Alex Dowsett, una vittoria che vale ben una lacrima

Alex Dowsett, qualche anno fa, ha rischiato di non essere più quello che tutti conosciamo oggi. Quello che, in fondo, era sempre stato. Può succedere nella vita. Può succedere quando ti metti a fare qualcosa e scopri che ti riesce abbastanza, di più, scopri che sei proprio bravo a fare quella cosa. Che hai un talento. Dowsett, tra il 2013 e il 2014, ha capito di essere un asso nelle prove contro il tempo: oro ai Giochi del Commonwealth, sei volte campione britannico, Record dell'ora nel 2015 e piazzamenti di prestigio internazionale. Il talento è prezioso, certo. Ma ha una doppia faccia, come tutte le cose. Può farti perdere il contatto con la realtà, può convincerti di essere superiore agli altri, non più bravo in un determinato campo, quello ci sta, proprio superiore. Può portarti ad atteggiamenti di superbia. Può accadere a tutti, forse ci sono più probabilità che accada a chi magari, per arrivare a quel punto, ha sofferto molto, a chi, per qualunque motivo, non credeva in alcun modo di poterci arrivare, alle persone che nessuno credeva avrebbero potuto arrivarci. Non tanto o non solo per mancanza di fiducia nelle loro possibilità ma perché la natura ci ha messo lo zampino. Ecco, quando accade così, e tu arrivi a dimostrare a tutti il tuo talento, e arrivi comunque ad avere successo, puoi reagire in due modi: ricordandoti di te da ragazzo e provando a fare qualcosa per i ragazzi e le ragazze che oggi sono come te, oppure puoi reagire altezzosamente, senza controllare quel senso di rivincita col mondo che ti porti dentro. Un senso di rivincita che non è detto sia negativo ma, come tutte le pulsioni, ha bisogno di essere incanalato, di essere indirizzato, affinché non sia sprecato. Affinché sia "meritato" e lo si renda utile, seme e non erba cattiva.

Ad Alex Dowsett stava succedendo questo, perché quel senso di rivincita era deragliato, fuori controllo e Alex aveva dimenticato il motivo che lo aveva portato lì e se dimentichi il motivo per cui fai qualcosa, hai scordato tutto. Poi ci furono le parole di una signora in Portogallo. Una signora che non lo conosceva, o meglio, una signora che conosceva quello che era Alex Dowsett e non quello che stava diventando. Gli disse: «Grazie infinite, Alex. Ora so che mio figlio potrà condurre una vita normale». E Dowsett ricordò. Ricordò le corse in ospedale perché, quando da bambino si tagliava, anche per un minimo taglio, il sangue usciva a fiotti, non si arrestava più. Ricordò l'ansia dei suoi genitori, le paure per qualunque cosa facesse. Alex Dowsett scoprì così di essere emofiliaco: il suo sangue non coagulava bene e per rimediare a questo servivano delle iniezioni. Ma in realtà serviva molto di più, era necessario convincere tutti gli adulti che lui avrebbe potuto essere esattamente come loro. Dowsett, quel giorno, ricordò questo, ricordò i compleanni degli amici, a cui non veniva invitato per paura di quello che sarebbe potuto succedere se solo fosse caduto, se solo si fosse sbucciato un ginocchio. E pensare che Alex aveva imparato sin da bambino a farsi da solo quelle iniezioni ma le persone hanno paura, anche giustamente, se vogliamo, e non puoi farci niente.

E c'erano le storie che papà gli raccontava abbracciati sul divano: storie di sport, perché Phil Dowsett, questo il nome del padre, era stato un pilota di British Touring Car. Papà avrebbe tanto voluto che un domani fosse proprio Alex a fare da cantastorie per altri bambini, per i suoi figli. Forse per questo lo iscrisse a nuoto, perché voleva che il futuro del figlio fosse un futuro da raccontare, fosse un futuro di cui andare fieri. Sì, perché quell'istinto di rivincita verso ciò che ci capita lo abbiamo noi stessi ma prima di noi lo hanno, per noi, le persone che ci vogliono bene, i nostri genitori. A papà Phil piaceva immaginare Alex mentre raccontava storie a un nipotino perché questo voleva dire che suo figlio avrebbe potuto viverle quelle storie. Che suo figlio avrebbe potuto avere "una vita normale". Suo papà voleva esattamente quello che voleva quella signora e presto capì che l'unico modo per regalare una vita normale ad Alex era lasciargliela vivere come desiderava. Alex Dowsett desiderava correre in bicicletta.
Fu così che Alex Dowsett tornò ad essere il vero Alex Dowsett. Inizia in questo modo il racconto che questo ragazzo ha portato nelle città e nelle scuole con associazioni e campagne di sensibilizzazione. Per dire che è normale avere paura, sua mamma la ha ancora per le corse del figlio, ma l'emofilia è qualcosa con cui convivere, qualcosa da cui non farsi paralizzare, perché la medicina avanza e le cure ci sono. Lo testimonia lui, primo ed unico atleta professionista emofiliaco. Questa è la sua storia da raccontare a tutti e da gennaio a suo figlio. Già perché il desiderio di papà si è avverato e Alex diventerà a sua volta papà. Parlerà di tantissime cose con quel bambino, gli dirà che contro la paura si può sempre fare qualcosa e che la tua paura non è sprecata se serve a far coraggio ad altri. Poi gli racconterà delle gare e di quel giorno d'autunno in cui vinse una tappa al Giro d'Italia mentre piangeva e diceva che il futuro era tutto lì. E farà tanto perché queste storie non finiscano mai, perché l'immaginario di suo figlio sia il più variegato possibile. Un mese prima della nascita, per esempio, tenterà un nuovo record dell'ora e se ci riuscirà sarà ancora più felice perché quel bambino saprà che ancora una cosa in più è possibile.

