Nei panni dell'altro: intervista a Davide Arzeni

Davide Arzeni, direttore sportivo della Valcar–Travel & Service, è per tutti, semplicemente, "Capo". Un soprannome nato una sera di undici anni fa, a Udine, in una colonia gestita da Daniele Pontoni, in un ritiro di ciclocross. Fu Rebecca Gariboldi a dirgli: «Tu sei “Capo”» e da quel giorno Arzeni quel soprannome non se l'è più tolto.

Quando era ancora ragazzo, a Ispra, luogo in cui è nato e cresciuto, Arzeni andava dallo zio, Giancarlo Bassani, alto dirigente della Federazione Ciclistica e del CONI e, forte della sua passione per il ciclismo, gli chiedeva di aiutarlo ad entrare in quel mondo. «Sarebbe bastato poco, una parola al posto giusto con la persona giusta, ma mio zio era e resta un uomo di altri tempi. Uno di quelli che di raccomandazioni non ha mai voluto sentir parlare. Mi diceva: “Devi arrangiarti da solo. I successi si devono guadagnare, nessuno te li regala, nemmeno io”». Arzeni è cresciuto così ed è partito dal basso, dagli esordienti nel 1999, prima teneva in mano un cronometro e prendeva i tempi durante i test medici. «All'inizio non volevo ascoltare ciò che mi diceva mio zio. La verità è che aveva ragione su tutto. Quando vinci le tue prime gare ti senti un fenomeno e pensi di essere già arrivato. Facevo male questo lavoro: se avevo un ragazzo che vinceva due gare, credevo di aver scoperto il campione. Tendevo a giustificarlo su tutto ed a caricarlo di pressioni. Ero io stesso a danneggiarlo, involontariamente. Bisogna restare con i piedi per terra, soprattutto da giovani, altrimenti è la fine. Oggi zio ha ottant'anni, ma qualche consiglio glielo chiedo ancora».

Arzeni non è solo un direttore sportivo, è anche un preparatore e lavora con ragazzi e ragazze. «Le cose da dire, spesso, sono le stesse. Devono cambiare i modi. Quando comunichi non conta solo ciò che dici, conta soprattutto il modo in cui viene recepito. Le ragazze hanno un'altra sensibilità e devi tenerne conto. Io non ho una tattica nel parlare con loro, mi viene naturale perché nel tempo ho fatto mio quel modo di pensare e di sentire». Per questo, Davide Arzeni fa una differenziazione. Se nell'ambito maschile, alcuni suoi colleghi, respingono ogni amicizia con gli atleti, lui ritiene che nel femminile una parte di amicizia, di confidenza, sia imprescindibile. «Essere amici non significa non farsi rispettare. Ci può essere amicizia ed anche rispetto. La prima ti aiuta a capire, il secondo a tenere distinti i ruoli. Le ragazze hanno bisogno di qualcuno che le ascolti, che capisca i piccoli o grandi problemi della loro età, che si immedesimi. Se non provi a metterti dalla loro parte, non ci riuscirai mai e continuerai a vedere le cose a modo tuo. Non capirai e non verrai capito. Molte volte basta chiedere cosa c'è che non va. Solo quello». Forse per questo Chiara Consonni di lui dice che è un secondo papà. «Vedi? Con un padre c'è confidenza, può anche esserci amicizia, ma il rispetto non manca. Se devo escludere una di queste atlete da una prova, lo faccio lo stesso. Non è quella familiarità a frenarmi. Quella familiarità, però, fa in modo che si viva meglio il prima ed il dopo».

C'è l'approccio di gruppo e l'approccio individuale. «Alcune ragazze sono poli opposti pur avendo quasi la stessa età. Tu devi tornare a quell'età e capire cosa  vogliono, di cosa si preoccupano o di cosa hanno paura. Tenendo presente il loro carattere e non dando nulla per scontato. Accettando anche che qualcuna non voglia aprirsi e resti più distaccata, non c'è nulla di male». Sensibilità che non è debolezza, che nulla toglie a grinta e coraggio. «Queste sono atlete toste. Allo Scheldeprijs, aveva nevicato il giorno prima e quella mattina erano previsti cinque gradi sotto zero. Non c'è stata una ragazza che ha pensato di non partire o di protestare».

L'altra chiave, per Arzeni, è il tempo. «Certe volte ripenso alle prime gare in Belgio. Le trasferte sono costose e le prime volte fatichi anche ad ottenere i rimborsi. Talvolta non li ottieni proprio. Succede come con la scuola, prima di far bene all'università, devi far bene al liceo. Noi abbiamo avuto il coraggio di portare questo gruppo in Belgio, già cinque o sei anni fa. Con il tempo e la pazienza siamo migliorati ed ora stiamo raccogliendo i risultati. Oggi si può dire con certezza: questo è un gruppo di valore. Verrà anche il giorno della laurea. Ne sono certo».

