E pensare che gli avevano detto di smettere

Aveva 16 anni Umberto Poli. Aveva sete, fame di cibo dolce e una gola continua di bevande zuccherate. Era pieno di dolori e si sentiva sempre stanco. «Passavo la notte a fare la pipì e non capivo, anche perché all'epoca ero un ragazzino e non avevo mai sentito parlare di questa malattia» ci racconta con pragmatica naturalezza.

Un giorno cambiò tutto. «Categoria Allievi. Ultima gara della stagione: il 7 ottobre del 2012». Manda a memoria quella data. Erano settimane che sentiva che c'era qualcosa che non andava, in allenamento si staccava dai suoi compagni, si sentiva svuotato di ogni energia e si doveva continuamente fermare: dava la colpa al fatto di essere a fine stagione. «Devo staccare e ripartire, ripetevo tra me» e invece. «Vado in fuga, come sempre, e succede una cosa strana che non dovrebbe mai accadere: mi stacco e mi ritiro quasi subito».

Svuotato da tutte le energie, Umberto, a fine gara, è intento ad ascoltare il suo allenatore. «Guarda che non è mica normale sta cosa, devi andare a farti vedere». Torna a casa, mangia, inizia a sentire forti dolori alla schiena, allo stomaco e decide di farsi portare in ospedale da sua madre. «Mi misurano la glicemia: la macchinetta sembrava rotta. In realtà non misurava oltre cinquecento come valore massimo e decidono di farmi un prelievo. Codice rosso, ricoverato d'urgenza e trasportato dall'ospedale di Bovolone a quello di Legnago. “Hai il diabete di tipo 1” mi dicono. Realizzo un po' alla volta che dovrò farmi iniezioni di insulina per tutta la vita».

Scoraggiarsi non fa parte del bagaglio tecnico di chi ogni giorno dopo scuola si allenava in bicicletta. «Ho iniziato a correre in bici a 6 anni con la GS Look Bovolone, poi ho smesso e ho ripreso qualche anno dopo» e poi c'era quella strada da inseguire: l'anno dopo sarebbe passato nella categoria junior – un salto importante verso il sogno di diventare un corridore professionista.
«Immaginatevi il ritornello dei dottori: “non se ne parla nemmeno, non puoi mica pensare di fare il corridore”. Un muro da affrontare, ma a volte quei muri vanno superati. Bisogna trovare il giusto equilibrio e io l'ho fatto. Oppure immaginatevi la difficoltà nel trovare una squadra disposta a prendersi la responsabilità di avere un corridore diabetico tra le proprie fila». Missione impossibile, una parete verticale da scalare o dalla quale calarsi. Usate l'immagine che preferite.

Umberto Poli, tuttavia, la stagione successiva va a correre con la FDB. «Sono stato fortunato» una parola che ricorre spesso nell'intervista, perché Poli coglie al volo l'attimo, trasforma un problema in un'occasione, una ferita in uno spunto per emergere. Prende la malattia e ne ribalta il suo significato. «Ero preoccupato: mi sono ritrovato dall'essere un qualsiasi spensierato adolescente che ha l'unico problema nel come divertirsi, a vivere questa situazione. La squadra di Remo Cordioli, però, mi ha aspettato, ha atteso che mi dessero il permesso di correre. E dopo un po' che avevo ripreso l'attività ecco che mi contatta Vassili Davidenko, il mio attuale Direttore Sportivo alla Novo Nordisk per andare a fare uno stage con loro negli Stati Uniti».

La proposta è allettante, anche se Umberto vive un paradosso: nonostante il diabete, viene chiamato a fare sul serio dall'altra parte del mondo. Confuso, ma deciso, accetta. «Ovviamente ho detto sì. All'inizio ero contento, ma la realtà fu ben diversa». Gli Stati Uniti non si rivelano come l'America narrata, cercata e poi trovata, ben descritta spesso nella letteratura. «Vivevo in una casetta, come quelle dei dilettanti in Italia. Ma mi sembrava che si facessero le cose in maniera meno seria che da noi. Si correvano Criterium, una sorta di circuiti dentro le città, gare da un paio di ore. Ero un po' deluso. Poi tornai a casa e seguendo vari consigli, trai i quali quelli di Elia Viviani, cambiai il mio atteggiamento. La mentalità fa tutto in questo sport e me ne sono accorto subito: ho svoltato, mi sono presentato più propositivo, con un altro modo di intendere la realtà che mi circondava e infatti riuscì ad affermarmi e a firmare un contratto con la Novo Nordisk che mi porta a essere qui, ancora oggi, con loro».

E la sua scelta di continuare con il ciclismo è come un motore che lo spinge a salire velocemente in vetta, una propulsione che lo fa maturare. «Quando sei ragazzo e fai corse di cinquanta, sessanta chilometri, sai che devi mangiare, ma non è che stai proprio attento a quando e come. Se hai fame, mangi: finisce lì. Perché sei ancora giovane e devi fare esperienza. Io invece col diabete ho dovuto bruciare le tappe: ho dovuto subito capire come gestire l'alimentazione. Questo mi ha dato una mano prima degli altri miei compagni. Grazie a questa malattia ho imparato a conoscere meglio il mio corpo. I primi periodi erano un po' al buio perché fai delle prove con quello che assumi, provi una barretta, ne provi un'altra. E poi lentamente ogni anno capisci sempre meglio di cosa ha bisogno il tuo corpo. Con la squadra (la Novo Nordisk ha al suo interno solo corridori diabetici N.d.A.) abbiamo studiato sempre di più come va alimentato il nostro corpo, come il diabete risponde alle assunzioni di zucchero, agli sbalzi della temperatura, persino alle emozioni. Perché anche quelle influiscono. Prendi l'adrenalina: ti alza la glicemia e quindi devi imparare a gestirti mentalmente, devi imparare a gestire la tensione prima di una gara».

