Un ragazzo buono per tutte le stagioni: Jakob Dorigoni
Il colmo per un ragazzo altoatesino che corre in bici e va forte nel ciclocross è non amare il freddo. «Più che non amare il freddo, vado più forte col caldo, ecco», ci racconta con disarmante semplicità e franchezza Jakob Dorigoni, ventiduenne di Vadena in provincia di Bolzano, un paesino con così pochi abitanti che probabilmente tutti si conoscono e tutti tifano per lui.
Proprio da quelle parti, a Nalles, si è corsa nei giorni scorsi una gara che ha avuto un’eco importante per come è riuscita a trasmettere quello che è il ciclocross, immagini di corridori che si davano battaglia in un campo ghiacciato, con la neve che gelava mani e piedi e il fango fin dentro le orecchie. Sofferenza, atroce realtà di uno sport crudo che mette a nudo e sposta i limiti. «Freddo, freddo, freddo, ricordo solo questo. Pozzanghere gelate e a ogni pedalata piedi inzuppati e sempre più freddi. A due giri ho mollato e sono salito nel camper. Ci ho messo ore per riscaldarmi: è stato bruttissimo. È una giornata che voglio dimenticare».
Ha iniziato a gareggiare presto, prestissimo. Aveva sette anni e ha provato ogni disciplina come fosse nato con due ruote al posto delle gambe e con in testa gli ingranaggi giusti, tanto da aver ancora memoria di quell’episodio ormai risalente a 15 anni fa. «Era un giovedì, eravamo usciti per un lungo. Poi c’è stata una gincana e da lì è iniziato tutto». E quando Jakob Dorigoni dice tutto, intende proprio tutto, tutto. «Ho praticato ciclismo su strada, prima, e poi mountain bike, ma da esordiente pure un po’ di pista. Il ciclocross invece è stata l’ultima specialità». L’ultima, ma non per questo la peggiore, direbbero gli inglesi, anzi. “Although the last, not least” spiegava il Re Lear parlando con la figlia Cordelia e definendola “l’ultima, ma non meno cara”. Tutt’altro; nel suo caro ciclocross Jakob Dorigoni ha assunto una dimensione a livello nazionale – sette titoli italiani conquistati in tutte le categorie, tre tra gli under 23 e uno tra gli élite di cui è campione in carica – ma anche internazionale. Quinto nel 2019 nel mondiale di Bogense tra gli Under 23 quando Iserbyt vinse davanti a Pidcock. «Il ciclocross mi piace perché le gare sono sempre varie, diverse, da una domenica all’altra quando magari ti ritrovi una volta a gareggiare nell’asciutto e al caldo, una volta al freddo nel fango, ma non c’è una specialità tra le due ruote che preferisco rispetto a un’altra. Da ognuna di loro prendo qualcosa. La mountain bike è la più dura, d’inverno mi diverto nel ciclocross: sforzi brevi e intensi, d’estate mi piace la strada». Gli piace fare “giri lunghi” precisa.
Nel 2021 ci sarà un cambio di prospettiva. Un’occasione presa al volo da Dorigoni che tornerà a correre proprio in mountain bike dopo qualche stagione, accettando la proposta del team Torpado Südtirol. «Ma no, non penso assolutamente a Tokyo» umile e sincero nel rispondere se per caso la sua scelta fosse dettata dalla possibilità di gareggiare ai Giochi Olimpici. «Intanto riprendiamo a divertirci con le ruote grasse, poi si vedrà. In Italia ci sono tanti atleti forti e meritevoli della maglia azzurra e io al momento non ci penso».
Se invece pensa agli anni di ciclismo su strada Dorigoni più che rammaricarsi ha una punta di amarezza per come è finito l’ultimo Giro Under 23, quello vinto da un altro corridore che dà spettacolo nel ciclocross, come Pidcock. «Stavo facendo una buona classifica generale, ma l’ultimo giorno sono caduto e mi sono dovuto ritirare. Però sono stati anni importanti, ho vinto delle corse, ma soprattutto il mio motore e la gestione delle corse è migliorata grazie all’esperienza maturata e grazie alla possibilità che ho avuto nel correre tre volte il Giro Under 23, una volta il Val D’Aosta e una volta la Ronde de l’Isard».
E a proposito di motore, a quei due lì, dinamitardi, – van Aert e van der Poel – ruberebbe la capacità di fare sforzi intensi per un breve lasso di tempo. «Loro due e Alaphilippe hanno questo che li differenzia da tutti gli altri. Forza esplosiva. Tengono l’ora di corsa molto bene perché sono resistenti, ma anche su strada i risultati arrivano grazie alla loro esplosività e resistenza nei periodi brevi». In cinque minuti di corsa ti mandano in tilt.
Per Jakob Dorigoni, van Aert è un maestro nel preparare le corse più importanti, mentre van der Poel «va forte sempre», raccontando quasi divertito, ma è cosciente che nel Ciclocross vince anche chi sbaglia meno. Giro dopo giro, traiettoria dopo traiettoria è fondamentale saper guidare, saper gestire le proprie forze. Che sia caldo, che sia freddo, estate, autunno o inverno a Jakob tuttavia basta pedalare. Nato non per la bici, ma praticamente in bici.
Foto: Per gentile concessione di Jakob Dorigoni
Giacomo Nizzolo: «Quando sei lì a giocartela»
Qualcosa, per Giacomo Nizzolo, è cambiato questo inverno, dopo quattro anni da dimenticare: «Durante l’inverno non ho avuto infortuni o problematiche fisiche, così ho potuto allenarmi meglio. Capivo che le sensazioni in allenamento erano buone. Era come se qualcosa in me si fosse ricostruito. Quella sensazione stava finalmente tornando». La sensazione di cui parla Nizzolo ha a che vedere con la possibilità, con la coscienza del possibile: «La maglia di campione italiano, il tricolore, è un simbolo molto importante. Ma in quei giorni, quelli difficili, la mancanza più forte riguardava qualcosa che nei giorni migliori sento dentro di me. Si tratta della sensazione di continuità, della percezione imminente della possibilità di essere lì davanti a giocarti la vittoria. Qualcosa che senti dentro anche quando ti alleni, anche quando riposi. Qualcosa che mi mancava da troppo tempo». Quella percezione è parte di Giacomo Nizzolo sin da quando era ancora bambino e quando resta inespressa fa male: «Sono sempre stato molto competitivo. Ho sempre provato una sorta di attrazione per la competizione. Da ragazzino, ricordo che improvvisavo gare per le vie di casa anche con ragazzi decisamente più grandi me. Parlo di un dolore e di una gioia, profondamente intrecciati nella competizione, che mi appartengono. I miei genitori mi hanno convinto a valorizzare questo aspetto così ho provato anche altri sport ma il ciclismo è la migliore valvola di sfogo per quella voglia che porto dentro. Uno sport di squadra che, però, valorizza moltissimo il singolo». Probabilmente per questo Nizzolo dice di non essere cambiato molto rispetto a quando era ragazzo. Anzi, dice di essere rimasto praticamente lo stesso.
Nato a Milano nel 1989, Nizzolo non ha mai avuto vita facile in sella: «Ci sono stati dei momenti, quando ero dilettante, in cui, a seguito di un brutto incidente, avevo messo in dubbio l’idea di tornare. La svolta sono certo sia stata la prima vittoria da dilettante. Era già fine stagione, erano le ultime gare dell’anno. Chissà, forse non ci fosse stata quella vittoria oggi non saremmo qui a parlare. Mi ero fatto male durante l’anno ed ero tornato dopo un infortunio che mi aveva tenuto fuori gioco per parecchio tempo». Cosa accade? Accade che quando le circostanze della vita ti colpiscono, ti riaggiusti come puoi. Se non ti lasci andare, sviluppi alcuni tratti caratteriali che ti consentono di restare in piedi: «Ho dovuto diventare resiliente, l’ho dovuto fare per andare avanti. E oggi è la mia forza. Vorrei solo essere capace di staccare un poco di più. Voglio dire questo: mi godo poco anche le cose belle perché appena le ottengo sento di dover ripartire per nuovi traguardi. Sia chiaro: è giusto continuare a porsi obbiettivi, ma ogni tanto bisogna anche concentrarsi su ciò che si è fatto e rilassarsi. Non significa accontentarsi, questo è sbagliato. Significa forse aver cura di se stessi». Ed è proprio questa cura del proprio essere che deve essere compresa, che deve essere capita dagli altri: «Dopo la vittoria del campionato italiano, ho detto che, senza nulla togliere a nessuna delle persone che mi amano, quella vittoria volevo dedicarla a me stesso. Credo di essere stato frainteso, quell’affermazione da alcuni è stata giudicata un atto di egoismo. Non mi hanno capito e forse non potevano capirmi perché non mi conoscono. I miei amici hanno capito. Non tolgo nulla a chi mi vuole bene e a chi mi è accanto, ma quella vittoria è anzitutto per me. Perché solo io so cosa ho passato in questi quattro anni».