Arzeni ha anche una figlia di diciannove anni. «Non è stato il fatto di essere padre ad aiutarmi a fare questo lavoro, bensì è stato questo lavoro ad aiutarmi ad essere padre. Mia figlia non mi ha parlato di alcune cose di cui invece le atlete mi parlano. Si sa, con un padre c'è un poco di ritrosia, di vergogna. Così, volendo capire ho iniziato a chiedere alle atlete, a farmi aiutare da loro. E quello che non chiedevo provavo ad assorbirlo vedendo il loro comportamento. Dalla scelta del regalo di compleanno a scelte e temi più complessi».

Ma quali sono le differenze tra il ruolo di preparatore e di direttore sportivo e quale ruolo Arzeni sente più suo? «Credo il punto sia diverso. Sono entrambi ruoli complessi ma soprattutto è difficile svolgerli contemporaneamente e con le stesse atlete. Oggi ancor di più, visto che i compiti di un direttore sportivo non si limitano alla gara ma coinvolgono anche l'organizzazione. Per riuscirci devi lavorare con persone che si fidano ciecamente di te. Dovessi scegliere, credo sceglierei il ruolo di direttore sportivo, restando preparatore di poche ragazze. Se in Valcar arriva un'atleta che ha già un buon professionista a cui affidarsi, per me va bene. A patto che ci sia un confronto fra me e questo preparatore». Il motivo è presto detto ed ha radici profonde. «Quando si vince, per l'opinione pubblica i meriti sono sempre del direttore sportivo. Quando si perde, invece, le colpe sono del preparatore. Non so il perché, ma è sempre stato così. In realtà la linea di demarcazione non è così netta e bisognerebbe ripartire meglio colpe e meriti».

Foto: Flaviano Ossola, per gentile concessione dell'ufficio stampa Valcar-Travel&Service


In una fotografia: intervista a Chiara Redaschi

Quando Chiara Redaschi parla del suo lavoro, la fotografia, il primo concetto che spiega è relativo all'improvvisazione. «Noi raccontiamo una storia attraverso un'immagine. La particolarità delle storie è il fatto che, sino a quando non ti passano davanti, non puoi conoscerle. Non puoi sapere cosa racconterai quel giorno, perché non puoi sapere cosa accadrà. Se è il tuo lavoro, tuttavia, sai che qualcosa dovrai raccontare. Al mattino te lo chiedi: “Chissà come andrà oggi”. La paura che possa non andare come vorresti diventa una tua compagna». Lei, con quel timore, ha imparato a convivere sin da giovanissima, quando si occupava di fotografia di strada nell'ambito della moda. «Ricordo che mi mettevo in un posto, ci ripensavo e mi spostavo. Ripetutamente. In strada ti guida solo l'istinto. Se, per caso, rivedendo le foto non mi piacevano, iniziavo a dirmi che forse non ero capace, che avevo sbagliato. Continuavo a ripensarci. Volevo solo essere lì a fotografare, solo che quella stretta allo stomaco mi faceva venir voglia di tornare a casa. Mi succede ancora oggi. Accade così con le cose che desideri, sbaglio?».

In fondo, spiega Chiara, è normale. «Ognuno di noi ritiene importantissimo ciò che fa ed è giusto così, perché è uno stimolo a migliorare, a fare bene. Però serve anche la reale consapevolezza della grandezza delle cose. Non stiamo salvando vite, stiamo raccontando storie. Può capitare di non essere al massimo, di voler buttare tutto all'aria. Certe giornate non ingranano, non puoi farci nulla. Devi darti quel permesso e perdonarti». Per Redaschi, la fotografia ha cambiato forma e sostanza nel tempo, perché il tempo ha cambiato i motivi per cui fotografare. «Ho iniziato a fotografare perché lavoravo in un ufficio di comunicazione ed era una competenza necessaria. Non ne ero entusiasta all'inizio. Dovevo farlo e lo facevo. La sera, invece, andavo con amici a vedere le gare di scatto fisso al Parco Lambro. Era in pieno inverno e faceva un freddo assurdo. Comprarmi una macchina fotografica è stato un modo per impegnare quelle serate e sentire meno freddo». Nessuno lo direbbe, ma è quello il momento in cui per Chiara Redaschi cambia tutto. «Ho scoperto che in realtà fotografare mi piaceva e mi veniva abbastanza naturale. Il mio è stato un percorso veloce. Nel giro di un anno sono arrivata a fotografare nel professionismo e poco dopo a seguire una tappa del Giro d'Italia in moto. Senza aver mai studiato fotografia, imparando sul campo».

