Dietro casa, il monte Učka: intervista a Josip Rumac
Josip Rumac, Androni Giocattoli-Sidermec, è tornato a casa in questi giorni, ad Opatija, in Croazia, vicino a Rijeka, per noi Fiume. Ormai erano più di due mesi che era lontano dalla sua città, tra ritiri, corse e allenamenti. «Stamattina, dopo l'allenamento, ho preso la macchina e ho guidato verso la casa di mia madre. Sono tornato a sera e mi sono stupito ancora una volta vedendo il monte Učka dietro casa mia. Per noi è una specie di protettore della città e, ogni volta che viene scalato al Giro di Croazia, essere lì davanti vuol dire molto». In realtà, Rumac ha un legame particolarmente stretto con la sua terra. «Giro il mondo e ti assicuro che non vorrei fare altro, ma ogni volta che torno qui e rivedo questi viali, lunghi, ampi, affacciati sul mare ed il riflesso del monte nell'acqua, mi dico che nessun posto è come questo».
Da ragazzo quelle acque le ha anche solcate perché, prima di essere ciclista, Rumac andava in barca a vela. Racconta che gli piaceva e che anche oggi farebbe volentieri un giro in barca, anche se la sua idea è sempre stata un'altra. «Io ho sempre voluto diventare un ciclista professionista, anche nel periodo in cui giocavo a pallavolo. Sembra strano anche a me perché la Croazia non è una nazione particolarmente legata al ciclismo. Da noi ci sono tanti amatori, pochi professionisti. Le bellezze naturali hanno permesso di sviluppare il cicloturismo che è un modo di pensare alla bici bellissimo ma diverso». Così Josip, all'uscita da scuola, prendeva la sua bicicletta, montava in sella, e andava, prima nel cortile e poi lungo il mare. Fino a quando è arrivato il tempo delle gare, la prima vittoria a nove anni, in mountain bike.
«Se c'è una costante nel mio carattere è proprio il fatto di provare sempre, ogni cosa. Sin da bambino ero così. Se decidevo di fare qualcosa, mi ci mettevo ed insistevo fino a che non ci riuscivo. Personalmente credo molto nel fatto che si impari più dagli errori che dai successi. I successi fanno piacere, ma gli errori insegnano. Così ogni volta in cui sbagli puoi ritentare e ritentare meglio. Alla fine, noi impariamo dai tentativi». La bicicletta è il mezzo ideale per imparare perché consente a Rumac di apprendere nella tranquillità. «Quando pedalo sono sereno e motivato, così ho modo di reagire alle difficoltà. Ognuno di noi trova motivazione in qualcosa di diverso, io la trovo nella possibilità di continuare a fare ciò che avrei sempre voluto fare. Mi dico che è sempre stato il mio sogno e che devo reagire. Da quando ho finito le scuole, il ciclismo è sempre stato il mio lavoro. Questo è il mio orgoglio». In Androni, poi, c'è qualcosa in più. «Ognuno di noi sa che le cose si fanno assieme, che si cresce o si cambia assieme. Per un atleta è molto importante non sentirsi solo nelle difficoltà, è un aspetto che può fare la differenza».
Sotto la voce “grinta”, nel vocabolario di Josip Rumac, ci sono due nomi: l’ex ciclocrossista francese Julien Absalon ed il “pistolero” Alberto Contador perché «non conta solo vincere, ma anche il modo in cui vinci e le loro vittorie si fanno ricordare». Lui vorrebbe farsi ricordare alla Strade Bianche e alla Milano-Sanremo. La corsa dei suoi sogni, però, resta il Giro d'Italia, la gara a cui ha sempre pensato quando pensava al ciclismo ed a cui ha partecipato per la prima volta lo scorso anno. Sotto la voce bellezza, invece, l'Italia, un paese che sta iniziando a conoscere. «L'Italia è incredibile. Puoi capitare ovunque, in una grande città o in un piccolo borgo dimenticato, e stai certo che troverai qualcosa di bello, qualcosa in grado di sorprenderti. A me è sempre successo così».
Foto: Luigi Sestili
L'isola deserta di Thomas De Gendt
Per Thomas De Gendt andare in fuga è la trasposizione sui pedali di un racconto ambientato su un'isola deserta. Quando gli chiesero qualche tempo fa se ci fosse un corridore da portarsi in fuga rispose senza tentennare: Jens Voigt, Jacky Durand ed Eddy Merckx. Tre, non uno. Il motivo presto detto: più si è, meglio si sta, soprattutto quando la fuga inizia e c'è del lavoro da sbrigare per creare una storia. Un desiderio che spesso si scontra con la verità dell'inizio di ogni tappa, perché in realtà: «L'unica cosa che puoi scegliere è la tappa dove andare in fuga. Né troppo dura perché favorisca gli uomini di classifica, né troppo morbida per velocisti» raccontava sulle pagine di yellojersey.co.uk. Non puoi scegliere davvero con chi, puoi solo farti un'idea. «Dal chilometro zero si vede già chi è motivato». Poi la tappa parte e si fuga ogni dubbio su fegato e gambe. «È la speranza è portare i più forti con te». Banalmente lapalissiano.
Evidente come in avvio gli serva sempre un aiuto da qualcuno, nonostante “Solo” sia il titolo della sua biografia e il solipsismo la sua dottrina, mentre preferisce arrivare da solo come raccontato nell'intervista che trovate sull'ultimo numero di Alvento. «In volata posso anche giocarmela, ma volete mettere l'ebrezza di un arrivo in solitaria al traguardo?». Il succo del discorso, ma oltre al succo c'è tanta polpa. Almeno inizialmente avere compagnia è vitale per darsi cambi regolari e non cuocersi faccia al vento per ore e ore e per dare quella propulsione iniziale che serve a far passare ogni cattivo pensiero al gruppo. Il margine si dilata e poi gli altri dietro se vogliono si mettono giù pancia a terra a inseguire altrimenti si vola sino al traguardo. Cambi regolari inizialmente: un po' come dopo essere sbarcati su quell'isola deserta e aver organizzato bene il gruppo: chi cerca cibo, chi qualcosa per costruire un posto dove ripararsi. Fatta la capanna e trovate noci di cocco e insetti con cui sopravvivere almeno un po', Thomas De Gendt parla con gli altri Robinson Crusoe in fuga: «Non succede sempre in realtà. A volte facciamo progetti, altre volte non spiccichiamo parola» raccontava sempre sulle pagine di yellojersey.co.uk. che lo aveva intervistato nei giorni del successo al Tour 2019.
