"Cykel": a Copenaghen

Anche in questo momento, a Copenaghen, qualcuno, passando dalla Piazza del Comune, si sarà fermato davanti allo schermo che conta i giorni mancanti al primo luglio, il giorno della partenza del Tour de France. Per loro è "vente", l'attesa. Davanti a quello schermo si ferma la bicicletta e si fa passare qualche minuto: solo così manca meno, solo così quel giorno è più vicino. Basta "cykel", la bicicletta in danese, e qualche pedalata per andare a vedere. Per almeno cento giorni, perché il tempo lì ha iniziato a scorrere ai meno cento giorni dal Tour.
Le biciclette corrono ai lati delle strade e sono l'elemento in movimento della città. Sono il mezzo in grado di scuotere gli abitanti dalla forte timidezza che li connota, perché aiutarsi, fra le strade, in bicicletta, è naturale. «Spesso le biciclette usate per andare al lavoro o a scuola sono le più vecchie, segnate dal tempo e dall'uso- ci raccontano i ragazzi di Copenaghen Bike Community che stanno lavorando all'allestimento degli eventi collaterali al Tour- ciascuno ha più di una bicicletta e la più bella resta a casa per le occasioni importanti». Non c'è nulla di male nell'avere una bici vecchia, non c'è nulla di male nell'usare una bicicletta rovinata.
La bicicletta, per un danese, è il mezzo che unisce due punti di un tragitto, la sola sua chiave di lettura è il viaggio. Il Tour de France in città per gli abitanti di Copenaghen è, in primis, un'opportunità di avvicinamento fra il loro mondo, quello che alla bicicletta lega la parola "necessità", e quello dello sport in bicicletta: «Per un ragazzo che va in bicicletta a scuola o un operaio che usa la bicicletta per andare in fabbrica, chi fa il mestiere del ciclista sembra molto distante, come in un altro universo. Quelle biciclette sembrano, e in parte sono, altre biciclette. In realtà scorrono sulle stesse strade, per questo, da oltre un anno, per l'arrivo del Tour si stanno rifacendo le strade». In questo modo si accomunano due realtà diverse, cercando di suscitare negli uni la curiosità per il mondo degli altri: «Nella concezione danese, la bicicletta è una, unica, il resto sono differenziazioni fatte dalle persone e dagli usi. Ospitare il Tour de France significa avere altre biciclette in città e altri usi delle biciclette». Forse significa anche avere ancora più voglia di fermarsi a scattare una fotografia.
Già, perché a Copenaghen accade anche questo: «Se il mezzo bicicletta ti incuriosisce, ad ogni pedalata ti fermi decine di volte a fissare una nuova bicicletta: cargo bike, bici per famiglie, biciclette colorate che vanno a formare disegni o vetrine». E, nel centro di Copenaghen, le vetrine a tema bici sono davvero tante, compreso un negozio dedicato al Tour de France. Qualcosa che richiama l’idea di una festa. “Festivelo”, ad esempio, che proprio nei giorni del Tour de France racconterà le diverse forme del ciclismo e lo farà cercando di divertire, di mostrare cosa può essere una bicicletta.
Qui, a Copenaghen, è la costante su ogni sfondo, ad ogni variazione di cielo e di luce, la scia in movimento che porta altrove.