Ad Alex Dowsett stava succedendo questo, perché quel senso di rivincita era deragliato, fuori controllo e Alex aveva dimenticato il motivo che lo aveva portato lì e se dimentichi il motivo per cui fai qualcosa, hai scordato tutto. Poi ci furono le parole di una signora in Portogallo. Una signora che non lo conosceva, o meglio, una signora che conosceva quello che era Alex Dowsett e non quello che stava diventando. Gli disse: «Grazie infinite, Alex. Ora so che mio figlio potrà condurre una vita normale». E Dowsett ricordò. Ricordò le corse in ospedale perché, quando da bambino si tagliava, anche per un minimo taglio, il sangue usciva a fiotti, non si arrestava più. Ricordò l'ansia dei suoi genitori, le paure per qualunque cosa facesse. Alex Dowsett scoprì così di essere emofiliaco: il suo sangue non coagulava bene e per rimediare a questo servivano delle iniezioni. Ma in realtà serviva molto di più, era necessario convincere tutti gli adulti che lui avrebbe potuto essere esattamente come loro. Dowsett, quel giorno, ricordò questo, ricordò i compleanni degli amici, a cui non veniva invitato per paura di quello che sarebbe potuto succedere se solo fosse caduto, se solo si fosse sbucciato un ginocchio. E pensare che Alex aveva imparato sin da bambino a farsi da solo quelle iniezioni ma le persone hanno paura, anche giustamente, se vogliamo, e non puoi farci niente.

E c'erano le storie che papà gli raccontava abbracciati sul divano: storie di sport, perché Phil Dowsett, questo il nome del padre, era stato un pilota di British Touring Car. Papà avrebbe tanto voluto che un domani fosse proprio Alex a fare da cantastorie per altri bambini, per i suoi figli. Forse per questo lo iscrisse a nuoto, perché voleva che il futuro del figlio fosse un futuro da raccontare, fosse un futuro di cui andare fieri. Sì, perché quell'istinto di rivincita verso ciò che ci capita lo abbiamo noi stessi ma prima di noi lo hanno, per noi, le persone che ci vogliono bene, i nostri genitori. A papà Phil piaceva immaginare Alex mentre raccontava storie a un nipotino perché questo voleva dire che suo figlio avrebbe potuto viverle quelle storie. Che suo figlio avrebbe potuto avere "una vita normale". Suo papà voleva esattamente quello che voleva quella signora e presto capì che l'unico modo per regalare una vita normale ad Alex era lasciargliela vivere come desiderava. Alex Dowsett desiderava correre in bicicletta.
Fu così che Alex Dowsett tornò ad essere il vero Alex Dowsett. Inizia in questo modo il racconto che questo ragazzo ha portato nelle città e nelle scuole con associazioni e campagne di sensibilizzazione. Per dire che è normale avere paura, sua mamma la ha ancora per le corse del figlio, ma l'emofilia è qualcosa con cui convivere, qualcosa da cui non farsi paralizzare, perché la medicina avanza e le cure ci sono. Lo testimonia lui, primo ed unico atleta professionista emofiliaco. Questa è la sua storia da raccontare a tutti e da gennaio a suo figlio. Già perché il desiderio di papà si è avverato e Alex diventerà a sua volta papà. Parlerà di tantissime cose con quel bambino, gli dirà che contro la paura si può sempre fare qualcosa e che la tua paura non è sprecata se serve a far coraggio ad altri. Poi gli racconterà delle gare e di quel giorno d'autunno in cui vinse una tappa al Giro d'Italia mentre piangeva e diceva che il futuro era tutto lì. E farà tanto perché queste storie non finiscano mai, perché l'immaginario di suo figlio sia il più variegato possibile. Un mese prima della nascita, per esempio, tenterà un nuovo record dell'ora e se ci riuscirà sarà ancora più felice perché quel bambino saprà che ancora una cosa in più è possibile.

Foto: Pentaphoto


La carne di Yoann Offredo

Il nero inghiotte. Un male oscuro. L'impossibilità di fare quel mestiere che ti è sempre riuscito così bene. La fatica a rialzarsi, il non riuscire a dormire la notte perché ancora pieno di energia. «Facevo circa trenta ore a settimana in bici e ora non sono più nemmeno abbastanza stanco per dormire la notte. Alle tre del mattino sono ancora sveglio e mi pongo delle domande. A volte mi sveglio pure in lacrime», racconta Yoan Offredo all'Equipe, annunciando il suo ritiro pochi giorni fa.

Bello, biondo, con quegli zigomi alti e lo sguardo intenso; a volte persino bellissimo in bicicletta, nato su due ruote come una creatura fatta di carne, leve, motrici, grasso e catene. Una speranza del ciclismo: quante aspettative che si riversano sulla schiena dei corridori? Una maledizione a volte soprattutto quando le avversità ti travolgono, meglio l'anonimato, a volte, anche se hai passato la tua carriera all'attacco. L'ingiustizia di dover cambiare mestiere a trentatré anni quando si vorrebbe ancora fare qualcosa, perché non si può accettare di dire basta, perché hai una caviglia a pezzi nonostante gli interventi chirurgici e il trapianto del tendine, e in bici non riesci a starci più. «Smetto di correre, volevo scrivere un post ma non sono in grado di farlo. Sono ancora nella fase della negazione. Ho sentito parlare di "piccola morte" quando un corridore si ritira: per me è sempre stato un concetto astratto. Quando corriamo abbiamo la testa sul manubrio e i paraocchi. Vorrei parlare con qualcuno ma dentro questo mondo non ho molti amici. Sono in una fase un po' di depressione. L'anno scorso Kennaugh e Kittel si sono ritirati a causa di questo male, ma è una parola ancora tabù in gruppo. La maggior parte dei corridori non si esprime e si nasconde dietro le apparenze: "ce l'ho fatta! Ho una bella macchina!". Io quando mi alzo al mattino sono triste nel non riuscire a trovare emozioni. Ho bisogno di un obiettivo da dare alla mia vita». Una macchina che ti travolge, ti mangia, ti sputa; un sistema che è un tritacarne con chi si mette a nudo e mostra la propria sensibilità.

