Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco...

Diciamoci la verità: Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco. Sarebbe stato anche umano, troppo umano per dirla con Nietzsche. Non sono, invece, così umane quelle undici viti e quella placca che i medici usarono per sistemargli la gamba dopo l'incidente allo Stelvio, nel 2014, quando un gatto gli attraversò la strada in allenamento. Non sono umani tutti gli incidenti che ne hanno martoriato il corpo, spesso prima dei grandi appuntamenti, talvolta all'interno degli stessi. E nonostante tutto Pozzovivo è finito per ben sei volte fra i primi dieci del Giro d'Italia, per due volte quinto. Ha vinto a Lago Laceno, quella montagna sfuggita al Pirata nel 1998.

Quando Qhubeka ha annunciato la chiusura, Domenico Pozzovivo, senza, avrebbe potuto essere stanco, a trentanove anni, di tutto ciò che era già successo. Dei momenti di paura che il ciclismo gli ha lasciato addosso: al Giro d'Italia 2015, con quel volto sbattuto a terra, quegli attimi di terrore. Solo tre anni fa quando sembrava che un'auto in allenamento avesse messo fine a tutto. Persino lo scorso anno, quando ad Ascoli, al Giro d'Italia, si è dovuto fermare perché quelle ossa, quei muscoli, ne avevano già viste troppe e una caduta lo aveva ancora messo in ginocchio.

Avrebbe potuto e invece ha continuato ad allenarsi come se la squadra l'avesse e non era sicuro di trovarla. Sapeva solo che un ciclista vuole essere libero di concludere la carriera quando decide lui, uno sberleffo dritto in faccia alla sfortuna. Tempo fa, un tifoso ci disse che amava Pozzovivo perché "non sembra un ciclista". Abbiamo capito che parlava della sua semplicità, del suo essere sempre contento o del suo mostrarsi contento per poi risolvere da solo i problemi, anche quelli che sembrano troppo grossi. Come essere senza squadra a quasi quarant'anni.

Poi è arrivata l’Intermarché e Pozzovivo era pronto. A trentanove anni potrebbe ancora prendersi sulle spalle la squadra al Giro d'Italia. Non sono promesse vane, basta aver guardato la seconda tappa della Vuelta a Andalucia, quella vinta da Alessandro Covi davanti a Miguel Ángel López e Iván Ramiro Sosa, sul primo arrivo in salita. Domenico Pozzovivo "ha la gamba" come si dice in gergo. Ottavo, ottavo dopo l'inverno che ha trascorso, ottavo sul suo terreno. Aveva sempre detto di crederci, dopo quasi ogni incidente e anche dopo essere rimasto senza squadra. Ma dirlo è anche facile. Pozzovivo lo ha fatto e ieri è stato un antipasto, il cui significato si vede bene guardando indietro, per una volta. Quando Pozzovivo avrebbe potuto essere stanco, invece non lo era. Questo è il punto.


