Essere Mathieu van der Poel
Spesso c'è tutto in un grido. Il grido di Julian Alaphilippe che a trentacinque chilometri dal traguardo frana rovinosamente a terra dopo che col gomito sbatte violentemente contro la moto della giuria. C'è la disperazione nel viso di quest'uomo, nel suo corpo che, senza l'appoggio delle braccia, non riesce a girarsi, a mettersi supino e si dibatte in un'impossibilità atroce. Nessuno riesce a capire, almeno in un primo momento: lo sguardo vaga cercando una risposta a quel dolore. Il motociclista della giuria si avvicina, quasi a chiedere scusa, quasi a voler porre rimedio. Non è più possibile ormai. Quando errore c'è, bisogna pensarci prima, dopo è tardi, è inutile. In realtà prima bisogna pensarci anche quando non c'è errore perché basta poco, pochissimo, per cambiare sorte alle cose e alle persone. Cade Julian, cade e con lui frana tutto. Si è rialzato molte volte e tornerà a rialzarsi ma oggi no e a lui serviva essere in sella oggi. Del resto possiamo discutere noi, del resto parleranno le corse. Resta quell'immagine al suolo, come un castigo degli Dei alla fantasia e a quella forza del continuo provare, del continuo inventare, che tanto piace agli uomini. Wout van Aert e Mathieu van der Poel si voltano di scatto appena sentono il rumore della caduta, le grida del francese. Si guardano, proseguono, non possono fare altro: devono proseguire. E la gente, i tifosi, vivono un contrasto di sensazioni, come il viandante su un mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Vorrebbero essere lì, vorrebbero essere su quelle strade ma non possono. L'immedesimazione è l'unica via per essere proiettati, almeno per qualche istante, nella realtà sensoriale di una gara che sta diventando un duello di spada e fioretto. I pochi tifosi che si affacciano dai cancelli gridano forte, più forte che possono e, chiudendo gli occhi e ascoltando, per qualche secondo ci si può pure inventare che le cose non siano cambiate così tanto.
Svanisce tutto, come quel silenzio ritorna e non si può fingere di non sentirlo. Il silenzio è attorno, non nel gruppo che d'improvviso si risveglia e accende un folle inseguimento, non nella testa di van der Poel e van Aert che pullula di pensieri. Alberto Bettiol, ieri, ha raccontato di essere bravo a giocare a scacchi e ha ricordato come il Fiandre assomigli a una partita a scacchi. Negli scacchi prevale l'attendismo, le partite possono proseguire per ore e le mosse possono essere così sottili da sembrare ininfluenti. Probabilmente sono già passati tanti chilometri, troppi, quando Bettiol si mette in testa al plotone e forza l'andatura stringendo i denti. In molti fanno così, come se quel ghigno potesse sfogare una rabbia repressa, un dolore ancestrale che è l'unica spinta per cercare di arrivare al traguardo, per non cedere a quella voce che tutti abbiamo dentro e che ci suggerisce la via più facile. Non la migliore, la più semplice. Davanti quei due, van der Poel e van Aert, trovano l'accordo e vanno via che è una meraviglia. Loro, i due rivali, i più attesi, quelli che tutti stamattina hanno guardato con una peculiare attenzione. Come a dire: "Vi teniamo d'occhio". E quando si è tenuti d'occhio è tutto più difficile ma i campioni sono chiamati anche a questo, oneri ed onori. Loro lo sanno e si prendono la responsabilità della gara come giganti che reggono sulle spalle un pianeta parallelo. Qualcuno teme qualche tatticismo di troppo, teme che sprechino quel vantaggio gettandolo al vento d'ottobre che spazza le pietre e la natura che inizia a sonnecchiare nell'inferno del nord.
Qui il fuoco e le fiamme sono di freddo e brina. Qualcosa che sembra rallentare il circostante, quasi a lasciarlo immutato, come in una fotografia. Come all'ultimo chilometro di una qualunque gara, ma questa non è una gara qualunque, in cui la velocità, le spallate ed i cambi di direzione al millimetro sono preceduti da una calma ansiosa. Quell'attesa che mischia euforia e timore per poi gettarseli alle spalle in una frazione di secondo. L'attimo in cui decidi che il tuo tempo è giunto e ti scordi di ogni pensiero antecedente. Così è l'ultimo chilometro di van der Poel e van Aert: una sensazione di infinito che si sprigiona dall'arco e dura fino alla linea finale ed anche oltre. Prima uno a tirare davanti e uno a inseguire dietro, poi uno sulla destra e uno sulla sinistra, entrambi prima seduti e poi sui pedali, entrambi con la testa che sembra assecondare quella volontà di supremazia. Un "sì" riaffermato continuamente. Una certezza che non c'è ma pretende di avverarsi. Sulla linea, van der Poel e van Aert, arrivano assieme e si lanciano in un colpo di reni che tende e affina ogni linea del loro corpo di atleti. L'incertezza è un respiro strozzato, un calcio alle illusioni, un ricordo e un augurio. Sono quei secondi, una manciata, che pesano più delle ore a tremare su quella sella, quei secondi in cui anche i campioni perdono quella invulnerabilità che solo apparentemente li caratterizza e tornano uomini che guardano lo staff nella speranza di un assenso, che ascoltano le voci sul traguardo immaginando di sentire il loro nome. Vince Mathieu van der Poel: è il grido, l'altro grido, in cui c'è tutto. Per l'ennesima volta, tutto uguale e diverso. Come uguali e diverse sono quelle lacrime che non hanno il tempo di cadere a terra, trattenute dalle sue mani che chiudono gli occhi. Quegli stessi occhi che, ora, non hanno bisogno di vedere, che forse non hanno neanche voglia di vedere, che vogliono stare così fra quelle mani. A liberare un sentimento straripante, sciolto e trattenuto lì, vicino. Quello di Mathieu van der Poel che oggi, a venticinque anni, ha vinto il Giro delle Fiandre.
Foto: Bettini
Sono Jhonatan Narvaez e arrivo dal freddo
Scruto negli occhi i miei avversari e vedo visi solcati dalla fatica, facce intrise di paura, agonismo e agonia. La pioggia picchia sulle nostre teste, passa attraverso un rigagnolo creatosi tra occhio e naso, e va a formare una valle di lacrime. Cambi regolari. Spengo la radiolina e poi la riaccendo come un tic nervoso. La strada è pericolosa e riflette un cielo diventato nero. Ho le mani fredde ma pedalo come se nulla fosse. Mi sposto per far passare un avversario, chiudo il buco, si sale e si scende: quale sporca abitudine. L'acqua si infila dappertutto, ci prende a schiaffi e ci fa soffrire.