A marzo del 2019 un episodio chiave che ferisce la sua anima e ne dilania il corpo. Il giorno preciso interessa il giusto, la gara era il GP Denain: una caduta terribile, una capriola volante nemmeno sull'asfalto ma sugli spigoli di una strada tempestata di ciottoli aguzzi. Riversato a terra mentre il tepore di un sole primaverile scaldava la pelle. Il trasporto in ospedale, la diagnosi iniziale che parlava di tetraplegia totale a causa di uno shock al midollo spinale. Il recupero lampo: trentasette giorni dopo è di nuovo in bicicletta. Il Tour del 2019, gli attacchi a vanvera, infiniti, a ripetizione, i minuti di vantaggio, in coppia fissa con l'amico Rossetto. Più di un amico, padrino di una delle figlie. Poi l'oblio e di nuovo quel dolore alla caviglia. Non riuscire a sentire il potere dell'adrenalina che diventa come una droga. La dipendenza dalle corse, dall'emozione, poi tutto scompare.

Fermato anni fa per un controverso caso di controlli saltati, «Vennero a casa mia mentre ero in corsa: come si può tenere conto di un caso del genere?», persino massacrato di botte durante un allenamento. Un'auto lo sfiorò, Offredo reagì, la donna alla guida scese con un coltello e l'uomo seduto dall'altra parte lo aggredì con una mazza da baseball. «Non sono arrabbiato, sono solo deluso dalla pericolosità di questo sport» disse quel giorno «non voglio che i miei figli un giorno lo pratichino», lui che divenne ciclista sulle orme del padre.

L'ultima corsa: l'Het Nieuwsblaad 2020, il 29 febbraio. Al nord come a lui piaceva, due volte nei quindici tra Roubaix e Fiandre e adatto alle corse di un giorno, settimo alla Sanremo del 2011 quando era ancora giovane e illuso che il ciclismo gli avrebbe dato tanto quanto lui aveva sacrificato per piacergli.
Prima di lasciare il ciclismo pedalato Offredo ha commentato il Tour de France 2020 per France Televisions mostrando quell'arguzia che gli tornerà utile nel riprendere gli studi. «Il prossimo anno mi iscriverò a un master di scienze politiche, specializzazione giornalismo». Per Yoann Offredo inizia una nuova fuga: qualcosa di buono il ciclismo glielo ha lasciato.

Foto: ARN/Pauline Ballet


Cento sfumature di solitudine

C'era un ragazzino, a Parigi, il 20 settembre. C'era anche l'ultima tappa del Tour de France, a Parigi, il 20 settembre. Quel ragazzino era accanto a delle transenne, più alte di lui, poste a protezione della bolla del gruppo, alla partenza. Quel ragazzino era lì per vedere. Per questo avvicinava gli occhi- chissà di che colore li aveva gli occhi- ad ogni fessura della transenna e provava a vedere oltre. Non crediamo abbia visto molto ma siamo certi che qualunque cosa vedesse gli bastasse, per restare lì tutto quel tempo. C'era silenzio, a Parigi, il 20 settembre e si sentiva tutto.

C'era Tao Gheoghegan Hart, a Milano, il 25 ottobre. C'era anche l'ultima tappa del Giro d'Italia, a Milano, il 25 ottobre. Tao Gheoghegan Hart aveva appena vinto il Giro d'Italia, dopo una cronometro corsa sul filo dei secondi. C'era una ragazza, Hannah Barnes, che gli correva incontro in una piazza Duomo deserta, avvolta nella nebbia. Anche Hannah è una ciclista. C'era Tao che le scostava la mascherina dal viso con una delicatezza indescrivibile, quasi a dire: «Fammi vedere ancora una volta quanto sei bella..». Poi c'era Tao Gheoghegan Hart che baciava Hannah Barnes. C'era silenzio a Milano, il 25 ottobre e si sentiva tutto.
C'erano Chris Froome e Rui Oliveira, a Madrid, l'8 novembre. C'era anche l'ultima tappa della Vuelta, a Madrid, l'8 novembre. Froome e Oliveira che si incontrano da qualche parte dopo l'arrivo, ancora in sella alle loro biciclette. Chris Froome che ha già vinto tutto ciò che si poteva vincere, Rui Oliveira che è al primo anno tra i professionisti. I due si erano fatti una promessa, chissà dove, chissà quando. Il loro è un appuntamento, in realtà, Froome toglie dalla tasca il suo numero e lo dona a Oliveira. Oliveira ringrazia, con un candore raro. C'era silenzio, a Madrid, l'8 novembre e si sentiva tutto.

Quel silenzio non lo avrebbe voluto nessuno. Quel silenzio non lo vorrebbe più nessuno. Perché è un silenzio surreale, perché è un silenzio che vorremmo fosse altrove. Ma quel silenzio c'è e, temiamo, ci sarà ancora per diverso tempo. Noi di quel silenzio vi abbiamo raccontato tre storie per raccontarvi una scelta. Si può vivere il silenzio come vuoto asfissiante e angosciante, come privazione immanente, oppure si può dargli la possibilità di essere altro. Di essere, per esempio, la capacità di cogliere ciò che nel rumore, nel caos, ci sfugge. Perché ritorneremo ad essere come eravamo un tempo. Prima o poi accadrà. E quando accadrà, forse, sapremo non farci travolgere dalla confusione e dalla folla, come viandanti distratti. Sapremo ascoltare ogni minima particella di caos e riconoscerne il valore. Sapremo vedere e raccontare più storie perché saremo meno distratti. Più felici, certo, ma soprattutto più attenti. E questo è ancora più importante.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


La Vuelta di Roglič è un pugno agli incubi

L'aria di novembre, ai quasi 2000 metri dell'Alto de la Covatilla, sagoma ogni volto mettendone in evidenza tagli spigolosi. Gli zigomi sono lunghi coltelli a fendere il freddo come schizzati da righe e squadre in un progetto geometrico appena abbozzato. Gli angoli dell'umanità sono acuti, aspri, rigidi come la natura delle montagne quando l'autunno dirada verso l'inverno. C'è questa realtà acuminata sullo sfondo e la dolorosa nenia delle ascese- Puerto del Portillo de las Batuecas-Alto de San Miguel de Valero-Alto de Cristòbal-Alto de Penacaballera-Alto de la Garganta- come aghi nelle gambe, quando Richard Carapaz scatta ai tre chilometri e mezzo dal traguardo e la corsa sembra precipitare in un vuoto temporale che isola, attrae e respinge. Il dolore in queste circostanze assume i contorni di una pietà trasfigurata. Il dolore trasfigura e viene trasfigurato quasi sfregiato, confondendo sensi e sensazioni in un turbine che toglie il fiato passando dalla vista o dalle gambe. Che annebbia la vista col bruciore di un sudore freddo che dopo pochi metri tramuta in brividi e si asciuga in salviette appese al collo come rimasugli di battaglie dimenticate. Che taglia in pezzi grossolani le gambe, stese su pedali che non scorrono più disobbedendo alla fisica, quasi con la forza dei conati di nausea che sente risalire nelle interiora chi non deve affrontare solo l'acredine della terra ma anche il risucchio dei fantasmi che si nutrono ingordi dell'odore d'autunno e pullulano fra le foglie cadute e i tronchi ricoperti dal muschio.