E avere il diabete facendo il ciclista di mestiere per Umberto Poli è un connubio che va avanti in modo naturale. «L'unica cosa che mi pesa della mia malattia è la siringa di insulina prima di mangiare, perché per il resto in bici non dà nessun handicap. Anzi sono convinto sia un vantaggio: perché ciò che impariamo noi lo applichiamo in più e in meglio rispetto ad altri corridori. Perché sono conoscenze del proprio corpo che loro non hanno. Questo stato lo definirei: la conoscenza totale del proprio corpo. Come reagisci a ogni cosa che buttiamo dentro, come reagisce a livello di zuccheri nel sangue: non è una cosa da sottovalutare quando lavori tutto il giorno con il tuo corpo».

Il ciclismo che retoricamente è scuola di vita. Anzi ancora di più: per Umberto Poli prende una forma allegorica. Ci racconta di come debba tutto a lui. “al Ciclismo”. Di come gli abbia insegnato a diventare più grande più in fretta, rispetto a quelli della sua età. Ci dice di aver fatto tanti sbagli che lo hanno fatto crescere, di come grazie a lui ha visto il mondo con gli occhi privilegiati di un corridore, ha conosciuto persone di ogni genere e affrontato culture diverse. «E questo è il massimo dell'insegnamento che posso ritrovare nella vita che ho condotto fino a oggi. È un valore aggiunto. Mi ha fatto distinguere le persone: approfittatori e coerenti, egoisti e altruisti. Mi ha insegnato a non mollare mai, a lavorare più degli altri per arrivare al risultato. A diventare tenace, mi ha abituato al sacrificio, a non avere vacanze a Natale, a pedalare sotto il sole, sotto la neve, con il caldo e con il freddo. A crederci, a fare doppi allenamenti. A soffrire, soffrire e soffrire». E lo fa, Umberto Poli, mica perché è matto – forse un po' lo è, come tutti i ciclisti. Lo fa perché gli piace, lo fa perché gli insegna ad affrontare le situazioni più controverse.

«Gli sportivi sono testardi. Quando ci impuntiamo su una cosa noi andiamo dritti per la nostra strada e portiamo avanti il risultato che vogliamo ottenere». Tenacia, resistenza. Alzare l'asticella della soglia del dolore, del proprio livello mentale. «Lo sport è una questione di testa ancora più che fisica. Mi ha rinforzato come uomo e ogni giorno, a ogni allenamento, ha qualcosa da insegnarmi». Ha 24 anni, oggi, Umberto Poli. E pensare che gli avevano detto di smettere.


Il mondo di Katarzyna Niewiadoma

«Il futuro lo immagino in un piccolo paese di montagna. Magari simile a Ochotnica, dove sono cresciuta, in Polonia. Vorrei vivere in una di quelle casette nella natura, con un orto davanti. Uscire di casa, al mattino presto, sentire l’aria fresca sul viso e, oltre qualche nuvola, vedere i monti. Poi scendere nell’orto e raccogliere frutta e verdura. Portarla in casa, sedersi al tavolo, pulirla e prepararla per il pranzo. Vorrei una famiglia e dei bambini. Stare con loro al caldo, accanto a un camino, a guardare da una finestra mentre fuori nevica e la brina ricopre i cancelli». Katarzyna Niewiadoma ama parole semplici, gesti genuini e sensazioni primordiali: «Provo una sensazione bellissima quando vedo le macchie di colore mescolarsi sul mio foglio. Non dipingo per esporre, dipingo perché mi fa stare bene. Mi rigenera. Se poi tra quei colori spunta il giallo ancora meglio. È il mio colore preferito. Dipingere è un gioco». Così quella maglia, quella della Canyon Sram Racing, così variopinta, come calata da qualche universo futuristico e parallelo, le sta proprio bene. È una seconda pelle che fa riaffiorare ciò che la prima cela.

«Ringrazio Taylor Phinney, il mio ragazzo, per tutta la sua magia». Niewiadoma ha scritto così al termine della prova che la ha vista terza all’Europeo di Plouay e noi siamo sicuri che parlasse di questo, come della bellezza del fare il pane in casa, impastandolo a mani nude, o del raccogliere le albicocche in giardino prima che venga a piovere. «A Ochotnica non c’era molto. Ma per me bastava: c’era la mia famiglia, la mia casa e quel paesaggio che qui in Spagna, a Girona, mi manca. Amo ogni singolo sentiero del mio paese di origine. Lo sento palpitare. Lo porto dentro di me». Da qualche parte, in lei, ci sarà anche quella sera in cui papà, tornato a casa con una bicicletta da regalarle, le chiese: «Questa è tua. Mi piacerebbe se qualche giorno venissi con me in bicicletta, mi piacerebbe partecipare a qualche gara con te. Ti va?». Non abbiamo visto i suoi occhi in quel momento, ma possiamo intuirli. Alla fine, per quanto ogni iride sia diversa, quello che ci luccica dentro può ricondursi a ciò che tutti conosciamo. Più o meno intensamente. Figlio della vita.