È il 13 luglio del 2019 quando individua la tappa giusta. Sceglie seguendo i diktat del suo “manuale per sopravvivere in una fuga”, sceglie – o meglio: gli capitano tra le ruote - uomini che più appropriati non possono esserci: Terpstra, singolare passistone olandese vincitore di una Roubaix e di un Fiandre, De Marchi, una sorta di De Gendt “de noantri” consapevole che in Friuli, da dove viene, non si dice così, e Ben King un altro del quale, tra storie personali fatte di bulimia («Una volta, avevo diciassette anni, mentre tornavo da un allenamento ho accostato e ho vomitato. Pensavo fosse il modo giusto per tenere tutto sotto controllo: divenne un'abitudine e quel problema iniziò a controllare me»), fughe, rivalse, fragole e sangue, si potrebbe stare qui a parlarne per ore.
Resta, De Gendt, con il solo De Marchi (era una tappa giusto a metà tra dura e abbordabile: ideale per una fuga da fare a pezzettini salitella dopo salitella) per poi lasciarlo inchiodato a terra sulla Cote de la Jaillere che osserva Saint-Etienne con fare quasi altezzoso.
Proprio su quella salita da dietro partono e lo spaventano due idoli di casa. Ce lo hanno a tiro. Lo vedono. Non lo riprendono. Braccia al cielo per De Gendt su quell'isola deserta mentre scruta le onde del mare che si infrangono davanti ai suoi occhi «È stato doloroso, ma bellissimo». Poche, semplici, lapalissiane parole.
E pochi giorni fa, sono ormai passati quasi due anni dall'ultimo successo, De Gendt ripete alla perfezione quella attrattive regole di sopravvivenza che da inizio stagione prova senza successo: in fuga prima all'UAE Tour e poi nella “sua” Parigi-Nizza, tenta in Catalunya dove ha già vinto quattro volte, tenta l'ultimo giorno arrivando a Barcelona nel circuito del Montjuïc dove ha già vinto una volta. Fuga numerosa, poi gli altri naufragano, lui allunga, si sbarazza dell'ultimo coraggioso e infine eccolo il colpo risolutivo. La caratteristica principale di quel caratterista della bicicletta.
Ps: a margine, visto che si parla di De Gendt, vogliamo farvi un annuncio: abbiamo acquistato i diritti della sua biografia. Sarà il primo titolo di un’esplosiva collana di storie di ciclismo. Restate sintonizzati.
Foto: Paolo Penni Martelli
Tutti gli ingranaggi di una bicicletta: intervista a Donato Pucciarelli
«Sono nato a Montelupo Fiorentino, il paese di Franco Bitossi». Donato Pucciarelli, meccanico dell'Androni Giocattoli Sidermec, racconta così la sua toscanità, il suo essere “fumino”, quell'accendersi per un nulla. «Fino a diciotto anni non sapevo nemmeno cosa fosse il ciclismo, poi ho iniziato a pedalare, ma erano i tempi di Battaglin, Moser, Baronchelli, era dura vincere». Sono passati gli anni, ma Pucciarelli sente come fossero ora le difficoltà di quei tempi. «Erano anni duri. Mio fratello aveva una bottega di biciclette e vi lavorava come meccanico, non c'era tanto tempo da perdere. La mia era una famiglia contadina e bisognava guadagnarsi la pagnotta. Dovevo pensare a lavorare, non potevo portare la bicicletta in giro per il mondo. Mi allenavo quando finivo il mio turno e nonostante questo i miei risultati li ho ottenuti. Poi ho scelto di smettere, pensavo al mio lavoro e a farmi famiglia. Non ho rimpianti sebbene chissà, se fossi diventato ciclista, cosa sarebbe successo».
Poi ci sono gli anni che passano e le cose che accadono. «Non ci pensavo più, quando una sera, nel 1988, passò da me Roberto Gargioli. Era stato ingaggiato dalla squadra di Gianni Savio, noi abitavamo vicini e a lui serviva un meccanico a pochi chilometri da casa». Cambia tutto nella vita di Pucciarelli. A partire dalla prima volta in cui si trova a dover preparare le biciclette degli atleti: «Accanto a me, c'era il meccanico di Pedro Delgado. Io non avevo ancora finito di preparare tutto il materiale, lui aveva già sistemato tutte le bici. Che frustrazione! Ma serve anche questo. La gavetta ti fa crescere umile». Ed è da quell'umiltà che Donato Pucciarelli ha tratto gli insegnamenti più importanti. «Con i corridori non bisogna mai discutere. Hanno già tante pressioni, ci mancherebbe solo le nostre. Il nostro compito è farli stare tranquilli. Io lo dico sempre: “Siamo tutti qui per lavorare, chiedete, parlate, non fatevi remore. Partirete più leggeri”.»
Così ha imparato a rispondere alle richieste più inconsuete, ad accontentare i ragazzi per tranquillizzarli. «Gilberto Simoni correva con sella storta e io gliela posizionavo così, limando l'archetto, perché lui si trovasse bene. Alcune volte i ragazzi vengono a chiederti di alzare il manubrio di un millimetro. Non lo percepiranno nemmeno, ma tu devi alzare quel manubrio perché psicologicamente per loro è importante. Attenzione, però, questo non deve diventare un alibi». Pucciarelli sta pensando ai corridori che dopo una sconfitta o un errore in gara, cercano una scusante nel mezzo meccanico e non si assumono le proprie responsabilità. «Non si divertono neanche più in bicicletta e tutti i problemi nascono da lì. Se non vi divertite, pur con tutta la fatica che si fa, non continuate. Fermatevi. Se vi rendete conto che non è il vostro ambito, non tirate a campare. Il ciclismo è una delle possibilità più belle, non imbruttitelo col vostro modo di fare. Lamentarsi fa male». Per contrasto pensa a Egan Bernal. «A lui andava sempre bene tutto, vedevi che era felice di fare questo lavoro. Non l'ho mai sentito lamentarsi una volta ed i risultati sono arrivati».