I fantasmi che Carapaz getta alle spalle e trapassa come loro stessi trapassano i muri, con la scia d'aria mossa dal suo alzarsi sui pedali, a puntare con occhi iniettati di volontà sanguinea il prossimo metro di strada. Primož Roglič, in quell'istante, sa di incubi di notti scure e di albe attese rivolgendo auspici verso quella falce di luna lontana che tanto profuma di Spagna e di tutta l'intensità della nazione iberica. Trasfigurare significa cambiare forma e stato, significa segnare e farsi segnare. La trasfigurazione in questo momento è simile all'attrito del tempo e dello spazio che corrodono tutto quello che mostra loro il sembiante, scagliando in chissà quale viscera volontà e desideri. Qui non bastano più. Qui è la paura a prenderti a morsi perché non c'è più un domani imminente, perché il futuro è lattescenza confusa. Carapaz e Roglič sono sul filo di questo scorrere di realtà e ci restano per pochi minuti ma sembra l'eternità.
I denti dell'illusione sembrano conficcarsi nella pelle di Roglič e invece lasciano una vecchia cicatrice ma feriscono Carapaz che ha solo addolcito qualche chilometro danzando su muscoli vivi e sperando Madrid. Gli incubi di quella luna bugiarda che Roglič aveva visto da Parigi sono gli spettri che per qualche notte Carapaz vedrà in ogni angolo del sonno. Roglic ha sentito ancora male, come se gli avessero disinfettato una ferita con alcool puro e senza sedazione, ha teso ogni centimetro di muscolo e per qualche istante ha come avuto la sensazione che quel vuoto fantasmagorico lo stesse invadendo, che quel muro di fantasmi lo avesse imprigionato ancora a pochi sospiri dal traguardo. Come la ricerca negli incubi, con la stessa frustrazione di quella delusione, di quella mancanza. Non questa volta, Roglič. Non questa volta in cui l'andatura è quel ramo sul filo di un burrone o la rete aperta sotto. Questa volta il tutto è qualcosa che lenisce e carezza. Questa volta il tutto è un respiro appoggiato sul diaframma e uno sguardo che vola alto. Questo tutto assomiglia a Madrid che domani sarà decadenza dimenticata e bellezza in divenire.

Foto: Bettini


Ciao Athina, sono Tao. Ti racconto una storia

Chissà cosa avrà detto Eddy Merckx alla piccola Athina quando, l'inverno scorso, ha saputo che quel tumore al ginocchio, a cui era stata operata solo qualche tempo prima, si era ripresentato. Forse, da buon nonno, l'avrà abbracciata e poi si sarà seduto accanto a lei raccontandole una di quelle favole in cui anche i draghi più cattivi vengono sconfitti da qualche eroe. Forse sarà stata la piccola Athina, la figlia di Axel Merckx, a cercare nonno, avendolo sempre sentito chiamare "Cannibale". Avrà pensato: «Lo dico al nonno e poi vediamo». Forse si sarà fatta fare il numero di telefono da mamma e papà e avrà iniziato la telefonata come tutte le telefonate ai nonni: «Ciao nonno. Lo sai che ti voglio bene? Devo dirti una cosa». Forse nonno Eddy le avrà spiegato che anche per i nonni più forti è difficile. Forse le avrà detto che lei, così piccola, ora dovrà essere ancora più forte di nonno quando correva e, se lo sarà, non dovrà avere paura.

A dire il vero Athina è già una ragazza forte e forse è così forte anche perché lo ha promesso a nonno, perché gli ha detto che lei non mollerà. E guarda caso, solo qualche secondo dopo, quel nonno ha sorriso. Noi crediamo sia successo così, non ne abbiamo la certezza ma fa lo stesso. Pensate che pochi giorni dopo, in ospedale, Athina ha detto alla mamma di non volere regali per Natale: «Sai quel progetto di cui mi hai parlato, mamma? Perché non donate i soldi dei miei regali a quel progetto? Penso che a Natale sarò più felice sapendo che quei bambini, i bambini guatemaltechi, possano andare a scuola in autobus il prossimo anno. Me lo prometti? Facciamo così?». E mamma probabilmente avrà voltato lo sguardo da un'altra parte, solo per non far vedere che stava piangendo. Poi le avrà risposto con un bacio sulla fronte e l'unica cosa che sa dire un genitore in queste occasioni: «Certo, amore». Poi avrà cercato lo sguardo di Axel, da qualche parte nella stanza, come solo i genitori sanno fare quando si sentono fieri dei loro figli.

Athina ha già affrontato un anno di chemioterapia e accanto a lei, ogni giorno, c'è anche qualcun altro. Lo ha raccontato qualche giorno fa Axel Merckx. Parliamo di Tao Geoghegan Hart, il recente vincitore del Giro d'Italia: «Tao è veramente un ragazzo speciale. Ha preso a cuore la battaglia della mia Athina e quasi ogni giorno registra dei video molto belli e glieli invia per sostenerla, per aiutarla a farsi coraggio. Gesti del genere non sono mai scontati, ancora meno per un ragazzo come Tao che ha tantissimi impegni. Il tempo per Athina lo trova sempre, le vuole davvero bene e io non ho parole per ringraziarlo». Anche di questi video non sappiamo nulla, come di tutti i messaggi e le telefonate fra Tao e Athina e anche di questo non ci interessa. L'importante è che ci siano, l'importante è che si possa pensare che da qualche parte accadano cose di questo tipo. Che un ragazzo di poco più di venticinque anni, vincitore del Giro d'Italia, ogni giorno pensi almeno per un attimo a una ragazzina di quindici anni che un Giro d'Italia non può nemmeno andare a vederlo e lo desidererebbe tanto. Come desidererebbe tante altre cose che oggi non può fare. E che poi questo ragazzo prenda il telefono e le scriva o le registri un video, solo per farla sorridere. O magari la chiami: «Ciao Athina. Sono Tao, lo sai che ti voglio bene, vero? Devo raccontarti una storia...».