Quando Dumoulin si ritira

La prima reazione al ritiro a fine stagione di Tom Dumoulin, per i suoi tifosi, assomiglia probabilmente a quella di quel ragazzo alle Scale di Primolano, in quel caso parlando del ritiro al Giro d'Italia qualche giorno prima. Un "no" prolungato, perché il ritiro toglie, sottrae, è una mancanza. Delle vittorie o semplicemente della presenza di un ciclista: anche in difficoltà, anche in coda al gruppo. È la mancanza di un modo di fare, di correre, talvolta di un'attesa. È, invece, la presenza più forte di un ricordo che torna, cercando il paragone con chiunque, perché l'istinto, quasi sentendosi impoveriti, è il confronto per cercare qualcuno di simile, qualcuno in cui riconoscersi: allora chi farà qualcosa di simile a Dumoulin nel 2017 ad Oropa?
Nel caso di Dumoulin, qualcuno ci ha spiegato che riconoscersi in lui è stato anche riconoscersi in un momento di difficoltà, nella semplicità del tornare a bordo strada a vedere una gara, a vedere il ciclismo, prima di tornare in sella e dopo quella pesantezza tornare a sentirsi leggero come deve essere un ciclista, perché una bicicletta che va parla di leggerezza, sempre, in salita ancor di più. Riconoscersi in Dumoulin è stato ed è quindi riconoscersi in un ritorno o almeno nella possibilità di tornare, di fermarsi e ricominciare.
Così capiamo bene chi quello stato di frustrazione del ragazzo delle Scale di Primolano lo ha vissuto in maniera ancor più forte per l'annuncio del ritiro a fine stagione. Perché questa volta Dumoulin ha fatto capire chiaramente che un ritorno, almeno come ciclista, non ci sarà. "Magari ci ripensa" ci hanno detto. Qualcuno ha anche aggiunto: "Speriamo che ci ripensi". Ed è importante perché quel verbo restituisce il valore di un singolo in un gruppo di ciclisti che potrebbe essere visto come "il gruppo" in maniera generale, con quell'articolo determinativo che lo connota, ed invece in quel gruppo ciascuno cerca qualcuno. Come quando il gruppo passa su una strada e si guarda l'insieme ma si cerca il dettaglio.
È importante come è importante sottolineare le altre parole, quelle di chi, nei ritiri, sottolinea il bisogno, la necessità di ritirarsi talvolta. I tifosi lo fanno, magari non subito, in preda al dispiacere, ma lo fanno. Anche quel ragazzo a Primolano lo ha fatto, quando ha detto: "Non poteva fare altrimenti, altrimenti avrebbe continuato". Non da poco, perché è come dire: "avrei voluto tifarlo in corsa, ma se per lui è meglio così...". C'è di più: talvolta il ritiro può non essere l'unica possibilità, solo una delle tante, ma quella scelta, quella che fa star meglio in quel momento. L'uomo o il ciclista.
Anche se non fosse l'unica è giusto accettarla, condividerla. Dumoulin ha detto che la strada lenta del recupero, già scelta altre volte, non è quella che si sente di scegliere questa volta. Che la stanchezza, che pur fa parte del mestiere del ciclista, come la fatica del resto, questa volta è troppa ed è giusto dire basta. Giusto per se stesso, prima di tutto.
In quel gruppo, quindi, anche chi lo aspetta si dovrà abituare alla sua assenza. Un'abitudine che potrà essere leggera come quella bicicletta nei giorni migliori, se si farà proprio il motivo della scelta. E chi aspetta tanto per vedere passare un uomo in bicicletta è capace di farlo molto bene. Perché chi aspetta accetta il rischio di un'attesa più lunga, dell'afa, della pioggia o anche di un ritiro che comunicato via radio ti avvisa che quel ciclista, oggi, non passerà.
C'è un forte valore nel tornare, un esempio per tanti, che hanno bisogno di fermarsi e di sapere che ripartire è possibile. Ma c'è un valore altrettanto forte nel fermarsi e nel non fare ritorno, non in quella veste almeno. Il valore di chi ha scelto di salvaguardare se stesso, perché anche saper cambiare fa la differenza. Tanti tifosi potranno riconoscersi, e si sono riconosciuti, anche in questo: cambiare, quando la stanchezza o la sofferenza sono troppe, e continuare.