«Ho una paura che mi ha sempre accompagnata. Ho paura, nel tempo, di vedere il ciclismo solo come un lavoro. È un lavoro, inutile negarlo. Ma non è solo quello, non posso immaginare che sia solo questo. Il ciclismo è quella sensazione di pace che senti quando vai dove vuoi, magari scappi o magari insegui, ma nelle orecchie hai solo il suono della bicicletta. Se scappi non devi mai voltarti, tu stai andando altrove. Perché pensi ai luoghi che stai lasciando? In bicicletta non hai più l’assillo che tormenta ogni nostra giornata: il tempo. Vorresti averne di più, vorresti che tutto il tempo fosse lì per te, per non dover mai scendere dalla sella». Le piace l’Italia, Siena, le stradine del centro città che sanno di antico e il nostro cibo. Le piace vincere. E voi direte che, in fondo, è ovvio per un’atleta. Non così tanto per Katarzyna; a lei, oltre che per tutto il resto, piace vincere per un motivo ben preciso. «Puoi andare in conferenza stampa e rispondere a tutte le domande. Puoi raccontare, puoi raccontarti. Non è bellissimo?».

Foto: Katarzyna Niewiadoma, Twitter


Fragile, duro, rampante o semplicemente Pozzovivo

Raccontare la storia di Domenico Pozzovivo è raccontare la storia di un uomo piccolo di statura, ma la cui forza fisica, come racconta lui stesso in una recente intervista, rispecchia il suo carattere perché il modo in cui il corpo reagisce riflette la sua personalità. Tenace, caparbio, mai superbo, Domenico Pozzovivo è un pittore che cura con attenzione i dettagli, un musicista meticoloso, concreto più che scapigliato, un abile correttore di bozze dotato di una sensibilità che lo rende un personaggio diverso in gruppo. Alto 1,65, ma in verità un gigante che si riflette sulla strada.

Quando era dilettante, con la maglia della Zalf Euromobil Fior, Pozzovivo non era forse il più forte in assoluto, ma come minimo il più testardo. Luciano Rui, suo mentore a quei tempi, racconta così quelle giornate: «Faceva i rulli "in casetta", si preparava le borracce con i sali. Meticoloso e scrupoloso, visionava sempre i percorsi. Un esempio pratico di come sacrificio e dedizione paghino. Ieri come oggi. Ed era uno dei pochi che, terminato l'allenamento, si metteva sui libri». Allenamento, dedizione, doccia, libri, esami, laurea, professionismo: parole chiave che descrivono l'essenza di Pozzovivo. Piccole tappe, quotidiane o esistenziali, per formarsi e realizzarsi come ragazzo, prima, e poi come uomo.

Oscar Gatto, ex compagno di squadra, ha ben in mente il Pozzovivo ragazzo, quello che «faceva saltare di testa tutti» spingendo al limite ogni allenamento. Lo definisce una macchina da guerra, e ha ben in mente pure quel piccoletto che col tempo si è fatto corridore di razza. «Non mi stupisco nel vederlo continuare a tenere duro sempre con i miglior in salita». Nonostante l'età e gli infortuni, Pozzovivo è sempre rampante.

Appassionato di metereologia, non aveva certo bisogno che tutta quella serie di ferite che ne segnano il corpo diventassero un avvisaglia sul cambio del clima. «Il braccio sinistro non ha l’agilità nei movimenti di prima. A seconda del meteo, o su certe strade dissestate, ho fastidio», racconta alla Gazzetta, ferito fuori, fiero dentro, il Pozzovivo mai domo.

Silenzioso, brillante, quando parla non lo fa mai a sproposito. Decise di diventare un corridore dopo aver visto passare il Giro davanti a casa sua a Montalbano Jonico colpito dal fatto che a giocarsi la vittoria erano atleti da tutto il mondo. «L'internazionalità del ciclismo, il potermi confrontare con gente di ogniddove è stata una molla decisiva».

Coerente, esaltato dalle imprese dei più grandi, mai indifferente alle loro debolezze. «Mi sono avvicinato alle corse quando Pantani era all'apice della sua carriera. Le sue imprese in salita mi hanno segnato. Purtroppo dopo essere stato idolatrato da tutti è stato lasciato solo nella sua fragilità dal nostro ambiente e da chi gli stava più vicino».

La bicicletta gli serve per sfamare un altro dei suoi bisogni. «Mi ha fatto scoprire la bellezza della natura e la passione per i santuari. Ovunque mi trovi, anche all'estero, non mi perdo una salita che conduce a uno di questi luoghi sacri».

Suona il piano grazie all'amore per Chopin, ama rileggere Seneca e a scuola la sua materia preferita era proprio filosofia. Ha due lauree: la prima in Economia Aziendale, la seconda ottenuta poco tempo fa in Scienze Motorie. Per la prima laurea ha portato una tesi intitolata: “Politiche meridionalistiche dall’Unità d’Italia ai giorni nostri”, scelta perché, a furia di viaggiare all'estero e in giro per il mondo, Pozzovivo coglieva le differenze del mondo che lo circonda e si interrogava sui problemi che affliggono il sud. «Avendoli vissuti in prima persona ed essendo stato costretto a emigrare per fare il mio mestiere, mi piacerebbe impegnarmi per trovare delle soluzioni», raccontava tempo fa.