Rosso Roglič

Nel ciclismo c'è una locuzione, di poche parole, che racchiude molti significati. Si dice "andare del proprio passo", che poi non è un passo ma una pedalata, che, alla fine, sembra un respiro, come ha scritto Marco Pastonesi. "Andare del proprio passo" significa seguire il proprio ritmo, assecondare la propria possibilità di quel momento, in un certo qual modo significa non aver paura di ciò che si è in quel preciso istante. Già, perché "andare del proprio passo" può voler dire "perdere del tempo", può aver voler dire "arrivare fuori tempo massimo" che significa fermarsi o meglio essere fermati perché non c'è più tempo. Si può andare del proprio passo in testa o in coda al gruppo, si va del proprio passo per la gloria o più spesso per la speranza. Per arrivare primi, per arrivare prima o semplicemente per arrivare. "Andare del proprio passo" può voler dire arrivare in ritardo, può voler dire perdere, può anche voler dire arrendersi se quel passo finisce, ma non vuol dire andare piano. Magari vuol dire andare più piano di qualcun altro, solo quello. Chi va del proprio passo non sta risparmiando nulla, sta dando tutto. Tutto quello che ha. Sta inseguendo o sta scappando da qualcuno, nel ciclismo è sempre così, fidandosi del proprio modo di seguire o scappare. Il tuo "modo" non sarà sempre il migliore in termine assoluti ma resterà comunque il tuo e non seguirlo, non fidarsi di lui, significherà sfinirsi lottando contro il vento e poi cedere. Tu puoi fare ciò che ti è possibile e nulla cambierà questa realtà.

Ma riconoscere questa realtà non significa fare del "fatalismo" o del "vittimismo". No, è l'esatto contrario. Riconoscere questa realtà significa vivere più forte e esprimere al massimo ogni potenzialità perché andare del proprio passo vuol dire lavorare sulla propria persona, bandendo inutili lamentele, colpe e invidie. Vuol dire, per esempio, avere uno sguardo simile a quello di Primož Roglič, oggi durante la cronometro della Vuelta, da Muros a Mirador de Ézaro di 33,7 chilometri, ma forse ancor di più domenica all'Alto De Angliru o sabato, all'Alto de la Farrapona/Lagos de Somiedo. Perché? Perché oggi per Roglič era anche facile andare del proprio passo, contro il tempo è nettamente migliore dei suoi avversari. Il difficile era nei giorni scorsi, quando la strada era tutta all'insù e a dettare legge erano altri. Lì andare del proprio passo significava staccarsi e pagare dazio, significava contare i secondi o i minuti di distacco. Serviva coraggio, di più serviva pazienza. La forza che serve per tenere a freno quell'istinto di fare qualcosa che non puoi fare, solo per dimostrare, per non passare staccato, per lasciare nulla agli avversari. Diremmo che serviva consapevolezza. E Roglič è stato consapevole.

Consapevole del fatto che è possibile non essere i migliori in ogni tappa, che è possibile staccarsi e anche cedere il simbolo del primato. Ci si può dare questo permesso e farlo con consapevolezza e serenità significa essere già pronti a rimettere la propria ruota davanti a quella degli altri. La costruzione di ogni vittoria, in fondo, parte sempre dal primo momento dopo la sconfitta. Da come reagisci, da come accetti il rifiuto e da come sei disposto a ripartire. Senza rinunciare al proprio traguardo ma dandosi il proprio tempo per raggiungerlo. Roglič questo tempo lo ha scandito al ritmo del cronometro e adesso il suo passo è il passo giusto. Non sappiamo se lo resterà, non sappiamo se le salite imporranno un altro passo e un altro battito. Sappiamo però quello che questo martedì di inizio novembre in Spagna ha voluto rimarcare. Abbiamo tutti il diritto di inseguire un qualcosa a cui sentiamo di appartenere. Un diritto che somiglia a un dovere. Un diritto che è consapevolezza del fatto che "col nostro passo" possiamo arrivarci. Un passo che sarà adatto per certi giorni, veloce per altri, troppo lento in alcune circostanze. Ma un passo da accettare, un passo di cui essere comunque orgogliosi, perché è la nostra unica possibilità di progressione.

Foto: Bettini


Raffaele e l'importanza dei piccoli gesti

«Sai quando sei bambino e ascolti le favole o le fiabe raccontate dai genitori o dai nonni? Credi agli alberi che parlano o si muovono, credi alla magia e agli incantesimi. Succede perché sei immerso nell'ascolto. I racconti dei viaggiatori del BAM mi hanno riportato lì». In realtà, Raffaele Fanini non è riuscito ad ascoltare tutti quei racconti perché, mentre saliva al rifugio, stava mettendo assieme una storia, una di quelle belle, una di quelle da raccontare. Una di quelle storie che iniziano con un uomo che prova a cambiare qualcosa: «Da ragazzino lessi su una rivista di queste "isole di plastica". Non volevo crederci, ho addirittura pensato fosse una notizia falsa. Invece no, tutto vero. La cosa incredibile è che troppo spesso non abbiamo coscienza del problema. Per questo non lo affrontiamo e spesso non vogliamo neanche parlarne. Crediamo che l'inquinamento, il surriscaldamento globale siano qualcosa che non ci toccherà mai direttamente e pensiamo ad altro. In realtà il problema è già qui, tocca noi e tutte le persone a cui vogliamo bene. Se aspettiamo, se non facciamo nulla, quando ci sveglieremo sarà troppo tardi. So bene che il mio gesto non risolverà il problema ma so anche che al mondo siamo in sette miliardi e bastano pochi sciagurati per rovinare tutto. Se, invece, provassimo a metterci d'impegno per cambiare qualcosa? Uno per volta, uno alla volta». Il nostro "c'era una volta" parte da qui, da un ragazzo di trentadue anni in sella a una "Moser" del 1978 con agganciato un carrello per raccogliere i rifiuti trovati lungo la pedalata: «La mia bicicletta è abbastanza vecchia ma funziona e poi ci sono affezionato. Questa è una storia comune, no? Forse la potenza della bicicletta è proprio qui, lei è rimasta intatta nonostante tutto quello che è cambiato negli anni. Ha resistito all'innovazione, al futuro che avanzava a grandi passi e tutti siamo legati alla nostra prima bici. Alle medie trascorrevo interi pomeriggi a vedere VHS di Bmx. La mia prima Bmx, una Atala color argento, con cui saltavo le prime cancellate, è nella cantina dei miei genitori. Qualche tempo fa, papà, mentre era intento a liberare la cantina, mi propose di buttarla. Ma stiamo scherzando? Non serve a nulla ma resta lì».