Quel giorno, Chiara non lo scorderà mai. «Era il 2018, la tappa con arrivo al Lago di Iseo. Ero in moto con Francesco, un signore toscano. Guardavo il gruppo che mi passava accanto e mi sembrava quasi di poterlo toccare. In alcuni momenti ridevo, in altri piangevo. Credo lì sia racchiusa la mia indole: sono un'insicura estremamente testarda. Quando mi succede qualcosa di bello, non voglio crederci. Ma non c'è un minuto in cui non lotti con tutta me stessa per quell'istante. Non sento la fatica, non sento lo sforzo». Ed è questa sua insicurezza che la porta a ricercare i motivi per cui ha scelto questa strada. «Quando fai qualcosa, devi chiederti il motivo ed io mi sono chiesta più volte perché abbia deciso di proseguire questa strada. La risposta è semplice: mi piace vedere le persone che si emozionano, mi fa stare bene. La fotografia è un modo come un altro per far sentire qualcosa e ciò che senti non ha nulla a che vedere con la tecnica. Ha a che vedere con ciò che hai vissuto tu e con ciò che ha vissuto chi ti guarda. Una foto tecnicamente perfetta è bella, ma ti lascia qualcosa? Si fa ricordare? A me piace chi si fa ricordare».

Il prezzo da pagare è l'attesa. «Attendere per cinque minuti l'arrivo del gruppo o della fuga, è un tempo infinito. Tu sei lì, ti guardi attorno e cerchi di costruire ciò che vorrai vedere dall'obiettivo della macchina. La verità è che spesso ciò che hai immaginato non si concretizza, anche perché i tuoi occhi sono una cosa, quella lente di vetro un'altra. Coglie ogni piccola sfumatura e basta poco per rovinare tutto. In una foto entra un piccolo pezzo di mondo e saper scegliere cosa mostrare e come farlo è essenziale». Già, perché poi non sai mai dove si poserà l'attenzione delle persone. «Può accadere che di uno scatto ti lasci qualcosa un singolo particolare. Va bene così ed è importante che quel particolare ci sia. Certe volte è qualcosa che tu non avevi nemmeno visto, qualcosa a cui non avevi fatto caso. Il nostro vissuto ci influenza ed è per questo che della realtà cogliamo aspetti diversi. Questo è il bello della fotografia. La foto è la stessa, ma ciascuno vede una cosa diversa. Ciò che vedi coincide in parte con ciò che sei ed in parte con ciò che vivi. La fotografia ci permette di lasciar uscire queste cose, spesso nascoste in noi».

Proprio questa molteplicità nella fotografia permette di scoprire ed appassionarsi ad ambienti che non avevamo mai considerato. «Tempo fa, mia madre mi ringraziò perché avevo scelto di fotografare il ciclismo. Non capii subito. Per lei era un modo per dirmi che grazie a quelle fotografie aveva scoperto qualcosa che prima ignorava. È mia madre e probabilmente avrebbe apprezzato qualunque cosa facessi. Però mi piace pensare che quelle parole fossero sincere e che ciò che facciamo abbia davvero questo potere». Per questo, racconta Chiara, vale la pena di correre qualche rischio.

«Anche con questo impari a fare i conti col tempo. Preferisco non avere alcuna foto, piuttosto che avere una fotografia uguale a quella di tutti gli altri. Penso che la possibilità di essere nella bolgia che tendenzialmente si crea dopo il traguardo vada sfruttata al meglio. Per me sfruttarla al meglio significa mostrare ciò che gli altri non possono vedere. Essere i loro occhi». Quella bolgia che, in tempi di Covid, si fatica anche ad immaginare. «Quando mi sono ritrovata sul Poggio, a Sanremo, da sola, nel silenzio, ho provato una malinconia, una forma di angoscia. Avevo trovato l'angolo giusto e la luce perfetta, ma mancava tutto il resto. Le persone che troviamo ai bordi della strada sono una parte essenziale di questo lavoro, senza di loro anche fotografare diventa difficile. Il ciclismo è sempre stata la mia festa preferita e non avrei mai pensato che si potesse arrivare a questa situazione. Dobbiamo adeguarci ed avere pazienza, le cose torneranno come prima». C'è qualcosa che si può fare nel frattempo, con o senza macchina fotografica, e Chiara Redaschi lo sa bene. «Alla fine noi poniamo attenzione a determinati aspetti piuttosto che ad altri per una questioni di abitudine. Questo è il momento per aggrapparci a ciò che ci resta e tenerlo stretto. Per comprendere ciò che non avevamo mai compreso».