Difficile, parlando di Domenico Pozzovivo, dimenticare quelle immagini che arrivavano dall'elicottero durante il Giro del 2015 e che lo vedevano riverso a terra dopo una caduta in discesa: perse conoscenza, rimediò un forte trauma cranico e diverse ferite sul viso con «il pensiero alla mia famiglia a casa in apprensione». Ma poi, come sempre, Pozzovivo è ripartito.

Nel 2018 è il migliore italiano al Giro – e lo sarà anche al Tour: diciottesimo. Sfuma il sogno del podio finale nella Corsa Rosa nella tappa del Colle delle Finestre, quella dell'attacco di Froome. Poteva essere il premio alla carriera – ma ne avrebbe poi bisogno un uomo così? - chiuderà quinto in classifica generale in quello che sarà tuttavia uno dei picchi della sua carriera, nonostante i 35 anni, quella statura, quella cadenza, quella sua ricerca costante della conoscenza. Più che affamato di vittorie o piazzamenti, affamato di sapere, tanto che, quando parte per le gare si porta dietro sempre qualche libro: zoologia, divulgazione scientifica, filosofia, meteorologia.

Da professionista Pozzovivo ha avuto quasi lo stesso numero di vittorie (tredici) rispetto alle operazioni subite (undici - e a fine stagione sta valutando se farne un'altra per togliere le placche in titanio sul braccio) e poco più di dodici mesi fa – erano i primi giorni di agosto del 2019 - un terribile incidente ha rischiato di cancellarlo via per sempre. «Hanno messo fine alla mia carriera» raccontò a sua moglie mentre veniva portato in ospedale. Frattura di tibia e perone, frattura pluriframmentata ed esposta del gomito. In poche parole, sbriciolato da un’auto che lo investiva mentre il corridore attraversava un incrocio.

Riparte perché non c'è nessuno più testardo di lui, perché se gli hanno dato un corpo piccolo è stato solo per rendere ancora più grande la sua resistenza. «Due mesi in sedia a rotelle, otto interventi chirurgici, decine di visite mediche, migliaia di ore di fisioterapia. Centinaia di grammi di titanio addosso» scrive sui suoi canali social. Sei mesi dopo è in gara al Tour de Provence – e con un dignitoso quattordicesimo posto – migliore in classifica della sua nuova squadra (NTT Pro Cycling), davanti a corridori quotati come Bagioli, Gesink, Sivakov.

Pensava di smettere o di restare su una sedia a rotelle e invece va persino al Tour de France che per lui non poteva che partire nel peggiore dei modi. Una storia già scritta, un ritornello che sappiamo a memoria e che si installa nella mente appena alzati: è tra i primi ad andare giù nelle tante cadute verso Nizza. A causa di uno spettatore che «Per fare un selfie ha tirato giù me e altri 20 corridori, distruggendo di nuovo il mio gomito». E lui che fa? Si rialza, mai domo, e oggi, una settimana dopo è ancora lì in corsa, anzi prova a stare con i migliori in salita e dice che si ritirerà solo se dovesse venirgli un febbrone da cavallo.

PS - Aggiornamento di lunedì 7 settembre, ore 14 - Purtroppo nella serata di ieri Pozzovivo ha abbandonato il Tour de France: troppo dolore dopo la caduta del primo giorno. Lo rivedremo fra qualche settimana al Giro d'Italia, perché sennò che Pozzovivo sarebbe?

Foto: Bettini


Quando sogna Simon Pellaud è un genio

Il destino di Simon Pellaud è racchiuso in due parole: Chemin Dessus, “Sentiero di Sopra” letteralmente, un paesino della Svizzera posto a milleduecento metri d'altitudine, perché è da lì che arriva e poi perché viene naturale tradurlo, visto che oltre ad andare forte in bici, Pellaud parla cinque lingue.
Il destino di Simon Pellaud è proprio quel cammino che lo porta in fuga, perché lì sa stare meglio, trova il suo habitat, un animale che si mimetizza tra le fronde: «All'inizio andavo in fuga perché non avevo le qualità per stare davanti fino alla fine con i migliori, poi è diventata un'abitudine: mi emozionava “tentare el golpe” - provare a fare il colpo - giocando con il gruppo che ti insegue. E poi volete mettere? Il senso di libertà che ti dà andare in fuga, poter vedere la strada davanti ai tuoi occhi lontano dallo stress dello stare in mezzo al plotone. Un gusto impagabile», ci racconta, alternando con estrema brillantezza italiano, spagnolo e francese.

Il cammino di Simon Pellaud, ventotto anni, svizzero, è quello che lo porta fino in Colombia, dove ha costruito una casa e dove vive diversi mesi all'anno; una scelta di cuore, di amore a prima vista, come una carezza che ti fa ribollire il sangue. «Tutti mi chiedono perché ho scelto la Colombia e il perché lo trovo guardando le strade, conoscendo le persone, mangiando la frutta – ha un sapore incredibile che non trovi da nessuna parte! Apprezzando clima e paesaggi. Ho trovato un'energia che altrove non esiste: le persone sono sempre felici pur avendo poco. La Colombia è luminosa, mentre in Europa ci sono i soldi ma il colore che domina è il grigio. E poi, come dicono loro, c'è tanta “alegría” e la gente ha cambiato il mio modo di vedere la vita. Hanno poco e gli va bene così, in Svizzera hanno tutto e si può avere tutto, però ci si lamenta troppo spesso».