Le cattive abitudini delle persone si misurano in spazio e tempo e Raffaele rende bene questa idea: «Quando mi chiedono quanta plastica raccolga nei miei viaggi parlo di chilometri e di minuti. Noi percorriamo circa 60 chilometri in un giorno ma stiamo in sella dalle dieci alle dodici ore. Capisci quanto tempo trascorriamo fermi a raccogliere plastica? Io sono convinto che parte della gente che mi segue e mi fa i complimenti sia la stessa che poi, magari, butta il pacchetto di sigarette fuori dal finestrino. Perché? Perché viviamo nell'inconsapevolezza dell'importanza dei piccoli gesti». Uno di questi passa per la scelta della bicicletta: «Sarei scontato se ti dicessi solo che la bicicletta mi regala la libertà. Allora mi spiego meglio: la bicicletta non inquina e ti porta dove vuoi. Non spendi praticamente nulla e puoi arrivare lontano in tempi anche abbastanza brevi. In questo periodo disgraziato lo stiamo scoprendo». Il punto, e Raffaele Fanini lo spiega bene, sono le priorità: «Ognuno ha una propria scala di cose importanti. Alcuni pongono al vertice il benessere economico, altri i divertimenti e così via. L'ambiente? Il pianeta? A che punto sono della scala? Sono la nostra casa esattamente come le mura in cui viviamo. La terra non è nostra, non l'abbiamo avuta in eredità dai nostri genitori. L'abbiamo in prestito dai nostri figli. Questo me lo ha detto mio fratello, lo ha letto in un libro ed è verissimo». Poi c'è il cambiamento, quello a cui dobbiamo contribuire tutti ma in cui le istituzioni hanno un ruolo fondamentale: «Si possono lanciare tanti messaggi e tante campagne di sensibilizzazione ma poi la gente ha a che fare con una realtà che talvolta scoraggia altre scelte. Se i prodotti bio o ecologici costano molto di più, possiamo immaginare che verranno scelti gli altri. Si potrebbero vendere anche più prodotti sfusi, in modo da non avere un sovraccarico di imballaggi. Serve la volontà di farlo e l'appoggio delle aziende».

Alle persone invece servirebbe, ogni tanto, rinunciare all'abitudine e alla comodità del momento. Un passo fondamentale quanto difficile: «Molti dei ragionamenti che sentiamo tutti, quelli della matrice "ma si è sempre fatto così", purtroppo, hanno una visione limitata e una forte resistenza al cambiamento. Io sono sicuro che a tutti piacciono gli spazi aperti immersi nella natura, puliti e spazzati da aria limpida e fresca. Perché stiamo così bene in montagna? Per questo. Pensiamo se riuscissimo a fare in modo che buona parte del pianeta fosse così, pensiamo a quanto staremmo bene. Le cose possono cambiare. Serve fiducia, volontà di cambiamento e anche la più piccola azione è importante». Noi, da parte nostra, siamo certi che servano anche le storie e che anzi le storie, quelle belle, siano parte della fiducia. Ancor di più nei momenti difficili. La fiducia è un esercizio da fare nei momenti complessi, sarebbe troppo facile altrimenti. Fiducia che non vuol dire non vedere i problemi. Fiducia che significa tenere d'occhio la parte salva della realtà e ricominciare a costruire da quella. Magari raccontando una storia. Magari quella di Raffaele.


Stelvioman: il custode del Passo

Non sappiamo ancora se la gloria sia passata dai venticinque chilometri della salita che da Prato porta ai 2758 metri del Passo dello Stelvio. Sappiamo solo che questa ascesa rimane leggenda, un serpente di asfalto che si inerpica fra foreste e alpeggi levandoti il respiro, un trampolino lunare che per i corridori è un giudizio universale. Dal versante altoatesino, come nel Giro 2020, da quello lombardo o da quello svizzero. Proprio per tutti i gusti.
Questa salita ha il suo guardiano, il suo cappellano che macina chilometri a ripetizione su queste rampe e conosce ogni cambio di pendenza, riconosce ogni crepa sulla strada, sa dove poter rifiatare, rilanciare, attaccare. È Daniele Schena, per tutti Stelvioman, come indicano i suoi profili Social. È salito ai quasi 3000 metri del Passo un centinaio di volte da Prato, circa trecento invece da Bormio dove risiede. Se hai provato a scalare lo Stelvio al suo fianco ti insegna, ti consola, ti scuote. È come uno sherpa, una guida che ti scorta verso questo paesaggio lunare fatto di morene e circondato da pareti di neve perenne. Lo Stelvio, da Prato, per Stelvioman ha emesso diverse sentenze. «Davano per spacciati gli Ineos? Hanno fatto loro il ritmo, hanno fatto loro un capolavoro con Dennis e Geoghegan Hart. Non si recita mai il de profundis prima di salire in cima allo Stelvio».
E Stelvioman sul ritmo impresso, racconta «Lo hanno talmente temuto che lo hanno affrontato forse inconsapevolmente con spavalderia e facendo selezione fin da subito con un ritmo elevatissimo. Non hanno aspettato Cancano per spaccare il gruppo di testa. Che spettacolo!».
Del resto lo Stelvio è così. Talmente magico che è imprevedibile in ogni suo aspetto. Dalla tattica con cui lo affronti, dall’incognita di una crisi dietro un tornante, alle condizioni meteo a volte davvero proibitive. «Per essere ottobre inoltrato il meteo è stato clemente. Il freddo si sentiva solo nella picchiata verso Bormio, ma a quell'altitudine è inevitabile. Keldemann ha pagato il fatto di non essersi allacciato il giubbino e così ha perso un po’ di forza quando doveva spingere in direzione della salita di Cancano». Un profeta, come quando ricorda che «Da maggio a ottobre un giorno puoi trovare una temperatura gradevole, altre volte condizioni invernali. Devi avere con te i giusti cambi, le protezioni adeguate, accorgimenti che possono salvarti da spiacevoli sorprese. E occhio alla discesa: non bisogna emulare i professionisti. I tornanti sono stretti e impervi, bisogna prestare la massima attenzione e rimanere concentrati. Spesso attacchi la discesa e sei ancora poco lucido, annebbiato dalle fatiche della salita».
Questa tappa è stata la sua tappa. Lui che ha accompagnato come un angelo custode migliaia di turisti. E sì, perché Stelvioman è stato il primo a lanciare il turismo della bicicletta a Bormio sdoganando il fatto di essere solo meta per gli sport e il turismo invernale. Di turismo e di accoglienza ne sa e ci vede lungo. «Un aspetto positivo la vittoria di Hindley, un australiano. Così lo Stelvio sarà ancora più internazionale, come quando vinse De Gent e l’estate successiva arrivarono parecchi belgi». Natura e watt certo, ma lo Stelvio è anche storia. «Ogni volta che lo scalo mi emoziona sempre questo lavoro di ingegneria stradale. Un capolavoro costruito nel lontano 1815». Stelvio, antologia e storia. Ma qual è il versante per antonomasia? «Mitici tutti certamente, ma quello che sento più mio è quello di Bormio».