Le paure di un ciclista

Accadono molte cose all'inizio di una discesa. Mantelline, fogli di giornale e posizioni aerodinamiche sono visibili a tutti, poi c'è quel che non si vede. Cosa pensa un ciclista mentre inizia a scendere? In gruppo dicono che, in realtà, la discesa è qualcosa di irrazionale e per questo può incutere timore. Irrazionale perché normalmente è l'uomo ad avere il controllo del mezzo, della bicicletta, in quel caso invece quel controllo è fragile. Normalmente l'uomo accelera, spinge anche a fatica per far girare quelle ruote, quei pedali, in discesa bisogna frenare per rallentare una rincorsa automatica della bicicletta. Le discese possono fare paura e serve molto lavoro per risalire la china di quel blocco, di quando il corridore frena solo, non vuole più andare avanti, ha paura di lasciarsi andare.
Pierre Latour sta facendo questo lavoro perché dopo la caduta in discesa del 2019, in allenamento, quella che gli costò la frattura di entrambi gli arti superiori, le discese sono diventate un problema. Tra l'altro, nel suo caso, il problema fu causato da una buca del manto stradale e questo essere senza controllo lo terrorizza ancor più: «Come si fa a fidarsi nel mollare i freni quando non sai cosa c'è dietro la curva?». Anche perché, in discesa, non puoi frenare di colpo e in ogni caso la frenata ha un tempo prima di bloccare il mezzo. Quando parla di discese, Latour non è più lo stesso e noi possiamo solo immaginare cosa gli si smuova dentro mentre vede video di downhill che dovrebbero aiutarlo a migliorarsi. Alla fine ha capito che la sua paura è in parte lì, sulla strada che scende e in parte altrove. Perché le cadute in discesa sono rovinose, si rischia di perdere la stagione e lui, a fine stagione, quando non ha più nulla da perdere va meglio, si sente più libero.
In TotalEnergies stanno provando a invertire il meccanismo classico attraverso cui Latour ha affrontato le discese, ovvero quello di mettersi davanti al gruppo, per fare in modo di poter frenare senza staccarsi del tutto. Negli anni scorsi, Latour aveva anche i compagni a proteggerlo in discesa perché lo spaventava anche lo spostamento d'aria causato dal passaggio di un atleta che ti sorpassa a tutta. Perché nelle paure fa tanto il ricordo del male, del dolore fisico e psicologico, e quel ricordo esaspera tutto, anche se il corridore che ti sorpassa è distante: tu lo vedi vicino, attaccato, addosso. Perdi lucidità e, alla fine, realizzi ciò che temi: o ti fermi o cadi davvero.
E gli altri? Cosa fanno gli altri? Le persone che hai vicino, lo staff, anche i compagni, forse. Da lì iniziano ad arrivare i consigli, tutti in buona fede, assolutamente. Ma è anche questa la difficoltà di un corridore, quella che, nel caso di Latour si innesca all'inizio di una discesa: «Chi ascolto? Qual è il consiglio giusto?». Ci sono regole generali, poi c'è la soggettività, ciò che è giusto per te, per la tua singola paura, per il corridore che sei.
A Calpe, negli scorsi giorni, Latour ha ripetuto varie volte la stessa discesa, con i compagni a controllare che non passassero auto e l'allenatore a "dirigerlo". Poche persone a dargli consigli, perché è meglio così. Una tranquillità simulata che gli ha permesso di essere sereno conoscendo ciò che c'era dietro la curva, che gli ha permesso di trovare calma e serenità da affiancare al ricordo negativo e poi di passare oltre. Già, perché sarà questo il prossimo passo: evitare di anticipare il plotone in testa, stare lì in mezzo, correndo anche il rischio, sentendo anche la paura, evitando però di tirare i freni perché non è vero che un ciclista non può avere paura delle discese. È, però, vero che un ciclista non può permettersi di non affrontare discese e da quando prende coscienza della paura ha il dovere di lavorarci. Per arrivare a valle.
C'è anche questo in un ciclista in vetta a una montagna, c'è anche questo nella posizione di un ciclista mentre si butta in discesa. Ci si può chiedere quale paura o quale coraggio lo porti lì, perché in lui ci sono le paure di un corridore, di ogni corridore.