Mi chiamo Jhonatan Narvaez. Ho la pelle scurissima tanto che mi hanno sempre scambiato per colombiano. In effetti sono nato al confine con quella terra e per diventare seriamente ciclista spesso mi sono spostato di là. Chi mi ha scoperto è andato in giro per l'Europa a dire che sono forte, addirittura fortissimo, che assorbo facilmente quello che mi viene spiegato, ma non vorrei che si sapesse troppo che imparare l'inglese per me è stato più difficile che andare in salita.
Sono forte sul passo, ho vinto titoli in pista e a cronometro. Ho spunto veloce. La prima volta che sono venuto in Europa mi hanno sottoposto a dei test fisici dai risultati, a sentir loro, sbalorditivi. Io sono sempre “andato”, senza preoccuparmene. Salita, discesa, pianura, volata, pista: insomma davvero forte ovunque.
Salita. Per arrivare a casa mia ho percorso migliaia di volte un “puerto”, come diciamo noi in spagnolo, di cinque chilometri. Mi allenavo in montagna e quindi le salite al Giro non mi fanno troppa paura. Leggo dappertutto scritte che richiamano al Pirata Pantani. Lui davvero andava forte in salita, davvero non aveva paura in bicicletta. Quando vinceva il Giro, io avevo un anno, e dalle nostre parti non si faceva che parlare di quella volta che c'è stato il Mondiale in Colombia e lui arrivò sul podio.
Pista. Ho fatto il record mondiale di inseguimento giovanile sui tremila metri. Non sono Ganna, è vero, ma nemmeno uno sprovveduto.
Tra questi compagni di sventura in fuga non sono molto conosciuto non fosse per la squadra in cui corro. Non ho la verve di Pellaud, quello attaccherebbe anche nelle tappe di riposo; non parlo con l'accento toscano come Clarke, non sono a caccia di un contratto come Rosskopf e Campenaerts, non sono amato da tutti come Benedetti: lui si mette davanti al gruppo e non si sposterebbe per nessun motivo. Però vado forte nelle giornate come quelle di oggi e gli altri forse non lo sanno.
In Ecuador scrivono di me che vengo dal cielo perché sono nato e ho vissuto a tremila metri di altitudine dove la temperatura media è di dieci gradi e fa sempre freddo. E piove. Cosa volete che sia un'atmosfera così per uno come me? Pensate: oggi mi sembra di stare nei Paesi Baschi, non in Romagna, un posto che adoro perché piove sempre e fa freddo. Almeno quando vado in bicicletta.
Mi chiamano “avioneta”, l'aeroplano. E quindi attacco, plano dopo l'ultima salita con un ucraino che parla in bergamasco. Lui fora. Che sport di merda il ciclismo, vero? Me ne vado, pennello le discese, un po' presuntuoso mi paragono ad un'artista. In alcuni tratti appaio indeciso perché tiro il freno e prendo meno rischi possibili: se sentiste quello che mi stanno urlando nella radiolina rallentereste anche voi. Dicono che sia timido, ma con una volontà di ferro. Conoscete ciclisti senza carattere?
Ho peccato di superbia: tre anni fa Carapaz, Caicedo ed io abbiamo fatto baldoria. Abbiamo bevuto un po' troppo durante il ritiro della nostra nazionale prima dei Giochi Bolivariani, ci hanno beccati e cacciati. Fu una leggerezza. Ci hanno espulsi ma siamo tornati. Caicedo ha vinto una tappa pochi giorni fa, Carapaz ha vinto il Giro lo scorso anno, e la storia che a casa ha un grosso tacchino che fa da guardia al Trofeo Senza Fine non so se sia vera, ma è incredibilmente affascinante.
Pianura. Guardo dritto in posizione da cronometro, faccio il mio passo, mi frullano per la testa mille pensieri. Portal, quello che so del ciclismo lo devo tutto a lui; la mia terra, Playón de San Francisco, quello che sono lo devo all'Ecuador. Mio fratello, la scuola di Medicina che mi avrebbe accolto se non mi trovassi dove sono oggi, le corse in Francia dove mi sembravano tutti matti, ma se ho imparato a correre è perché lì si fa sul serio. Vedo il mare, ci sono delle giostre chiuse che sembrano carcasse di mostri giganti. Poco più in là il traguardo. La pioggia: anche in una giornata come oggi è benedetta, mi è amica. Quanto mi piace la pioggia? Quello che per gli altri sono schiaffi per me sono carezze. E un clima così? Non potrei volere altro. D'altronde sono Jhonatan Narvaez e arrivo dal freddo.
Foto: Gabriele Facciotti/Pentaphoto
Il numero 94, il numero 1 e altre storiellette
Fa freddo e c'è vento. È quasi buio pur essendo passato da poco mezzogiorno. Le mani sono intirizzite. Cerco di scaldarmele come posso e la possibilità migliore me la dà una vecchia osteria con i mattoni a vista che ha la fortuna di affacciarsi sul rettilineo d'arrivo.
So che i corridori passeranno almeno tre volte sul traguardo e quindi c'è tempo di bere qualcosa per provare sollievo e acclimatarsi per bene scambiando due chiacchiere e scattando pure qualche foto. Arriva un massaggiatore di una squadra che funge da vivaio per un team di professionisti. Anticipa il gruppo, entra nel bar e chiede di riempire le borracce con del tè caldo. La barista sgrana gli enormi occhi verdi ed esclama: «Abbiamo fatto fuori trecento bustine di tè!» gli dice «E non possiamo nemmeno muoverci da qui perché la strada è chiusa» alludendo al passaggio dell'ultima tappa del Giro del Friuli.
Perché se fa freddo per noi che siamo chiusi al caldo con la compagnia di un bicchiere di rosso della casa, immaginarsi chi sta in strada. C'è bisogno di qualche bevanda calda per i ragazzi e di ogni malizia. Ogni tanto vanno strigliati perché «oggi non ce la faccio» dicono, ma è stata una corsa dura e si chiude un occhio, e se qualcuno preferisce fermarsi questa non è la giornata per usare il bastone «perché nei momenti di sconforto vanno sempre supportati» mi raccontava un direttore sportivo proprio nei giorni scorsi.
L'abbigliamento è importante mi dice il componente dello staff di un'altra squadra, anche lui passato al volo in quel bar chiedendo «Tè caldo, per favore!» per riempire qualche borraccia. «Se oggi sbagli qualcosa sei letteralmente fottuto». Testuale. E di quel gruppo di centoquaranta ragazzi, di fottuti, per usare il termine che mi frulla ancora per la testa, ne sono quasi la metà. «Vestirsi in modo adeguato è fondamentale, il problema però sono le gambe: scoperte e al freddo per tutto il giorno».