Il tempo di un giro in pista: intervista a Maria Giulia Confalonieri

Maria Giulia Confalonieri ha appena concluso l'allenamento del mercoledì al velodromo di Montichiari. Si siede accanto a noi ancora accaldata. «In pista non è come in strada, non esistono giorni di scarico o in cui ti rilassi. Quando ti svegli la mattina e vieni qui, devi sapere che sarai a tutta, devi porre attenzione ad ogni singolo dettaglio. Se ne vanno tante energie fisiche, ma anche mentali. Non puoi presentarti svogliato». Lei ammette che ad allenarsi ha imparato col tempo e che, forse, le prime volte non aveva nemmeno chiaro il concetto di allenamento. «Da bambini succede così: vorresti provare ogni cosa che vedi ed ogni giorno pensi di aver scoperto la tua grande passione, il tuo talento, il tuo futuro lavoro. In realtà serve tempo per capire queste cose. Io ho iniziato a pedalare ma non mi allenavo bene, prendevo tutto con leggerezza, troppa leggerezza. Ma è giusto così: non è detto tu debba diventare un campione o un professionista, magari vuoi solo divertirti. Alle prime gare, ero fortunata se non mi doppiavano». Per questo Confalonieri consiglia ai più giovani di provare, senza remore. «Avete voglia di fare un giro in mountain bike? Andate, fatelo. Magari non siete molto abili, cadete e vi sbucciate le ginocchia, ma andate. E, se il giorno dopo avete voglia, provate la pista o tornate in strada».

Il tempo delle scelte arriva successivamente ed è necessario ponderarle con coscienza. «Se non hai consapevolezza di ciò che stai scegliendo, gli eventi finiscono per sopraffarti. Devi sapere che al passaggio nelle élite dovrai scegliere se passare con una squadra più piccola oppure aspettare e sperare che ti cerchi una squadra World-Tour. Nel primo caso correrai con atlete più giovani, avrai meno frustrazioni ma non capirai mai il tuo vero valore. Nel secondo, magari finirai staccata perché ci saranno atlete di esperienza in grado di fare la differenza. Devi tenerlo presente e decidere». In ogni caso, Maria Giulia Confalonieri mette al bando l'ansia o le preoccupazioni. «Sono molto pragmatica su questo punto. Essere preoccupati non risolve il problema e non migliora la situazione, è inutile. Capisco bene l'emotività, ma bisogna imparare a controllarla. L'importante è essere preparati, poi alcune cose non sono controllabili, ogni atleta lo sa bene». Tra l'altro, Confalonieri spiega che l'attività su pista è particolarmente soggetta alla problematica dell'ansia per il breve lasso di tempo in cui si svolge e che non riuscire a controllarla significa spesso rovinare la prestazione.

«Le cose sono molto cambiate rispetto a quando ho iniziato a far parte del gruppo della nazionale. Una volta mi sembra ci fosse meno scambio alla pari. Non so da cosa dipendesse, forse era un caso, forse i tempi che cambiano. Io ricordo che cercavo di osservare ogni piccola cosa facesse Giorgia Bronzini, per imparare. Ora ci guardiamo a vicenda, noi impariamo dalle più giovani e loro imparano da noi. Credo sia una sciocchezza il fatto di pensare di non avere più nulla da imparare dai più giovani e solo da insegnare per il semplice fatto di avere più anni. Una grossa sciocchezza». Se pensa alle Olimpiadi, la prima riflessione è sul cambiamento. «Sarà tutto diverso dal solito. A partire dall'avvicinamento visto che il programma della pista è quello che ha subito maggiori cambiamenti ed i primi appuntamenti importanti saranno da fine aprile. Ma anche il discorso puramente relativo ai velodromi: probabilmente non ci sarà nessuno all'interno e si correrà in un silenzio irreale. Sarà molto strano, tuttavia non c'è altra possibilità».