Il mondo dei meccanici è cambiato nel corso degli anni e Pucciarelli ha vissuto questa modificazione dall'interno. «Giancarlo Ferretti mi chiamava Tarzan perché in corsa facevo delle acrobazie tremende. Ho provato a cambiare il filo dei freni o la catena in ammiraglia. Non c'erano tutte le bici che abbiamo oggi e bisognava cavarsela. Se si rompeva un cerchio, la sera si prendevano i raggi e si faceva un cerchio nuovo, oggi si cambia la ruota. Non c'erano i rapporti di giusti per scalare il Mortirolo, così te li inventavi. Poi vincevi una tappa del Tour de Las Americas davanti ai grandi e ti scordavi persino delle notti insonni. Eravamo in pochi a lavorare sulle biciclette, non avevamo tutte le conoscenze dei giovani di oggi ma avevamo la pratica». Qui, Pucciarelli apre una parentesi. «Stare in giro per il mondo, a volte anche senza tutta l'attrezzatura necessaria, ci ha insegnato ad arrangiarci e a distinguere ciò che davvero è un problema da ciò che non lo è. Quante cose teoricamente sono in un modo ed in pratica sono all'opposto? Quando sei in viaggio, sballottato da un albergo all'altro, senza tempo, al caldo afoso della Francia o sotto un diluvio invernale, lo capisci e ti adatti».
Di tutti questi anni, Donato Pucciarelli avrebbe molti episodi da raccontare, per esempio di quando Gianni Savio lo affiancava mentre preparava le biciclette: «Mi veniva vicino e mi chiedeva di spiegargli cosa stavo facendo, che rapporti usavo o cos'era quello strumento che avevo in mano. Poi precisava: “Sai, se i ragazzi me lo chiedono devo saperlo”. Su un aneddoto, però, si ferma diversi secondi. «Non ricordo che anno fosse. Eravamo al Giro d'Italia e Massimo Ghirotto perse una tappa da Claudio Chiappucci. Arrivò stremato, mi si avvicinò e mi disse solo: “Puccio, non ce l'ho fatta. Non ce l'ho fatta”. Andò via. Quegli occhi li rivedo ancora».
Foto: Luigi Sestili
Philippe Gilbert non è soltanto una scritta sull'asfalto
Destino straordinario quello di Philippe Gilbert. Corridore fuori dall’ordinario. Saltellava sulla Redoute quando era ancora giovane, anche se gli dicevano di non farlo: quella salita lì è troppo dura per un ragazzo, era il monito. Costante. Ma vi è un legame così stretto tra Gilbert e quella salita che sull’asfalto trovavi già scritto: “Philippe Gilbert” e lui doveva ancora diventare professionista. Era la Liegi del 1999, Philippe, nato nel 1982, non era manco maggiorenne, e sulla Redoute si sfidavano Frank Vandenbroucke e Michele Bartoli. Attaccarono entrambi, affiancati, appaiati, mentre per terra sotto le loro sagome si ripeteva quel nome ancora sconosciuto. Spianarono i quasi due chilometri di côte guardandosi, in un testa a testa come sfida di nervi labili, quegli stessi nervi che poi mandarono all’aria la vita del fuoriclasse all’epoca in maglia Cofidis. Vinse Frank quel giorno – staccando Boogerd ben dopo il tentativo sulla côte simbolo della corsa belga – e per dodici lunghi anni fu digiuno per i corridori di casa.
A spezzare quel sortilegio Gilbert, oppure semplicemente “Phil” come da un certo punto in avanti trovavi scritto su quelle strade: non serviva più specificarne il cognome: d’altra parte avrebbe messo vicino, un po’ alla volta, successi in tutte le corse di un giorno più importanti al mondo. Tutte tranne una, come sapete. Phil, Philippe, Gilbert, eccetera: un peso quel nome, un marchio che ha sempre legato valloni e fiamminghi, che ha sempre emozionato italiani e francesi e spagnoli e olandesi. Difficile pensare a un corridore più tifato in gruppo negli ultimi dieci, quindici anni.
Filippo di (e da) Remouchamps, un paesino proprio ai piedi, più o meno, della Redoute. Ruvida erta d’asfalto quella côte, che quando si arrampica interseca senza pietismi un tratto di autostrada: brutta da vedere, sì, una volta pure così efficace nel selezionare il ristretto novero dell’élite ciclistica verso il finale di corsa, ma poi negli anni trasformatasi in fotografia del greggepecorismo che per un lungo periodo ha influenzato il gruppo. Invece che vedere scattare e sgranare, eccoli tutti aperti in fila lungo la sede stradale a immaginarsi una selezione che man mano arriva la salita dopo, poi la salita dopo, poi ancora la salita dopo, fino all’arrivo. Fino a quando poi han cambiato il finale della Liegi – per fortuna.
Adolescente come tanti altri, è stato. Con un padre che voleva diventare corridore e che trasmette la passione ai figli. Corrono tutti, ma arriva solo Philippe. Parte dal Belgio, dopo aver entusiasmato in una corsa Under 23 in Francia, attaccando a un centinaio di chilometri dal traguardo in mezzo al vento, e Marc Madiot (team manager già all’epoca della Française des jeux) lo strappa alla concorrenza delle squadre di casa. «Ho preferito la Francia per sentire meno pressione» racconterà spesso Gilbert.
Ma intanto in quella Remouchamps una piazza porta il suo nome, così come un’ala del Museo della Bicicletta – situata ai piedi delle Grotte di Remouchamps e fortemente voluta da Christian Gilbert, fratello di Philippe e assessore alla cultura della cittadina belga. Un’importante corsa che si disputa da quelle parti è stata ribattezza “La Philippe Gilbert Juniors” (nel suo albo d’oro vittorie di Pidcock nel 2016 ed Evenepoel nel 2017), quando vinceva lui, vinceva tutto il paese. Di fan club in giro per il mondo se ne perde il conto, di tifosi che si asserragliano lungo quelle salite, il giorno de “La Doyenne”, non basterebbero giorni per contarli tutti. “Philomani” li chiamano. A fine “Doyenne”, la decana delle classiche, ovvero la Liegi-Bastogne-Liegi, per esteso, e che negli anni ha perso molto del suo fascino antico, si organizza sempre una grande festa in suo onore. Uno stand, magliette. gadget, balli, musica, salsicce e birra. Eroe per i valloni che dai tempi di Criquielion – e di Magritte -aspettavano un figlio della loro gente per guardare negli occhi i fiamminghi.
Ha vinto una Liegi (una soltanto, è il caso di dirlo) da favorito e dominatore. Era il 2011: decadi che passano. Sconfisse i due fratelli Schleck nella volata verso Ans. Volata via senza storia. Quando ha conquistato il Fiandre (2017), lui che per un lungo periodo si è sentito tagliato fuori dalle corse sulle pietre a causa pare anche di una difficile convivenza in casa BMC, lo ha fatto come un matto. Attacca lontano dal traguardo, poi 55 chilometri in solitaria con 8 muri ancora da affrontare. «Ci vuole coraggio per fare quello che ho fatto. Sì mi sono sentito davvero pazzo», disse appena tagliato il traguardo, la bici tirata su in aria, tutti prostrati davanti alla sua classe.