Sempre la stessa: intervista a Marta Cavalli

La sera della Freccia Vallone, dopo la sveglia alle cinque e mezza del mattino, la gara e la vittoria, a mezzanotte Marta Cavalli non riusciva ancora a prendere sonno. In quel momento, nel letto, si è detta diverse cose che forse avrebbe voluto dirsi da tempo senza mai trovare il tempo. Una soprattutto: «Sei fortunata, Marta».
C'è molto dietro quella frase e per questo da quella frase siamo partiti. Un giorno ne parleremo anche con Brodie Chapman, ad esempio. Perché anche di Brodie parla Marta. «Avete visto quanto ha lavorato per me? Per chi vince è più facile, le energie, quando vinci, ti tornano chissà da dove, lei ha solo faticato tutto il giorno. Dove ha trovato la forza per scavalcare quelle transenne e venire ad abbracciarmi alle interviste? Per essere così felice per me, perché Brodie era più contenta di quanto lo fossi io». Marta Cavalli che in squadra vuole essere semplicemente una ragazza fra le altre perché «abbiamo solo un ruolo diverso, io concretizzo e loro mi accompagnano a quel momento. Siamo trattate tutte allo stesso modo, perché a livello personale non c'è e non deve esserci differenza».
Così è capitana, così è leader. Qualcosa che le hanno riconosciuto le compagne, forse anche per merito di quel carattere timido che la porta a restare semplice e a evitare l'inganno più grande: scaricare le colpe sugli altri. «Io ho visto come hanno lavorato le mie compagne e sono certa che non si lavora così solo per una capitana, non si lavora così solo per lo stipendio. Si lavora così per le persone in cui credi».
Pensare che prima dell'Amstel si sentiva la gamba un poco imballata, solo pochi giorni prima al Fiandre era quasi rimasta male per non essere riuscita a fare la gara che aveva pensato. Quella sera al telefono col padre aveva detto: «Pensa a chi vincerà e si prenderà quel boccale da dieci litri, come si fa a bere così tanta birra?». E lui: «Se la vinci, qualcuno la berrà, non preoccuparti». Per chi crede nei segnali, un segnale. Come quella cuffia per il freddo indossata al contrario alla partenza e le parole al suo direttore sportivo: «La giro. Pensa, magari vinco solo una gara in carriera e pure con lo sponsor al contrario. Che figura!». Anche ironica perché, poi, la timidezza è anche ironia.
In squadra l'avevano capita a tal punto che, quando ai cinquanta chilometri dal traguardo, aveva detto di non stare bene, l'avevano subito tranquillizzata: «È un fatto mentale. Stai calma e fai il tuo». Poi l'istinto, quello di partire nel tratto di cui spesso aveva parlato con il direttore sportivo, come chi non ha nulla da perdere, perché «non c'è stata programmazione, solo sensazioni». E quella radio che, a un certo punto, grida: «Mi dicono "è il tuo momento" e io vado, so che tocca a me. Questa è la squadra». Ai trecento metri aveva capito che avrebbe vinto e quei metri sono stati "un appagamento totale, una goduria".
Qualcosa di simile a queste mattinate, quando, appena sveglia, cammina per le camere con un piacere che non ha mai provato. Poi apre i social e vede tutti i messaggi che le persone le scrivono, la loro vicinanza. «C'è una distinzione da fare: c'è chi ti scrive perché ti ha visto in televisione e chi, invece, perché ti ha conosciuto e si ricorda ancora di te, ti ha sempre scritto anche se non stavi vincendo. Il secondo è un piacere particolare, una parte del senso del fare questa vita».
La vita del ciclista: «Ho imparato a non dire che è un lavoro difficile perché so che non ci sono lavori facili, ma, di certo, è un lavoro che chiede tanto. Ho il telefono sempre scarico perché sto rispondendo a tutti coloro che mi cercano. Non mi interessa essere una vincente se questo mi cambia e non mi fa più rispondere a chi mi cerca, se mi allontana dalle persone che mi hanno cresciuto. Voglio restare quella che sono». Quella che avrà già rivisto quindici volte gli ultimi metri della Freccia Vallone, rimanendo stupita da quello che ha fatto, dalla lucidità, da quel sorpasso ai danni di Annemiek van Vleuten. L'olandese l'ha cercata dopo l'arrivo: «Quando ti ho visto distante qualche metro, ho pensato che avrei potuto batterti, non ci sono riuscita. Sei stata brava». È stata brava davvero e questa volta Marta se lo dice anche da sola: «Non era facile sapere l’attimo in cui partire. La fatica non ti fa capire più nulla, tutti i rumori che hai attorno quasi ti impediscono di ragionare. In quell’istante non ho sentito più nulla. Ero sola, col mio momento».
Le è successo anche di leggere un post che suo padre le ha dedicato: «Papà ha tanti sentimenti, è un uomo molto sensibile, ma li trattiene, non li mostra davanti a tutti. Il fatto che abbia scelto di farlo ha un valore particolare per me». Dopo mesi fuori casa, poi, quelle parole hanno significato ancora di più. E Marta pensa a quando tornerà a casa, a quando lascerà la valigia da un lato e spegnerà il telefono: «In quei locali ci siamo solo noi quattro. Noi che prepariamo il pranzo o la cena, che stiamo sul divano o che usciamo a mangiare una pizza e siamo gli stessi di sempre, qualunque cosa accada».


Istanbul aveva un appuntamento

L'autobus era appena entrato a Istanbul, sabato sera, in mezzo al traffico. Quando Zanoncello, Colnaghi e Tarozzi, guardandosi attorno, consideravano: «Ci pensate? Domani tutte queste persone saranno ferme per noi». Un ciclista ci pensa quando arriva in una città nuova, pensa alle persone che ci sono, a chi ci sarà a guardarlo, a cosa penserà. Ieri ancor di più, perché ieri è stato l'ultimo giorno. Lo sapevamo già, ma ce lo ha ricordato all'alba, col vento che strapazzava gli alberi al parcheggio, l'autista che ci ha accompagnato per tutta la settimana nelle varie città: «It's the last day». Poi ci ha messo la mano sulla spalla: «Call me». E siamo sicuri che tornati in Italia, in Spagna, o chissà dove qualcuno gli telefonerà.
Istanbul ieri aveva un appuntamento a cui teneva particolarmente perché il gruppo, che da poco sta volando sopra qualche altra città, si ritroverà a breve, ma ci vorrà tempo perché ritrovi Istanbul e perché Istanbul lo ritrovi, mentre i pescatori si accalcano lungo il viale e i cani inseguono un furgoncino nel centro. Mentre là, in fondo, l'orizzonte è foschia, come quando deve piovere.