Dirsi la verità a qualunque costo: intervista a Giovanni Lonardi

Giovanni Lonardi si augura di ricordare per molto tempo la vittoria alla Clàssica Comunitat Valenciana a fine gennaio. Tra l'altro, in quella gara, Lonardi non avrebbe nemmeno dovuto esserci ed è stato convocato pochi giorni prima per sostituire un compagno. A inizio stagione le sue gambe hanno sempre girato bene, il punto è che quella sensazione di serenità che lascia la vittoria rischia di svanire presto se non ci si ripete e questo è un problema.
Non è stato un anno facile l'ultimo per Giovanni, per questo ha scelto di cambiare squadra e di passare dalla Bardiani alla Eolo-Kometa. Qualcosa si era rotto dopo la mancata convocazione al Giro d'Italia, uno dei traguardi più importanti per una Professional. Cambiare non gli piace, se sta bene, anzi, è abbastanza abitudinario ma, a venticinque anni, è certo che se le cose non vanno bisogna assumersi la responsabilità di cambiare. Sempre quei venticinque anni lo hanno portato a riflettere sulla sincerità nel proprio lavoro: «Non correre un Giro d'Italia fa male soprattutto quando sai che avresti avuto la forma per partire. Da corridore è difficile ammettere che non si è pronti e chiedere al direttore sportivo di scegliere un altro. Davanti a quell'occasione si diventa egoisti. Penso sia fondamentale trovare quel coraggio, anche se pesa, e far notare al direttore sportivo ciò che magari non ha notato, anche se significa rinunciare a una tappa importante della stagione».
Giovanni Lonardi ha cambiato, sarebbe potuta andare male, invece è ripartito col botto. Ammette che serve coraggio per scegliere perché non sai mai come andrà, ma non vuole porre l'accento su questo aspetto perché «nella vita normale è tutto più difficile. Io ho cambiato ma faccio comunque il ciclista, ci sono persone che lasciano il proprio lavoro e devono reinventarsi in ruoli di cui non conoscono nulla». Il suo ruolo, ad oggi, è quello di velocista, non puro però. Quella gamba veloce di cui è dotato fa la differenza soprattutto in percorsi mossi, quando lo sprint è in un gruppo ristretto. La vittoria che glielo ha fatto capire a Forlì, nel 2018, al Giro Under23. Di strada ne ha fatta molta da quel giorno, assegnando sempre maggior valore al lavoro, perché da ragazzo gli capitava di prendere alla leggera qualche allenamento. Poi si cresce e si matura.
Per questo, se guarda avanti, Lonardi si lascia più possibilità: «Magari resterò velocista, magari scoprirò che sarei più utile come ultimo uomo. Ma non è detto, potrebbe essere necessario migliorare in salita. Bisogna essere pronti a cambiare, essere agili in questo senso». Per intanto, continua a provare il treno che deve guidarlo in volata, sicuro del fatto che per quanto si provi, la vera prova è la gara perché ci sono situazioni non simulabili in allenamento.
Crede che la sicurezza stradale sia un punto su cui ognuno ha il dovere di lavorare, perché le cose non sono ancora cambiate. Del ciclismo gli piacciono molti aspetti, viaggiare ad esempio, ma, da quando è diventato un lavoro, qualcosa è cambiato: «Una vittoria ti lascia molto più di ciò che ti tolgono i sacrifici. Per mettere il bilancio in pari bisogna anche vincere. Capita il giorno in cui sei contento anche solo di allenarti e questo vuol dire molto, però, in una carriera, di giorni ce ne sono tanti e uscire in allenamento non è sempre così piacevole. Soprattutto se ti alleni e i risultati non arrivano».
È giovane e, in un modo o nell'altro, si sente vicino a quei ragazzi che alla sua età devono smettere e ricominciare da capo. Lui non ha mai pensato a cosa avrebbe fatto se non avesse fatto il ciclista, ma il suo realismo gli impone di pensare a cosa avrebbe fatto se non avesse trovato una squadra o se dovesse trovarsi in una situazione simile. «Siamo troppo giovani per avere già da parte qualcosa che ci permetta di aspettare a cercare un lavoro. Non sono per restare attaccato a tutti i costi al ciclismo: fino a quando ci sono le possibilità per farlo e farlo in un certo modo sono contento di essere ciclista. Se non fosse capitato avrei cercato un altro lavoro, senza troppi rimpianti. Dobbiamo avere il coraggio di dirci chiaramente quando non è il caso di insistere. Si tratta di onestà con se stessi».