L'anno che la accompagnerà verso i Giochi Olimpici sarà un'importante occasione per migliorarsi. «Vorrei riuscire a ritagliarmi un posto nel quartetto. Sarebbe importante anche in vista della madison: con il nuovo regolamento per poter farne parte devi almeno essere riserva nel quartetto. In generale, invece, devo lavorare sull'inseguimento. Per quanto concerne l'omnium, invece, abbiamo due, o tre atlete, di altissimo livello in quella disciplina ed il posto spetta a loro». Ma non è finita qui, perché Maria Giulia Confalonieri sta guardando anche alla strada. «Credo sia il momento del salto di qualità. Da quando sono arrivata in Ceratizit ho trovato un ambiente molto ben organizzato e ho affinato un buon feeling con Lisa Brennauer, essendo deputata a tirarle le volate. Sarà una buona occasione per imparare ad affrontare meglio i finali e magari, un domani, provare qualcosa di personale». Ora si torna a casa, domani sarà una nuova giornata di allenamento.

Foto: Paolo Penni Martelli


Dietro casa, il monte Učka: intervista a Josip Rumac

Josip Rumac, Androni Giocattoli-Sidermec, è tornato a casa in questi giorni, ad Opatija, in Croazia, vicino a Rijeka, per noi Fiume. Ormai erano più di due mesi che era lontano dalla sua città, tra ritiri, corse e allenamenti. «Stamattina, dopo l'allenamento, ho preso la macchina e ho guidato verso la casa di mia madre. Sono tornato a sera e mi sono stupito ancora una volta vedendo il monte Učka dietro casa mia. Per noi è una specie di protettore della città e, ogni volta che viene scalato al Giro di Croazia, essere lì davanti vuol dire molto». In realtà, Rumac ha un legame particolarmente stretto con la sua terra. «Giro il mondo e ti assicuro che non vorrei fare altro, ma ogni volta che torno qui e rivedo questi viali, lunghi, ampi, affacciati sul mare ed il riflesso del monte nell'acqua, mi dico che nessun posto è come questo».

Da ragazzo quelle acque le ha anche solcate perché, prima di essere ciclista, Rumac andava in barca a vela. Racconta che gli piaceva e che anche oggi farebbe volentieri un giro in barca, anche se la sua idea è sempre stata un'altra. «Io ho sempre voluto diventare un ciclista professionista, anche nel periodo in cui giocavo a pallavolo. Sembra strano anche a me perché la Croazia non è una nazione particolarmente legata al ciclismo. Da noi ci sono tanti amatori, pochi professionisti. Le bellezze naturali hanno permesso di sviluppare il cicloturismo che è un modo di pensare alla bici bellissimo ma diverso». Così Josip, all'uscita da scuola, prendeva la sua bicicletta, montava in sella, e andava, prima nel cortile e poi lungo il mare. Fino a quando è arrivato il tempo delle gare, la prima vittoria a nove anni, in mountain bike.

«Se c'è una costante nel mio carattere è proprio il fatto di provare sempre, ogni cosa. Sin da bambino ero così. Se decidevo di fare qualcosa, mi ci mettevo ed insistevo fino a che non ci riuscivo. Personalmente credo molto nel fatto che si impari più dagli errori che dai successi. I successi fanno piacere, ma gli errori insegnano. Così ogni volta in cui sbagli puoi ritentare e ritentare meglio. Alla fine, noi impariamo dai tentativi». La bicicletta è il mezzo ideale per imparare perché consente a Rumac di apprendere nella tranquillità. «Quando pedalo sono sereno e motivato, così ho modo di reagire alle difficoltà. Ognuno di noi trova motivazione in qualcosa di diverso, io la trovo nella possibilità di continuare a fare ciò che avrei sempre voluto fare. Mi dico che è sempre stato il mio sogno e che devo reagire. Da quando ho finito le scuole, il ciclismo è sempre stato il mio lavoro. Questo è il mio orgoglio». In Androni, poi, c'è qualcosa in più. «Ognuno di noi sa che le cose si fanno assieme, che si cresce o si cambia assieme. Per un atleta è molto importante non sentirsi solo nelle difficoltà, è un aspetto che può fare la differenza».

Sotto la voce “grinta”, nel vocabolario di Josip Rumac, ci sono due nomi: l’ex ciclocrossista francese Julien Absalon ed il “pistolero” Alberto Contador perché «non conta solo vincere, ma anche il modo in cui vinci e le loro vittorie si fanno ricordare». Lui vorrebbe farsi ricordare alla Strade Bianche e alla Milano-Sanremo. La corsa dei suoi sogni, però, resta il Giro d'Italia, la gara a cui ha sempre pensato quando pensava al ciclismo ed a cui ha partecipato per la prima volta lo scorso anno. Sotto la voce bellezza, invece, l'Italia, un paese che sta iniziando a conoscere. «L'Italia è incredibile. Puoi capitare ovunque, in una grande città o in un piccolo borgo dimenticato, e stai certo che troverai qualcosa di bello, qualcosa in grado di sorprenderti. A me è sempre successo così».