E piove, piove dopo dieci chilometri, poche gocce, pochissime, ma quell'asfalto, quello liscio turco, quello che vi abbiamo descritto più volte, fa cadere, sbandare: i corridori, le ammiraglie, persino noi, a piedi, quando scendiamo dalla vettura. Cadute, scivolate, poi il gruppo che si ferma in un viale e parla con la giuria. Vedi facce pensierose, corridori che vanno avanti e indietro, poi la decisione e la radio in ammiraglia che la comunica: «Il Giro di Turchia finisce qui». C'è qualcosa che manca, quell'appuntamento che aveva Istanbul che tra i tanti milioni di abitanti aspettava quelle biciclette. Anche il medico scende dalla macchina, si affianca ai corridori e chiede: «Perché?». Ci fa pensare la domanda, come fa pensare la risposta dei ciclisti che spiegano con attenzione, che mostrano come la bicicletta scivoli. Non sarebbero tenuti a farlo, ma lo fanno: «Non si può, vedi? Si scivola anche sui viali, non solo in curva». Quel medico ascolta, guarda, poi dice «Sì» ed è convinto. Ha capito.

Quell'appuntamento non sarà stato come tutti l'avevano immaginato, ma c'è stato lo stesso. Perché i corridori si sono presi il tempo di farsi medicare, di coprirsi e poi sono ripartiti. Sepulveda è andato da quello stesso medico a farsi curare prima di salire in bicicletta: si sono seduti su un marciapiede e in qualche minuto ha potuto rialzarsi. Ha chiesto subito della bicicletta ed è ripartito. Ci dicono: «Si fa un giro e se smette di piovere se ne fa anche un altro. La gara è neutralizzata, ma per la gente che è qui è giusto così».
Viene a far freddo, i corridori chiedono guanti, anche l'acqua del mare sembra minacciosa, grigia, con quei pescatori sempre lì. Si pedala fino al primo passaggio dal traguardo. Potresti pensare che le persone tornino nelle loro case, quasi deluse, almeno che non aspettino sui ponti dove quell'aria è ancora più fredda. Invece le vedi lì. Poi di corsa al traguardo, al palco, dove Bevin vince il Giro di Turchia, dove i coriandoli azzurri tolgono quel grigiore che fa sembrare autunno.

Istanbul è rimasta dov'era perché aveva un appuntamento e con gli appuntamenti si fa così. Istanbul è rimasta dov'era e dov'è oggi mentre il gruppo è ancora insieme e lei sempre più lontana con un pizzico di amaro in bocca, come fa intuire il telegiornale della sera, ma anche con riconoscenza perché agli appuntamenti si va sempre almeno in due e, se Istanbul non poteva che esserci, il gruppo avrebbe potuto scegliere diversamente. Invece, in un modo o nell'altro, c'è stato. «It was the last day», era l'ultimo giorno, è questo il punto.

Quando un ciclista sta bene...