Il coraggio e l'orgoglio: essere paraciclisti

La nazionale di paraciclismo sta cambiando ed è di questo cambiamento che vogliamo parlare. I paraciclisti conoscono bene ogni sfumatura del verbo cambiare perché, se sono lì, è proprio perché qualcosa, nelle loro vite, è cambiato.
Claudia Cretti, ad esempio, ci ha detto che all’inizio non avrebbe voluto far parte del paraciclismo, che, quando dei ragazzi l’hanno invitata a provare, non ha capito perché lo chiedessero proprio a lei, a lei che aveva subito un trauma cranico in un incidente. Anche Claudia è cambiata, per quello che è successo, per le scelte che ha fatto e per quello che ha accettato. Così oggi non ha dubbi quando dice: «Sono una paraciclista». Ha visto diversamente la disabilità, ha visto diversamente i limiti.
Il cambiamento della nazionale non è poi molto diverso. Rino De Candido, nuovo Commissario Tecnico, sostiene che questi atleti hanno una capacità rara di affrontare i problemi e arrivare a una soluzione. Per questo nel primo incontro ha detto: “Tutto quello che dovete fare è sapere chiedere. Se avete bisogno di qualcosa, se avete un problema, sono qui per quello”. Perché anche chi ha imparato a cavarsela da solo, nonostante tutto, ha bisogno di aiuto. Claudia Cretti ricorda che, l’anno scorso, si trovava spaesata di fronte a questi allenamenti da gestire da sola, senza alcuna indicazione: «Nel professionismo ero guidata in ogni dettaglio, mi sono chiesta perchè qui non accadesse. Le altre nazionali, Inghilterra, Canada, Usa, hanno sempre ragionato in termini diversi: i paraciclisti sono atleti e in quanti atleti vanno seguiti».
Nel primo ritiro, pochi giorni fa, si è lavorato in pista, sulla partenza da fermi, sull’agilità, anche sui dettagli minori, quei pochi millimetri della sella in più o in meno. De Candido ha parlato con ciascuno e ad ognuno ha fatto un discorso diverso basato su ciò che ciascuno è. Questo è il senso della fiducia di cui Cretti ci racconta: «Ha visto ciò che già funziona e ciò che è da cambiare. Mi ha detto chiaramente che tutto sta nella testa e nella decisione di fidarsi. Voglio fare ciò che dice De Candido». Ascoltare, guardare, accettare e mettere in pratica. A questo sono serviti i test sul ciclomulino a cui la nazionale di paraciclismo non era abituata.
La nuova nazionale sarà più squadra perché ci saranno dei ruoli, perché essere a tutta dall’inizio della stagione alla fine, oltre ad essere controproducente, non ha senso. I momenti di stacco, di scarico, sono importanti quanto i picchi. De Candido ha parlato di armonia perché in squadra non ci sono rivalità: ognuno deve mettere a disposizione il meglio che ha e il tuo meglio è importante come quello dell’altro. Anche se sembra piccola cosa, anche se fatichi a crederlo così importante.
Francesca Porcellato ha tutto nelle braccia, quelle braccia che sono passate dall’atletica, allo sci di fondo e poi alla bicicletta, ma quando ha incontrato la prima volta Claudia glielo ha detto: «Le tue gambe sono forti come le mie braccia». E già qui c’è tutto, a cominciare dalla volontà di guardare la parte sana e salva della realtà, l’unica che permette di guardare al futuro. Anche le diverse età della nazionale sono un punto di forza perché età significa esperienza. Michele Pittacolo ha avuto la stessa problematica di Claudia, ma avendo più anni sa cose che Cretti deve ancora scoprire, così gliele dice, gliele racconta.
Poi c’è la nuova linfa, quella senza cui non c’è futuro. La nazionale vorrebbe inserire altri giovani, più giovani, se possibile. Anche chi non ha mai vestito la maglia azzurra. Perché necessari per la nazionale, ma soprattutto per loro, per quanto può aiutarli. È questa l’idea di Claudia Cretti: «Come me ci saranno tanti altri ragazzi col desiderio di fare sport ad alti livelli che pensano di non potere, di non riuscire. Che magari non vogliono fare paraciclismo. Dare un segnale a questi ragazzi è importante perché si sta male quando si pensa di non avere una possibilità. Dare un segnale a questi ragazzi può cambiare ancora tanto».


Genitori e figli

A tutti sarà capitato di vedere il riso o la pasta che gli atleti mangiano al termine della gara, per recuperare. A noi, qualcuno fra i più giovani, nelle categorie minori, ha raccontato la dedizione con cui la madre sceglieva il contenitore per mettere quella pasta. Di quella cucina con l’acqua a bollire al mattino alle quattro, quando si sarebbe potuto preparare tutto anche la sera prima, ma “già è quasi scondita, almeno mangiala fresca”. E ancora, la difficoltà per chi non è abituato, di preparare qualcosa di adatto a pranzo o a cena, anche in settimana, lontano dalle gare. Delle madri e dei padri che provano, sbagliano, chiedono e riprovano.
Altri ci hanno parlato dei viaggi che i genitori fanno. Magari per andare in Puglia il sabato e tornare la domenica, partendo dalla Lombardia o dal Piemonte, per accompagnare i figli alla gara. Di quei genitori che in settimana tornano tardi dal lavoro, ma una domanda su com’è andato l’allenamento la fanno sempre e, se quel giorno “la gamba non girava”, cercano argomenti per spiegarti che devi continuare, che domani andrà meglio. Tanto che non immagini neppure i problemi che hanno sul lavoro, perché in quel preciso momento non contano più, contano i tuoi problemi. E il camper non si compra per andare in vacanza, si compra per accompagnare i figli alle corse, perché possano viaggiare più comodi, perché possano avere tutto a disposizione.
Potremmo raccontare di quei figli che, nel fuori stagione, hanno cercato qualche lavoro da fare per aiutare e aiutarsi. Perché iniziare a pedalare vuol dire scegliere di investire su stessi, ma, non nascondiamoci, soprattutto all’inizio vuol dire anche spendere molto per avere l’attrezzatura giusta, perché anche quello conta. Parliamo di biciclette, parliamo di tubolari. Parliamo di genitori che chiedono ai figli di non farsi remore, di chiedere ciò che serve, di comprare il meglio che serve, perché, anche ci fossero sacrifici da fare, si fanno volentieri. Sono figli che, spesso, crescono prima, perché lontani da casa devono fare tutto da soli. Perché l’età adulta in realtà non è un’età ma un modo di essere o di vedere le cose e se fai una certa strada quel modo lo acquisisci presto. Forse anche troppo presto, dice qualche genitore.
E ancora ci sono le bende e i cerotti da controllare a sera, da togliere delicatamente per non fare troppo male. Di quelle ferite si inizia a chiedere da bambini e non si finisce mai perché i genitori si ricordano quasi sempre dov’è quel taglio o quella botta. Ci sono le immagini in televisione che i genitori vorrebbero sempre vedere ma di cui hanno anche paura perché “se succede qualcosa, siamo distanti”.
A loro non interessa non poter far nulla, a loro interessa essere lì, da qualche parte. Accanto al medico che ti visita o al tavolo della colazione mentre quella pasta, così presto, fatica ad andare giù. Vicini. Genitori e figli.


