quel fuoriclasse epocale che ancora una volta ha dimostrato di essere Tadej Pogačar.
Succedono tante cose, e alzi la mano chi non ha sentito in bocca il sapore di quelle giornate lì. Alla vigilia qualche corridore lo diceva: «Chi guarderà la gara da casa oggi si divertirà... noi un po' meno».
Succedono tante cose: una fuga che va all'arrivo con dentro Magnus Cort Nielsen, quattro fughe su quattro tappe e le energie che nel finale lo abbandonano; Neilson Powless che arriva a pochi secondi dalla possibilità di vestire la maglia gialla (che, a proposito, nonostante tutto resta sulle spalle di van Aert, lui solo sa come, lo sanno le sue gambe, lo sa il suo motore, la forma e la classe); Edvald Boasson Hagen che non vince da tempo immemore e poi quando leggi che di corse ne ha conquistate ottantuno ti chiedi, «ma dov'ero finito?» perché la maggior parte ti sembra di averle perse per strada.
C'è Taco van der Hoorn, uno dei più amati del gruppo e non potrebbe essere altrimenti; Alexis Gougeard che qualche stagione fa prometteva proprio in questo tipo di contese e Simon Clarke. L'australiano che quando parla ha l'accento toscano.
Succede che dopo una giornata così, fatta di cadute rovinose, ritiri, forature, incidenti, con quasi venti chilometri di pavé, quello infame della Roubaix, diviso in undici settori che lasceranno il segno, fanno la volata dai milletrecento metri: Powless anticipa e sembra possa vincere lui, poi sembra stia vincendo Boasson Hagen, poi invece no è van der Hoorn, ma Clarke lo anticipa di pochi millimetri. Clarke, che pochi mesi fa era rimasto senza squadra dopo la chiusura della Qhubeka, pensava quasi al ritiro, ma oggi «dopo vent'anni che corro in Europa, realizzo il mio sogno. Ancora non ci credo, ho i crampi e male ovunque, ma ho bisogno di vedere il replay dell'arrivo».
Succede che una balla di fieno messa a protezione, invece di proteggere distrugge: ostruisce la carreggiata e Roglič, Paperino al Tour de France, ci finisce addosso, e a finire potrebbe essere il suo Tour, vista la spalla lussata. Succede che Vingegaard ha un problema meccanico, cambia una bici, ne cambia un'altra, poi prova a salire su quella di van Hooydonck ma sembra un bambino che prova a scalare la bici di un gigante.
Succede che Pogačar, un bambino, ma un gigante, dà spettacolo. Sembra nato (anche) su queste strade, un corridore da 9/9,5 su tutti i terreni, che ha messo il ciclismo - è solo suo quel ciclismo - su un altro livello, quello dei nomi che resteranno nella leggenda. Tiene la ruota di Stuyven, uno dei corridori più solidi da queste parti, dopo aver corso ogni settore in testa, senza squadra, scegliendo la ruota giusta e la traiettoria migliore
Succede che van der Poel ha qualcosa che non va, poteva essere la sua tappa e invece arrancava mestamente «Senza gambe» racconta. Succede di tutto, poi sembra non succedere niente, ma non ditelo a chi oggi era in bicicletta: stasera dovranno fare i conti con i dolori e le ferite. O forse sì, che a loro alla fine fa anche piacere. Lo ha detto Simon Clarke a inizio stagione: «Voglio godermi un altro anno in gruppo. Correre in bici è molto più divertente che stare seduti in ufficio». Fatti di pasta strana i corridori.


Vincere da solo

Ha dovuto aspettare la quarta tappa e il quinto giorno. Ha dovuto leggere per tre volte il suo nome al secondo posto dietro tre corridori diversi. Ha dovuto eguagliare un vecchio primato, quello di Binda del 1930.
Ha dovuto scegliere di andare via sull'ultima côte, il Cap Blanc-Nez, il Promontorio Bianco, in una tappa che non si accendeva, e non c'era verso perché forse già si sapeva che bisognava aspettare quel momento lì; aria ce n'era, ma era una brezza, e allora tutti attendevano quell'ultima risalita verso il cielo che domina il Nord della Francia, dalle parti di Calais, dove è tutto vento, fari, coste e oceano.
Una tappa che non scaldava se non nel vedere la gente spellarsi le mani a furia di applaudire Cort Nielsen (ribattezzato oggi Côte Nielsen, ci auguriamo) e Perez. Fuga di giornata con il danese che infilava dieci Gran Premi della Montagna consecutivi, sei su sei in Danimarca, quattro su quattro oggi, prima di rialzarsi e lasciare ad altri (ad altri... a van Aert) il quinto. Se le montagne fossero GPM di quarta categoria, Magnus Cort Nielsen sarebbe il più forte scalatore di questa generazione.
Ha dovuto scegliere di fare così Wout van Aert: andarsene e non farsi più riprendere. Era vestito di giallo e lo sarà ancora anche domani.
Ha usato la squadra e loro hanno fatto come alla Parigi-Nizza: su quello strappo vicino al traguardo si decideva di buttare giù tutta l'energia rimasta. E gli altri? Chi c'era c'era. Ognuno che faceva la sua volata, van Hooydonk accelerava, Benoot distruggeva i sogni di mezzo gruppo, e quando è toccato a van Aert non ha resistito nessuno - pure Roglič si staccava, mentre Vingegaard teneva, insieme a Yates, fin su, quasi in cima.
Ha fatto saltare in aria il gruppo e in parte i pronostici, avrà pensato: ma chi me lo fa fare ad arrivare in volata? Ha preferito vincere da solo, senza correre alcun rischio come per esempio arrivare secondi di nuovo: i nostri fragili cuori non avrebbero resistito un'altra volta; ha voluto vincere in maglia gialla con un'azione da fuoriclasse, un'azione da grande classica, un'azione da grande corridore. Ha distrutto una salitella volandola a oltre trenta chilometri orari di media.
Questo è van Aert, capace di conquistare tappe al Tour lo scorso anno allo sprint a Parigi, a cronometro, e poi in fuga sul Mont Ventoux, e che oggi ha messo un'altra foto nel suo repertorio: la vittoria in solitaria - dieci chilometri di fuga - con addosso la maglia più importante della corsa francese.
Così oggi van Aert: esaltante, sopra le righe, dominante. Da domani, così dicono in squadra, sarà al servizio dei suoi capitani - oggi sorride Vingegaard vista com'è andata, sul pavè vedremo. A noi del domani, in questo momento interessa il giusto: godiamo del presente, godiamo di Wout van Aert.