Alcuni angoli di Bodrum la fanno sembrare una città in salita. Il mare, da questi vicoli, non lo vedi sempre, ma lo intuisci, talvolta lo senti. In fondo, c'è il castello. Una sorta di punto di riferimento per chi deve dare indicazioni ai ciclisti, tanto che queste strade dai nomi contorti si suddividono in "verso il castello", "in senso opposto al castello". O sali, o scendi. Non deve essere particolarmente comodo pedalare qui, perché il dislivello, a lungo andare, si accusa. Eppure tutte queste biciclette sono motivo di attrazione. Chi è in spiaggia e ha tempo sale verso gli alberghi delle squadre: prima guarda dall'entrata, quasi intimidito, poi, come si accorge di potersi avvicinare, fa cenno anche ai figli di venire a vedere. E guardano ogni cosa, qualcuno anche gli stracci sporchi d'olio dei meccanici. È un ragazzino che, poco dopo, ci dice che da grande vorrebbe fare anche lui il meccanico per aiutare il padre. Qualche parola, poi si cerca di capire che giro fanno i corridori in allenamento e si va lungo la strada. Ancora in accappatoio magari, ma la temperatura lo permette. Si sta bene o si cerca di stare il meglio possibile anche sciacquandosi via la sabbia prendendo in prestito la canna dell'acqua con cui si lavano le biciclette e le ammiraglie. Il profumo di sapone ti indirizza, non puoi sbagliare.
Stare bene, è proprio questo il concetto che torna ascoltando Luca Amoriello, direttore sportivo Bardiani, dare indicazioni ai suoi ragazzi: «Se ti fa stare bene, per me non ci sono problemi». Si parla di misure della bicicletta, di selle e di tutti quei dettagli per cui i ciclisti hanno un'attenzione particolare. Stare bene che è guardare cosa mettono nel piatto i ragazzi a tavola e poi consigliare: «In gare di questo tipo, evita se puoi». Stare bene che è anche andare in un locale frigo la mattina dopo le otto e recuperare i sacchi di ghiaccio per refrigerare le borracce. E poi darsi la possibilità di staccare mentalmente, dopo pranzo su un muretto, al sole.
Quando si parla comunque di biciclette, ma si riesce a ridere anche della fatica, di quel giorno in cui proprio “non la si muoveva”, che nel gergo ciclistico vuol dire non riuscire ad andare avanti, fare troppa fatica, o delle prime gare della stagione. «Sapete che Pogačar al Carpegna si è fermato a fare pipì in un tratto in salita? Come ha incontrato Richeze gli ha detto: “Ma quanta fatica fanno quelli dietro?”Non vi dico lo sconcerto di Max». È Sacha Modolo a raccontarlo a tutta la squadra e gli altri giù a ridere. In realtà, il furto di biciclette subito qualche giorno fa ha lasciato il segno in casa Bardiani e c'è una particolare attenzione a tutto, una preoccupazione particolare appena non si trova qualcosa.
Si ride e si torna seri. Qualche volta si pensa a tutti i casi in cui la si è scampata in una caduta. La Spagna è lontana, ma la vicenda di Milan Vader tocca tutti anche qui. Quando fra i tavoli cala il silenzio è perché se ne sta parlando. Allora capita di fissare una cicatrice che si ha sula gamba, sul braccio, magari sul viso e pensare che sarebbe bastata un poco di sfortuna e chissà. Perché in questi casi la sfortuna esiste. Lo ammetterebbe anche il meccanico della Caja Rural che stamattina ha detto a uno dei suoi ragazzi: «Non dirmi che sei stato sfortunato. Sei stato poco attento». Parlando di un problema meccanico.
Non c'è malinconia qui ma c'è un'ora in cui, ogni giorno, tutti i telefoni sono connessi. Verso sera quando si telefona a casa per vedere come vanno le cose. «L'altro giorno mia figlia mi ha chiesto: "Babbo, quando torni?". Siamo gente sempre in viaggio, è il bello e il brutto di questo lavoro». Non facciamo in tempo a riflettere su queste parole di "Banzai", meccanico della Bardiani, quando da un altro telefono arriva la voce: «Domani partiamo presto». Sì, domani mattina presto si parte.