Maxi Richeze: fino alla fine del Giro

Scorgendo la sagoma di Maxi Richeze all'orizzonte, puoi immaginarti alla sua ruota nomi come quelli di Modolo, Kittel, Viviani o Gaviria. Ultimamente potrebbe figurare pure quella di Molano, sempre circoscritto da una sorta di ingenua malinconia, ma tuttavia talentuoso. Succede poi, come, con il solito numero da pesce-pilota, Maxi Richeze permette al colombiano di recuperare e battere sulla linea d'arrivo Albanese: accade all'ultimo Giro di Sicilia ed è uno dei tanti episodi che hanno elevato le capacità di Richeze all'ennesima potenza.
Gaviria, raccontava tempo fa Richeze, è il più forte tra quelli che ha portato fuori a velocità impensabili in mezzo a tutta quella confusione che sono le volate. Facile a dirsi in quanto c'è stato un momento in cui Gaviria pareva un missile - anche se non ha mai sopportato quel soprannome.
Modolo, fu il suo primo capitano nel World Tour e proprio per questo gli deve tanto. Pensiamo che la cosa sia reciproca. Mentre definiva Kittel irresistibile in pianura, fino a che la strada non saliva, e di Viviani, disse una volta: «È quello che mi ha dato di più, professionalmente e umanamente».
Quando scorgi la sagoma di Maxi Richeze ti vengono in mente volate, velocisti e Argentina. Una famiglia di ciclisti, lui secondo di quattro fratelli, tutti aggrappati a una bicicletta. Quando era piccolo scappava da scuola e correva a casa per vedere gli sprint di Cipollini. «Ha cambiato la percezione del pubblico riguardo agli sprinter».
Sbarcò in Italia da Under 23, precisamente in Veneto con la maglia del Team Parolin, grazie ai contatti avuti con Mirko Rossato, e quando sembrava sul procinto di diventare velocista di livello fu fermato per un problema di positività: ancora oggi non si capisce molto bene cosa sia successo. «Potevo prendere e mollare tutto, ma in realtà mi ha dato ancora più motivazione».
Nel tempo ha vinto, sì, ma soprattutto ha legato rapporti e fatto vincere. Ci si poteva fidare di lui ciecamente e quando in una formazione leggevi il suo nome avresti detto: c'è Richeze, vince il "suo" velocista.
E oggi, quando leggi Maxi Richeze da qualche parte, sai che di tempo ne è passato: da quelle scorribande nei dintorni di casa sua con la bici, alle gare su pista, alla prima maglia arrivato in Europa, fino alle volate che i suoi compagni hanno vinto grazie a lui.
Quando leggi Maxi Richeze sai che stava per smettere, praticamente pochi giorni fa, mentre invece lo vedremo tirare ancora qualche volata; vedremo ancora velocisti fidarsi ciecamente di lui standogli a ruota.
Almeno fino alla fine del Giro e poi si vedrà.