Arriva il primo corridore ritirato; lo avevo già notato alla partenza un paio di ore prima, si era staccato subito dopo il via mentre la pioggia era forte, quasi una bufera, sembrava bava appiccicosa. Poggia la sua bici, una Scott gialla con il numero novantaquattro, su una botte ornamentale fuori dall'ingresso dell'osteria. Entra battendo i denti, completamente grondante pioggia come una bistecca al sangue. Lo sguardo è perso, il viso assume tratti violacei. «Bevi qualcosa di caldo» gli faccio. «No, grazie. Fra un po' arriva l'ammiraglia» risponde lui. Un'ora dopo è ancora lì, impietrito verso la porta, continua a battere i denti come stesse parlando l'alfabeto della fatica e dello strazio e nel frattempo il bar continua a riempirsi di corridori. Ci sono i bulgari: si ritireranno tutti in un colpo dopo aver chiuso regolarmente in coda ogni tappa. Volevano onorare la corsa e lo hanno fatto, ma il livello è davvero alto. A loro importava soltanto esserci.
Arriva un corridore dietro l'altro; si fermano, cercano l'ammiraglia. Alcuni sembrano reduci, altri naufraghi: hanno diciannove, venti, ventuno, ventidue anni, alcuni anche venticinque o ventisei e persino più di trenta. Un ragazzo si è fermato, ha poggiato la bici e si è tolto gli scarpini. Ha i calzini fondi d'acqua e ora corre sul marciapiede in mezzo alle pozzanghere cercando qualcuno, forse un parente, un collega o forse scappa semplicemente perché non sa che fare come quando un ciclista va in fuga sapendo di essere ripreso. Sono spaesati, contriti, chi gliela fa fare? chiedevo giorni fa a un ex corridore. «La crudeltà di questo sport è che pedali con ogni tipo di clima, e fai fatica, fisica e mentale e poi non sai nemmeno se l'anno dopo continuerai a correre o se quello che stai facendo diventerà il tuo mestiere».
Il mestiere che sarà di sicuro quello del numero uno della corsa, un norvegese alto con i capelli rossi e le lentiggini, ha dominato e l'anno prossimo correrà tra i grandi mentre tutti bisbigliano: “è un predestinato”. A fine gara la sua fame non è placata nemmeno dalle tre maglie conquistate e dalle due tappe: divora una pizza in meno di cinque minuti.
Resta tempo per accennare alla storia di quel ragazzo che arriva terzo di tappa, illuso ed esultante convinto di aver vinto: un grido di gioia che se potesse tornare indietro strozzerebbe in gola o legherebbe ben stretto con un fil di ferro. La rabbia è la sua, la delusione è quella del secondo arrivato; ha gli occhi rossi di chi non ha smesso di piangere. E non smette di piangere nemmeno un altro corridore in maglia giallo fluo. Fermo per minuti che appaiono sia a me che a lui interminabili, dietro il palco delle premiazioni. La testa è retta dal palmo delle mani e ha una caviglia gonfia e fasciata. Eppure è venuto a prendere lo stesso il premio dei traguardi volanti.
Torno indietro e passo davanti al bar e il numero novantaquattro è ancora lì che aspetta. Sta cercando di farsi caldo strusciando le mani su tutto il corpo ancora mezzo scoperto. Indossa gli indumenti di gara e chiacchiera con un altro ragazzo, lombardo sembrerebbe dall'accento. Il viso ha preso un po' più di colore, forse l'hanno convinto a bere qualcosa. Entrambi continuano a sbattere i denti e forse si capiscono così. Io invece li guardo e non capisco, ma apprezzo e domandandomi ancora una volta chi gliela fa fare, non posso che provare empatia per chi fa questo mestiere disgraziato.
Caro Mark, il futuro è importante
«Vorrei incontrare il me stesso del passato per dargli un consiglio. Gli suggerirei di vivere con maggiore serenità. Di prendere la vita ed anche il ciclismo con leggerezza. Non è poi così importante essere il migliore del mondo, puoi anche vincere qualche corsa in meno. Puoi, nessuno te lo impedisce. Sei tu a impedirtelo. Cerca di essere la versione migliore di te stesso. Solo quello». Lo ha detto Mark Cavendish, solo qualche anno fa, quando tante cose erano già accadute ed il futuro non era più quel tempo a cui correre incontro ad ogni costo. Anzi, il futuro, quel futuro lì, faceva paura. Anche ieri Mark Cavendish ha avuto paura del futuro, quando, dopo una giornata all'attacco, giunto al traguardo della Gand-Wevelgem con oltre sei minuti di ritardo dal vincitore Mads Pedersen, ha dichiarato piangendo: «Potrei aver corso l'ultima gara della mia carriera». E chi avrebbe mai immaginato qualcosa di simile da Mark Cavendish? Mark Cavendish abbiamo imparato a conoscerlo in altro modo, con quel fare a tratti "arrogante", ma chi vince può permetterselo perché Cav è stato davvero il migliore velocista al mondo per alcuni anni, con quella sicurezza inscalfibile che anche di fronte alle sconfitte gli consentiva di affermare di non aver sbagliato niente e che, in fondo, gli avversari erano stati fortunati, con quelle esultanze scenografiche condite da parole al vetriolo indirizzate a chiunque avesse dubitato del suo talento o delle sue capacità. Sì, Mark Cavendish è cambiato e non ne ha fatto mistero. Si è messo a disposizione degli altri, suscitando l'ilarità degli sciocchi o degli offesi: «Non mi interessa nulla di tutta quella merda che riversate sulle pagine dei vostri giornali o sui social. So bene cosa significhi fare il gregario, cosa credete? Quando Wiggins ha vinto il Tour, tiravo in salita. Ma di cosa parlate?».