Di Gabriele Pezzaglia

Foto: Pentaphoto


Sua Maestà Stelvio

Lo Stelvio ha risvegliato un Giro d'Italia che sembrava essersi addormentato, abbandonato ad un letargo autunnale. Lo ha fatto nell'unico modo possibile, impassibile di fronte a ciascuna delle storie dei ciclisti che lo scalavano. Giudice ferreo di responsabilità inevitabili. Non c'è pietà fra i monti in mezzo a cui si inerpica una strada serpentina che sibila paure. Chissà cosa avrà pensato Almeida quando ha iniziato a perdere posizioni, quando ha capito che quelle ruote si allontanavano sempre più, quando ha pensato a tutti i suoi sogni, con quella maglia rosa addosso, e ha temuto di non poterne concretizzare alcuno. In fondo il difficile è proprio rinunciare alla felicità immaginata, a quella possibile fino a qualche secondo prima. Lassù faticano tutti ma i pensieri cambiano forma alla fatica. Wilco Kelderman per qualche chilometro alleggerisce la pedalata proprio grazie al pensiero, grazie a quel punto rosa che si allontana e gli fa credere che oggi è possibile, che Almeida, ora, è alla frutta. Tutto cambia, si ribalta, con una velocità che qui puoi solo immaginare.

Tao Geoghegan Hart è più tranquillo perché non è solo e lì davanti la sua squadra sta davvero facendo tutto il possibile. Tutto il possibile o anche di più lo ha fatto Rohan Dennis, davvero commovente oggi. Dennis aiuta con l'anima di chi vuole aiutare e lo fa sino all'ultimo respiro. E noi immaginiamo il suo pensiero: «Dai, ancora una pedalata e poi mi sposto. Arrivo a quel sasso, a quell'albero, a quel tifoso e poi mi sposto. Cambio rapporto, un'ultima spinta e mi sposto». Ha rimandato tanto Rohan Dennis, così tanto che quando si è spostato non ne aveva davvero più, quasi si fermava. Ha dato tutto, Dennis. Geoghegan Hart, in quel momento, avrà pensato alla responsabilità che aveva sulle gambe, perché quando qualcuno si sfinisce per te, per aumentare le tue possibilità di farcela tu ti senti in dovere di fare qualcosa. Qualcosa di speciale, magari vincere, magari indossare la maglia rosa. E chissà cosa avrà pensato quando non ci è riuscito. Cosa ha pensato Jai Hindley, invece, lo sappiamo. Lo ha detto più volte dopo il traguardo: «Incredibile, è incredibile». Dopo il traguardo, quando in maglia rosa c'è già Kelderman, per pochi secondi. In gara, mentre saliva ai Laghi di Cancano e parlava con Geoghegan Hart, avrà rivisto i suoi genitori e quel giorno in cui lo misero in bici a soli sei anni.

Avrà pensato che oggi sarebbe stato proprio un bel giorno per dimostrare che mamma e papà ci hanno sempre visto lungo. Magari per farlo in maglia rosa. E intanto la voce dalla radiolina, la voce di Kelderman che è lì e da chilometri e chilometri è maglia rosa virtuale. Chissà se uno dei due ragazzi Sunweb avrà pensato anche a questo? A cosa avrebbe ottenuto l'altro a fine tappa. Chissà se c'è un pizzico di rivalità fra Kelderman e Hindley? Chissà se, anche solo per qualche istante, avranno pensato: “La maglia rosa la voglio io, la devo avere io”. Perché certe cose sono umane ed è anche giusto dirle. Dei tanti chissà non sa cosa farsene la classifica generale che pone Kelderman in prima posizione e Hindley in seconda. Anche Geoghegan Hart ha altro da pensare perché stasera non ha solo due rivali ma ha due rivali che sono alleati o almeno dovrebbero esserlo. Lui, forse, può sperare. Può sperare che qualcosa fra i due vada storto, può sperare di essere lì per approfittarne. Ma questa è un’altra storia e ve la racconteremo molto presto.

Foto: Pentaphoto


Kuss Kuss

In principio era il selvaggio west: storie di personaggi ricercati e senza legge. Come non ne aveva Doc Holliday, uno dei più temuti e spietati pistoleri della seconda metà dell'ottocento che scappò da un ergastolo da scontare nella prigione di Denver per andare a seminare il terrore a Leadville, Colorado.
Leadville: una cittadina situata a tremila metri sul livello del mare, che da poco stava conoscendo il suo momento di massima espansione grazie alla scoperta di una filiera d'argento che portò all'apertura di una serie di miniere e di passaggi ferroviari.