Il volto più bello della schiettezza perché, questo lo diciamo noi, talvolta è anche facile rendere giustizia ai meriti degli altri. Il difficile è riconoscere i propri ed ammetterli. Che non ha nulla a che fare con l’egoismo. Ha solo a che fare con la consapevolezza. La stagione è stata difficile, per tutti, in particolare a livello mentale, Nizzolo però, proprio in questa stagione, è tornato ad essere quello che era sempre stato e ora guarda avanti al modo di chi, non solo crede a ciò che vede ma sa di avere la possibilità di plasmarlo per viverlo meglio: «A settembre sono stato in Trentino a fare la ricognizione del prossimo campionato europeo per gli organizzatori e devo che ho trovato un percorso diverso da quello che mi ero immaginato. Un percorso frizzante, direi, che apre il varco alla possibilità di diversi colpi di mano. L’arrivo in volata sarà difficile. Bisognerà guadagnarselo». Al prossimo settembre mancano poco più di nove mesi e Giacomo Nizzolo ha ben chiaro come colorarli: «Indosso una maglia importante, quella di campione europeo, e voglio godermela. Voglio divertirmi. Sì, proprio divertirmi, è la parola giusta. Voglio vivere quest’anno con la leggerezza di chi sa che non è necessario continuare ad arrampicarsi sempre più in alto. Bisogna continuare a fare il proprio lavoro con feroce determinazione, ma prendere fiato e respirare è altrettanto importante». Nizzolo ha le idee chiare: «La forza del ciclismo è il suo pubblico. Un pubblico diverso da quello di qualunque altro sport, il pubblico delle strade. Il ciclismo è l’unico sport in cui un amatore può pedalare accanto ad un campione e, per qualche attimo, sentirsi come lui. Purtroppo il ciclismo odierno è troppo settoriale, ha un forte potenziale inespresso. Spesso è giudicato come uno sport ”vecchio”. Non è così. Assolutamente. Si tratta di uno sport che potrei definire di moda. La sfida è raccontare questo».
Raccontare il ciclismo è, in fondo, raccontare qualcosa che è alla base di tutte le nostre parole: «Vedi, la verità è che il concetto a cui si torna è sempre uno: dare il massimo. Dare tutto. Se dai tutto, puoi essere sereno. In tanti, nel periodo dei continui piazzamenti, mi hanno chiesto: “Come fai a insistere così? Come fai a non abbatterti?”. La risposta è semplice. Se hai fatto tutto il possibile, cosa puoi rimproverarti? Probabilmente in quelle condizioni doveva andare così. Certo, col senno di poi, si può dire tutto. Ma tu hai dovuto fronteggiare quella situazione e lì più di così non potevi fare. Dare tutto non è sempre garanzia di risultato ma sicuramente è garanzia di serenità. Se dai tutto, non devi esaltarti per le vittorie e crederti superiore ma, allo stesso tempo, non devi lasciarti toccare dalle critiche e dai giudizi. Tu sai ciò che hai fatto. Ti basta questo».
Foto: Claudio Bergamaschi
Vittoria Guazzini: «Quando mi sento fiera, mi guardo attorno»
Vittoria Guazzini parla volentieri del concetto di responsabilità. Già, perché la responsabilità è insita in ogni sequenza di azioni o di non azioni, per quanto qualche volta non siamo portati a pensarci. C’è una responsabilità nell’agire ed una responsabilità nel non agire ed ognuna di queste responsabilità influisce tanto sulla propria persona, quanto sulle persone che vengono a contatto con il flusso di queste assunzioni di responsabilità. Vittoria dice più o meno questo, declinandolo al mondo che meglio conosce: la pista. «Quando parti per una gara di una disciplina singola, sei agitata ed è normale. Però, quando si parla di discipline di gruppo, questa ansia aumenta. Certo, perché se sbagli da sola, le conseguenze ricadono solo su di te, se invece sbagli quando stai lavorando con altri, il tuo errore ricade anche su di loro che magari sono stati perfetti e non hanno sbagliato proprio nulla. Questa responsabilità si avverte. Anche perché, in pista, basta davvero poco per sbagliare, per rovinare il lavoro di mesi. Il lavoro di gruppo è anche questo: condividere una responsabilità. E per condividere delle responsabilità, senza che queste diventino un peso intollerabile, serve molto affiatamento. Quest’anno, per esempio, la frase ricorrente era “Dai noi!”. Che è come dire: “Dai che noi, proprio noi, ce la faremo”. Siamo così». Insomma, non è una cosa facile. Ma a Vittoria Guazzini, oltre al merito sportivo, va senza dubbio un altro merito: la capacità di ironizzare e di farlo su stessa. E questa è davvero una qualità importante: «I miei sogni? Sempre cose abbordabili» racconta facendosi una fragorosa risata. «Volevo fare la ciclista e diventare una campionessa oppure diventare una cantante o un’attrice famosa. Suono la chitarra dalla quinta elementare e quel mondo mi ha sempre attratto. A parte gli scherzi, il primo sogno sto provando a realizzarlo». Questa leggerezza la aiuta a prendere le cose sul serio ma a non prendersi troppo sul serio. Poi c’è l’umiltà di una ragazza che ha appena diciannove anni, ne compirà venti il 26 dicembre, ma ha già vinto moltissimo.
«Io dico sempre che, quando ci sentiamo importanti, o troppo importanti, dobbiamo provare a guardare gli altri. Mi spiego meglio: la particolarità dei velodromi è una forte condivisione. Tu sei lì e vedi tutte le altre persone che fanno il loro lavoro al tuo fianco. Dopo qualche tempo si crea una sorta di sintonia, nonostante tutti quei box separati, e forse anche l’ansia si ridimensiona. Ecco: quando sei al velodromo e senti di aver vinto tanto, devi guardare le tue colleghe che, molte volte, hanno vinto più di te. Devi guardarle, prendere coscienza del fatto che puoi ancora far meglio e ripartire. Non devi abbatterti perché non sei ancora come loro, però devi trovare la tua umiltà e tenerla stretta». Se pensa ai traguardi che vorrebbe raggiungere nei prossimi anni, dice che “le viene la pelle d’oca”: «Il nostro è uno sport dove si perde molto più spesso di quanto si vinca. Ma è anche uno sport dove si tifa per tutti. L’anno scorso, al Fiandre, mi scendevano le lacrime a vedere tutta quella gente, a sentire quelle grida. Stavo piangendo. Perché non è scontato che accada e questa esperienza, parlo della pandemia, ce lo ha ricordato. A noi ciclisti accadono cose rare. Una la vorrei per me il prossimo anno: partecipare alle Olimpiadi di Tokyo». Vittoria Guazzini ha iniziato a sei anni ad andare in bicicletta: «Da bambina mi arrabbiavo molto se perdevo. Successivamente ho imparato a lavorare su me stessa. Diciamo che sono abbastanza esuberante. Non so se mi spiego. Ho un carattere particolare. Meglio così, non ti pare?».
Sarà per quel carattere che Vittoria riesce a sorridere anche di una stagione che non era partita nel migliore dei modi: «La stagione la salvo, ma solo nella parte finale sia chiaro. Me ne sono capitate di tutti i colori: prima dei mondiali su pista, prima della pandemia, ero ammalata. Poi sono tornata ma mi sono infortunata cadendo dalle scale, proprio al velodromo. A quel punto è arrivato il Covid-19 ed è stato tutto bloccato. Poteva succedere altro? Quest’anno più che mai voglio ringraziare le mie compagne. Se ho concluso la stagione alla grande è grazie a loro». Il carattere aiuta ma ancor di più sono le esperienze a fortificarti: «Quando vinci è tutto più facile. Come fai a non essere felice quando al tuo primo mondiale stabilisci il record del mondo (a livello juniores N.d.A.) col quartetto? Il problema è quando perdi, quando le cose non vanno. O meglio: quando immagini qualcosa che poi non si verifica, sto pensando alla prova contro il tempo al mondiale di Innsbruck. Arrivai sesta, fu una brutta botta. Quello credo sia stato il momento più difficile della mia carriera. La delusione più cocente». In quelle occasioni, l’ha aiutata l’idea di quello che voleva fare, di quello che avrebbe sempre voluto fare: «Ricordo quando a Firenze, al mondiale, vidi per la prima volta Marianne Vos. Ricordo Alberto Contador, un mio modello da sempre. Un attaccante, uno coraggioso in sella. Potrei parlarti di Marta Bastianelli, di Elisa Longo Borghini. Per provare a fare qualcosa di simile a quello che hanno fatto loro, c’è una sola possibilità: il perfezionismo. Devi badare ad ogni dettaglio, anche a quello che sembra così piccolo da apparire ininfluente. Non lo è. Puoi star certo che non lo è. Devi essere attenta e lavorare su ogni aspetto per quanto possa essere complesso. Questa caratteristica mi appartiene ed è quella che mi ha fatto raggiungere i traguardi di cui parliamo».