Alcuni offesi, specie quelli che hanno un potere, un potere di penna in questo caso, sono come i virus, direbbe Cavendish che con l'Epstein-Barr ha combattuto e combatte, o come il futuro, diciamo noi. Non ti sfiorano nemmeno fino a quando sei all'apice ma appena crolli ti mordono con tutti i denti che hanno. Cavendish da uomo imbattibile, in un batter d'occhio, si è ritrovato uomo solo: «Nessuno mi credeva, nemmeno gli amici. Pensavano tutti fossi scomparso perché non volevo più correre, perché non volevo più combattere. La gente voleva il vecchio Cavendish, voleva che il ragazzo di oggi sfidasse il virus e lo controllasse per restituire il ragazzo di ieri. La realtà è che combattere con un virus è molto difficile. Non puoi prevederlo, ti può annientare. Se nemmeno chi hai accanto ti crede, come puoi pensare di farcela?». Cavendish è cambiato quando ha dovuto affrontare la sofferenza e l'incomprensione. Quando guardando avanti non ha più visto vittorie e successi ma ansietà e paure. Puoi evitare di guardare, ma sai che stai andando in quella direzione e negli occhi hai l'orrore: inizi a non riconoscerti più, inizi a sentirti debole, e non solo di volate si parla, inizi a riconoscere che hai bisogno di tutti. Che da solo proprio non vai: «Ammiro molto mia moglie. Se i nostri bambini sono cresciuti come stanno crescendo lo devo a lei, è una mamma eccezionale. Bada a loro, non facendogli mancare nulla e poi bada anche a me. Ho più di trent'anni, è vero, ma sono ancora un bambino».
Anche questo non lo avremmo mai detto perché Cavendish sembrava così distante da tutto quello a cui ora è così vicino. Ora ha imparato a ricredersi, per esempio, e ad ammetterlo: «Quando sono arrivato in Bahrain e ho incontrato Roger Hammond, il direttore sportivo, ho subito pensato che da lui non avrei avuto mai niente da imparare. Non riuscivo a capire cosa avrebbe potuto insegnarmi. Evidentemente non avevo capito nulla: da Roger Hammond ho imparato tanto come da Rod Ellingworth. Il loro "esserci" mi ha salvato molte volte». Mark Cavendish, in realtà, ha imparato anche tante altre cose che sicuramente lo hanno reso un uomo e un padre migliore. Un padre di cui i figli possano dirsi fieri. Un padre che sa che, talvolta, nella vita è necessario mollare la presa se non si vuole essere travolti. C'è ancora una gara a cui Cavendish risulta iscritto, la Scheldeprijs di mercoledì. Chissà se la correrà. In molti se lo augurano. Qualcuno, ieri sera, ci ha detto: «Se smette anche Cav, avranno smesso quasi tutti gli atleti di quando ero bambina. Fa tristezza». Sì, certe volte crescere e guardare avanti fa tristezza ma abbiamo il dovere di farlo, riscoprendo una semplice verità, sepolta in mezzo a qualche chiacchiera della società. Il futuro non è solo roba per sognatori, per poeti e navigatori. Il futuro non è solo lo scenario prediletto delle avventure dei bambini, non è qualcosa di minore da lasciare alle storie e alle favole. Loro lo hanno già capito, ora dovremmo capirlo anche noi. Il futuro è importante.
Foto: Marco Trovati/Pentaphoto
Alice Maria Arzuffi, oltre un attimo di fatica
Per Alice Maria Arzuffi sarà stato come tornare a casa, dal fango e dalla terra. Quella che Alice conosce talmente bene da prevederne caratteristiche e qualità. Quella "del Belgio" come dice lei e in quell'appartenenza del fango c'è già tutto: «Quando ti togli i vestiti, quando ti togli le scarpe e le metti da lavare, vedi uscire terriccio e fango mescolati. Fatichi a distinguerli ma li senti fra le mani quando strizzi le magliette. Serve una settimana per purificare completamente gli abiti, servono più lavaggi. La sabbia, perché quella belga è sabbia, filtra ovunque. Non riesci a spiegarti da dove provenga, sembra quasi che si rigeneri tra i tessuti». E sembra di sentire quella particolare sensazione del fango che schizza e ti ricopre la pelle, quasi una crosta in più strati che solidifica secondo dopo secondo per tornare a colare al primo contatto con l'acqua, arriva ovunque, anche in viso e perfino sotto gli occhiali che indossi per proteggerti. Non puoi nemmeno aiutarti con le mani, intanto perché sono ricoperte da guanti di fango e poi perché quei granelli, che trasudano umidità, screpolano la pelle e bruciano a contatto con gli occhi. Devi stare ferma, devi pedalare, serrare la bocca con tutti i muscoli per evitare che la terra finisca pure lì e pensare solo a far scorrere quelle ruote, che ora pesano più che mai, nella terra. La doccia del dopo corsa laverà l'inferno o almeno quello che per molti è inferno. Per Alice no, per Alice quella è fatica, tanta, passione, altrettanta altrimenti non sarebbe lì, volontà di interpretare e inventare ma soprattutto è un ricordo. Un ricordo d'infanzia.
«Sai, quando le mie colleghe mi chiedono stupite come faccia a correre in queste condizioni, tutta sporca, non so cosa rispondere. In realtà io sto bene quando faccio ciclocross. Forse anche per questo nel tempo ci ho pensato, ho pensato all'origine di questa passione. Credo di averla rintracciata in una abitudine che avevo sin da bambina. Dico sempre che mi piaceva "sporcarmi le mani", intendo che mi piacevano tutti i giochi in cui ci fosse da mescolare, da impastare, creare con le mani. Giocavo con la farina, cucinando, con il pongo e anche con le tempere. Ecco, per esempio, mi piaceva colorare con i pennelli ma preferivo colorare direttamente con le mani. Immergevo le mani nel colore e poi lasciavo le impronte sui fogli. Talvolta anche sul muro, sono sincera». Sarà quella fisicità ciò che Arzuffi ritrova nei percorsi del Belgio mentre, là fuori, l'odore delle patatine fritte si mescola a quello della birra e la fuliggine autunnale nasconde i contorni di una natura morente. Forse, poi, in questo periodo di distanze forzate, quella tangibilità sarà ancora più preziosa, sarà come ritornare a sintonizzarsi con tutto quello che c'è attorno. Alice Maria Arzuffi che da bambina danzava e avrebbe voluto imparare ad andare a cavallo. Al ciclismo è arrivata grazie alla cugina, Maria Giulia Confalonieri, che si è iscritta ad una squadra proprio in quei giorni. Così, oggi, Alice e Maria Giulia vivono di sguardi che parlano la stessa lingua e di parlare non hanno nemmeno bisogno. Uno sport che Arzuffi definisce «futurista, come una sorta di opera di Giacomo Balla per dinamismo e vivacità delle sue componenti». Proprio grazie al ciclismo ha imparato a fronteggiare l'altra sua anima, quella estremamente emotiva, quella retta da una mente che non si ferma mai.