L'ultima volta sul Cauberg

Si chiuderà un'altra era. Di nuovo. Il tempo scorre via veloce. Non fai nemmeno in tempo ad apprezzare quello che stai facendo o a goderti il piatto che hai davanti che subito devi alzarti dal tavolo perché in arrivo ci sono nuovi clienti. C'è da cercare una nuova dose di adrenalina. Una nuova corsa. Il tempo divora e sputa. Ti passa veloce davanti, non ha mai pietà. Pensate che i corridori raccontano come spesso non riescano a godersi a fondo una vittoria perché finita la corsa pensano già subito a quella successiva.
Domani si chiude un'epoca. Quella di Gilbert all'Amstel: non una cosa di poco conto. Uno dei corridori più amati del gruppo. Classe sopraffina, un'esplosività e un modo di correre che ne fa una sorta di padre ciclistico di Mathieu van der Poel. Quell'affinità con diverse corse, tanto da aver accarezzato il sogno di chiudere - passateci il termine - il Grand Slam ciclistico. Ha vinto Liegi, Fiandre, Roubaix e Lombardia. Ci ha messo vicino un Mondiale e tanto altro. Solo la Sanremo lo ha respinto. Ha vinto corse ovunque con quel suo scatto potente a cui spesso nessuno riusciva a stare dietro. Con intuizione e sagacia. Poliedrico, un rammarico c'è, molto più di una Sanremo non vinta, può capitare: cosa sarebbe stata avere un Gilbert, oggi, inteso come in questi ultimi due anni, competitivo di fronte a questa generazione?
Domani, nelle terre del Limburgo, passando per quel Cauberg che non solo lo ha incoronato come tra i più vincenti della "corsa della birra", ma che nel 2012 lo lanciò verso la maglia iridata, Gilbert passerà per l'ultima volta, perché questa è l'ultima sua stagione, non ci saranno ripensamenti. «Anche se - ha raccontato in queste ore - non ho ancora fatto programmi per quello che sarà il dopo».
Sul Cauberg stanno organizzando un grande tributo a Pippo il Vallone, Pippo il Belga, Pippo che quando vinse il Fiandre mise d'accordo pure i fiamminghi. Striscioni e gigantografie con scritto "Grazie" con le immagini delle sue vittorie, compresa quella del Mondiale di ormai dieci anni fa, quando il Cauberg fu il trampolino verso il successo. «A un certo punto della mia carriera ho iniziato a rinforzarmi per essere competitivo sulle pietre, persi qualcosa per la Liegi, ma notai come il mio fisico trovò un feeling perfetto con questa corsa che richiede anche tanta astuzia e capacità di correre e limare». Ecco spiegato, almeno in parte, il perché dell'affinità con queste strade.
Non fa progetti per il futuro, al momento, né per domani, cosciente di come il ciclismo viaggi velocissimo e lui, per forza di cose, è rimasto attardato a causa dei segni dell'età. Sa come sulle spalle di altri ci siano i favori della corsa, esattamente come una volta toccava a lui, ma noi ugualmente la nostra presa romantica la facciamo lo stesso e sogniamo di vederlo ancora una volta protagonista, nonostante i suoi 39 anni. «Quest'anno è stata l'ultima volta in diverse corse, ma sono sicuro che qui in Olanda sarà una giornata particolare».
Soprattutto per lui, per l'ultima volta di Philippe Gilbert sulle strade d'Olanda, per l'ultima volta sul Cauberg dove, comunque vada, sarà una grande festa.


Colori, forme e sapori dalla Turchia

Forse il modo migliore per raccontare questo viaggio in Turchia è partendo da chi, proprio in Turchia, si è ritrovato. All'aeroporto di Bodrum, dopo le dieci di sera, davanti ai bagagli che scorrono e agli occhi che cercano, per poi scoprire che qualcuno manca sempre, che qualcuno è sempre in ritardo. C'è solo da sperare non sia andato perso. Quando un meccanico giapponese passa accanto a un direttore sportivo toscano e i due si salutano con naturalezza non rinunciando a nulla di ciò che è proprio: qualcosa di orientale e quella cadenza toscana con le lettere scandite in maniera inconfondibile e la battuta sempre pronta. Sono loro e potrebbe essere chiunque altro perché quando il ciclismo viaggia lo fa così. E stamattina è stato proprio qualcun altro ad avvicinarsi a quel meccanico giapponese per chiedere qualcosa in prestito: «Domani te la restituisco». La mano a dire non preoccuparti, e via.
Con i cartelli fuori dall'aeroporto con scritto "Presidential Tour of Turkey" e i ragazzi e le ragazze che li tengono ben in alto, a guidare le squadre verso il pulmino che le accompagnerà in hotel. Il nostro, per esempio, quello che ha accompagnato noi e tutti i ragazzi Bardiani, aveva un autista portoghese.
«Conosci l'italiano?»
«No, ma capisco qualche parola perché sono portoghese e certe cose sono uguali».
Detto in un inglese stentato, ma sufficiente per rendere l'idea. Per rendere la curiosità, perché non è il primo anno che le squadre sono qui ma è quasi come se lo fosse. Chi ti porta la valigia in camera rallenta nei corridoi e ne approfitta per chiederti di dove sei, di dov'è la rivista per cui lavori. Forse non capisce la città, ma la regione sì. Così ripete: «Piemonte? Piemonte sì». E c'è una certa fierezza, come nella ragazza, traduttrice, che ci presenta un collega e: "Sapete, lui parla molto bene italiano, lavora per un'altra squadra. È un mio amico".
Qui si ritrova chi non si ritrova da tempo, chi è stato lontano. Basti pensare che in Bardiani, squadra con cui seguiremo la gara, noi veniamo da Malpensa, qualcuno è arrivato dall'aeroporto di Bruxelles e qualcuno da Venezia. Ci si ritrova con il mare che si vede dalla finestra e un tempo quasi estivo. Con un cibo più piccante, quelle case bianche accese, con il the caldo in bicchieri di vetro dalle forme particolari e quei divani alti, bassi, lunghi, corti, sagomati, dai colori sgargianti in tutto l'albergo, ma restano le costanti del ciclismo.
I rumori che sentiamo in camera: quelli del mattino, del pomeriggio e poi della sera. Sono diversi e chi vive le corse potrebbe capire l'ora solo ascoltandoli. Al mattino sono gli attrezzi dei meccanici a farla da padrone, quelle borse che si aprono e “costruiscono biciclette”, verso le due le voci si mischiano al suono dei clacson e al rumore dei camion che caricano e scaricano materiale, verso le sei, mentre noi scriviamo, le voci si calmano e le mani si muovono più velocemente, a dare indicazioni per il giorno seguente.
Del materiale sta ancora arrivando, qualcuno va a fare la spesa nei negozi qui vicino e compra ciò che manca o ciò che teme non ci sia in giusta quantità. L'olio, ad esempio, che, se ci pensate, è di uso frequente, non certo raro, ma lontano ti preoccupi anche di questo. Qualcuno chiede come sono le strade in Turchia: «L'asfalto è duro, lo capisci subito». Perché, poi, il bello dei ciclisti è anche questo: la loro attenzione posata su ciò a cui non faresti mai caso e quei termini gergali ripresi dal lessico di tutti i giorni per descrivere una catena , un manubrio o una sella. La loro familiarità.
E quella non te la scordi nemmeno se viaggi tutto il giorno e in aeroporto vorresti ritrovare subito la tua valigia e andare in hotel a riposare. Quella resta lì, come il meccanico giapponese e il direttore sportivo toscano e ti fa capire perché hai scelto il ciclismo.