C’è anche una vena ottimista nelle parole di Vittoria. In fondo, è vero: è giusto continuare a cercare il miglioramento, doveroso diremmo, però è anche giusto notare ciò che già è migliorato e sottolinearlo. Altrimenti trascorreremmo il tempo inseguendo sempre qualcosa di nuovo o di migliore, senza accorgerci di quello che già c’è: «Il ciclismo femminile non ha una condizione paragonabile al ciclismo maschile. Questo vale per tutti gli sport. Io credo che sia necessario proseguire con il lavoro che si sta facendo, avendo la consapevolezza dei grossi passi avanti compiuti dal nostro mondo negli ultimi anni». La stessa consapevolezza risiede nella graduale crescita di Vittoria Guazzini, come ciclista e come donna: «Davide Arzeni è certamente un punto di riferimento per il modo in cui lavora e per la tranquillità che riesce a darmi. Alcuni giorni proprio non vanno ed avere vicino una persona che riesce a capirti ed affiancarti è davvero importantissimo. Il resto, fra le cose che mi lascia il ciclismo, sono piccoli gesti, piccoli insegnamenti. Sarebbe davvero difficile farne un elenco o raccontarle tutte. Però sono tante cose preziose, di quelle che ti fanno amare ancor di più ciò che fai».
Foto: per gentile concessione di Vittoria Guazzini
Sonny Colbrelli: «Di ritorno dal lavoro, a tavola con papà»
A Sonny Colbrelli non è mai piaciuto studiare. Lo ammette candidamente, sorridendo e ripensando ai momenti fra i banchi. Non gli piaceva studiare, sì, ma la determinazione e la voglia di fare non gli sono mai mancate, sin da ragazzo: «I miei genitori mi hanno sempre detto che avrei dovuto darmi da fare: non potevo stare a far nulla o a rigirarmi i pollici. Se non volevo proseguire la scuola, dovevo iniziare a lavorare. Probabilmente questa cosa ha sempre fatto parte di me, l’ho assimilata: in estate, da ragazzino, andavo ad aiutare mio papà al lavoro. Al mattino stavo con lui, mi piaceva. Difficilmente mi avresti visto a perdere tempo». La bicicletta arriva per caso e, questa volta, parliamo proprio del mezzo meccanico, non del ciclismo come sport: «Era una bicicletta comprata con la raccolta punti della spesa. Non immaginarti chissà cosa. Del resto, sino a quel momento, avevo giocato a calcio e sciato: sciare mi piaceva ed ero anche abbastanza bravo. Nel tempo libero andavo a pesca». Succede che in provincia di Brescia c’è una gara di mountain bike, una gara di paese, nulla di che, e Colbrelli partecipa. Nessuno se lo aspetta e forse nessuno attribuisce un gran significato alla cosa, ma Colbrelli vince. Il primo incredulo, a ripensarci, è proprio lui: «Era una boutade. Un gioco nato per caso e che pensavo finisse nel giro di qualche domenica. Da ragazzino ero davvero goloso, avevo diversi chili di troppo, ero ”tozzo” a livello di corporatura. Non si era mai visto un ciclista così». La domenica dopo torna e fa bene in una gara dalle condizioni atmosferiche decisamente avverse: «Pensa che stavano per sospenderla per brutto tempo». In televisione guarda le imprese di Marco Pantani e qualcosa gli frulla per la testa: «Perché non provare a correre su strada?». La prima gara su strada è una cronoscalata, con la maglia della squadra della famiglia Frapporti: «Sì, tecnicamente era una cronoscalata. In realtà si trattava di un tracciato di un chilometro, tutto all’insù. Niente di particolare ma, tra il serio e il faceto, ho vinto anche lì».
Il ragazzo cresce, il ciclismo gli piace, ma la famiglia Colbrelli è una famiglia dai principi sani e radicati. Così lo sport è un divertimento però bisogna andare a lavorare: «Ho iniziato a lavorare in fabbrica. Facevo la mattina, dalle sei a mezzogiorno. Portavo a casa qualche soldino ed ero anche contento». Certo ma quella bicicletta prende sempre un poco di spazio in più e Sonny continua a pensarci. Fino a quando, un mezzogiorno, torna a casa dal lavoro e si siede a tavola con papà: «Avevo in mano entrambe le divise: quella del lavoro e quella della squadra di ciclismo. Guardai mio padre e gli dissi: “Quale scegli? Se scegli questa, vado a lavorare, altrimenti provo a fare lo sportivo“». Vedendo come sono andate le cose, la scelta di papà Colbrelli è abbastanza chiara: «Ma sai, tutti i genitori desiderano il bene dei loro figli ed io ero felice di correre in bicicletta. Poi papà e mammà sognano sempre in grande e ti immaginano campione. Certe volte restano sogni, non siamo tutti campioni. Il problema non è quello. Il fatto importante è mantenere i piedi ben saldi a terra. Restare quello che si è e valutarsi realisticamente». In fondo, è questo il consiglio di Colbrelli per i giovani, per chi inizia oggi: «Ho il timore che in certi casi si esageri. Tanto con le pressioni, quanto con le aspettative. I conti, però, nella vita si fanno sempre alla fine e se ti “bruci” troppo da giovane, rischi di buttare tutto all’aria». La storia di Sonny Colbrelli, invece, è una di quelle storie in cui nessun filo della trama manca. Una storia cresciuta con la pazienza del domani: «Sono contento di essere passato professionista con la famiglia Bardiani. Forse avrei anche potuto approdare un anno prima nel World-Tour, ma va bene così. Loro mi hanno dato il tempo di crescere serenamente. Mi hanno lasciato andare quando hanno capito che ero pronto per prendere la mia strada. Non tutte le squadre World-Tour hanno questo approccio con i giovani, per questo credo sia un bene che i giovani inizino dai nostri team Professional. In Bahrain mi sono trovato bene sin dall’inizio e, ora che sono quasi cinque anni che sono qui, devo dire che c’è una condivisione totale. Loro hanno capito qual è il mio spazio ed io, per contro, sono contento del programma che la squadra ha. Vivo con entusiasmo i nostri traguardi». La maturità di Colbrelli risulta ancor più evidente quando il discorso prende una piega personale: «Non è che ci siano momenti difficili particolari, localizzabili in questo o in un altro anno. Ogni anno ha dei momenti difficili, questo vale per tutti. Non è importante che i momenti difficili non ci siano, è importante capire come fare per superarli. Capire come affrontarli per continuare la tua strada. Per ripartire. Le difficoltà sono naturali».
Tra le vittorie che ricorda con maggior piacere, c’è il primo successo da professionista perché «lì ho capito chi ero e che qualcosa di buono potevo fare», e ci sono le vittorie alla Parigi-Nizza e al Giro di Svizzera. «Ogni successo è un passo in più verso la consapevolezza. Per esempio, capisci che tipo di atleta sei. Io non sono un velocista puro, se faccio una volata con velocisti puri, arrivo sesto, settimo, quarto, se va bene. L’ho capito gareggiando, provando e riprovando. Che poi è l’unico modo per capire». Il suo sogno è la vittoria di una classica, l’ideale sarebbe il Giro delle Fiandre. Forse proprio per questo ha sempre avuto ammirazione per Tom Boonen. Adesso che ha due figli piccoli, vede il ciclismo in maniera diversa e ammette che partire gli spiace: «La mia compagna mi sostiene molto e questa è una grossa fortuna. Noi ciclisti facciamo una vita nomade e tante cose sono più difficili. I miei figli sono ancora piccoli ma iniziano a capire. Chiedono: “Dove vai papà? Dov’è papà?”. Spiace. Io gli dico di guardare la televisione che papà possono vederlo lì. E spero la guardino quando sono in testa al gruppo. Tra l’altro, sono abbastanza paranoico e mi preoccupo molto, anche per piccole cose. Quando sento più la nostalgia di casa, mi ripeto che, in fondo, lo sto facendo anche per loro. Per il nostro futuro che in realtà è il loro futuro».
Tra tutti i fatti che la memoria conserva, uno Sonny Colbrelli non riesce proprio dimenticarlo e, forse, è un bene: «Quando da allievo sono passato juniores, a casa mia sono venuti i rappresentanti di tante squadre. Come era giusto che fosse: è sempre un bene ascoltare tutti. Erano interessati a me. Ci hanno offerto cifre davvero significative, cifre che certe volte fatichi a mettere insieme anche nei primi anni da professionista. Da giovane l’idea di guadagnare qualcosa ti attrae anche, fai tanti progetti e quei soldi potrebbero servirti. I miei genitori, invece, mi hanno sempre tenuto con i piedi per terra: l’importante era crescere, migliorare, e nessun ambiente sarebbe stato meglio della squadra in cui correvo, con la famiglia Frapporti. Ho continuato la mia strada, a zero euro, e oggi devo ringraziarli perché, in quello che sono, quella scelta ha pesato molto. In positivo. Tanti altri ragazzi, sicuramente più bravi di me, hanno fatto considerazioni diverse all’epoca ma oggi, purtroppo, non sono più ciclisti». Perché Sonny Colbrelli è questo: un padre, un uomo, un ciclista ma, prima di tutto, un ragazzo con i piedi per terra. E questa sarà sempre la sua salvezza.