«La mia testa è in continua azione, non ho quasi mai un attimo di tregua. Ragiono su quello che è accaduto, progetto quello che accadrà, non senza ansie e nervosismi. Maria Giulia, scherzando, dice che sono sempre arrabbiata. Non sono arrabbiata ma, spesso, sono tesa. Ed è questa ansia, questa tensione, a togliermi serenità e a penalizzarmi in corsa. Per fare bene il proprio lavoro serve tranquillità, serve serenità. Devi avere la mente sgombra per affrontare lucidamente le difficoltà che ti troverai davanti». In quei momenti in gara la sfida è anche una sfida mentale: «Quando facciamo fatica, troppa fatica, tutti ci sentiamo impotenti. Sai perché? Perché, in quei momenti, non riusciamo a vedere il momento in cui la difficoltà finirà, in cui arrivando in vetta torneremo ad alleggerire il rapporto e a distendere i muscoli. Quel momento invece c'è e non te lo porterà via nessuno, a patto di resistere per quell'attimo. Il segreto è superare quell'attimo. Poi ce la fai. Questo non lo penso solo quando sono in salita o in mezzo al fango. Lo penso anche quando devo fronteggiare i sacrifici che la vita da ciclista impone. La fatica è temporanea, ricordiamocelo. il mio primo allenatore, Daniele Fiorin, ce lo diceva quotidianamente. La vita da ciclista non durerà per sempre, non sarà sempre così. Stringete i denti e resistete oggi. Datevi motivazioni per non mollare oggi, vi aiuteranno anche domani».
Foto: Bettini
Michele Scarponi, l'Etna e quel ciclismo infinito
Michele Scarponi voleva che tutto fosse perfetto per quel Giro d'Italia 2011. Per questo, a primavera, scelse insieme ai suoi direttori sportivi, Roberto Damiani e Orlando Maini, e alla sua squadra, la Lampre, di andare ad allenarsi all'Etna. "A Muntagna" come la chiamano lì, quella stessa montagna da cui si vedono le alture ma anche il mare. A dire il vero, qui sopra si vede solo nero, tanto nero: sono le pietre laviche bruciate. Sembra quasi di percepire l'odore acre del fuoco che divora lentamente la sua preda, non potendola consumare con un'unica fiammata. Fuoco che mangia altro fuoco; questo sono i vulcani. Scarponi, però, guardava altrove, a quel lontano 15 maggio che, assegnando la prima tappa con arrivo in salita, avrebbe stravolto la classifica generale. Alberto Contador, il Pistolero, e Vincenzo Nibali, lo Squalo dello Stretto, sarebbero stati lì e lui doveva essere con loro, anzi, davanti a loro. Marco, fratello di Michele, lo spiega molto bene: «Michele voleva vincere. Quando a Natale giocavamo assieme a carte, se non vinceva, ad un certo punto iniziava a scherzare, a ridere, a prenderti in giro. Poi buttava il mazzo sul tavolo e se ne andava. Se giocavamo a ping-pong e perdeva mi tirava la racchetta. Grazie a quella bicicletta, al tempo, alle tante vittorie e alle tante sconfitte, Michele è cambiato, è cresciuto. Diventato padre, Michele ha capito che oltre alla vittoria c'è qualcosa di molto più importante. Lui lo aveva capito e stava cercando di donarlo a tutti». Passano giorni, settimane, mesi ed arriva il Giro d'Italia. Arriva la nona tappa, 169 chilometri: da Messina all'Etna.
Le speranze sono tante, la realtà non è quella desiderata. Quel giorno Scarpa non c'è. L'arrivo è situato a pochissimi metri dall'albergo dove la squadra ha effettuato il ritiro pre-Giro; il luogo peggiore che possa esserci, quello dove i ricordi e le aspettative si mescolano all'amarezza per una situazione che delude tutti. Michele si chiude nel silenzio, non vuole parlare con nessuno e per giorni non sembra nemmeno un lontano parente del ragazzo che tutti conoscono. Roberto Damiani se ne accorge e ne parla con Orlando Maini: «Michele soffriva. Tutti lo raccontano come un ragazzo allegro, simpatico, divertente, se vogliamo. Scarpa era così ma dentro aveva un animo estremamente sensibile, un animo da maneggiare con cura e delicatezza. Decidemmo di aspettare qualche giorno, confidavamo nella cura del tempo per quella delusione». Quando la terza settimana di Giro si avvicina, Michele è ancora con il morale a terra. Quasi rinunciatario. Damiani va in camera da Maini: «Scarponi non può continuare così; fa male a lui ed anche a noi. Deve scrollarsi di dosso questa sofferenza e, se decide di continuare il Giro, deve farlo con la convinzione dei primi giorni. Bisogna parlarci. Tu lo conosci meglio, sai meglio come trattarlo, ci parli tu?». Orlando Maini bussa alla porta di Michele quella stessa sera.
Si siede sul letto accanto a lui, lo guarda negli occhi pensando a come impostare il discorso. Poi decide di andare dritto al punto: «I discorsi preparati non mi sono mai piaciuti, gli dissi ciò che sentivo. Iniziai così: «Michele, cosa succede? Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo fatto per arrenderci così? Molliamo tutto, molliamo tutti e andiamo a casa in questo modo? Sei sicuro di volere questo?». Michele era molto critico verso sé stesso quando non raggiungeva il traguardo che si era prefissato. Avevamo un gruppo di lavoro forte e coeso. Michele aveva bisogno di metabolizzare. Quel discorso andò a toccare il suo orgoglio. Servivano semplicità, delicatezza, sensibilità. E lo vedevi che si riaccendeva, che iniziava a farmi domande. Sono tornato in camera in brodo di giuggiole dalla contentezza. Lavorare con Michele è stato un privilegio. Sappiamo tutti come finì quel Giro: davanti a Nibali, un successo importante. Fino a che, con la squalifica di Contador, il Giro d'Italia venne assegnato proprio a Michele».
E, riguardando le immagini della tappa di ieri, noi ripensiamo a ciò che ci disse Marco Scarponi qualche tempo fa: «Il ciclismo è infinito, ricordiamolo sempre».
Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto
Aiutarsi a vivere e magari a vincere
Quando Diego Ulissi è salito sul terzo gradino del podio al Giro dell'Emilia, il 18 agosto, l'amarezza del suo sguardo offuscava parte della soddisfazione per i risultati, comunque soddisfacenti, che il corridore toscano stava ottenendo. Sempre lì, secondo, terzo, quarto, quasi il primo posto fosse maledetto. I ciclisti lo spiegano bene: quando manca sempre meno a raggiungere un risultato e non ci riesci, quella volontà, tendenzialmente, diventa una sorta di ossessione, accresciuta dal fatto che manchi poco. E, quando "un'ossessione" ti tormenta, diventa tutto più difficile, dentro e fuori. Dentro perché tutto ti ricorda che sei lì ma non sei primo, perché inizi a pensare a tutto ciò che avresti potuto fare diversamente (e sai bene quanto è inutile ma la tua testa è fatta così e devi conviverci), perché vorresti un pizzico di quel sollievo che viene dal vincere, magari vorresti dedicarla alle tue figlie quella vittoria, a tua moglie che è a casa ad aspettarti, di certo le tue braccia fremono per la voglia di essere gettate all'aria. Così quando vinci, come ieri, le lanci all'aria con tale forza che ti chiedi come facciano a non farti male. Ma è così, quando sei felice non fa male. Accade anche con gli abbracci. Fuori, invece è più difficile perché la gente non sa, festeggia, ride, ti ferma, ti chiede, ti cerca e tu vorresti stare un attimo da solo, per ripensare a dove hai sbagliato. Non puoi perché sei un uomo conosciuto, perché il ciclismo è una festa, perché loro, le persone, non hanno alcuna colpa dei tuoi malesseri.
Diego Ulissi era sul podio e nella testa, probabilmente, aveva questo quando una giovane mamma con una bambina in braccio lo ha chiamato: «Diego, Diego lanciaci il cappellino». Ulissi si è voltato di scatto, inizialmente serioso, ha guardato la mamma, ha guardato la bimba e ha sorriso: «Non posso, mi spiace». La giovane donna ha capito e: «Non preoccuparti, sarà per un'altra volta». Si è voltato e ha iniziato a scendere gli scalini del podio. Ha sorriso pur non avendone alcuna voglia, ha sorriso per chi lo cercava. Capite l'importanza di questo dettaglio? Creare un sorriso per non deludere, perché sai che gli altri vorrebbero questo da te, perché sai che gli altri possono essere felici anche solo per questo. Perché «quel ciclista, quella ciclista, mi ha sorriso, mi ha salutato». Non è poco. Non è nemmeno scontato. Si tratta di una capacità profonda e difficile da acquisire; la capacità di accantonare il tuo "malessere" per qualcuno che ti cerca e ti vorrebbe felice. Per qualcuno che è nel mezzo di una festa e tu non vuoi rovinare la festa di nessuno. Ti ricordi come facevano i tuoi genitori da ragazzino, quando, negli attimi di gioia, ti omettevano le brutte notizie per permetterti di ridere senza ombre. Un poco ti arrabbiavi perché volevi sincerità ma oggi li ringrazi perché risate del genere non sai quando le farai più. E vorresti tanto qualcuno a coprirti le spalle.
E non conta nulla il fatto che il cappellino non sia stato regalato. Non conta assolutamente nulla. Ci sono delle cose che non possiamo fare e di fronte a queste poche parole possono valere. Alle regole non si sfugge, per dignità personale prima che per timore della punizione. Anche di fronte a queste, però, possiamo scegliere il modo di porci con chi ce le chiede. Per una bambina rinunciare al cappellino del proprio idolo è un sacrificio pesante e i grandi dicano ciò che vogliono ma tengano fede a un dovere. Quello di scivolare sulle vite degli altri lasciando il minor peso possibile perché quelle vite hanno già le loro complessità e le loro pesantezze. Cose che non possiamo sapere, non possiamo nemmeno lontanamente immaginare e per questo non dovremmo giudicare. Una cosa però la sappiamo: per andare avanti gli uomini si aggrappano a tutto, ad ogni segnale impercettibile, anche a quelli a cui dicono di non credere. Ecco, abbiamo il dovere di dare qualche segnale di questi. Sempre. Anche e soprattutto quando non ne avremmo voglia e questo segnale servirebbe a noi. Non c'è altra possibilità per aiutarsi, a vivere e a magari a vincere.
Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto
Tornerai, Miguel
Per Miguel Ángel López è crollato tutto dopo 9'38'' dall'inizio del Giro d'Italia. Lo ha spiegato lui stesso, ieri sera, in albergo, parlando con i suoi compagni: «Mentre appoggiavo le mani sulla protesi, ho sentito la bici scivolarmi via. Era impossibile trattenerla: si è ribaltata sotto di me. Qualcosa di incredibile». Il referto medico ha escluso fratture evidenziando solo una profonda ferita nei pressi dall'arteria iliaca, recupererà nelle prossime settimane, insomma. L'uomo è un impasto più complesso, l'uomo non può fermarsi al dato di fatto degli esami clinici, la sua mente non glielo permette. Come quando la scienza sentenzia: «Lei sta bene. Non ha nulla». E tu non riesci a spiegarti come sia possibile, tanto fa male. Forse il viso di Lopez, appoggiato alla testata del letto, con gli occhi rivolti verso l'alto, vuole dire proprio questo. Cenghialta, suo direttore sportivo, lo ha detto mentre lo attendeva in ospedale: «Ora si è tranquillizzato, ora è più calmo. Dobbiamo solo aspettare». Quel sorriso dissimulato, rivolto ai compagni, sottintendeva questo: «Sono più tranquillo, va tutto bene. Se non c'è niente di rotto va bene, come dire il contrario?». In realtà non va bene niente e, prima di tutto, non va bene aspettare. Aspettare ancora. L’attesa ha senso quando c’è la possibilità di riempirla di significato con ciò che verrà. Quando ti strappano via da ciò che hai atteso, come non fosse ancora il tuo turno, come non fosse lì per te, come tu non fossi la persona giusta, dell’attesa proprio non vuoi sentire parlare.
Non abbiamo mai corso un Giro d’Italia in bicicletta ma lo abbiamo percorso in auto, per raccontarvelo. Sappiamo cosa significhi l'attesa di un evento del genere che è poi simile ad ogni altra attesa cercata, voluta. Abbiamo vissuto l'immaginazione che ti traghetta lì, al tuo primo Giro d'Italia o al ventesimo ma poco cambia o dovrebbe cambiare. Se smetti di aspettare ciò che vuoi vivere che senso dai al tuo essere qui? Quando aspetti ciò che vuoi, le ore che si dilatano sono direttamente proporzionali alle paure che ti assalgono. Vuoi essere parte di questo qualcosa in maniera così forte che vedi tutti gli ostacoli che potrebbero impedirtelo e speri solo non si manifestino. Non è tanto questione di ottimismo e pessimismo, accade quando ci tieni. Come quando hai un appuntamento per una sgambata e dieci minuti prima squilla il telefono, la mente corre: «Dimmi che non rimandiamo». Come quando aspettate la vostra gara per tanto tempo. Accade come è accaduto per i tanti eventi in bilico in questo periodo di norme anticovid. Come è accaduto anche per questo Giro d'Italia, ad ogni risalita dei numeri dei contagi. Per gli appassionati, per noi che lo raccontiamo e gli vogliamo bene, e per tutti gli atleti che, su questo Giro, hanno scommesso mesi. Mesi duri, difficili, senza certezze, chiusi in casa, in un vortice di dubbi. Poi i giorni si avvicinano e il Giro parte. Tu sei lì e te lo dici: «Ci siamo. Ho immaginato bene, sono qui. Ora si va, via». E magari sei come Miguel Ángel López ieri e non lo sai. Non sai che dovrai gustarti quella manciata di chilometri e basta. Perché la "bicicletta ti si ribalterà sotto" e non potrai fare nulla. Ti caricheranno su una barella, ti porteranno in ospedale e, fatti tutti gli esami, ti indicheranno una prognosi. Un numero che ti dirà fino a quando dovrai aspettare per poterci nuovamente sperare.