Foto: Luigi Sestili


L'isola deserta di Thomas De Gendt

Per Thomas De Gendt andare in fuga è la trasposizione sui pedali di un racconto ambientato su un'isola deserta. Quando gli chiesero qualche tempo fa se ci fosse un corridore da portarsi in fuga rispose senza tentennare: Jens Voigt, Jacky Durand ed Eddy Merckx. Tre, non uno. Il motivo presto detto: più si è, meglio si sta, soprattutto quando la fuga inizia e c'è del lavoro da sbrigare per creare una storia. Un desiderio che spesso si scontra con la verità dell'inizio di ogni tappa, perché in realtà: «L'unica cosa che puoi scegliere è la tappa dove andare in fuga. Né troppo dura perché favorisca gli uomini di classifica, né troppo morbida per velocisti» raccontava sulle pagine di yellojersey.co.uk. Non puoi scegliere davvero con chi, puoi solo farti un'idea. «Dal chilometro zero si vede già chi è motivato». Poi la tappa parte e si fuga ogni dubbio su fegato e gambe. «È la speranza è portare i più forti con te». Banalmente lapalissiano.

Evidente come in avvio gli serva sempre un aiuto da qualcuno, nonostante “Solo” sia il titolo della sua biografia e il solipsismo la sua dottrina, mentre preferisce arrivare da solo come raccontato nell'intervista che trovate sull'ultimo numero di Alvento. «In volata posso anche giocarmela, ma volete mettere l'ebrezza di un arrivo in solitaria al traguardo?». Il succo del discorso, ma oltre al succo c'è tanta polpa. Almeno inizialmente avere compagnia è vitale per darsi cambi regolari e non cuocersi faccia al vento per ore e ore e per dare quella propulsione iniziale che serve a far passare ogni cattivo pensiero al gruppo. Il margine si dilata e poi gli altri dietro se vogliono si mettono giù pancia a terra a inseguire altrimenti si vola sino al traguardo. Cambi regolari inizialmente: un po' come dopo essere sbarcati su quell'isola deserta e aver organizzato bene il gruppo: chi cerca cibo, chi qualcosa per costruire un posto dove ripararsi. Fatta la capanna e trovate noci di cocco e insetti con cui sopravvivere almeno un po', Thomas De Gendt parla con gli altri Robinson Crusoe in fuga: «Non succede sempre in realtà. A volte facciamo progetti, altre volte non spiccichiamo parola» raccontava sempre sulle pagine di yellojersey.co.uk. che lo aveva intervistato nei giorni del successo al Tour 2019.

È il 13 luglio del 2019 quando individua la tappa giusta. Sceglie seguendo i diktat del suo “manuale per sopravvivere in una fuga”, sceglie – o meglio: gli capitano tra le ruote - uomini che più appropriati non possono esserci: Terpstra, singolare passistone olandese vincitore di una Roubaix e di un Fiandre, De Marchi, una sorta di De Gendt “de noantri” consapevole che in Friuli, da dove viene, non si dice così, e Ben King un altro del quale, tra storie personali fatte di bulimia («Una volta, avevo diciassette anni, mentre tornavo da un allenamento ho accostato e ho vomitato. Pensavo fosse il modo giusto per tenere tutto sotto controllo: divenne un'abitudine e quel problema iniziò a controllare me»), fughe, rivalse, fragole e sangue, si potrebbe stare qui a parlarne per ore.

Resta, De Gendt, con il solo De Marchi (era una tappa giusto a metà tra dura e abbordabile: ideale per una fuga da fare a pezzettini salitella dopo salitella) per poi lasciarlo inchiodato a terra sulla Cote de la Jaillere che osserva Saint-Etienne con fare quasi altezzoso.
Proprio su quella salita da dietro partono e lo spaventano due idoli di casa. Ce lo hanno a tiro. Lo vedono. Non lo riprendono. Braccia al cielo per De Gendt su quell'isola deserta mentre scruta le onde del mare che si infrangono davanti ai suoi occhi «È stato doloroso, ma bellissimo». Poche, semplici, lapalissiane parole.

E pochi giorni fa, sono ormai passati quasi due anni dall'ultimo successo, De Gendt ripete alla perfezione quella attrattive regole di sopravvivenza che da inizio stagione prova senza successo: in fuga prima all'UAE Tour e poi nella “sua” Parigi-Nizza, tenta in Catalunya dove ha già vinto quattro volte, tenta l'ultimo giorno arrivando a Barcelona nel circuito del Montjuïc dove ha già vinto una volta. Fuga numerosa, poi gli altri naufragano, lui allunga, si sbarazza dell'ultimo coraggioso e infine eccolo il colpo risolutivo. La caratteristica principale di quel caratterista della bicicletta.