I segreti di un meccanico: intervista a Giuseppe Archetti

Nonostante la sua esperienza più che trentennale, una delle prime cose che sottolinea Giuseppe Archetti, meccanico UAE Team Emirates, è l’importanza dei ruoli e del loro rispetto. Quando qualche corridore gli chiede di intervenire sulla sua bicicletta, Archetti pone una differenziazione a seconda che si tratti di posizione e millimetri di variazione di sella o manubrio oppure di altre questioni più complesse: «Per piccoli ritocchi sulla posizione o sulla calibrazione della sella, intervengo io. Ci si lavora col tempo e talvolta è anche un aspetto psicologico. Su altre questioni credo non sia giusto agire da solo. Quando si toccano i pedali, più larghi, più lunghi, la sella, il materiale o altri aspetti, penso che il meccanico non debba agire se non dopo un’attenta discussione con lo staff». Squadra significa anche specializzazione. Se si è squadra, bisogna esserlo sempre.
In quest’ottica Archetti ha imparato a dire no e, con l’età, dire no è diventato più semplice. Non solo, con il passare del tempo è aumentata la pazienza e la capacità di spiegare perché, in quella circostanza, non si può fare ciò che il corridore richiede. Da giovani, spesso, non si considera l’importanza di motivare la decisione, talvolta non la si saprebbe neppure motivare. «Nelle categorie minori le scelte sono più fluide, i contratti meno stringenti. Lì, si accontenta anche più facilmente l’atleta. Certe volte il corridore è abituato con una determinata sella e vorrebbe avere sempre quella. Se non è possibile, devi dirlo chiaramente ma devi anche spiegargli che stai lavorando per fornire una sella che si adatti alle sue esigenze, devi fargli capire che nonostante il no tu lo hai ascoltato. Devi dirgli la verità. Così gli spiegherai che la larghezza è simile, che il punto d’appoggio è lo stesso e che il biomeccanico ha lavorato perché la posizione non cambi».
Archetti sostiene che questo aiuti la fiducia perché l’atleta deve fidarsi del meccanico e tanto più riterrà esaurienti le spiegazioni, più si fiderà.
L’inverno, poi, è il periodo dei trasferimenti degli atleti, da una squadra all’altra, e anche qui le cose sono cambiate. Quando Archetti ha iniziato, gli atleti portavano la loro bicicletta precedente al nuovo meccanico e questo segnava tutte le misure da riportare su quella nuova. Oggi il tutto si svolge tramite un dialogo maggiore tra i diversi meccanici. «Una volta i corridori avevano un gruppo diverso di meccanici a seconda delle gare che facevano, grandi giri o classiche, ad esempio, oggi si usa meno». Negli atleti non è cambiato molto: c’è sempre chi ha una sensibilità maggiore e chi minore, chi studia questi aspetti e chi no, di sicuro, però, si hanno già materiali migliori sin dalle categorie giovanili.
La bicicletta, invece, è cambiata nettamente. Archetti pensa al cambio: «Ricordo le mani degli atleti quando c’era il cambio a frizione: certe volte arrivavano al traguardo con le mani talmente gelate che non riuscivano più a cambiare per il freddo o per la terra che bloccava il filo. L’elettronica ha rivoluzionato il nostro lavoro e di certo ha agevolato gli atleti».
Quando le cose non vanno, ancora oggi, talvolta, si va dal meccanico e si sostiene che il problema sia lì, in qualche suo errore. Archetti ascolta, lascia passare il momento di crisi ma, poi, dice chiaramente la sua: «Ho sempre parlato chiaro e con l’età lo faccio ancora di più. Il passare del tempo ti toglie la paura del giudizio: abbiamo a che fare con ragazzi giovani che spesso hanno già tutto, è nostro dovere spiegare il valore dell’aspettare, dell’umiltà». A questo proposito, Archetti pensa a Tadej Pogacar, l’ultimo dei grandi campioni, con cui sta lavorando.
«In trentacinque anni non ho mai visto uno come lui. Un ragazzo acqua e sapone nonostante i due Tour de France vinti. Certe volte le cose non vanno neanche per lui ma non ha mai cercato nessuno a cui dare la colpa. Tadej è anche abituato ai no, quando mi chiede qualcosa e non posso aiutarlo non dice nulla, se non “se non puoi, va bene così”». Di quei momenti difficili, sa qualcosa anche Archetti che, dopo tante considerazioni tecniche, si lascia andare a un pensiero personale sulla gestione di questi momenti mentre si è a contatto con gli altri.
Nel 2016, quando parte per le Olimpiadi di Rio, Archetti è senza un contratto per la stagione successiva, al ritorno potrebbe essere senza lavoro. Per qualche tempo, deluso dall’ambiente, pensa anche di lasciare e di cambiare lavoro. Non lo farà. «È stata l’unica volta, poi ho ripreso. Anche in quei giorni, però, le cose sono restate separate: quando sei in una squadra non puoi permetterti di lasciare che i tuoi problemi influiscano sul lavoro che fai. I campi sono da tenere separati, gli altri non devono scontare le tue difficoltà, vale anche per gli atleti: quando le cose non vanno ce ne si assume la responsabilità, senza scaricare colpe». Questione di ruoli e di rispetto: parole che Giuseppe Archetti conosce molto bene.