Ha scelto il ciclismo perché lo sente scorrere nelle vene: «Mio nonno era ciclista e probabilmente mi ha trasmesso l'amore per la libertà. Per me uscire in bici anche solo a fare un giro vuol dire essere “libre”, per me vuol dire avere la possibilità di viaggiare dappertutto» . Una conoscenza del mondo che gli ha insegnato a vivere. «È nata come passione è diventata scuola di vita», concetto che può suonare banale, ma dal quale non si sfugge quando pedalare non è solo il tuo mestiere, non è solo gonfiare i polpacci o eseguire un gesto meccanico, ma la tua ragione di vita. Ciò che ti fa salire le pulsazioni anche al solo pensiero. «Corro sempre con il cuore, perché mi piace davvero tanto fare ciclismo».

Il cammino di Simon Pellaud più di una volta ha trovato ostacoli complicati da superare: nel 2016 correva nel World Tour, ma la sua squadra, la IAM, chiuse, e lui si ritrovò a rifare tutto da capo. «Scendere in una squadra Continental è stata dura per me. Un po' perché pensavo di fare il capitano e mi sono ritrovato ad aiutare Avila, un po' perché dal World Tour è proprio un altro mondo: come organizzazione, come programmi. A volte sapevamo all'ultimo dove saremmo andati», un'esperienza dal quale trova insegnamenti, nella quale matura e che lo ha riportato in questo 2020 tra i professionisti con la maglia dell'Androni, squadra che sposa perfettamente la sua indole fugaiola.

La prima corsa dopo il lockdown, infatti, è subito in avanscoperta: di nuovo mimetizzato tra asfalto e cielo all'orizzonte, perché prima di salire in sella Pellaud già aveva in mente l'evasione come risposta alle sue domande. E poi «quando mi riprendono la mente corre subito di nuovo alla prossima volta che mi lancerò all'attacco».
Simon Pellaud lungo il suo cammino prova a fuggire alla pressione: «La soffro più quando si corre vicino casa, in Svizzera, che quando sono al via di una corsa importante come al Giro di Lombardia» e pochi giorni dopo la Monumento prende parte anche al Giro dell'Emilia dove si immagina in fuga e invece arriva, lungo quel sentiero, un altro intoppo. La sua bici all'improvviso smette di frenare: «La peggiore paura di un ciclista? Trovarsi senza freni in piena discesa. I freni a disco sono il top a parte quando non frenano», racconta, visibilmente ferito, sui suoi canali social.

Il cammino di Simon Pellaud è incastrato nel presente, non può pensare al futuro, oscuro, brillante, non importa, non è possibile nemmeno immaginarselo perché non sa cosa riserva a un corridore come lui: «Firmando di anno in anno per me è impossibile programmare dove sarò domani o l'anno prossimo o nemmeno fra dieci» e quindi lastrica il suo sentiero, sognando la Milano-Sanremo. «Io mi immagino lì, in fuga, in Via Roma a giocarmi il successo. So che rimarrà un sogno, ma a me piace così».

D'altronde, sosteneva Kurosawa: «I sogni sono la rivelazione dei desideri inconfessati, delle paure segrete che l' uomo nasconde nel profondo di se stesso. I sogni sono delle cristallizzazioni di questi desideri puri e disperati, li esprimono in una forma fantastica e totalmente libera. L'uomo, quando sogna, è un genio; è coraggioso e audace come un genio». E questo Simon Pellaud, lo sa bene.

Foto: Simon Pellaud, Twitter


Siate veri

«Sai, la maglia di campionessa europea è qui in camera con me. È lì, distesa sul letto. Ogni volta che passo la guardo, la fisso. Mi invento anche qualche scusa per tornare in camera a vederla. Devo ancora capire se è vero oppure no. Ma mi sembra proprio realtà, altrimenti tu come faresti a saperlo? Stanotte la terrò nel letto con me, deve essere bello dormire con tutte quelle stelle». Sono le sei di sera del giorno in cui ha conquistato l’Europeo, quando telefoniamo ad Eleonora Camilla Gasparrini e lei ci risponde così. Forse per questo il pensiero va ad una notte speciale. Sono sempre insonni le notti che succedono a giorni belli: quando dormi perdi la cognizione del tempo e se sei felice ti spiace buttare via anche solo qualche granello di sabbia della clessidra che scorre. «Sono stanca ma forse stanotte starò ad occhi aperti a fantasticare. Del resto non ho debiti col sonno, la scorsa notte ho dormito davvero bene. Non ero preoccupata. Avevo coscienza del fatto che mi aspettava una prova importante ma sapevo anche di aver fatto tutto il possibile e di avere al mio fianco delle compagne fantastiche. Perché avere paura? Ero emozionata, certo». Qualcuno diceva che le emozioni le viviamo tutti, solo che alcuni si spaventano quando si sentono diversi. Parlano tanto della normalità che uccide ma poi, quando incontrano lo speciale, rimpiangono il normale. Perché lo speciale ti ribalta la vita e non è detto sia sempre così piacevole. Il segreto è trasformare quello scombussolamento emotivo in adrenalina. Magari in euforia.