E poi il 14 aprile del 2019 il colpo alla Roubaix, cercato, ma inaspettato. Il paradosso vuole che ancora per questa primavera, la seconda consecutiva stramaledetta primavera, c’è il rischio che il suo resterà l’ultimo nome scritto nell’albo d’oro della Regina delle Classiche, lui che delle classiche è di sicuro stato un Re. Quattro Amstel, un Fiandre, una Roubaix, una Liegi, una Freccia Vallone, svariate tappe tra Giro, Tour e Vuelta, un Mondiale, una Freccia del Brabante, due Parigi Tours, due Lombardia, una Strade Bianche, un San Sebastian, un Gp de Quebec, due Het Volk, due titoli nazionali – uno in linea e uno a cronometro. Allora gli mancherebbe e probabilmente gli mancherà, solo la Sanremo per eguagliare Van Looy, Merckx e De Vlaeminck, belgi come lui, prima di lui, ma deve fare i conti con il tempo che passa.
Gilbert smuove, ma forse ha smosso definitivamente ormai, non ce ne voglia. A 38 anni, quasi 39, si farà da parte e smetterà a fine 2022. Oltre al logorio del tempo che scalfisce ci sono tanti infortuni pure gravi, pure recenti. È vero: ci piacerebbe giocare proprio con quel tempo e plasmarlo a nostro piacimento. Ci piacerebbe prendere il Gilbert dello scatto devastante di Anagni al Giro 2009, oppure quello dell’attacco su quel sottile capezzolo sopra Valkenburg quando si lanciò verso l’iride, e proiettarlo per una sfida alla pari con van Aert, van der Poel, Alaphilippe, ma non è possibile. Non ci sono armi né sotterfugi, né capacità di sottrarsi al destino e al tempo. Rimane solo la capacità di chiudere gli occhi e immaginarsi ancora quella scritta sull’asfalto della Redoute: “Philippe Gilbert” oppure semplicemente “Phil” e via di nuovo, tornare indietro e ricominciare tutto da capo come un attacco folle a cento chilometri dall’arrivo di una grande corsa. All’infinito.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2018
Essere se stessi in pista: intervista a Elisa Balsamo
L'intervista con Elisa Balsamo parte da uno sguardo. Elisa fissa le compagne che girano all'interno del velodromo di Montichiari e cerca un'idea per rispondere alla nostra domanda. «La verità è che non riesco ancora a immaginare la mia Olimpiade a Tokyo. Sarà perché ci ho pensato spesso e ci tengo davvero molto, sarà perché manca ancora un po' di tempo e non ho la certezza di esserci, ma ad oggi mi sembra ancora qualcosa di irreale, di troppo bello per essere vero e non voglio illudermi». Le parole tornano a fluire libere quando si parla di orgoglio e questa ragazza, timida, che ancora abbassa lo sguardo quando ti incrocia, alza quasi spontaneamente il tono della voce, quasi a sottolineare il valore di ciò che è avvenuto. «Il ciclismo non è come l'atletica. Noi non qualifichiamo le singole atlete, noi qualifichiamo la nazione. È una responsabilità: quando ti avvii alle qualificazioni il problema non è se Elisa Balsamo parteciperà a quella manifestazione specifica, il problema è se l'Italia lo farà. Fa un poco paura, non lo nego».
Accanto a Elisa, su un tavolino, c'è un fumetto, Diabolik. Ci racconta che in realtà non è appassionata di fumetti, ma questo è un caso particolare. «Da bambina, nonno aveva sempre in casa diverse copie di Diabolik. Io amavo già leggere, così lo prendevo e lo sfogliavo. Non ho mai letto Topolino, per esempio. Però, appena capito in una stazione o in un'edicola e trovo Diabolik lo compro. Prima di arrivare a Montichiari ne ho comprate tre copie e ora mi manca solo questa da ultimare». L'altro volto dell'introversione, quello che ama il racconto, scritto se possibile perché la carta fa sentire sicuri. Balsamo spiega che un domani vorrebbe diventare giornalista, ancora prima però vorrebbe scrivere un libro e a questo pensa da quando era bambina. «Credo sia importante raccontare ciò che ci succede. Non possiamo sapere cosa stanno vivendo le altre persone, magari la tua storia le aiuta ad oltrepassare un momento difficile. Cerco spesso libri che raccontino storie vere, perché, alla fine, diventano il tuo esempio e ti fai forte ricordandoti ciò che hai letto. Sì, bisogna raccontare e prendersi tutto lo spazio che serve».
Non occorrono domande, perché è lei stessa ad aggiungere una parte di quella storia che tanto vuole raccontare. «Sono una perfezionista, ma, nonostante questo, non sono quasi mai contenta di me. Sarà un fatto caratteriale. Io dico sempre che la componente più importante del ciclismo sono le compagne e non è retorica. Per come sono fatta, senza loro al mio fianco, probabilmente avrei già smesso. Di sicuro non avrei ottenuto tutti i risultati di cui parliamo. Sento la necessità di qualcuno che mi sproni, che mi faccia capire che devo crederci, che quello che immagino può succedere». Così è accaduto al mondiale su pista, nel 2019, quando Balsamo non è stata all'altezza dell'atleta che avrebbe voluto essere. «Avevo sbagliato preparazione e sono arrivata stanca, così ho fallito l'obiettivo. Io penso molto, rimugino molto e quella delusione mi ha lasciato a terra per settimane. Poi è tornato l'entusiasmo, è tornata la voglia di provarci».
Elisa Balsamo racconta che in gara cerca spesso con lo sguardo Chiara Consonni. «Ci conosciamo da tanti anni e siamo completamente diverse ma c'è una chimica particolare fra noi. In corsa ci capiamo alla perfezione, siamo sintonizzate. Quando sono io a vincere, le prime braccia ad alzarsi al cielo sono le sue, poco dietro di me. Succede dai mondiali di Doha».
Per raccontarci meglio la corsa in pista, Balsamo ci mostra i suoi scarpini. «Vedi? Nelle discipline di gruppo, quando osservi le scarpe a fine corsa le vedi striate, sfrisate. È il contatto fra noi a renderle così. L'adrenalina non te ne fa rendere conto ma sfiori ogni manubrio. Molti mi chiedono se non mi fa paura l'idea di essere senza freni. Bene, se avessimo freni ci faremmo molto male perché ad ogni contatto l'istinto sarebbe quello di frenare. Invece sappiamo che per accelerare si scende nel lato basso dell'anello e per frenare si sale».