Fayetteville, i protagonisti e i bambini

Il centro di Fayetteville, Arkansas, stasera ospita uno spettacolo diverso dal solito. C'è un palco, piccolo e illuminato, e ci sono i bambini della scuola cittadina che si dimenano eccitati. Si corre un campionato del mondo in città, ma i protagonisti sono loro: a ciascuno è stata assegnata una bandiera o un cartello con il nome di un paese. Sfileranno per i pochi passi necessari ad attraversare la piazza, sino al centro dei riflettori. Portabandiera inediti di una cerimonia inaugurale altrettanto bizzarra. Gli atleti, i protagonisti del mondiale di ciclocross, non ci sono. Il freddo e la tensione hanno tenuto tutti in albergo. Solo una manciata di rappresentati del Messico e del Costa Rica si sono spinti sino in piazza, nascosti tra il pubblico.
I bambini con le loro mascherine colorate sfilano e la piazza ha applausi per tutti. Per chi è in pantaloni corti come per chi sta ben intabarrato nella giacca a vento. Per chi fa ruotare il cartello come una majorette e per chi sbandiera come in parata. Quando passano i rappresentanti dell'Italia qualcuno urla "Pizza!" e qualcuno risponde con "Pasta!". Per la sfilata degli Stati Uniti si levano i boati. Il sindaco Lioneld Jordan grida "Hello everyone!" e il pubblico lo interrompe urlando "Yeah!". Anche Pieter Pools, il banditore ufficiale del comune di Geraardsbergen, Fiandre, interrompe la cerimonia: salta sul palco e saluta tutti i presenti. Il mondo è piccolo sotto i colori dell'iride.

Le corse inizieranno stasera, con la prova dimostrativa di una staffetta che ha cambiato il suo regolamento a poche ore dal via, ma l'attesa è tutta per i giorni che seguiranno, e per i protagonisti che stasera non si vedono. Per Belgio, Paesi Bassi e... tutti gli altri. Non si offendano, questi ultimi, ma da domani i riflettori sono su due nazionali su tutte, come sempre. Il Belgio ha fatto ancora una volta le cose in grande stile. È vero, manca la supernova di Wout van Aert a illuminarla, ma la selezione di Sven Vanthourenhout resta il faro del movimento. Hanno dedicato 90mila euro e un anno di organizzazione solo al trasporto di tutto il materiale: 70 telai, 175 paia di ruote, 650 tra gel e barrette, 150 paia di calze, 200 test rapidi per il Covid... e quasi tutti i favoriti per la prova degli uomini élite.

Eli Iserbyt ha vinto in lungo e in largo per tutta la stagione, senza quasi mai rifiatare. Toon Aerts lo insidia in casa, in una nazionale che però appare più unita del solito. Lo testimonia Michael Vanthourenhout, uno che non si fa problemi a rinunciare alle proprie ambizioni per favorire il capitano e amico Iserbyt. Il problema è che nella loro quiete aleggia un fantasma, e ha un'altra maglia. Tom Pidcock sarà il più talentuoso e il più titolato tra i corridori al via: il suo 2021 è stato un anno magico, e in questo mondiale che fa da ponte tra due stagioni vuole prolungare l'incanto.

Ma se la prova maschile sarà l'ultima, quella femminile sarà probabilmente la più attesa, una sfida agli altissimi livelli a cui gli ultimi anni ci hanno felicemente abituato. Un mondiale che avrebbe potuto essere una replica del campionato nazionale dei Paesi Bassi, se non fosse stato per i malanni che hanno bloccato in Europa Denise Betsema e Annemarie Worst. Ma anche così, al di là delle legittime speranze dell'ungherese Blanka Kata Vas e delle due nordamericane Meghalie Rochette e Clara Honsinger, ci si può attendere tanto arancione sul podio e una sfida stellare. In un angolo Lucinda Brand, iridata uscente e dominatrice assoluta della stagione, e nell'altro Marianne Vos, l'essere umano più straordinario di ogni tempo in bicicletta.
Ma un mondiale è molto di più delle due prove élite. E mentre sul palco di Fayetteville si susseguono i bambini, ci sono ragazzi e ragazze di una decina di anni più grandi che qualche chilometro più in là realizzeranno un sogno. Per loro contano poco i numeri ridotti, i campioni assenti, la distanza da casa. Conta essere qui, sul palcoscenico più grande del mondo. Per i risultati ci sarà tempo, il mondiale che comincia per juniores e under 23 sarà soprattutto meraviglia, e sarà un'avventura da raccontare.