C’è una regola personale: quando scrivi, vai sempre di prima impressione. È quella giusta. Eviti l’errore? No, però, hai imboccato la via giusta, quella della realtà. Nuda e cruda, talvolta. Non piaci? Pazienza, il vero difficilmente piace. La società si è ammalata del brutto vizio di edulcorare. Eleonora no, sarà perché è così giovane e crede ancora a quel manicheismo esistenziale che l’età tende a smussare. In parte va bene, in parte è un errore. Per esempio è un errore quando parli con il cervello che tiene sotto stretto controllo ogni virgola del pensiero. Quando nelle parole non lasci uno spazio, il giusto spazio, al tuo sentire. Quando ogni parola è una ponderazione esasperata per restare dove più ti conviene. Eleonora, per fortuna, non sa cosa significhi questo o, se ne è cosciente, lo respinge. Tra le nostre domande e le sue risposte non passano mai più di tre o quattro secondi. Per questo siamo certi di raccontarvi il vero, perché in così poco tempo non si può assemblare una bugia. «Cosa vuol dire la maglia azzurra? Ma vuol dire tutto. Molti dicono che è un onore. È vero ma c’è di più. Per la maglia azzurra devi essere disposto a morire. Tu rappresenti la tua nazione. Tu sei figlio di quella terra che hai sulla pelle. Non vale una sola scusa».

Al traguardo Eleonora Gasparrini è scoppiata in un pianto liberatorio. Lacrime grosse, anche quelle tipiche solo di una certa età. Crescendo si impara a mentire anche con le lacrime. Non le lasciamo più uscire, non le lasciamo più libere. «Appena ho rivisto le mie compagne mi sono messa a piangere. Piangevo e mi asciugavo il viso nelle loro magliette. Poi c’erano mamma e papà, loro sono ovunque io sia. Questa vittoria li fa felici e questo è il mio primo motivo di felicità: vedere mamma e papà contenti». Del ciclismo le è sempre piaciuta la velocità, e, quando questa primavera, a causa del lockdown, non ha potuto correre, soffriva: «Sono sempre le sensazioni a mancarci. Sin da piccola mi sono abituata a vivere quelle sensazioni e mai avrei pensato ad una situazione come quella di marzo. È come se ti portassero via ciò che provi. Come puoi fare? Adesso disputerò il Giro delle Marche e poi aspetterò ottobre per altre gare. L’attesa in questo periodo è snervante. Vorrei questo tempo passasse velocemente per essere già lì. Per buttarmi in una nuova corsa con la certezza che nulla potrà impedirmelo. È bello buttarsi a capofitto nelle cose che ci fanno stare bene. Per carattere lo ho sempre fatto, so che ci sono persone più riflessive o meditative. A me piacerebbe provassero anche loro a fare così. Credo potrebbero essere felici».

Foto: comunicato stampa Vo2 Team Pink


Svegliarsi di soprassalto oppure Thomas G

Espressione rilassata: prima, durante e dopo una corsa importante. È sempre stato così, sin dai primi passi. Mentre gli altri si incupivano, tesi fino a strapparsi, logorandosi fino a otturare i propri pistoni, Geraint Thomas faceva scivolare via le preoccupazioni pedalando sciolto con quelle gambe che sembrano stiletti affilati. «Mai visto uno con una testa simile» - racconta Rod Ellingworth, suo ex allenatore e deus ex machina dei successi della Gran Bretagna nel ciclismo.

E d'altronde, la forza mentale di Geraint Thomas non è mai andata in frantumi nemmeno tutte le volte che è finito a terra. La prima brutta caduta nel 2005 in Australia: finì in terapia intensiva e gli tolsero la milza. «I miei vennero a Sidney preoccupati, finì che ci divertimmo un mondo». Al Tour del 2013 cadde nella prima tappa, si ruppe il bacino e restò ugualmente in corsa fino a Parigi supportando Froome verso la vittoria finale. Al Giro del 2017, quando era in piena lotta per la maglia rosa, si scontrò con una moto della polizia e qualche giorno dopo si ritirò. Lo stesso anno al Tour vinse il prologo, indossò la maglia gialla, ma tempo una settimana e finì di nuovo a terra: clavicola rotta. Memorabile il suo incidente alla Gand-Wevelgem del 2015 quando una folata di vento lo buttò fuori strada mentre era in fuga per la vittoria.

Elegante in bici, vincente su pista, sul pavé e nei Grandi Giri, Geraint Thomas è visto in gruppo come personaggio tranquillo e rispettato; garbato e dai modi britannici, lui che arriva dal Galles - Cardiff per la precisione, 'Diff, come dicono da quelle parti. Nell'ultima tappa al Tour del 2018 Daniele Bennati gli si avvicinò prima del traguardo e gli disse: «Il fatto che sia uno come te a vincere il Tour de France, mi fa venire la pelle d'oca».
Quando poi Thomas dice che dell'Italia gli piace tutto, in particolare il cibo, non è una strizzata d'occhio, sembra parli davvero di amore. In tempi non sospetti raccontava di come pensare al Giro d'Italia lo facesse svegliare di soprassalto la mattina, e quando si è sposato lo ha fatto nella St Tewdric's House, una villa italiana del XIX secolo, in Galles. Successivamente lui e la moglie l'hanno acquistata, restaurata, e oggi, a partire dalla modica cifra di circa cinquemila sterline, chiunque ci si può sposare.