Sostiene che la nostra nazionale ha come punto a proprio vantaggio il fatto di praticare anche strada perché molti meccanismi si ereditano da lì. «Non a caso facciamo molto bene nell'omnium da quando non ci sono più prove individuali. Credo ci sia da lavorare sul quartetto e sulla madison. In quest'ultima serve molto la tecnica oltre alle gambe e questa si acquisisce col tempo. Un buono spunto può venire dalle atlete inglesi che sono molto brave in questo campo».
In fondo, Elisa Balsamo si sente sicura in ogni velodromo e trova la forza per fare anche ciò che, per insicurezza o timore, non farebbe nella vita di tutti i giorni. Questo è il suo segreto. «La prima volta che sono stata in un velodromo a Torino, dimenticandomi di non avere i freni, sono caduta, una brutta caduta. Mi faceva male dappertutto, ma sai qual è la prima cosa che ho fatto? Mi sono sistemata in fretta perché dopo pochi minuti sarebbe partita un'altra gara e non potevo perdermela nonostante tutte le sbucciature. Ci ho pensato parecchio e ho capito che, nonostante tutto, io sono proprio quella ragazza lì».
Foto: Paolo Penni Martelli
Racconti dai due mari
Per raccontare questa Tirreno-Adriatico partiamo dalla reception di un albergo di Terni che ci ha accolto sotto un diluvio torrenziale, venerdì sera. Un signore sulla cinquantina, mentre registrava i nostri documenti, guardandoci ci ha chiesto: «Non mi raccontate nulla della corsa?».
Ci è sembrato bello perché ha tradito quella voglia che tutti abbiamo di ritornare in strada, accovacciati sul bordo di un marciapiede a vedere il passaggio del gruppo. Quella stessa voglia che si è palesata in ogni angolo delle strade che da Monticiano conducevano a Gualdo Tadino, dove gli abitanti delle case vicine si posizionavano distanziati ad aspettare di sentire il suono della corsa proveniente dai margini di quei borghi per tirare fuori cartelli e scritte. Poche persone che interrompevano il silenzio assordante delle strade.
In uno di questi angoli c'era Loredana, una maestra di scuola elementare, che in questi giorni vive la realtà della didattica a distanza. Una di quelle maestre che portavano i propri alunni a vedere il Giro d'Italia. Loredana ci ha raccontato che quei bambini, il giorno prima della gara, le chiedevano sempre cosa sarebbe accaduto, quanti ciclisti sarebbe transitati e quante macchine a suonare il clacson per farsi strada. «Portare un bambino a vedere una gara di ciclismo è un modo per insegnargli la pazienza dell'attesa, la fatica che si fa arrampicandosi su una salita o camminando al sole per ore godendo della bellezza di una scia lasciata da una bici».
Forse andare a vedere una corsa ciclistica di questi tempi è anche un buon modo per ricordarsi di tante cose che ormai davamo per scontate. Di più: è un antidoto contro la dimenticanza. Lo sa quella manciata di persone che a Prati di Tivo ha applaudito l'ultimo gruppo dei ritardatari e lo ha fatto con naturalezza, battendo le mani più forte per compensare il fatto di essere pochi. Quel giorno abbiamo tirato un sospiro di sollievo perché abbiamo avuto la certezza di non esserci dimenticati momenti che non vivevamo da troppo tempo.
Quel ragazzo che è entrato in una rosticceria all'arrivo di Castelfidardo e, assieme agli arancini, si è fatto dare un foglio e un pennarello, probabilmente nemmeno sapeva cosa stava accadendo quel giorno, ma sentiva che c'era qualcosa di diverso. Per questo ci ha chiesto chi stesse vincendo e con calligrafia incerta ha scritto: “Grazie van der Poel”. Quel foglio è durato meno di dieci minuti, appoggiato a una transenna con una bruma quasi invernale a dissolvere l'inchiostro. Ma non conta. L'importante è che abbia sentito la voglia di dire grazie e lo abbia fatto così, in modo spartano, ruvido, ma vero.
Ognuno ha qualcosa da dire o da dimenticare all'arrivo di una corsa ciclistica. Lorenzo, ad esempio, a Chiusdino, ci ha detto che quello era l'istante in cui stava meglio da diversi giorni. «Sul lavoro ci sono sempre problemi, cose che non vanno, ansia e nervosismo. Certe mattine non hai proprio alcuna voglia di andare in ufficio. Sapere che ti attende un pomeriggio come questo è un buon modo per affrontare i problemi con serenità, perché quando uscirai vedrai van der Poel, van Aert, Nibali e tanti altri campioni sfilare proprio sotto il tuo naso». È stato proprio lui a mandarci un messaggio il giorno seguente. «Che regalo mi ha fatto Alaphilippe, vincendo qui».
Noi lo immaginavamo perché Lorenzo racconta quella terra con una dedizione tale che ogni storia che accade su quelle strade è una storia che sente sua, come le mura di una casa. Sentirselo dire, però, è sempre bello.
E ancora ci piace raccontarvi di Vincenzo Nibali e di quel «una mattina ti svegli e qualcuno va più veloce di te» detto tra il rassegnato e l'amareggiato a Gualdo Tadino, delle volte in cui l'abbiamo visto scuotere la testa, come a dire «cosa posso fare?», ma anche dell'ultima risposta a San Benedetto del Tronto, quando, pensando alla Sanremo, ha esclamato: «Ci sono tante chiavi per vincerla, cercheremo quella giusta». Che è come tornare a crederci, come avere meno freddo. Di Wout van Aert che ha già detto che tornerà per vincere la Corsa dei Due Mari, ora però vuole pensare al mar ligure, quello che lo attende sabato. Oppure di Mathieu van der Poel che dopo essersi messo a disposizione di Tim Merlier, umilmente, mentre il compagno lo guardava con ammirazione alla partenza di Lido di Camaiore, non ha digerito la sconfitta patita a vantaggio di Julian Alaphilippe. Quel giorno ha tirato un pugno al manubrio, il giorno dopo ha messo quella stessa mano sul petto e ai giornalisti ha detto: «Ci penso io». E via, lungo tante altre parole.