Crediti foto: Claudio Bergamaschi
Omar El Gouzi: essere professionista per sempre
Omar El Gouzi ricorda molto bene un pomeriggio di quando era bambino: «C’erano i miei amici fuori in cortile a giocare e io sarei dovuto andare ad allenarmi. Non volevo andarci, mia mamma mi guardò e mi disse: “Omar, hai fatto tu questa scelta. Se vuoi portarla avanti devi allenarti, altrimenti puoi anche smettere di andare in bicicletta”. Mi misi a piangere ma quella lezione mi servì». La sua passione per il ciclismo, in fondo, nacque proprio lì, nel cortile di quel condominio dove Omar abita. «Qui abitavano anche un allenatore di ciclismo e un ragazzo che stava iniziando a praticare ciclismo. Vedendoli ho pensato che avrei voluto fare la stessa cosa. Sono andato da papà e: “Papà, voglio correre in bicicletta”». Un anno dopo, sono proprio mamma e papà ad accompagnarlo da quell’allenatore che gli consegna la sua prima bicicletta, gialla. Omar, oggi, guarda il vialetto di quel condominio e torna indietro di diversi anni con la mente. «Facevo avanti e indietro in quel vialetto con la bicicletta ma non riuscivo a fare la manovra per girarmi comodamente, così piangevo». Lì con lui c’era papà ed è proprio ai suoi genitori che Omar El Gouzi sente di dover dire qualcosa. «Non so cosa ci sarà nel mio futuro ciclistico. Certo, sogno di firmare un contratto per una squadra professionistica e di fare un bel percorso. Sì, non voglio passare fra i professionisti solo per il gusto di potermi chiamare “professionista”. Voglio diventare professionista e restarci per molti anni per rendere onore al fatto di essere diventato professionista. Una cosa però la desidero più di tutte le altre: ricambiare ciò che i miei genitori hanno fatto per me. Ci sono sempre stati e ci sono sempre, nonostante tutto».
Il suo soprannome in gruppo è Cacaito come Cacaito Rodriguez, il ciclista colombiano in attività negli anni novanta: «Mi chiamano così perché tanto vado forte in salita quanto fatico in discesa. Ad essere sincero adesso meno, la discesa è questione di allenamento come tutte le pratiche del ciclismo, ma quel soprannome viene da qualche anno fa. Eravamo a Trento ed in discesa continuavo a tirare i freni per paura di cadere». Omar è italo-marocchino, entrambi i suoi genitori sono nativi marocchini, lui è nato a Peschiera ed in Marocco non torna dal 2013: «Voglio molto bene all’Italia. In Marocco, però, c’è qualcosa di diverso: parlo di accoglienza, di calore umano. C’è tanta gente per le strade, c’è tanta felicità. Noi probabilmente siamo un po’ più freddi di carattere». C’è una fierezza particolare nella sua prima maglia azzurra, ottenuta con Rino De Candido dopo il Giro del Friuli di qualche anno fa, e le sue origini fanno parte di questo orgoglio. «Arrivavamo sullo Zoncolan, pensa che a inizio salita ero caduto. Sono riuscito a recuperare e ad arrivare quarto. De Candido mi ha notato e mi ha chiamato. Con la maglia azzurra addosso ho corso la mia prima gara fuori dall’Italia, un trofeo in Germania. Un italo-marocchino in maglia azzurra: non è una cosa che succede tutti i giorni e forse per questo è stato ancora più bello». Le sue giornate più belle hanno sempre un legame con una terra, con delle persone o con qualcosa di inaspettato che si è provato a fare. «Ricordo ancora quando vinsi a Montecchio il campionato provinciale con la maglia dell’Ausonia. Io non attacco molto spesso, quel giorno però sentivo che fosse giusto scattare. Recuperai il terzetto in testa e vinsi. Magnifico. Una cosa molto bella, secondo me, è che nel ciclismo non è detto si debba vincere per avere un bel ricordo, per essere felici. Guarda il Palio del Recioto, per esempio. Sono arrivato tredicesimo ma me lo ricordo come fosse adesso. Tutta la gente che ti guarda, che ti applaude, che grida il tuo nome. Tutti che ti conoscono. La tua famiglia. La tua terra. Correre a casa propria ha un sapore diverso, c’è poco da fare».
Quest’anno, Omar El Gouzi ha corso per la Iseo, un ambiente che lo completa: «Ho due direttori sportivi, Mario Chiesa e Daniele Calosso. Hanno due caratteri diversi: il primo è più tranquillo, più pacato se vuoi. Mario è un uomo di grande esperienza: ha corso fra i professionisti e successivamente è stato team manager di realtà molto importanti. Daniele, invece, lavora di grinta, di rabbia, la rabbia buona che ti spinge a fare bene, a fare meglio. Alla base dei miei risultati ci sono questi due modi di insegnare che si combinano e mi danno tanta tranquillità ma anche tanta voglia di fare». Il suo mentore, in realtà, non è un ciclista ma un ex calciatore del Chievo Verona. «Si tratta di Federico Cossato. Ci siamo incontrati per caso mentre facevo delle ripetute su una salita. Mi ha guardato ammirato, stupito. Abbiamo iniziato a parlare e ci sentiamo molto spesso. Il nostro è un dialogo costruttivo: parliamo di lavoro e di traguardi. Federico mi ha sempre detto che senza duro lavoro, senza sacrifici, non esistono sogni realizzabili. Ed è vero. Se non si lavora duramente, la situazione è veramente difficile».
Omar El Gouzi è un ragazzo alla mano, lo dice lui stesso. «Mi piacciono le cose semplici e mi piace conoscere le persone, parlarci, capirle, ascoltarle. Ho solo bisogno di tempo per conoscere e per aprirmi a mia volta. Tendo ad essere abbastanza riservato. Tempo fa ero meno sicuro di me e magari rinunciavo più facilmente a ciò che volevo. Adesso no, col ciclismo ho imparato e se voglio una cosa la ottengo». Quel ciclismo che per Omar è ben più di uno sport. «Di fatto è uno stile di vita. Devi semplicemente abituarti al fatto che se vuoi ottenere qualcosa devi darti da fare. Che ci saranno giorni in cui non avrai voglia ma dovrai insistere lo stesso. Che ci saranno giorni che ti faranno male e sarà proprio lì la prova del nove. Se resisterai lì saprai che nessuno potrà più fermarti. Quando lo capisci, lo accetti. Anzi, lo vivi proprio con serenità. Sai che è una realtà che riguarda tutti. Sai che devi assumerti la responsabilità di ciò che hai scelto e lottare per tenerlo stretto. Come mi disse mia mamma quel giorno: “Se non ti alleni, forse, ti conviene smettere”».
Mamma e papà, stasera, Omar li vuole immaginare nel giorno in cui passerà professionista. Li vuole immaginare nell’esatto momento in cui comunicherà loro questa notizia: «Li vedo lì, mentre mi guardano. Con gli occhi lucidi, commossi. Mi stringeranno forte, sarò felicissimo. Saremo felicissimi. E so già che mi commuoverò anche io. Anzi. Sono già commosso, a dirti la verità».
Crediti foto in evidenza: Claudio Bergamaschi
Il viaggio di Luca Mozzato arriva fino al nord Europa
Luca Mozzato arriva dal Nord e, ci concederà questa licenza, probabilmente più che dal nord Italia avrebbe preferito arrivare dal nord Europa. Corre in Francia con la maglia della B&B Hotels – Vital Concept P/B KTM dove pedala per trovare la sua dimensione, ma non solo, prova a migliorare in tutto per realizzarsi; cerca di imparare la lingua «mi arrangio, ma mi faccio capire» ci spiega, e vuole correre sempre più forte tra le infide stradine fiamminghe. È in Belgio, infatti, magari proprio al termine di una gara che prevede muri e pavé, che vorrebbe scagliare i suoi sogni.
Parlando con lui sembra di avere dall’altro capo del telefono un quadro di questo tipo: elettrico, frizzante, gioioso ma allo stesso tempo un po’ spigoloso quanto sincero. Dice che era uno di quei bambini irrequieti che non riusciva a stare mai fermo: nei pomeriggi liberi da studio e scuola giocava a pallone, nuotava, girava con lo skateboard e quando ha iniziato a correre in bici era poco più di un ragazzino, un po’ come tutti i suoi colleghi – ma in realtà non proprio tutti tutti. Aveva nove anni quando si mise in luce e mica lo fece in una corsa normale: era una gincana organizzata nel suo paese. Quando gli chiedo qual è il suo paese me lo spiega, ma precisa: «Sono nato e vivo nella provincia di Vicenza, ma ciclisticamente sono cresciuto in quella di Verona. Abito a Sarego che praticamente è al confine tra le due province e spesso quando mi presentano c’è un mezzo equivoco: “il veronese Luca Mozzato” dicono». La cosa non è che gli dia fastidio, puntualizza ulteriormente, e pensiamo lo dica con il sorriso, anche se attraverso un telefono possiamo solo dare spazio all’immaginazione.
La guerra dei campanili evidentemente non gli interessa, pensa ad altro, e più che fantasticare è concreto. Ambizioso: altrimenti non avrebbe mai iniziato un viaggio che lo ha portato a dividersi tra Francia e Belgio. E non avrebbe potuto prendere decisione migliore lui che, sin da ragazzino ammira Boonen. «Sono cresciuto guardando la rivalità tra Boonen e Cancellara, ma il mio cuore ha sempre battuto per il belga. A crono non sono mai andato forte e in più ho sempre avuto spunto veloce e passione per le pietre del Nord». Quale corridore migliore da scegliere come modello in gara se non uno vincente (e trascinatore di folle di appassionati) come Tornado Tom?