Ha frequentato la stessa scuola secondaria di Gareth Bale, e in Galles è ritenuto uno dei personaggi sportivi più grandi di tutti i tempi, al pari della leggenda del rugby Gareth Edwards. Sempre a Cardiff, in suo onore, dopo il titolo olimpico vinto a Londra, la Royal Mail fece dipingere d'oro una cassetta delle lettere nella piazza centrale ed emise un francobollo col suo nome.
Il suo primo allenatore racconta di quando trovasse questo ragazzetto di nove anni mingherlino, pallido, con le gambe fini come uno sfilatino, tutte le mattine fuori dal velodromo a spiare i ragazzi che correvano con la maglia del Mindy Flyers Club. A furia di vederlo gironzolare lì intorno, timido, a bocca aperta e con gli occhi sognanti, un giorno lo invitò a fare qualche giro, gli diede una bici di riserva e lo lanciò in pista. Tempo qualche anno e Thomas divenne il più forte della sua scuola, poi del Galles, poi della Gran Bretagna, fino a conquistare due titoli olimpici nell'inseguimento su pista, nel 2008 a Pechino e nel 2012 a Londra.

«Non aveva mai il broncio anche quando perdeva una corsa» dice di lui un altro suo allenatore, mentre Courtney Rowe, padre del futuro compagno di squadra Luke, ricorda il suo talento: «Luke era bravo, ma G è sempre stato semplicemente geniale». E se c'era da fare festa lui era il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene: «Ad ogni addio al celibato io tornavo a casa alle 22.30, Thomas per ultimo».
Alla fine del Tour de France vinto, Arsene Wenger, all'epoca manager dell'Arsenal, lo chiamò per congratularsi, e Thomas, tifoso sfegatato dei Gunners, pensava fosse Wiggins, noto imitatore, che scherzava. Qualche tempo dopo incontrò Leo Messi al termine di un Barcelona-PSV di Champions finito 4-0 e con una tripletta del fenomeno argentino. Messi gli regalò la sua maglia autografata e qualcuno scrisse: “Messi ha voluto incontrare il Re del Tour de France”. Quel Tour che in Sky non volevano che vincesse: «Mi dissero che avrebbero corso tutti per Froome anche se avessi avuto un minuto di vantaggio e che se nella cronosquadre avessi avuto un problema, non mi avrebbero protetto né aspettato», rivela Thomas nella sua biografia.

Escluso dalla selezione per il Tour di quest'anno - chi lo ha visto al Delfinato non ne è rimasto sorpreso - Thomas sarà una spina nello Stivale. E se dovessimo puntare un penny su un vincitore del Giro, il suo nome ci potrebbe far vacillare. A patto che G, come lo chiamano in gruppo, smetta di svegliarsi di soprassalto pensando all'Italia e mantenga il suo profilo equilibrato. “Imponi la tua fortuna e corri verso i tuoi rischi”, scrisse un giorno René Char, e ci pare un pensiero perfettamente adatto al cammino di Geraint Thomas.

Foto: ASO / Alex BROADWAY e ASO / Pauline BALLET


Esteban Chaves, la berraquera, Il Lombardia

A prima vista Esteban Chaves sembra un pulcino bagnato. Stambecco, è l'ultimo baluardo di una razza in via d'estinzione, un sopravvissuto al primo vagito, un veterano con cicatrici in tutto il corpo. Corre con un braccio malconcio e a causa di un grave incidente ha rischiato di perderne la mobilità.
Nella sua prima corsa in Europa, Esteban Chaves andò subito in fuga: pensava che la vita girasse come in Colombia, aguardiente e guacamole, e invece prese tanto di quel freddo e di quella pioggia da non capirci più niente. Il gruppo lo raggiunse vicino al traguardo e lo staccò; lui si fermò sul ciglio della strada e si misero di impegno per convincerlo a concludere la gara. Arrivò in lacrime e in stato di ipotermia. I genitori, sempre al suo fianco, insistettero a lungo per farlo salire nuovamente su una bicicletta.

Il padre racconta che per stargli vicino durante la sua carriera ha praticamente lasciato perdere quello che aveva creato – un'azienda che produceva mobili in legno - «per Esteban ho messo da parte le mie ambizioni». E a cosa servono i desideri di un padre se non sfociano negli occhi felici di un figlio?
Più volte, Jairo, questo il nome del padre, ha spinto affinché Esteban, valido ma meno talentuoso di molti suoi coetanei, potesse correre fuori dalla Colombia.
Forse meno talentuoso non è la parola più giusta: Chaves di qualità ne ha sempre avute, ma faticava ad esprimerle, un pulcino bagnato, si è detto, un anatroccolo a volte brutto, quasi sgraziato che col tempo si è trasformato in un colibrì.

E allora finalmente eccolo arrivare in Europa, a poco più di vent'anni conquista il Tour de l'Avenir, ma poi...
Si racconta spesso di come la sfortuna si accanisca con insistenza nei confronti di poeti, geni, artisti, ribelli... e piccoli scalatori. Al Laigueglia del 2013 Chaves va a terra, perde i sensi, si sbriciola un braccio, si fracassa quel corpicino così abile ad andare in salita da renderlo una mina vagante in ogni corsa a cui prendeva il via. Lo ricoverano d'urgenza e finisce per smarrirsi. Raccontano di come chiamasse suo padre diverse volte al giorno raccontandogli l'episodio della caduta quasi come in uno stato catatonico.