Ma qui le ore saranno ancora più lunghe, i mesi più difficili, le stagioni interminabili. Sì, perché quando ti strappano via dal tuo momento poi sembra impossibile un ritorno. E se torni e poi succede ancora? Se torni e non accade nulla di quello che desideri? In certi momenti ti dici anche che è inutile tornare, ti chiedi il senso del ritorno. Di lavorare tutti quei mesi e poi chissà. Quanto può essere cattiva la vita? Non serve chiederselo. Serve riprendere in mano quella bici e andare. Tirando qualche pugno sul manubrio, imprecando, magari anche sbattendola contro qualche muro in qualche momento no: ma poi riprendendola in mano e controllando che sia a posto. E, magari, quella stessa vita ti farà trovare sul cammino qualcosa di così inatteso, ma bello questa volta, per cui valga la pena. Più verosimilmente non sarà qualcuno a darti una ragione per aspettare e tenere duro ma sarai tu stesso a doverla cercare. Perché lo sai bene ormai: chi aspetta può essere deluso ma chi smette di aspettare è disilluso. E questo è ben più grave. Un ciclista non può permetterselo, un uomo non può permetterselo. Ricordiamocelo quando aspettare stanca.
Foto: Bettini
Paolo Bettini racconta quel 28 settembre 2008
Paolo Bettini racconta in un video che cos'è per lui il 28 settembre. Oggi sua figlia Veronica compie diciassette anni e per lui diventa l'occasione per rievocare corsi e ricorsi. Perché quel 28 settembre 2008 ha significato la sua ultima gara, una scelta (quasi? forse?) doverosa dopo aver legato in maniera indissolubile la propria carriera alla maglia iridata.
Perché dopo averla inseguita per un decennio arriva, ma la vita gli porta via suo fratello. Nel 2006 a Salisburgo Bettini vince il Mondiale, dieci giorni dopo suo fratello muore in un incidente stradale e passano pochi giorni perché Bettini domini il Giro di Lombardia, in maglia iridata, appesantito dal dolore e dalle lacrime. Sauro, il fratello, come narra chi li conosceva da vicino, era una parte di lui. E Paolo, cresciuto nel mito di quel ragazzo che in bicicletta da giovane vinceva praticamente sempre, era straziato.
Paolo Bettini racconta di quando durante la Vuelta del 2008 aprì la valigia e trovò un biglietto scritto da sua figlia. Uno di quei disegni fatti a mano da un bambino che sembrano tutti uguali ma che per ogni genitore ha un significato unico e difficile da spiegare. Su quel biglietto c'è un disegno, il papà di Veronica con i colori iridati – che poi non sono altro che quelli dell'arcobaleno, avrà pensato lei – sopra la testa, e poi un messaggio scritto a penna: “non andare più in bici”.
Paolo Bettini quella decisione l'aveva già presa o forse no. Lui dice che la scelta era già stata fatta, ma pensare che quello sia stato il momento decisivo sembra appartenere a ciò che ci piace raccontare. E il 28 settembre del 2008, Veronica compiva cinque anni, e per Bettini sarà l'ultima corsa. E il 28 settembre 2008 sarà l'ultimo Mondiale vinto da un italiano. “Ballaaaan! Ballaaaan!” lo abbiamo ripetuto tante volte quell'urlo nella nostra testa, mentre Ballan, in maglia azzurra, dilaniava il centro di Varese.
Bettini restava dietro in gruppo mentre altri erano a lottare per le medaglie, come tante volte aveva fatto lui. Si prenderà il giusto tributo dai colleghi che lo scortarono fino al traguardo, mentre noi ci domandavamo perché uno così forte doveva abbandonare il ciclismo a soli trentaquattro anni e poche settimane dopo aver vinto due tappe alla Vuelta con la maglia iridata.
Lui lo ha raccontato oggi, 28 settembre, mostrando, con orgoglio, un momento intimo, privato. Quel messaggio scritto da una bambina che all'epoca aveva cinque anni e oggi diciassette. Sono passati dodici anni e sembra ieri: la gioia di Ballan, le lacrime di Bettini, il messaggio di sua figlia e Ballerini in ammiraglia. E pensare quanto stride il fatto che nessuno ci ridarà mai indietro il tempo passato.
Foto: Paolo Bettini/Facebook
Guillaume, Benoni e scacciare i cattivi pensieri
4 luglio 2017, Tour de France. Guillaume Van Keirsbulck è appena partito in fuga. Le televisioni gracidano al vento, in modo incomprensibile, il suo nome, mentre lui nella radiolina continua a ripetere: «Ca**o, ma dove vado da solo... non è forse meglio che torni indietro?». L'ammiraglia gli risponde di tirare dritto, che tanto qualcuno prima o poi si sarebbe unito alla danza; è un Tour de France e nessuno si farebbe sfuggire l'occasione. Tutto a un tratto, però, invece che colleghi in bicicletta, arrivano cattivi pensieri.
Il 27 giugno del 2011 Guillaume Van Keirsbulck stava procedendo verso casa di suo nonno per festeggiare, con un barbecue, la firma sul contratto con la Quick Step. Un salto in avanti per quel virtuoso ragazzo che aveva già mostrato tutto il suo potenziale; ora c'è la possibilità di studiare nella migliore scuola per uno cresciuto addentando biscotti e pavé e capace di vincere, da giovanissimo, la versione junior della Paris-Roubaix.