Sin da ragazzino Luca Mozzato ha avuto caratteristiche ben definite – fatto tutt’altro che scontato. «Ho sempre avuto una buona manualità con la bici (altrimenti non si sarebbe mai messo in luce in una gincana! N.d.A.), e da subito veloce ma con la capacità di difendermi anche sui percorsi impegnativi». Gli faccio notare come alcuni suoi colleghi, su tutti lo sloveno Žiga Jerman, quando tra gli juniores chiedevano chi fosse il corridore da battere in una determinata corsa, il suo nome era il più gettonato. «Mi fa piacere e mi rende orgoglioso, vuol dire che si riconosce il buon lavoro che ho fatto, però precisiamo una cosa: eravamo dei ragazzini, ora tra i professionisti la musica è cambiata».
È preciso e deciso nell’analizzare le fasi della sua maturità puntando l’attenzione più sulla crescita che sui risultati. «Se guardo agli Under 23 il mio percorso è stato ottimo. Sono cresciuto, maturato, mi sono adattato bene alle situazioni dimostrando di essere un ragazzo che si sa gestire in corsa. Se invece guardo ai risultati un po’ di amaro in bocca resta». Una punta di insoddisfazione data dalle poche vittorie ottenute e che probabilmente non danno merito al talento e allo spunto veloce. «Però mi chiedo: meglio passare con dieci vittorie, e poi magari ritrovarsi a fare fatica tra i professionisti anche rispetto a quei corridori che battevi?» – non sarebbe né il primo né l’ultimo – «Oppure passare con poche vittorie, ma la consapevolezza di aver fatto il percorso giusto, e di avere ancora margine di crescita?». No, Luca Mozzato non farebbe mai a cambio di situazione. Tuttavia ci tiene a specificare che non sembri la favola della volpe e l’uva: «Chiariamo, però: avrei voluto vincere comunque di più. Vincere ti provoca una gioia senza paragoni, è come una sorta di liberazione».
Si parla di lingua, di squadra, di Belgio, di Francia e di pietre del Nord e allora Luca si apre e quasi non riesci più a fermarlo come se dovesse andare in fuga con in testa il traguardo del Fiandre o il velodromo della Roubaix. «I belgi sono incredibili: parlano qualsiasi lingua e ti capiscono». E con Backaert, De Backer e Boeckmans – sembra una filastrocca – è come andare all’Università. «In corsa mi aiutano, mi spiegano tutto. Io arrivo da un contesto culturale diverso e senza l’esperienza necessaria per queste gare. Il loro supporto è fondamentale soprattutto nei finali di corsa quando tendo a spendere troppo, ad agitarmi, ad alimentarmi male. E loro invece mi guidano, mi aiutano: “no tu devi fare come ti dico io, devi starmi a ruota, non pensare, poi se hai le gambe per il finale bene, altrimenti, se ne riparla”. Mi hanno portato un paio di mesi su un palmo di mano dandomi tutto l’aiuto possibile, sia legato alla corsa sia legato a tutto il resto, insegnandomi i trucchi del mestiere».
Al Fiandre 2020 le cose non sono andate come sperava, si è ritirato, ma era pur sempre la prima esperienza e non può che riuscire a vederci il lato positivo, come per il resto del periodo che ha trascorso in Belgio. «In primavera ho fatto un mese tra Francia e Belgio prima di rientrare a casa per il lockdown: la cultura che hanno della bici è incredibile, anche lo stile di vita. Backaert abita praticamente sul percorso della Ronde e conosce a memoria ogni pietra e difficoltà del Fiandre». La corsa che, insieme alla Roubaix sogna sin da bambino. «Muri fiamminghi e foresta di Arenberg sono luoghi che mi hanno sempre affascinato. Prima quando li vedevo in tv, poi quando ci ho corso le prime volte. Da Junior ho corso la Roubaix: prima di entrare nei settori di pavé arriva questo stato di agitazione difficile da descrivere e che si differenzia da qualsiasi altro momento di qualsiasi altra corsa. E poi c’è un’atmosfera! La gara si corre lo stesso giorno dei professionisti, si passa circa due ore prima di loro e c’è già il pubblico che fa il tifo. Mai vista una situazione del genere: mi ha letteralmente travolto».
E Se Luca Mozzato è un tipo elettrico, il più esuberante del gruppo dei “Men in Glaz” è decisamente Coquard. «È il jolly: se non c’è te ne accorgi. Trascina, scherza, tiene alto il morale, ha sempre buone parole per tutti e cerca di coinvolgerti. Ha un’incredibile capacità di allontanare la pressione: è l’anima della squadra». E quando gli chiediamo se si rivede in lui come caratteristiche, si fa discreto: «Di strada devo farne ancora tanta. Io, pensando al 2021, mi definisco un neoprofessionista del secondo anno. Ho fatto un po’ di esperienza ma per ovvi motivi non abbiamo corso molto e dunque non ho assorbito ritmo e gamba. Per il 2021 l’obiettivo principale sarà imparare ancora, assimilare ulteriormente, migliorare tutti gli aspetti, anche quelli mentali e se avrò la condizione arriveranno anche i risultati. Anche perché poi c’è un problema: sapete qual è? Vogliono vincere tutti, e allora prima puntiamo a fare esperienza, poi la vittoria arriverà di conseguenza». Il viaggio di Mozzato verso le pietre del Nord sta per ricominciare.
Foto: FRJ | B&B HOTELS – VITAL CONCEPT p/b KTM
Enrico Gasparotto: «A trentotto anni smetto»
La fine di questa storia è, in realtà, l'inizio. E l'inizio di questa storia racconta di un ragazzo che a ventitré anni, nel 2005, uscendo di casa dice a papà: «Papà, corro in bici. Dovrò stare lontano da casa per molto tempo ma ti prometto una cosa: a trentotto anni, qualunque cosa accada, smetto e mi riprendo il mio tempo con voi». Quel ragazzo è Enrico Gasparotto e quel tempo è arrivato. Così, il 24 novembre, Enrico ha parlato con papà e gli ha detto che era arrivato il momento di scendere dalla bicicletta: «Mio padre c'è sempre stato. Ha corso parecchi in bici. Anche lui avrebbe voluto essere un professionista e, in fondo, la mia vita è stata anche un poco la sua. Era affezionato all'idea di avere un figlio ciclista. L'ho ringraziato. Sì, perché è stato capace di esserci ma in disparte, condividendo in silenzio ogni scelta senza volerne mai essere protagonista. Papà Toni è molto emotivo e a sentire queste parole gli sono scesi due lacrimoni sulle guance. Avrei voluto abbracciarlo». Quel giorno, Enrico ha capito anche un'altra cosa, una cosa che ha commosso anche lui: «Sai, spesso quando si smette di correre, la vita cambia completamente e anche i rapporti familiari ne risentono. Io in questi giorni sto capendo quanto mia moglie sia davvero mia moglie. Intendo dire, quanto quella parola le calzi a pennello. C'è, è qui ed è più tranquilla di me. Mi infonde tranquillità. Ora che non ci sono corse è anche più semplice non pensare a cosa non sarò più, ma sono certo che alla ripresa della stagione quello che ero mi mancherà. Sapere che ci sarà lei, qui con me, mi tranquillizza».
Il tempo che si ferma è anche il tempo dei ricordi che fluiscono liberi: «Quando ho vinto il campionato italiano nel 2005, è cambiato tutto. Sai di essere attenzionato e, se ad un lato, ti fa piacere, dall'altro le pressioni si fanno sentire». Qui Gasparotto si permette un inciso: «Dei miei sedici anni di professionismo ho un ricordo bellissimo. Ho vissuto quattro diverse ''ere'' del ciclismo. Le cose sono cambiate: fra i miei ricordi ci sono uscite serali che ora non sarebbero più replicabili. I ragazzi devono prestare molta più attenzione ad ogni aspetto e questo, se da un lato, li rende estremamente più professionali, anche più forti, dall'altro rischia di accorciare la loro vita da atleti. A questi livelli credo non saranno più immaginabili carriere di sedici anni. Parleremo di carriere di otto, dieci anni. A trent'anni probabilmente smetteranno e anche questo sarà un bene e un male: troveranno lavoro più facilmente ma staranno per meno tempo nel loro mondo». Un mondo che lascia qualcosa che va oltre ciò che tutti vedono: «Penso alla prima volta dello Zoncolan al Giro d'Italia: non ho dovuto pedalare in pratica, non so quante mani mi hanno spinto. Non si potevano contare, erano troppe. Penso alla visita a parenti a Casarsa della Delizia e ai primi giorni in maglia rosa: a tutto ciò che provavo».