L'altra Ronde nella più grande festa fiamminga

L'altra Ronde è quella di quattro ragazzi che si sono fatti 1.700 km in auto dall'Abruzzo. Li incontriamo ieri mattina nel bar del Museo delle Fiandre a Oudenaarde, stanno brindando, sono arrivati da poco e parlano del viaggio («Siamo partiti con il sole e arrivati con la neve, e sì che noi di neve in Abruzzo ne abbiamo quanta ne vogliamo») e della corsa che faranno il giorno dopo, ovvero oggi - per la verità a quest'ora saranno già partiti - la Ronde van Vlaanderen Cyclo. La competizione dedicata agli amatori.

Uno di loro ci racconta di averla già disputata nove anni fa, emozione indescrivibile ci dice, e afferma di essere così malato di ciclismo (ce lo dice in quanto cosciente di essere in buona compagnia) da aver organizzato il viaggio di nozze in Spagna in modo da farlo combaciare con il Mondiale di ciclismo a Ponferrada. Era il 2013.

Mentre una birra gli scioglie decisamente la lingua, ci racconta anche di essere tifoso sfegatato di Sagan e di non amare particolarmente - alleggeriamo così il racconto - Wout van Aert.
L'altra Ronde è quella di due tifosi danesi che amano l'Italia e girano con una borsa della spesa del Famila «We love Italy!» ci urlano. L'altra Ronde sono la quantità a dismisura di gente dalla Spagna - rigorosamente con bici Kuota - e dall'Italia. A volte quando li sentiamo parlare li confondiamo scambiando spagnoli per veneti e viceversa. Ci sono francesi in camper e tedeschi in golf. L'altra Ronde è un signore irlandese, Ash, che ci dà consigli su dove parcheggiare: «Vengo qui da nove anni e ormai questo posto lo conosco come fosse casa mia».

L'altra Ronde è un gruppo di ragazzi che arriva da Trento, uno di loro è orgogliosissimo della sua maglia Mapei «E venendo qui, l'abbiamo riportata a casa!» L'altra Ronde è un signore tedesco che ci chiede indicazioni su dove trovare il punto delle iscrizioni e dopo mezz'ora lo ritroviamo ancora a girare perché si è perso.
L'altra Ronde è quella di due coppie olandesi, decisamente in là con gli anni che ci raccontano fieri di aver scelto il percorso più lungo: partiranno all'alba da Anversa e percorreranno 257 km. L'altra Ronde è quella di un altro ragazzo, del Lago d'Iseo, che è arrivato qui con pullman organizzato, ma oggi sarà l'unico della sua compagnia al via della traccia più lunga: «Infatti tra un po' prendo, vado su da solo a dormire ad Anversa e gli altri li rincontrerò di nuovo qui ad Oudenaarde».

L'altra Ronde sono due che discutono su quanto l'organizzazione dell'evento può aver tirato su attraverso la quota delle iscrizioni, oppure gli australiani che stamattina han fatto razzia di banane a colazione in hotel. Sarà una giornata lunga, come lungo è stato il viaggio dall'altra parte del mondo.
L'altra Ronde è ognuno dei 16.000 iscritti alla Cyclo che, nonostante la neve caduta, il ghiaccio formato nella notte che renderà ancora più infame la forma da testa ossuta delle pietre dei muri fiamminghi, non vede l'ora di salire in bicicletta. Sanno che, comunque andrà, quello che hanno fatto non lo dimenticheranno mai. Sarà una meravigliosa fatica, sarà sentirsi parte anche loro di tutto questo.