La chiusura di questo pezzo, invece, vogliamo lasciarla a una sola frase detta, perché spesso per dire tanto, basta veramente poco. Così ha fatto Peter Sagan quando gli hanno chiesto se credesse di potersela ancora giocare con i “giovani terribili” del ciclismo. Sguardo fisso, sorriso accennato e un'espressione: «Tu pensi di no?». Che è una domanda, ma anche una risposta. Come le tante che abbiamo trovato sulla strada.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
Le ferite guariranno: intervista a Francesca Pisciali
Francesca Pisciali ricorda sempre ciò che le dice il suo allenatore: «Il livello nel ciclismo femminile si è alzato molto, non puoi pensare di vivacchiare. Essere atleta ti impone dei sacrifici, se vuoi fare bene, devi accettarli tutti, altrimenti resti a metà strada. Non riesci ad affermarti come atleta e allo stesso tempo sei costretta a privarti di molte cose che, diversamente, potresti fare. Devi scegliere». Per questo non si è mai iscritta all'università, perché con i ritmi che le impone il suo sport rischierebbe di non riuscire a studiare e, a ventidue anni, non ci si può permettere di non avere le idee chiare. «Mi piace talmente tanto il ciclismo che voglio provare fino all'ultimo a farlo diventare il mio lavoro. Però non sono un'illusa, non voglio restare qui a tutti i costi. Se mi renderò conto di non riuscirci, abbandonerò questa via e ne sceglierò un'altra. L'idea di avere magari venticinque, ventisei anni, e non avere concluso nulla mi spaventa terribilmente. Non fa per me, per quanto vivere senza la bicicletta sembri un incubo in certi momenti».
Pisciali, quest'anno accasata alla Isolmant Premac Vittoria di Giovanni Fidanza, parla con serenità anche di un possibile abbandono e, quando le chiediamo come faccia, non ha dubbi. «Perché ho già provato a smettere. Avevo quindici anni e a Bolzano non c'era una realtà adatta a me. Ho smesso controvoglia e, forse, non ho mai smesso del tutto. Due anni dopo lavoravo in un bar in cima a un passo alpino e andavo al lavoro in bici. Quella pausa mi ha fatto bene. Il ciclismo è un mondo che ti ingloba e rischia di farti perdere il contatto con ciò che c'è fuori».
Attraverso l'indipendenza imparata correndo in bicicletta, Francesca Pisciali si è resa indipendente nella vita di tutti i giorni. «In alcune gare delle categorie minori mi sono iscritta autonomamente, mi sono preparata il cibo ed i rifornimenti, sono andata a ritirare i dorsali, ho controllato la bici e sono partita. Fai fatica, ma cresci, impari. Questo ti resta e fa parte di te. Non ho più smesso di correre, ma ho sempre continuato a lavorare. Con i risparmi mi sono comprata la macchina e mi sono tolta tanti piccoli sfizi».
Francesca sembra una ragazza di altri tempi. Dice che guarda poco il cellulare ed alcune volte lo lascia persino a casa. «Se dobbiamo incontrarci ad una certa ora, io mi faccio trovare per quell'ora. Non ho bisogno di una conferma qualche minuto prima. Con me preferisco avere un buon libro, così mentre aspetto posso leggere». Ci confessa che la sera, prima delle gare, legge sempre ed è tranquilla. «Quando è la giornata giusta, lo sai, lo senti. Sei serena e ti riesce tutto più facile. A me è capitato di andare in fuga con una facilità assoluta, mentre molte ragazze provavano senza riuscirci. C'è qualcosa di naturale in certi giorni».
Altre volte è l'istinto, la rabbia, il nervosismo a segnare la gara. «Quando mi arrabbio, vado più veloce. Una volta sono scattata pur non stando bene. Mi avevano fatto innervosire ed avevo deciso che sarei stata davanti. Ho preso la volata in terza posizione, una velocista l'avrebbe vinta con una gamba sola, io sono arrivata settima, ma è stato un buon risultato».
Le piace allenarsi sulle strade delle Dolomiti, ma, quando ha del tempo libero, va in Romagna perché lì c'è la sua seconda casa, tra tortellini e piada, "quella spessa" precisa lei, spiegandoci la contesa che c'è in quelle zone sulla vera essenza della piadina romagnola. Una cosa la rende particolarmente felice riguardo al ciclismo femminile: il fatto che, ultimamente, sempre più ruoli vengano ricoperti da donne. «Credo sia un bene, perché sanno meglio di chiunque altro cosa significa essere donna e, se hanno vissuto questo sport, capiscono cosa si prova, come ci si sente. Si tratta di un passo importante per l'emancipazione femminile. Un passo che abbiamo il dovere di compiere noi. Certe volte ho avuto la sensazione che come atlete non fossimo prese sul serio da alcuni uomini. Colpa loro, ma anche colpa nostra. Il primo segnale di una professionalità totale deve venire da noi».
Pisciali descrive benissimo il feeling che si instaura con alcune gare, piuttosto che con altre. «Prendiamo il Trofeo Beghelli. In astratto potrebbe anche essere adatto alle mie caratteristiche, invece no. Quello zampellotto sul finale mi blocca sempre, come se mi respingesse». Qualcosa di speciale, invece, Pisciali lo ha sempre provato per la Strade Bianche e la prova dello scorso sei marzo ne è stata la dimostrazione. Francesca è caduta nelle prime fasi di gara, il ginocchio le sanguinava e tutta quella polvere non era certo l'ideale. «Non sempre le cose vanno come vorremmo, dobbiamo accettarlo. Avrei potuto fermarmi e salire in ammiraglia, non l'ho fatto per rispetto della gara e per l'orgoglio di poterla correre. Al traguardo sono arrivata troppo tardi per rientrare in classifica, ma ci sono arrivata. Ho concluso una prova che avevo iniziato, ho tenuto fede alle mie responsabilità, dal primo all'ultimo chilometro. Le ferite, poi, guariranno».
Foto: Flaviano Ossola, per gentile concessione di Francesca Pisciali
La Colombia e la fuga: intervista a Simon Pellaud
Il 15 ottobre 2020, la dodicesima tappa del Giro d'Italia parte e arriva a Cesenatico. Il cielo è plumbeo, fa freddo, in alcuni tratti pioviggina, i primi rigori dell'autunno si fanno sentire. Simon Pellaud, Androni Giocattoli Sidermec, è in fuga dal primo mattino, ad un certo punto alla sua mente ritorna la Colombia e il sapore del boccadillo, un gel zuccherino alla frutta. Ne cerca una bustina nelle tasche posteriori della maglia ma non c'è. Alla sera, al ritorno in hotel, visibilmente provato dal freddo, chiederà al suo massaggiatore di mettergliene diverse bustine in tasca: il giorno dopo, verso Monselice, tornerà a scattare.