In questi momenti, Enrico Gasparotto pensa a Antoine Demoitiè, suo compagno di squadra, scomparso in un incidente il 27 marzo 2016, e a quella vittoria all’Amstel Gold Race. Una vittoria per tornare ad alti livelli dopo un periodo difficile, una vittoria per sua moglie e per la sua famiglia, per il suo gruppo di lavoro e per i suoi amici, una vittoria piena di caparbietà dedicata anche ad Antoine: «Ero da solo in ritiro e pensavo a lui. Tutto quello che ho fatto, l'ho fatto anche per lui. Quella vittoria all'Amstel è anche per lui, per Antoine. Quando sono tornato al bus, i miei compagni piangevano tutti. Io non ci riuscivo. Piangeva anche il mio direttore sportivo, un uomo di settantacinque anni che non avrei mai immaginato di vedere così». Enrico Gasparotto racconta che su quelle strade, sulle strade dell'Amstel, della Freccia, della Liegi, avrebbe voluto tornarci con calma nel 2021, prima di chiudere la carriera: «Sarebbe stato un lungo saluto. Lo avrei assaporato diversamente. Come quando torni in un luogo significativo e riempi ogni angolo di ricordi. Ma quest'anno è stato un anno particolare e questa possibilità non c'è stata. Così ho scelto di fermarmi e ho fatto bene: bisogna essere capaci di dire basta, è indispensabile».
Sì, indispensabile. Perché Gasparotto crede al valore di ciò che è stato e raramente lo senti felice come quando immagina quanto il suo passato possa essere d'aiuto a qualcuno. Una sorta di gratitudine resa viva e tangibile: «Parto da Mario Cipollini perché l'ultima sua vittoria, il Giro della Provincia di Lucca, è stata una delle mie prime gare. Trovo poco generose alcune parole che gli sono state rivolte. Può sembrare un guascone ma in realtà ho conosciuto pochi atleti così perfezionisti sul lavoro. Gente da cui c'è solo da imparare. Stessa cosa vale per Alexandre Vinokurov. Vino non si fermava mai. Cadeva, si faceva male, lo vedevi sanguinante ma ritornava in sella. Se sono stato professionista sedici anni, parte del merito è anche loro. Da loro ho visto cosa significava fare questo lavoro». E quando ti senti fortunato, spesso senti anche la voglia di restituire quella fortuna. Di portarla ad altri, di farli felici. Qualcosa Enrico Gasparotto ha già restituito: «Il mio arrivo in Wanty-Goubert è coinciso con il passaggio dal World-Tour ad un team professional. Ho provato a prendermi sulle spalle i ragazzi più giovani. Sono stato contento di farlo, di condividere piccoli e grandi insegnamenti e di vederli crescere. Lo vorrei fare ancora. Credo la mia strada adesso sia quella. Questa primavera ho preparato un progetto di talent scout da sottoporre a diverse squadre: ricercare i migliori giovani nel mondo e affiancarli. Non solo a livello sportivo ma anche a livello psicologico. Ogni ambiente è diverso e ognuno di noi ha bisogno di un ambiente differente per stare bene e fare bene il proprio lavoro. Lo ho vissuto sulla mia pelle. Io sostengo da tempo la necessità di figure quali il mental coach o lo psicologo sportivo. Gli atleti di alto livello hanno bisogno di questo supporto, i giovani più che mai. Altrimenti di fronte alle difficoltà non riescono ad andare avanti. Non riescono a resistere. A me è capitato spesso ma, avendo già qualche anno di esperienza, mi richiamavo ai momenti difficili precedenti e mi dicevo: ''Dai, Enrico. Se ce l'hai fatta quella volta, ce la farai anche qui. Forza!''. Un ragazzo di diciotto anni non ha queste esperienze a cui aggrapparsi, ha bisogno di qualcuno che lo aiuti».
Enrico Gasparotto riflette qualche istante, noi riprendiamo a parlare e lui ci ferma: «No, scusami ma devo dirlo. Le persone hanno paura a parlare delle loro fragilità. Hanno paura perché vengono etichettate come deboli. In Italia, in particolare. Altrove non è così. Questa cosa non ha senso. Io ne parlo. Sono una persona che vive nel presente, convinta delle proprie scelte. Se oggi siamo quello che siamo è anche per il nostro passato, nel bene o nel male. Dobbiamo esserne consapevoli. Nel 2015, il mio passaggio in Wanty è coinciso con un periodo molto complesso per me. Avevo perso la bussola. Non mi ritrovavo più. Ho avuto bisogno di supporto psicologico. Anche mia moglie in quel periodo ha intrapreso un importante percorso di studi in questo settore. Vuoi la verità? Senza quel percorso di analisi, non ce l'avrei fatta. Non avrei mai retto i lutti di Antoine e di Michele (Scarponi). Mi è servito tempo, tanto tempo. Ho dovuto capire perché facevo ciò che facevo. Ne avevo bisogno: lo facevo per i soldi? Per la fama? Per la fatica? Per prendere freddo e rompersi le ossa ad ogni caduta? No, assolutamente no. C'è qualcosa in più. C'è sempre qualcosa in più dietro ciò che vogliamo fare. Le motivazioni profonde sono altre. Dovremmo tutti trovare il tempo di chiederci il perché. Perché facciamo ciò che facciamo? Non è facile. Anzi, è molto difficile. Ma è importantissimo».
Foto: Claudio Bergamaschi
Andrea Vendrame: «La mia rivoluzione»
Andrea Vendrame è un’opera puntinista. Le opere puntiniste hanno questa caratteristica: ogni dettaglio, ogni puntinismo, sembra quello che è e tanto altro se proiettato al di fuori della cornice in cui è inserito. Un dettaglio che si scompone e si ricompone tramite le pupille che lo fissano. Lo stesso dettaglio, però, è imprescindibile per l’opera che lo comprende. Ogni singolo punto è essenziale, come una finissima tessitura. Vendrame è così. Ti si presenta con quell’aria ironica e scanzonata che è il non plus ultra dell’intelligenza. Sa tenere attento l’ascoltatore e lo fa con gli aneddoti di cui infarcisce il racconto: «A maggio avevo detto al mio procuratore, Carera, che avrei voluto correre in Francia, in una squadra francese ed essere l’unico italiano. Abbiamo analizzato le diverse proposte e scelto per l’Ag2r La Mondiale. Arriva il giorno di partire per il ritiro. Il primo giorno ci aspetta una passeggiata nei boschi, tutti assieme. Devo dire che mi ero accorto che fra loro i ragazzi parlavano solo francese e scrivevano solo in francese ma ero fiducioso. Mi dicevo: “Ma sì, dai. Adesso ti chiederanno se parli francese, ti parleranno in inglese o faranno qualcosa”. Il francese non lo conoscevo molto bene, non mi restava che aspettare. Tu pensi che qualcuno sia venuto da me? Ma figurati! Non mi filavano proprio. Ho preso il telefono e, appena sono rimasto solo, ho chiamato il mio procuratore: “Puoi parlare? No, volevo chiederti: ma che scelta sbagliata abbiamo fatto?”». Ad ogni aneddoto una sensazione diversa. Ci sono casi, come quest’ultimo, in cui si ride assieme e altri in cui emerge un profondo senso di fierezza.
«Sono molto legato al mio successo alla Tro Bro León. In parte perché non me lo aspettavo assolutamente e, come tutte le cose inaspettate, è più bello. In parte per come è maturato. Ad un certo punto ho chiesto all’ammiraglia se qualcuno potesse portarmi una borraccia d’acqua. Prima non risponde nessuno, poi sento la voce di Cheula: “Vieni a prenderla tu, sei rimasto da solo”. Sono riuscito a vincere una corsa da solo. La sera sono tornato in albergo con la consapevolezza di chi sa che sta facendo il mestiere che fa per lui. L’anno scorso, al Giro, sono arrivato secondo nella diciannovesima tappa, dopo due salti di catena. Mi è spiaciuto per il secondo posto ma ho fatto un’ulteriore scoperta: quanto la gente riesca a ricordarsi di te e ad immedesimarsi nelle tue sfortune. Ho sentito tanta vicinanza, tanta immedesimazione». Questa ironia di Vendrame, questo piacere nel raccontare, viene da lontano. Da un passato che ne è l’esatto contrario. Già, perché Andrea Vendrame ha dovuto meritarselo questo sguardo sulle cose e lo ha fatto nell’unico modo possibile: «I miei genitori sono separati. Mio papà non ha mai digerito molto questa mia scelta. Mi diceva che non sarei mai riuscito a sfondare, a diventare un campione. Mi consigliava di lasciar perdere, mi spiegava che avrei dovuto mettere la testa a posto e cercarmi un lavoro. Discutevamo molto quando ero ragazzo. Io volevo fare il ciclista, avevo mia mamma e mio zio che mi appoggiavano e proseguivo per la mia strada. Papà si è ricreduto dopo, quando sono passato professionista e sono arrivati i risultati. Forse anche troppo facile così, ma è quanto è successo. I nostri rapporti sono migliorati in quegli anni».