Era solo in macchina, Van Keirsbulck, la sua ragazza, Emilia, lo seguiva su un'altra auto perché l'indomani avrebbe dovuto alzarsi presto per andare a dare un esame all'università. All'improvviso l'auto della ragazza sbandò, probabilmente Emilia stava cercando di afferrare qualcosa sul sedile, tanto da slacciarsi la cintura di sicurezza. Il movimento costrinse l'auto su una pista ciclabile, poi un dosso, una sterzata improvvisa. Emilia, presa dal panico, finì sulla corsia opposta colpendo in pieno un motociclista che arrivava in senso contrario. La tragica corsa si spense contro un albero. Tutto questo Guillaume lo vide dallo specchietto retrovisore. L'auto si ridusse ad un ammasso di lamiere e fu proprio Guillaume che provò a liberarla. «Morì tra le mie braccia» racconta.
Lungo da sembrare infinito, elegante con lineamenti quasi irritanti come fosse un Fonzie belga, Guillaume Van Keirsbulck si porta dietro la tragedia. Poche settimane prima di quell'incidente, al Giro d'Italia si consumò la fine dell'esistenza di Wouter Weylandt, amico di Guillaume. Al funerale del corridore belga c'era anche Van Keirsbulck a portare la bara.
Intanto Guillaume al Tour resta solo e al vento. Nessuno lo ha raggiunto, vestito dei colori blu cenere della Wanty Gobert ha percorso una sessantina di chilometri in solitaria. Più che brezza quella che spira dappertutto è una masnada di pugni in faccia; la fuga solitaria al Tour in una tappa di pianura appare quasi strategia del terrore. Già, quel terrore che attanaglia la sua esistenza e lo butta giù.
Racconta a Cyclingnews: «Subito dopo quell'incidente mi rimisi subito in sella per provare a vincere per lei e ci riuscii», ma la notte doveva ancora arrivare e quei terribili pensieri non andavano via. «A fine stagione finii in un buco nero». Staccò dalla bicicletta, iniziò a uscire tutte le sere, a bere. «Se fossi rimasto a casa sarei impazzito».
Prosegue Van Keirsbulck al Tour sulle strade che portano a Vittel, nei Vosgi. C'è gente ovunque da non capire nulla, la gola secca mentre i rumori si fondono con le immagini e i pensieri continuano a viaggiare ancora più veloci.
Come quelli del nomignolo il “nuovo Boonen”: una condanna. Affascinante come il fuoriclasse a cui è stato paragonato, Van Keirsbulck non è mai riuscito minimamente a sfiorare le imprese del quattro volte vincitore della Parigi-Roubaix. E intanto il tempo passa.
Così come i chilometri in fuga in solitaria. Il suo diesse prova a fargli coraggio, ma ora non serve, i cattivi pensieri sembrano andare via, sono come uno schizofrenico boomerang e quando sono distanti, Guillaume è attraversato da una sorta di aura di tranquillità. «Quasi duecento chilometri in fuga al Tour? Mi sono divertito! Era pazzesco vedere quanta gente mi incitava e per una volta ero da solo a godermi il momento». E poi di nuovo altri pensieri.
Come quelli su suo nonno, Benoni Beheyt. Un reietto per il sacro impero di Van Looy e del ciclismo belga. Siamo ai campionati del mondo di Ronse, Belgio. Come in un viaggio nel tempo all'improvviso è l'11 agosto del 1963. Tutto è apparecchiato per il terzo titolo di uno dei più grandi della storia. Qualcosa però non va come deve andare – ci verrebbe da dire che è il ciclismo, la vita, eccetera. Van Looy vuole a tutti i costi il terzo titolo – che mai conquisterà - come l'altro grande Rik Van belga (Rik Van Steenbergen), e muove la corsa quasi a suo piacimento. Si arriva in volata, Van Looy è davanti, all'improvviso Benoni (quel nome è un omaggio al nonno di origine italiane) Beheyt lo affianca, toglie una mano dal sellino, sposta il suo capitano - lo trattiene o lo spinge non si è mai saputo per certo -, lo brucia sul traguardo: è il tradimento di Ronse. Beheyt da quel momento verrà trattato come homo sacer, diventerà un reietto con Rik Van Looy che passerà le stagioni successive boicottandolo e ostracizzando ogni suo intento. Un infame agli occhi del popolo belga e di un gruppo che subisce il fascino dell'Imperatore di Herentals. A ventisei anni abbandona il ciclismo. Resterà in gruppo come motociclista al seguito delle corse e si racconta (verità o leggenda?) che un giorno, pulendo il fucile in una battuta di caccia, uccise per sbaglio uno dei suoi figli. In una recente intervista rilasciata a Marco Pastonesi, dice che Van Looy non gli ha rivolto la parola per decenni e che solo negli ultimi tempi si sono scambiati qualche buongiorno e buonasera.
Ma è ancora fuga al Tour: Van Keirsbulck porta avanti la sua personale sfida col gruppo che inizia ad organizzarsi per la volata, pianura ce n'è ma anche un paio di salitelle sulle quali Van Keirsbulck prova a forzare. Le gambe, atrofizzate, spingono, dalla radiolina arrivano urla di sostegno, ancora una volta il suo sforzo è mirato ad annebbiare i pensieri.
Come quelli che lo rimandano all'incidente stradale di un anno prima. Usciva da una stagione difficile per problemi fisici e da un fastidio alla schiena. Usciva ubriaco da una discoteca. Si schiantò contro un albero «ma ne uscì illeso. Di ferito ci fu solo la sua reputazione» riportano i media tempo dopo. Quegli stessi media che lo crocifissero sulle prime pagine trattandolo come un cattivo ragazzo.
Ora al Tour lo riprendono. Siamo in vista del traguardo. Quasi duecento chilometri di fuga. Si arriva in volata e mentre lui si fa sfilare, esausto, ma felice - «Per una volta tanto meglio che starsene in gruppo a saltellare su una ruota oppure bello tranquillo in scia ad una moto» - Démare vince e Sagan viene squalificato per una scorrettezza nei confronti di Cavendish.
Oggi Van Keirsbulck corre ancora, è un ragazzo giovane - ha ventinove anni – ma sembra abbia bruciato tutto con la velocità di una felce secca intorno al fuoco e la felicità per lui resta un fatto relativo. Fatica in mezzo al gruppo, ma non lascia il segno. Non sarà al via del Mondiale di Imola, non sarebbe potuto essere altrimenti. Nelle prossime settimane ci sarà modo di correre vicino casa e l'anno prossimo persino il Mondiale in Belgio: chissà che non ci stia pensando. Chissà che ne abbia ritrovato il tempo. Chissà che sia riuscito a scacciare i cattivi pensieri. Anche solo questo sarebbe una grande vittoria.
Foto: Van Keirsbulck/Twitter