«In quella fuga c'era un ragazzo colombiano dell'Astana. In un tratto tranquillo mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto se gli mancasse la Colombia. Mi ha detto di sì, me lo ha detto in un modo particolare, mi ha chiamato “fratello”. Ho preso una di quelle bustine e gliel'ho passata: "Assaggia questa, ti sentirai a casa". Appena ha sentito quel sapore, ha fatto un sorriso a trentadue denti. La Colombia era tutta lì». Per Simon Pellaud l'avventura è la libertà di un viaggio ed il suo viaggio in libertà è il ciclismo. «Grazie al ciclismo ho imparato cinque lingue, sono stato in venti diverse nazioni, l'ultima è il Venezuela, ho conosciuto tante persone e ho imparato l'umiltà. Ho abitato in Svizzera, lì c'è tutto, di più, c'è il meglio di tutto: io sono andato via per andare a vivere in Colombia, in una casetta senza il gas, con una stufa e quel poco di acqua calda che serviva per lavarsi. In una casa con solo un tetto e poco altro». Eppure lì Pellaud è felice.
Ad essere felice, Simon aveva imparato qualche anno prima. «Correvo con la IAM Cycling ed avevo un futuro assicurato. Eppure terminavo le gare, arrivavo ventesimo, e sentivo che se quella mattina non avessi preso il via sarebbe stato lo stesso. Quando ho rescisso il contratto, sono stato diversi mesi senza lavoro, non dormivo la notte e mi era anche passata la fame». Simon Pellaud riparte con il Team illuminate, una squadra brasiliana che si sostiene grazie a una raccolta di fondi ed oggi racconta che da quel giorno per lui è iniziata un'altra vita. «In Colombia dicono che è merito “dell'aiuto de Dios”. Io questo non posso saperlo, io so che in quei mesi sono andato a vivere in montagna, lontano da tutto e da tutti, con accanto solo le persone che amavo. Stando da solo ho capito che potevo ripartire e diventare l'uomo che avrei voluto essere».
La parole chiave è una: fuga. «Ognuno di noi ha una chiave per diventare qualcuno. Io non sono un campione, difficilmente vincerò molte gare in vita mia, ma non è questo a spaventarmi. A me spaventa l'idea di essere anonimo, di restare fermo, di non fare nulla ed aspettare lo scorrere del tempo e con questo la fine della carriera. Per questo esco dal gruppo, mi faccio vedere, mi sento vivo. Magari vincerò una sola gara o forse neanche quella, ma esserci non sarà stato inutile».
Simon Pellaud sostiene che il bello della conoscenza sia il fatto che «puoi prendere qualunque cosa e farla tua, utilizzarla per la tua vita, per stare meglio, perché non c'è un diritto privato della conoscenza». Ma, per conoscere, è necessario uscire dalla propria galassia, anche temporaneamente, anche solo per un attimo. «Nessuno conoscerebbe bene il proprio pianeta se non lo vedesse dallo spazio, dall'esterno. Viaggiare è importante perché ti consente di vedere da fuori una realtà che altrimenti rischia di anestetizzarti». Pellaud se ne è accorto a Monselice, sì, proprio nel giorno in cui è sceso di sella mentre il gruppo lo riassorbiva e ha iniziato ad applaudire i suoi compagni.
«Il mio è stato istinto puro, non sapevo nemmeno che ci fosse una telecamera. Sono sceso di sella per permettere al gruppo di passare su una rampa molto ripida e ho applaudito perché mi è venuto spontaneo. Mi sono sentito come mi sentivo quindici anni fa quando i miei genitori mi portavano alle corse, con la stessa forma di entusiasmo. Quando sono tornato a pedalare ero staccato, sfinito e dovevo andare all'arrivo da solo. Non mi interessava, ero contento».
Foto: Luigi Sestili
Deserto di ghiaccio
Questo Jonas Vingegaard va davvero forte in salita. Magrolino, non del tipo troppo tisico di quelli che ti danno l’impressione che se mollano la bici potrebbero volare via da un momento all’altro, ma con quella magrezza da scalatore. Faccia pulita da sbarbato, con occhi che sembrano ogni volta dire “ma che ci faccio qui?”. Sia chiaro, che sia bravetto non ce se ne accorge di certo su una salita – che poi non è nemmeno una Salita è più una “salita” – come quella che l’altro giorno portava verso i 1489 metri di Jebel Jais all’UAE Tour. Una ventina di chilometri con strada larghissima, lunghissima, liscissima; un asfalto che sembra una pista da ballo o forse persino uno di quei posti che tanto piacciono a lui, come quando si fotografava il giorno della partenza da casa con occhi che non riuscivano a nascondere un velo di malinconia, pronto per la prima gara dell’anno. “Sto per lasciare la mia bellissima casa ghiacciata per la prima corsa della stagione” scriveva, immortalandosi con sullo sfondo uno specchio d’acqua completamente congelato.
Ora, è vero che l’altro giorno sembrava un po’ spaesato sulle ultime “rampe” – doveroso continuare a mettere le virgolette – , ma quando arrivi dalla Danimarca e ti ritrovi a vincere in mezzo al deserto è innegabile che faccia un certo effetto. Anche se poi, altro inciso, i corridori sono viaggiatori, avventurieri, marinai; salpano di mare in mare o meno romanticamente vengono sballottati di scalo in scalo, quindi chi più di loro è abituato a conoscere posti completamente diversi tra di loro? Ma torniamo al senso della strada: guardate chi si mette dietro, Vingegaard, per la sua seconda vittoria in carriera: Pogačar, Adam Yates, Higuita (il ciclista), Almeida (idem), Kuss – che potrebbe iniziare a farsi venire i primi complessi, a furia di tirare per gli altri non riesce ad avere spazio nemmeno quando dovrebbe essere lui il capitano.
Vingegaard riprende Lutsenko a poche centinaia di metri dall’arrivo ( superato da Vingegaard, gli occhi di Lutsenko leggermente a mandorla si sono fatti ancora più aspri) stacca tutti e vince. Al Tour de Pologne di due anni fa, prima vittoria in carriera, dietro di lui: Sivakov, Hindley, ancora Higuita il ciclista, Majka. Insomma niente male.
Già, questo Jonas Vingegaard non è davvero niente male. Che va forte in salita lo aveva già fatto vedere lo scorso anno sull’Angliru alla Vuelta; il gruppo faticò a stargli dietro, c’è una foto in cui si vedono i suoi occhi, adesso spiritati più che spaesati, con Kuss (di nuovo lui) che per stargli a ruota si esibisce in smorfie facciali e fatica extra. A ruota del danese (di Hillerslev, nato nel 1996) rimasero una decina di corridori, i migliori in classifica. «Potevo andare anche più forte in realtà. Avevo gambe piene e ancora gas. Avessi fatto il ritmo che mi sentivo di fare probabilmente in gruppo sarebbero rimasti la metà. Ma sapete, dall’ammiraglia mi han detto di tenere quell’andatura» dirà a fine corsa.