Non è mai stato facile. In parte perché facile non è mai e in parte perché le vicende della vita ci mettono sempre del loro. Il sette aprile del 2016, mentre è in allenamento, Andrea Vendrame viene investito da un’auto proveniente dal senso di marcia opposto: «Se non avessi avuto il carattere che ho, non credo che mi sarei mai rialzato da quel giorno. Ero distrutto. Lo ammetto: nei giorni dopo l’incidente ho davvero avuto paura che fosse tutto finito. Per qualche tempo mi sono anche convinto a cercarmi un lavoro come diceva papà, sfruttando il mio diploma. Poi, per fortuna, le cose sono ripartite». Sul tema della sicurezza stradale l’affondo più severo: «Perché non proviamo a guardare quello che accade negli altri stati? Da noi continuiamo a parlare del metro e mezzo di distanza e di piste ciclabili. Secondo me bisognerebbe ampliare la visuale. Ci rendiamo conto che abbiamo piste ciclabili che escono accanto ad abitazioni familiari? Noi magari andiamo a quaranta all’ora: come facciamo ad usufruire di quelle piste? Esce una macchina dall’abitazione e ti carica sul cofano. Se va bene sei tutto rotto, se va male non ci sei più. Questa estate mi sono allenato più volte nel Principato di Andorra. Dietro di me c’era una fila incredibile di auto. Stavano lì, tranquille. Senza insultare o suonare il clacson. Non passavano nemmeno quando facevo cenno di sorpassarmi. Mi hanno detto: “Noi abbiamo rispetto dei ciclisti e li superiamo solo negli appositi spazi”. Da noi cosa succede? Da noi sembra una gara a chi ti passa più vicino o a chi fa la manovra più sconsiderata. Perché? Per risparmiare qualche minuto. Ma ci rendiamo conto che siamo tutti uomini? Si tratta di vite. Bisognerebbe partire dalla scuola guida e avere tutti un poco più di buon senso».
Se Andrea Vendrame dovesse scegliere un aggettivo per descriversi, sceglierebbe “rivoluzionario”: «Altrimenti perché sarei venuto a correre in Francia? Vedi che tutto torna? A parte gli scherzi: nel ciclismo sono così, rischio e improvviso molto. Sempre con l’adeguata preparazione, ci mancherebbe. Nella vita no, nella vita sono diverso. Ho imparato a scindere: ho figure di riferimento per la vita e figure di riferimento per il ciclismo. Sono molto riservato e i piani devono restare separati». Del suo lavoro apprezza molto l’aspetto del “gruppo”: «Penso una cosa: se al ciclismo togli il lavoro di squadra e la sensazione di famiglia che si crea, gli togli tanto tantissimo. Ma non vale solo per il ciclismo, vale per ogni lavoro. Se non resta quella, cosa resta? In Ag2r ho trovato questo. Dico sempre che Androni era una piccola famiglia, Ag2r una grande famiglia. Sono importanti entrambe. Ognuno fa quello che può con quello che ha e, se lo fa bene, merita riconoscenza».
Ogni tanto, qualche giovane avvicina Vendrame e gli chiede consigli: «Alla base di tutto c’è il fatto che devono divertirsi. Questo sempre. Ovvio che quando inizia a diventare qualcosa di simile a un lavoro, anche prima del professionismo vero e proprio, le cose cambiano. Ma io lo dico sempre: non devono fermarsi. Anche se non vincono, non devono fermarsi o buttare tutto all’aria. Dopo ogni caduta, si torna in sella: è un dovere. Si riflette, si capisce dove si è sbagliato ma non si molla. Il passaggio al professionismo è un passo davvero difficile, oggi in particolare. Se ci credono, però, hanno il dovere di tentarci». Già, perché Andrea Vendrame sa bene cosa significa crederci. Lo sa per come ama il suo lavoro, per l’impegno e la coerenza che ci mette: «Non mi ha mai deluso il mio mondo. Certo, ci sono stati tanti cambiamenti e tanti step da compiere. Gradualmente sono cambiato anche io, certo. Ma non sono stato deluso. Fossi stato deluso, non sarei qui. Fossi stato deluso, avrei cambiato strada. Non sarei rimasto in un mondo che non mi piaceva».
Foto: per gentile concessione di Andrea Vendrame, Getty Images
Martina Fidanza: «Così come sono»
Lo si capisce subito. Bastano pochi minuti di chiacchierata per averne la certezza: Martina Fidanza è una ragazza coraggiosa. Molto coraggiosa. Ed è coraggiosa perché non ha paura di raccontarsi, nemmeno in quelle sfumature caratteriali che i più omettono di dire. Sì, le omettono perché poi la società ti convince che certe cose non vanno dette, altrimenti vieni considerato debole o magari non vieni proprio considerato. Lei questa cosa l’ha capita bene, lei sa quanto quelle piccole fragilità siano preziose, siano il bello di ciascuno di noi, per quanto male possano fare e le racconta: «Sono una ragazza estremamente emotiva, da sempre. L’emotività è una sorta di cassa di risonanza che amplifica le sensazioni e, certe volte, le rende difficilmente sopportabili. L’emotività ti fa sentire di più. Io sono così, nella vita e nel ciclismo. Per questo patisco un poco, in particolare prima delle gare. Mi prende l’ansia e la paura di sbagliare, di fallire. In tanti mi hanno detto: “Ma perché fai così? In fondo, cosa succede di grave, se sbagli. Non succede nulla, proprio nulla”. Hanno ragione. L’errore forse andrebbe vissuto diversamente ma dentro di me ho questa spinta. Non so da dove mi arrivi, da cosa derivi. Non me lo so spiegare. Ci combatto e cerco di razionalizzare le situazioni ma poi quello che senti dentro vince quasi sempre».
Martina spiega che ha un rapporto complesso con gli errori, con i propri errori: «Sono molto severa con me stessa e mi giudico molto. Tra l’altro in maniera ferrea. Quando va male una gara fatico a vedere gli errori lucidamente. Mi colpevolizzo, mi dico che non ho fatto abbastanza, che avrei dovuto fare di più. Capisci che, a lungo andare, questo approccio è distruttivo. Mi salva papà». Papà che non è un papà qualunque. Non esistono papà qualunque, tutti i padri sono un poco speciali, ma il papà di Martina Fidanza, parlando di ciclismo, è un maestro. Si tratta di Giovanni Fidanza: «Non è scontato che il rapporto tra genitori e figli che fanno lo stesso lavoro fili liscio. Certe volte si può avvertire la pressione o il giudizio. Papà è esattamente l’opposto. Lui mi calma, lui mi mostra il lato buono delle situazioni, lui mi salva del pessimismo di fronte agli errori. Se c’è un momento della mia infanzia che ho sempre amato sono state le pedalate con lui. Lì ho imparato ad avere pazienza, a lasciare che il tempo passi. Giovanni riesce a spiegarmi dove sbaglio, chiaramente ma con una delicatezza tale che oltre l’errore si vede sempre la possibilità di fare meglio».
Martina è nata nel 1999 ed ha ventun anni ma il carattere che ha la rende molto più consapevole di alcune realtà: «C’è stato un periodo in cui mi raccontavo molto sui social network. Raccontavo proprio me stessa oltre l’aspetto puramente ciclistico o lavorativo. Mi sembrava giusto farlo e mi piaceva. Poi ho capito. Proprio l’emotività fa si che ciò che mi viene detto mi resti attaccato addosso. Di più: l’emotività mi fa ascoltare molto ed anche assorbire molto di ciò che ascolto. Ho iniziato a sentire cose che non mi piacevano, giudizi gratuiti. Ci sono stata male e da allora ho cambiato modo di usare i social: le persone non ti conoscono e non sai mai come possono interpretare ciò che scrivi, tanto più che giudicare è molto facile. Così penso sempre tanto prima di pubblicare una foto o un post. Penso a quello che vorrei dire io e a quello che potrebbero capire gli altri. Ci sono tante cose che avrei voluto postare e non l’ho fatto. Credo sia giusto così». Quando parla di ciclismo parla di pista, di velocità, di adrenalina, di emozioni ma anche di sensibilità: «Nei momenti più belli ci sono indubbiamente le vittorie: lì coroni ciò per cui hai lavorato. Lì dai un significato a molte cose che qualche volta rischiano di perderlo. Quando sono caduta al mondiale, per esempio: un momento davvero difficile. Ma ci sono altri momenti per cui vale la pena di fare questo lavoro e sono tanti. Personalmente ricordo che, da piccola, sognavo di entrare nelle Fiamme Oro. Sai quei significati che quando sei bambino attribuisci alle cose? Per me entrare nelle Fiamme Oro voleva dire essere fra le più forti, voleva dire essermi realizzata. Ho pensato tante volte a come avrebbe potuto essere quel giorno. Oggi lo so, quel giorno è il mio orgoglio».
Dicevamo della sensibilità: «Credo che questo periodo, quello legato alla pandemia, debba insegnare a tutti a comprendere il lato sensibile degli atleti. La loro umanità. A fare qualcosa per quella sensibilità e quell’umanità. Perché i risultati arrivano da lì prima che dalla prestazione atletica. Se non stai bene mentalmente, se non sei sereno, diventa tutto difficile. Questo periodo è stato difficile perché non sapevamo nulla, non sapevamo cosa ne sarebbe stato del nostro lavoro durante l’inverno». Quella stessa sensibilità che le fa dire quella frase, davvero intensa, parlando di ciclismo femminile: «Noi cosa possiamo fare in più? Noi ci alleniamo, facciamo fatica e facciamo gli stessi identici sacrifici dei nostri colleghi uomini. Ci si può chiedere altro? Purtroppo il problema è economico, dovuto agli sponsor. La scelta di affiancare il calendario femminile a quello maschile ha portato dei risultati, come il WorldTour. Speriamo che si prosegua in questa direzione. speriamo che le cose cambino perché ce lo meriteremmo anche».