Poi la lunga riabilitazione, l'aiuto della famiglia, persino qualche bugia raccontata dai medici sul suo stato di salute. Una qualsiasi persona non avrebbe mai potuto tornare a fare una vita normale dopo quello che gli era successo, figuriamoci a correre in bicicletta.
Il ragazzo di Bogotà, invece, spinto e spronato dagli insegnamenti di una famiglia sempre al suo fianco, prende fiato, risorge piano piano, torna a far funzionare quell'arto nonostante i dubbi, nonostante avessero usato i nervi del piede per ricostruirgli il braccio.

In Colombia la chiamano berraquera e ha diversi significati. In questo caso è quel particolare modo di essere che tradurremmo con ostinato, tenace. E che cos'è un ciclista colombiano se non un duro?
Chaves, così piccolo che potresti infilarlo in una bottiglia, risale in bici con l'aiuto del padre, stavolta non è l'ipotermia, ma la paura di non riuscire a realizzare il suo sogno, andare avanti ripagando la fiducia che la famiglia poneva in lui. Tre anni dopo, è il 2016, sfiora il successo al Giro - solo Nibali, a proposito di tenacia, lo superò – e finisce sul podio della Vuelta.
Al Giro di Lombardia di quella stagione non parte come favorito, ma chilometro dopo chilometro riassapora quelle sensazioni vincenti che hanno reso quel minuscolo cuor di leone uno spauracchio in salita. Resiste agli attacchi dei migliori fino a quando è lui, sul traguardo di Bergamo, il migliore. Non ce ne voglia Diego Rosa, secondo per un'incollatura, se quel giorno abbiamo esultato con Chaves: primo colombiano della storia a vincere una Monumento. Non ce ne voglia nemmeno Rigoberto Urán, idolo di una generazione di corridori del suo paese, che deve, per l'ennesima volta, rimandare l'appuntamento con il-successo-che-ti-cambia-la-vita.
C'è una frase che riassume bene quello che è Esteban Chaves, le parole sono di Alex Edmonson, suo compagno di squadra: «Mai visto uno più in gamba di lui: anche quando pensi che si stia per spezzare, lui resta tutto intero. Non ho parole per descriverlo».

Nemmeno noi, anche se ci abbiamo provato. Lui ci riesce meglio, saltellando in bicicletta.

Foto: Aivlis


Tetè

Rossella Ratto è Tetè. Lo è sin da quel pomeriggio di luglio di alcuni anni fa quando, ancora bambina, sedeva sul divano con i fratelli Daniele ed Enrico e guardava stupita una tappa alpina del Tour de France: «C’erano delle scritte sul teleschermo. Io non riuscivo a leggerle, così chiesi a mio fratello. La scritta era “tête de la course”, testa della corsa, ma lui, ancora troppo piccolo, mi lesse “tetè”. Continuammo a ripetere quel suono così affascinante fino a che non divenne una sorta di soprannome. Tetè da quel giorno sono io». Della bicicletta Rossella si era innamorata pochi anni prima, durante un viaggio tra Sardegna e Corsica, quando i suoi genitori scelsero di stare per qualche periodo senza macchina. Il ciclismo all’inizio era una scusa, un modo per stare assieme, per stare in famiglia e passare la domenica a ridere a crepapelle.

Quando parliamo di Daniele ed Enrico, la voce di Rossella Ratto sembra carezzare i ricordi: «Sai cosa penso? Credo che le emozioni che abbiamo condiviso siano difficili da raccontare, da spiegare. Sono dentro di me e mi danno una carica inspiegabile. Ci allenavamo assieme: fingevamo di essere ciclisti professionisti e alla fine di ogni giornata stilavamo una classifica con premi. Per rendere la corsa più veritiera, a volte, mi lasciavano anche qualche secondo di vantaggio. Ogni tanto mi mancano quei momenti». Rossella Ratto racconta che la competitività è sempre stata parte di lei ma è riuscita a tirarla fuori proprio grazie ai fratelli: «Ogni tanto, scherzando, da bambini, mi dicevano: tu sei una femmina e non ci riesci. E io, pur di dimostrare che ero capace mi sfinivo. Ancora oggi sono così. Se voglio ottenere qualcosa non mi ferma nessuno. A tratti ho anche dovuto controllare questa competitività: stava invadendo ogni campo della mia vita e, se si esagera, non fa per nulla bene».

Se ripensa al bronzo ai mondiali 2013 in Toscana ammette che, a volte, non le sembra ancora vero. «Tutte le aspettative che c’erano nei miei confronti e che all’inizio mi davano una forte carica, dopo quel giorno mi hanno pesato. In quei momenti, per problematiche fisiche, non riuscivo a essere all’altezza delle attese. Mi sembrava anche di avvertire mancanza di fiducia da parte di persone che avrei voluto credessero in me. Lo ho capito dopo. Col tempo». I suoi miti ciclistici da ragazzina erano Paolo Bettini e Michael Boogerd, ora stima Marianne Vos, sia come donna che come atleta, ma ammette di non avere più idoli: «Non c’è nulla di male. Quando si cresce, credo venga meno questa necessità di mitizzare. Gli sportivi sono uomini e come tali hanno pregi, difetti ed anche debolezze. Forse dovremmo apprezzarli proprio per questo, senza mitizzarli o trasformarli in supereroi».

Foto: Claudio Bergamaschi