Ps: a margine, visto che si parla di De Gendt, vogliamo farvi un annuncio: abbiamo acquistato i diritti della sua biografia. Sarà il primo titolo di un’esplosiva collana di storie di ciclismo. Restate sintonizzati.

Foto: Paolo Penni Martelli

 


Tutti gli ingranaggi di una bicicletta: intervista a Donato Pucciarelli

«Sono nato a Montelupo Fiorentino, il paese di Franco Bitossi». Donato Pucciarelli, meccanico dell'Androni Giocattoli Sidermec, racconta così la sua toscanità, il suo essere “fumino”, quell'accendersi per un nulla. «Fino a diciotto anni non sapevo nemmeno cosa fosse il ciclismo, poi ho iniziato a pedalare, ma erano i tempi di Battaglin, Moser, Baronchelli, era dura vincere». Sono passati gli anni, ma Pucciarelli sente come fossero ora le difficoltà di quei tempi. «Erano anni duri. Mio fratello aveva una bottega di biciclette e vi lavorava come meccanico, non c'era tanto tempo da perdere. La mia era una famiglia contadina e bisognava guadagnarsi la pagnotta. Dovevo pensare a lavorare, non potevo portare la bicicletta in giro per il mondo. Mi allenavo quando finivo il mio turno e nonostante questo i miei risultati li ho ottenuti. Poi ho scelto di smettere, pensavo al mio lavoro e a farmi famiglia. Non ho rimpianti sebbene chissà, se fossi diventato ciclista, cosa sarebbe successo».

Poi ci sono gli anni che passano e le cose che accadono. «Non ci pensavo più, quando una sera, nel 1988, passò da me Roberto Gargioli. Era stato ingaggiato dalla squadra di Gianni Savio, noi abitavamo vicini e a lui serviva un meccanico a pochi chilometri da casa». Cambia tutto nella vita di Pucciarelli. A partire dalla prima volta in cui si trova a dover preparare le biciclette degli atleti: «Accanto a me, c'era il meccanico di Pedro Delgado. Io non avevo ancora finito di preparare tutto il materiale, lui aveva già sistemato tutte le bici. Che frustrazione! Ma serve anche questo. La gavetta ti fa crescere umile». Ed è da quell'umiltà che Donato Pucciarelli ha tratto gli insegnamenti più importanti. «Con i corridori non bisogna mai discutere. Hanno già tante pressioni, ci mancherebbe solo le nostre. Il nostro compito è farli stare tranquilli. Io lo dico sempre: “Siamo tutti qui per lavorare, chiedete, parlate, non fatevi remore. Partirete più leggeri”.»
Così ha imparato a rispondere alle richieste più inconsuete, ad accontentare i ragazzi per tranquillizzarli. «Gilberto Simoni correva con sella storta e io gliela posizionavo così, limando l'archetto, perché lui si trovasse bene. Alcune volte i ragazzi vengono a chiederti di alzare il manubrio di un millimetro. Non lo percepiranno nemmeno, ma tu devi alzare quel manubrio perché psicologicamente per loro è importante. Attenzione, però, questo non deve diventare un alibi». Pucciarelli sta pensando ai corridori che dopo una sconfitta o un errore in gara, cercano una scusante nel mezzo meccanico e non si assumono le proprie responsabilità. «Non si divertono neanche più in bicicletta e tutti i problemi nascono da lì. Se non vi divertite, pur con tutta la fatica che si fa, non continuate. Fermatevi. Se vi rendete conto che non è il vostro ambito, non tirate a campare. Il ciclismo è una delle possibilità più belle, non imbruttitelo col vostro modo di fare. Lamentarsi fa male». Per contrasto pensa a Egan Bernal. «A lui andava sempre bene tutto, vedevi che era felice di fare questo lavoro. Non l'ho mai sentito lamentarsi una volta ed i risultati sono arrivati».