Martina Fidanza ci confida che, da bambina, il suo modello non era molto lontano. Era la sorella Arianna: «Immaginati di crescere vivendo i successi di una sorella come la mia. Ti senti felice per lei e diventa il tuo modello, la tua ispirazione. Essendo una sorella maggiore questo vale ancora di più. Lei va davvero fortissimo. Molti mi chiedono perché non ci alleniamo molto assieme. Perché mi stacca, io non vado forte come lei. Non so come faccia. Ci completiamo perché ci vogliamo molto bene ma siamo molto diverse. Lei è un poco più lucida nelle situazioni e questo mi aiuta molto». La grande passione di Martina Fidanza è il disegno, per questo ha scelto il liceo artistico: «Sono sempre stata molto testarda. Volevo fare il liceo artistico e l’ho fatto. Volevo uscirne con buoni voti e ci sono riuscita. Io mi sono trovata molto bene ma non è per tutti così. Credo sia un problema di società: la scuola tende a capire poco i ragazzi che fanno uno sport ad alto livello. Io ho fatto davvero tanti sacrifici e sono contenta di averli fatti. Studiavo ad orari improponibili. Ma non si può chiedere questo a tutti. Servirebbe maggiore comprensione». Se le chiediamo di rappresentarci il ciclismo su un foglio, lo immagina come un disegno astratto con tanti colori e tante sfumature: «Le parole, ogni tanto, non riescono a comunicare. Succede a tutti, no? Ci sono alcune cose che non riusciamo a dire a parole. Invece, con un foglio bianco davanti, tutti riusciamo ad esprimere ciò che proviamo. Basta una macchia di colore. Non serve essere artisti ed è un bene che l’arte sia accessibile a sempre più persone. Perché è un modo per comunicare, per trasmettere qualcosa agli altri, per fargli sentire qualcosa. Ne abbiamo bisogno. Tutti».
Foto: per gentile concessione di Martina Fidanza
Marco Frapporti: «Non mi mordo la lingua»
La fuga, per Marco Frapporti, non è solo la fuga, non è solo l'andare in avanscoperta per chilometri e chilometri, spesso da soli e con la consapevolezza che si tratta di un gioco impari, perché il gruppo ti inghiotte. La fuga è un modo di essere: «Io sono così, vivo così. Molto all'estremo, in prima persona senza troppe paure di assumermi le mie responsabilità. Ero così anche da ragazzino: se dovevo dire una cosa la dicevo, anche se poteva farmi danno. Non so controllarmi ed è un bene ma anche un male: a molte persone non piace la schiettezza, molte persone preferiscono le vie di mezzo o le mezze verità. Se vedo un torto o un qualcosa che percepisco come ingiusto, devo intervenire. Devo dire la mia e difendere la persona che si sente accusata. Sarebbe meglio stare zitti? Può essere ma non mi interessa».
Marco e Simona, sua sorella, correvano sin da ragazzini. I genitori gestiscono un'azienda e di ciclismo non conoscono quasi nulla ma vedendoli così appassionati decidono di buttarsi in una nuova avventura: raccolgono qualche sponsor, investono loro risparmi e danno vita a una squadra di ciclismo che cresce una sessantina di ragazzi, da giovanissimi a juniores: «Mi mettevo in testa al gruppo e scattavo. Per me correre significava stare lì davanti. Ritorna quel concetto del metterci la faccia: non è detto che si debba vincere ma se non ci si prova non ha senso. Ho fatto così per tante gare e alla fine mi sono reso conto che quel modo di interpretare le corse mi riusciva bene. Potrei dire che mi apparteneva. Sai, nell'andare in fuga, c'è qualcosa che si impara e qualcosa che appartiene al tuo dna». Il discorso si infittisce e Frapporti snocciola ogni meccanismo delle fughe: «Non è che in fuga ci si trovi. Quelli che aspettano di trovarsi in fuga, sono quelli che poi, in fuga, non vedi mai. Devi correre davanti e volere fortemente la fuga. Non a caso si dice "portare via la fuga". Vuol dire farsene carico. Puoi imparare, certo, ma una parte è istintuale. A tanti corridori si chiede di andare in fuga ogni mattina, per magari cinque o sei tappe. Non ci riescono, ci provano ma non entrano nelle fughe. Questa è una componente che o ti appartiene o non ti appartiene. C'è poco da fare. Poi subentrano altri meccanismi, quelli che in televisione non si vedono e si raccontano poco. Per esempio il barrage. Cos'è? Beh, quando parte la fuga puoi scegliere cosa fare e lo scegli in base a diversi fattori. Il primo è se nella fuga hai un uomo della tua squadra. Se non lo hai devi andare in testa al gruppo e tirare a tutta per riprenderla e, magari, provare a ripartire. Se lo hai devi "coprirgli le spalle". Noi lo chiamiamo "barrage". In sostanza ci sono tratti di strada più complessi, con strettoie, curve, dossi. Ecco, se hai un compagno in fuga, devi metterti in testa al gruppo e rallentarne l'andatura così da favorire il tuo compagno. Io lo ho fatto diverse volte per Giovanni Visconti, quest'anno».
Marco Frapporti racconta che il ciclismo per lui, Simona e Mattia, il fratello minore, è un forte collante: «Non esiste giorno in cui, sentendoci, non ci si dica qualcosa del nostro lavoro. Ci consigliamo o ci rimproveriamo, prendiamo spunto gli uni dagli altri e, magari, ci chiediamo, cosa avremmo fatto noi in quella situazione. Io e Simona ci somigliamo molto per indole caratteriale, Mattia no. Mattia è proprio tranquillo, uno dei classici ragazzi del tipo "se cade il mondo, mi sposto un poco più in là". Devo dirti che lo invidio, perché è fortunato, vive molto meglio rispetto a me». Di sicuro, quello che non manca a Marco è l'intensità che si riverbera sia sul fare che sul raccontare: «Provo sempre a vincere, purtroppo sono anche abbastanza sfortunato. Però mi emoziona vivere la corsa in un certo modo. Ricordo un paio di anni fa, in Israele, venni ripreso a due chilometri dal traguardo. Sì, ti spiace aver perso, ti rode, però per come sono fatto io ero comunque contento. Anche solo per tutta quella gente che ti applaude e per quei luoghi nuovi che hai visto. Di sfuggita ma li hai visti e tante persone non hanno questa fortuna».
Per parlare in maniera approfondita di Bruno Reverberi, di Gianni Savio e di Luca Scinto, tre figure che hanno segnato e segnano la sua vita da atleta, servirebbe un libro ma Frapporti ne tratteggia bene qualche caratteristica: «Reverberi ha sempre creduto che la differenza la fanno i corridori e, forse per questo, dei materiali o di altre finezze, si è interessato poco. In parte ha ragione perché se non vai, la bicicletta non può farci nulla. I materiali ed il contorno, però, sono importanti e credo sia sbagliato non considerarli. Savio è un "uomo passione". Ed è questa sua passione a fargli fare tutto ciò che fa, condivisibile o meno. Lui si butta molto nelle cose, magari anche senza conoscerle. Io, per esempio, non ho mai condiviso i suoi continui paragoni fra calcio e ciclismo: sono sport diversi, è inutile raffrontarli. In ogni caso, è un grande scopritore di talenti e allestisce squadre di ottimo valore. Scinto, fra i tre, è quello che sa meglio motivare. Ti tira fuori una grinta che nemmeno tu pensi di avere. Credo si noti anche dalla televisione». E Frapporti ha mai pensato a un futuro in ammiraglia? «Tanti mi dicono che mi vedrebbero direttore. Non lo so. I miei hanno un'azienda e, se dovessero aver bisogno, io non esiterò un attimo ad andare a lavorare da loro. Se mi arrivasse una proposta all'interno dell'ambiente del ciclismo la valuterei seriamente: questo è il mio mondo».
Lo sguardo su una realtà è tanto più interessante quanto più viene da chi quella realtà la vive. Ancor di più se chi fornisce questo sguardo non bada a ipocrisie e convenienze d'occasione: «Il ciclismo è un mondo solare, senza dubbio. Ma, con altrettanta franchezza, devo dirti che non è un mondo meritocratico. Non c'è meritocrazia. Molti interessi sono prettamente di natura economica e vengono gestiti da procuratori che hanno voce in capitolo e forza contrattuale. Questo va anche a discapito di corridori forti, che hanno competenze e professionalità. Non voglio peccare di presunzione ma credo che mi sarei meritato di più nella mia carriera. Questo detto con il massimo rispetto delle realtà per cui lavoro ed ho lavorato. Realtà a cui sono riconoscente».
Marco Frapporti non è solo questo. C'è tanto altro e prima o poi ve lo racconteremo ma, in primis, una novità: «Questi giorni a casa li sto vivendo molto bene. Mi sto dedicando alla mia compagna: è incinta, a maggio diventerò papà. I medici ci hanno detto che il termine è fissato per il 24 maggio. Speriamo tardi un poco e mi dia tempo di tornare dal Giro d'Italia».