Storie di sangue che non smette mai di scorrere, come racconta P.T. Anderson; sabbia nera che segna in maniera indelebile le mani, polveri che riducono in poltiglia i polmoni, ma che richiama centinaia di migliaia di persone dalla lontanissima Slovenia. Tra fine ottocento e primi novecento, infatti, si stima che circa trecentomila persone emigrarono da quel piccolo paese dell'est Europa fino in America.

Alcuni si fermarono a Cleveland; altri iniziarono a sentire l'odore delle miniere e finirono a Leadville rovinandosi l'esistenza per una paga misera - si parla di massimo due dollari e mezzo al giorno - scovando poche once di argento al soldo di Horace e "Baby Doe" Tabor. Frank Zaitz era uno di questi; sognava di diventare ricco, guardava di sbieco i suoi padroni, e l'intraprendenza che lo portò a scappare a diciassette anni da un minuscolo villaggio del distretto di Gorica, in Slovenia, gli fece abbandonare quel sudicio lavoro in miniera che affaticava lui e arricchiva altri, e a fondare, insieme ad altri connazionali, un prospero commercio di liquori e persino dei saloon dove smerciarli.

Leadville viveva in quegli anni un momento prolifico. Allontanandosi dalle claustrofobiche miniere tutto era come un feuilleton dai toni leggeri e scanzonati: da lì arrivava Molly Brown, attivista politica, e diventata celebre come "l'inaffondabile" per essere sopravvissuta al naufragio del Titanic. Mentre tra i figli degli sloveni fondatori del mercato di liquori c'era Dolph.

Dolph ama sciare e in pochi anni diventa una leggenda americana dello sci nordico. Da Leadville, ormai in disgrazia, si sposta a Durango, poche miglia più a sud, con il confine del Nuovo Messico ormai a tiro. Sono gli anni '50. Dopo un po' di tempo conosce Sabina e la sposa. Entrambi maestri di sci, estrosi, emancipati, amanti dell'avventura; Sabina è sorda da un orecchio e nonostante tutto suona l'ukulele, ha lo sci nordico nelle vene, e quando il figlio Sepp ha solo pochi mesi, se lo porta nello zaino in giro sulla neve.

Dolph, Sabina e Sepp si gettano tutti i fine settimana all'avventura; oltre allo sci praticano rafting e trekking, oppure si dilettano in lunghe e lente passeggiate in compagnia di tre asinelle, una delle quali, Hilda, si lascia agilmente cavalcare da Sepp, trattandolo come il suo cucciolo. «Se gli cadeva qualcosa dalle mani, Hilda, con fare materno, si fermava e aspettava che lo raccogliessimo. Sepp lo vedete calmo in bicicletta e penso che questo sia dovuto alla tranquillità delle nostre passeggiate in mezzo alla natura» racconta Sabina.

E per Sepp fare sport diventa un aspetto normale della sua esistenza. Si sveglia la mattina e vede le montagne rocciose che paiono sfidarlo; padre e madre sciano, e da quelle parti c'è l'ingombrante leggenda di un certo John Tomac a cui tutti i ragazzini si ispirano. Proprio a Durango, nel 1990 - Sepp non era ancora nato - si disputò il primo mondiale di mountain bike della storia e Tomac sarebbe stato tra i favoriti per vincere entrambe le gare in programma – non andò così ma si rifece l'anno dopo.

Sepp inizia a praticare qualsiasi sport: kayak, mtb, hockey e sci di fondo - suo padre è stato allenatore della nazionale americana olimpica di sci nordico e sua madre l'ha insegnato per quarant'anni e lo fa tutt'ora quando non segue il figlio alle corse. Sceglie l'Hockey «per non deludere i suoi compagni di squadra» ma presto lo abbandona perché troppo minuto. Inizia a pedalare; eredita dalla madre capacità aerobiche fuori dal comune. E dopo averla seguita dentro uno zaino sulle piste da sci, ora le va dietro durante interminabili escursioni in bicicletta.

Procede tutto casa-studio-sport e nel 2017 si laurea in marketing. Diventa forte nello sport della fatica. Eccome. Ruote grasse perché lo impone la tradizione di quelle zone oltre alla facilità di trovare percorsi adatti, e poi ruote strette e lisce che lo portano a scalare a tempo di record varie salite. Vince in America, e nel 2018 si fa notare dalla Jumbo-Visma e il suo spirito contagia Primož Roglič che esige di averlo con sé al Giro e alla Vuelta del 2019.
Leggero in bici, come nella testa, è così tranquillo e rilassato che i suoi amici a volte non capiscono se faccia sul serio: quando ritorna a Durango escono in mtb e lui si fa staccare in salita. E poi chiudono il tutto davanti a un buon numero di birre - perché anche questo fa parte della tradizione.
E quando qualcuno chiede a Sepp Kuss delle sue origini slovene dice di essere stato lì solo una volta - sul Triglav in escursione con i suoi genitori - e di conoscere solo la putizza, tipico dolce di quelle parti simile alla gubana friulana. Se lo guardi e vedi quegli occhi neri vispi e quei capelli come il carbone capisci da dove arriva e perché va così forte: americano, sloveno (in bici di questi tempi...), ci sono persino origini italiane in quella famiglia emigrata nel nuovo mondo a fine ottocento.

Appare sempre così tranquillo, ma mai avventato: nel 2019 conquista la sua prima corsa in Europa, dopo aver fatto incetta di traguardi al Tour of Utah 2018. È un traguardo in salita della Vuelta e lui ha il via libera, finalmente, dal proprio capitano. Dopo aver staccato i compagni di quella gita premio, resiste al ritorno di Geoghegan Hart e Guerreiro e assaporerà ogni momento battendo il cinque a tutti i tifosi trovati a bordo strada nelle ultime centinaia di metri di corsa. «Volevo ringraziare i tifosi» racconta con la sua disarmante semplicità a fine tappa. «Il ciclismo è l'unico sport dove viene tifato fino all'ultimo anche chi perde e sapete perché? Molti dei tifosi pedalano e sanno cosa vuol dire far fatica. Il mio è un gesto per omaggiare chi rende grande questo sport e ci aiuta a sopportare la sofferenza».

Foto: Bettini