L'altra Ronde è quella che si mescola alla Ronde dei professionisti. Di nuovo, ognuno dei 16.000 in gara oggi, domani sarà su queste strade ad assistere allo spettacolo che daranno i corridori. Dopo aver rappresentato loro lo spirito delle corse dei muri e aver acceso questi giorni di vigilia della più grande festa fiamminga.


Fiandre Bianche

Non bastavano le pietre, i muri, la competizione, il chilometraggio. Non bastava l'attesa: terribile compagna. Non bastava l'idea di una corsa dura, tremenda, altrimenti detta sporca, per fiamminghi. Non bastava il cielo nero o il fatto di correre al nord.

Stamattina i muri delle Fiandre si sono presentati imbiancati. Abbiamo il massimo rispetto per i corridori e quindi ci fa piacere che sia solo l'antivigilia e che domenica, in teoria, ma qui siamo in Belgio e con il meteo non si scherza, dovrebbe fare "solo" freddo. Allo stesso tempo il binomio Ronde-neve ha qualcosa di incredibilmente magico, poetico, epico. Qualcosa che solo il ciclismo ci sa dare.

A Oudenaarde, durante il giorno, le facce della gente erano arrossate dalle forti raffiche di vento. Dal cielo veniva giù ormai appena qualche fiocco. Tutto si muoveva fuori tempo, atmosfera gotica, spettrale, da nord Europa. Si stava bene solo con una birra in mano dentro a un locale. Fuori da quei bar, però, si sono visti migliaia di ciclisti che a turno andavano a ritirare il pacco gara per la corsa amatoriale che si terrà domani. Mentre nel frattempo sui muri della campagna intorno, qualche professionista effettuava la ricognizione.
Si è montato il traguardo e il palco delle premiazioni, e a destra la Schelda pareva ferma, immobile, di ghiaccio. Mentre le colline fiamminghe, intorno, restavano imbiancate.

Su e giù per i muri con in testa Wout van Aert

Sarà come sarà. Sarà comunque una festa, anzi la Festa, ma ugualmente per molti belgi l'antivigilia della Ronde assume per alcuni momenti i tratti dello psicodramma.
Salivo - rigorosamente a piedi - l'Oude Kwaremont, immaginandomi il bordello che ci sarà domenica dietro la transenne e il fracasso che faranno sulle pietre i corridori, quando arriva la notizia: "Wout van Aert ammalato, forse non correrà domenica".
C'è un ragazzo che mi sta facendo compagnia lungo uno dei muri decisivi della corsa e resta senza parole quando glielo dico. Una volta montato in auto per percorrere quello che sarà esattamente il finale di gara dall'Oude Kwaremont fino a Oudenaarde - con un passaggio obbligato anche sul Taaienberg - la radio parla di van Aert.
Entro in un bar e sento dire (o meglio: capisco solamente) "Wout van Aert, Wout van Aert, Wout van Aert".
A quel punto chiedo delucidazioni: ma di cosa staranno mai parlando! Fossi io ad avere le allucinazioni e capendo da quei discorsi solo qualcosa tipo "Wout van Aert". E invece è proprio così: non si fa che discutere di van Aert e della sua possibile assenza.
Decido così di chiudere il giro e tornare a godermi le strade che faranno i corridori domenica, nonostante il freddo - e mentre scrivo in questo momento, mattina di venerdì 1 aprile, nevica e c'è un forte vento.
Qui il clima cambia repentinamente, e in dieci minuti c'è la possibilità di apprezzare a pieno tutte le sfumature: ghiaccio, freddo, cielo grigio e poi di nuovo blu quando un forte vento decide di spazzare vie le nuvole.
Su internet si susseguono le "ultime notizie" con i commenti di esperti, direttori sportivi che seminano il panico sulla corsa e sulla tattica, giornalisti che parlano del dramma di una possibile assenza di van Aert.
C'è anche chi spera possa essere solo una sorta di pretattica, magari giusto un leggero raffreddore, e oggi proprio perché nevica, Wout, te ne puoi stare al caldo a ricaricare e ci vediamo domenica perché ci aspetta qualcosa di magico, una sfida che aspettiamo da almeno un anno, come qui aspettano ogni anno questa corsa.
Inutile sottolineare come anche io, anche noi apparteniamo alla categoria degli speranzosi. O sognatori oppure ingenui, fate voi.