Ama il gelato – e a chi non piace – il manzo alla Stroganoff con purè di patate e soprattutto il Badminton. Che per un danese è come per noi seguire il calcio. In Danimarca è uno sport popolarissimo, tanto che spesso si trovano a dominare le principali manifestazioni internazionali o comunque ad andarci vicino. «Non avessi fatto il ciclista, avrei fatto Badminton, ma probabilmente quando smetterò di pedalare, mi ritroverò con una racchetta in mano» così si racconta. E se deve sognare? Amstel nel 2021, magari come leader della Jumbo-Visma, più avanti capitano nei Grandi Giri mentre impara il mestiere da Roglič che definisce “bravo e simpatico” e poi vorrebbe tornare ad Anfield Road per vedere il “suo” Liverpool. Magari quel giorno avrà una faccia meno spaesata e non ci spiacerebbe nemmeno qualche chiletto in più.
Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021
Un giorno sul lettino dei massaggi
Michele De Biasi, il massaggiatore della Bardiani Csf Faizanè, è sempre stato un attento osservatore. Ha capito così che tutto, ma proprio tutto, passa dai dettagli. Soprattutto ha capito che bisogna avere il coraggio di credere ai dettagli anche quando sembrano una parte trascurabile del tutto. «Quando arriva da te, sul tuo lettino, un ragazzo che ha fatto duecento chilometri in bicicletta c’è una cosa che devi fare prima di tutte le altre. Una domanda, l’unica che hai il dovere di porre: come stai? Chiedere come sta con la vera volontà di conoscere il suo stato fisico ed il suo stato d’animo, è importantissimo. Te lo dirà? Alcuni si aprono e ti raccontano, altri non hanno voglia. Si tratta del carattere e della giornata. Non conta, tu devi chiederlo. Poi capirai iniziando a massaggiare, se ti ha detto la verità oppure no. Quando li conosci, i muscoli ti dicono tutto. Quella domanda però è importante perché permette al ragazzo di aprire una porta e di raccontare. A lui la scelta». De Biasi spiega che dopo quella domanda lascia che siano i ragazzi a scegliere come gestire quei quarantacinque, cinquanta, minuti di massaggio, perché «è giusto così». Una frase breve, secca, che viene subito ripresa e specificata.
«Tecnicamente tutti ti diranno che il massaggio serve per disintossicare i muscoli, per togliere le tossine e favorire il recupero muscolare dell’atleta. Vero, un massaggio ben fatto si percepisce subito. Se parli con un corridore affaticato prima e dopo il massaggio, ti descriverà sensazioni diverse. Il punto è che ci sono tossine tipiche dei muscoli e tossine tipiche della mente. Per recuperare da quelle, solo tu sai ciò che ti fa bene. Per alcuni è necessario parlare, sfogarsi, per altri basta il silenzio. In generale io dico che aiuta molto la leggerezza. Spesso non si capisce a fondo quanto anche una battuta possa fare bene. Il segreto è staccare la spina per “disintossicare” anche la mente».
De Biasi è arrivato al ciclismo solo quattro anni fa, per un caso, come per un caso era arrivato alla massofisioterapia dopo aver fatto studi da elettricista. «Tutti ti dicono: guarda che è tutto diverso, guarda che farai fatica, pensaci bene. Tu li ascolti ma, se sei come me, una volta che hai deciso non cambi più idea. Questo non significa che non abbia mai pensato di aver sbagliato o di tornare indietro. Ci ho messo un anno e mezzo ad ambientarmi, a capire ciò che era accaduto». In Bardiani lo chiamano Hellas: «Perché sono tifoso del Verona ma soprattutto perché ho lavorato con la squadra. Io arrivo dal calcio e dalla pallavolo. Sì, si tratta sempre di sport ma cambia tutto». Da un punto di vista mentale ma anche da un punto di vista tecnico.
«Dipende sempre dall’ambiente ma nel calcio, generalmente, avvertono il tuo lavoro quasi esclusivamente come un lavoro. Questi ragazzi sono proprio bravi, ti danno spazio, riconoscono il tuo spazio e ti ringraziano sempre. Alcuni ti chiedono anche qualche foto perché vogliono raccontare chi sei. Ti sono riconoscenti. Quelle foto le tengo da parte e le faccio vedere con orgoglio ai miei amici. In pubblico non le mostro, no. Si tratta di una forma di pudore e di rispetto. Prima parlavo della conoscenza che ti permette di capire molto senza chiedere. Ecco, la conoscenza passa anche da queste piccole forme di rispetto e di attenzione».
Poi ci sono le differenze che riguardano i tre sport. «Nel calcio il massaggio è tendenzialmente meno importante, c’è anche il cambio ritmo ma è più che altro corsa in linea. Alcuni calciatori non si sottopongono nemmeno sempre ai massaggi, sentono la necessità di terapie fisiche strumentali per traumi e tendiniti: laser, tecar e ultrasuoni. Discorso simile vale nella pallavolo per i bendaggi: gli atleti sono esperti e spesso provvedono autonomamente almeno per quanto riguarda le mani. Noi li aiutiamo con le caviglie. Il resto è riservato a trattamenti di scarico, consideriamo che si allenano tutti i pomeriggi e per almeno due mattine fanno pesi in palestra. Capisci la differenza con una gara a tappe? Cambia tutto».
Parlando di corse a tappe, De Biasi ritorna sulla conoscenza. «Non è facile lavorare su un corridore che non hai mai massaggiato. Se ti capita, lo fai ma sarebbe meglio avere affinato una certa conoscenza. Il massaggio è fatto anche di piccoli dettagli e di minuscole cure che il singolo gradisce. Scoprirlo in una corsa a tappe, in un momento difficile, non è l’ideale». I pre-ritiri sono l’ambiente in cui affinare questi dettagli, ma sono anche il luogo della sincerità e dell’accettazione. «Può succedere che un corridore si trovi meglio con un mio collega. Non deve diventare un fatto personale. Credo che tutti siamo qui per aiutare questi ragazzi, noi siamo il dietro le quinte. Non deve esserci invidia. Al primo posto c’è la squadra e perché la squadra funzioni bene è indispensabile la serenità dei singoli. Non può esserci serenità se i rapporti sono forzati o se non si ascoltano i bisogni dei corridori. Massaggiare è ascoltare, quando si ascolta, si capisce. Poi serve l’umiltà di scegliere e lasciar scegliere».
Foto: Paolo Penni Martelli