Viva van der Poel

Oggi van der Poel compie 27 anni (sembra ieri che...): viva van der Poel, auguri van der Poel. 27 anni e sulle spalle il macigno delle aspettative, il peso di essere già una leggenda di questo sport a prescindere dai risultati. Van der Poel cresciuto spalmando gare di bicicletta sul pane a colazione, pucciando nel latte biscotti al ciclocross; con il compito di spostare l'interesse di chi segue il ciclismo su strada e di chi si avvicina al fuoristrada.
Il compito meraviglioso di rallegrarci nei fine settimana, noi che, magari dopo una bella pedalata al sabato mattina, ci piazziamo davanti alla televisione per vedere van der Poel, sì, decisamente: viva van der Poel.
Ci sono ragazzini oggi che lo imitano, usano il suo stesso modello di occhiali, comprano la sua maglietta come fosse quella di un idolo calcistico e, quando corrono, nella testa si immaginano mentre ripetono i suoi gesti in gara, le sue scorribande, le sue fughe a volte scriteriate, le sue acrobazie, le sue smorfie, i suoi scatti vincenti che si concludono con esultanze da ricordare. Ci sono immagini di bambini che danno fuori di matto per un cinque battuto al volo, un autografo, una borraccia. Questo è van der Poel. Spauracchio per gli avversari in gara, che fa parlare quando in corsa non c'è, che piace perché a volte la sua dimensione eroica si rivela così teneramente umana. È persino battibile, fallibile.
Ci sono suiveur che sanno quanto fascino in più ci sia in una corsa quando c'è van der Poel. Quanta importanza ha van der Poel per il ciclismo e quanto sia importante il ciclismo per van der Poel.
Oggi potremmo parlare di quanto cambiare da una disciplina all'altra possa avergli fatto male alla schiena, quegli "attacchi che ha inflitto al suo corpo", come li ha definiti il suo fisioterapista. Ma no, oggi sarebbe la sede sbagliata. Potremmo parlare del suo problema al ginocchio, l'operazione, il mancato duello con van Aert, ma non è la giornata giusta.
Certo, però, è che la primavera (ciclistica) si avvicina, quelle delle classiche, e, abituati così bene, non sarebbe una primavera ciclistica senza van der Poel.
Incrociamo le dita se non possiamo fare altro, e oggi diciamo viva van der Poel, auguri van der Poel - di pronta guarigione, anche, ovviamente: riposati e fai il bravo che ti aspettiamo, il ciclismo ti aspetta.


La gratitudine di Bernal

«E rimango qui». Lo ha scritto Egan Bernal, nel giorno del rinnovo contrattuale, per cinque anni, con Ineos Grenadiers. E qualcuno potrebbe dire che il colombiano, in fondo, è un ciclista particolare.

I ciclisti lo dicono sempre: «È difficile da spiegare. Un ciclista vive il ciclismo, non è detto che sappia spiegarlo». Lui, invece, ha questa facilità di gesti e di parole, quando parla e quando scrive. Sembra molto timido, ma chi lo conosce dice che in realtà è uno a cui piace divertirsi, svagarsi, anche staccare la spina. Uno che sa restare in mezzo alla gente e per restarci si dimentica di tutta l’importanza che ha. Anche di quel Tour de France e di quel Giro d’Italia. Si è detto tanto di lui e di Marco Pantani, noi vorremmo dire che forse in Egan Bernal c’è anche qualcosa di romagnolo, almeno nell’indole, anche se non sappiamo quanto conosca la Romagna. Di una piadina e un vino rosso. Qualcosa del Piemonte e della corsa in libertà su una collina nel Canavese che Bernal ben conosce.

«E rimango qui» è in realtà la fine del suo pensiero, la conseguenza. Una sorta di pratica della gratitudine. Egan Bernal si ricorda bene il ragazzo che era quando è arrivato in Europa, prima in Androni e poi in Ineos e sebbene per il campione potrebbe quasi essere comodo nascondere fragilità, errori e colpe, Bernal non lo fa. Li ammette, li racconta e facendolo racconta un legame. Lavorativo, ma pur sempre un legame.

E forse questa è anche l’altra faccia di quel ciclismo a ritmi sempre più elevati. La faccia buona, fra tanti aspetti più spinosi, fra cui la pressione, lo stress. Qualcosa che può preservare da questi aspetti. La necessità di un ambiente all’occorrenza duro, severo, rigido, ma un ambiente stabile, conosciuto con la costanza del tempo. Bernal parla di persone che sono diventate come padri ed è questo che noi intendiamo, coscienti di quanto possa essere complesso parlare di famiglia in ambito lavorativo.
Così parliamo di conoscenza, di conoscenza prolungata, che accanto all’impegno consegni all’atleta una serenità nuova perché qualunque errore sarà rimproverato con una lente diversa. Non quella del giudizio di chi non conosci, ma della critica fatta a chi conosci perché sai quello che può dare. Questo, tutto questo, è il legame di cui parla Bernal. La sua gratitudine.