Il mondo dei meccanici è cambiato nel corso degli anni e Pucciarelli ha vissuto questa modificazione dall'interno. «Giancarlo Ferretti mi chiamava Tarzan perché in corsa facevo delle acrobazie tremende. Ho provato a cambiare il filo dei freni o la catena in ammiraglia. Non c'erano tutte le bici che abbiamo oggi e bisognava cavarsela. Se si rompeva un cerchio, la sera si prendevano i raggi e si faceva un cerchio nuovo, oggi si cambia la ruota. Non c'erano i rapporti di giusti per scalare il Mortirolo, così te li inventavi. Poi vincevi una tappa del Tour de Las Americas davanti ai grandi e ti scordavi persino delle notti insonni. Eravamo in pochi a lavorare sulle biciclette, non avevamo tutte le conoscenze dei giovani di oggi ma avevamo la pratica». Qui, Pucciarelli apre una parentesi. «Stare in giro per il mondo, a volte anche senza tutta l'attrezzatura necessaria, ci ha insegnato ad arrangiarci e a distinguere ciò che davvero è un problema da ciò che non lo è. Quante cose teoricamente sono in un modo ed in pratica sono all'opposto? Quando sei in viaggio, sballottato da un albergo all'altro, senza tempo, al caldo afoso della Francia o sotto un diluvio invernale, lo capisci e ti adatti».

Di tutti questi anni, Donato Pucciarelli avrebbe molti episodi da raccontare, per esempio di quando Gianni Savio lo affiancava mentre preparava le biciclette: «Mi veniva vicino e mi chiedeva di spiegargli cosa stavo facendo, che rapporti usavo o cos'era quello strumento che avevo in mano. Poi precisava: “Sai, se i ragazzi me lo chiedono devo saperlo”. Su un aneddoto, però, si ferma diversi secondi. «Non ricordo che anno fosse. Eravamo al Giro d'Italia e Massimo Ghirotto perse una tappa da Claudio Chiappucci. Arrivò stremato, mi si avvicinò e mi disse solo: “Puccio, non ce l'ho fatta. Non ce l'ho fatta”. Andò via. Quegli occhi li rivedo ancora».

Foto: Luigi Sestili


Philippe Gilbert non è soltanto una scritta sull'asfalto

Destino straordinario quello di Philippe Gilbert. Corridore fuori dall’ordinario. Saltellava sulla Redoute quando era ancora giovane, anche se gli dicevano di non farlo: quella salita lì è troppo dura per un ragazzo, era il monito. Costante. Ma vi è un legame così stretto tra Gilbert e quella salita che sull’asfalto trovavi già scritto: “Philippe Gilbert” e lui doveva ancora diventare professionista. Era la Liegi del 1999, Philippe, nato nel 1982, non era manco maggiorenne, e sulla Redoute si sfidavano Frank Vandenbroucke e Michele Bartoli. Attaccarono entrambi, affiancati, appaiati, mentre per terra sotto le loro sagome si ripeteva quel nome ancora sconosciuto. Spianarono i quasi due chilometri di côte guardandosi, in un testa a testa come sfida di nervi labili, quegli stessi nervi che poi mandarono all’aria la vita del fuoriclasse all’epoca in maglia Cofidis. Vinse Frank quel giorno – staccando Boogerd ben dopo il tentativo sulla côte simbolo della corsa belga – e per dodici lunghi anni fu digiuno per i corridori di casa.

A spezzare quel sortilegio Gilbert, oppure semplicemente “Phil” come da un certo punto in avanti trovavi scritto su quelle strade: non serviva più specificarne il cognome: d’altra parte avrebbe messo vicino, un po’ alla volta, successi in tutte le corse di un giorno più importanti al mondo. Tutte tranne una, come sapete. Phil, Philippe, Gilbert, eccetera: un peso quel nome, un marchio che ha sempre legato valloni e fiamminghi, che ha sempre emozionato italiani e francesi e spagnoli e olandesi. Difficile pensare a un corridore più tifato in gruppo negli ultimi dieci, quindici anni.

Filippo di (e da) Remouchamps, un paesino proprio ai piedi, più o meno, della Redoute. Ruvida erta d’asfalto quella côte, che quando si arrampica interseca senza pietismi un tratto di autostrada: brutta da vedere, sì, una volta pure così efficace nel selezionare il ristretto novero dell’élite ciclistica verso il finale di corsa, ma poi negli anni trasformatasi in fotografia del greggepecorismo che per un lungo periodo ha influenzato il gruppo. Invece che vedere scattare e sgranare, eccoli tutti aperti in fila lungo la sede stradale a immaginarsi una selezione che man mano arriva la salita dopo, poi la salita dopo, poi ancora la salita dopo, fino all’arrivo. Fino a quando poi han cambiato il finale della Liegi – per fortuna.

Adolescente come tanti altri, è stato. Con un padre che voleva diventare corridore e che trasmette la passione ai figli. Corrono tutti, ma arriva solo Philippe. Parte dal Belgio, dopo aver entusiasmato in una corsa Under 23 in Francia, attaccando a un centinaio di chilometri dal traguardo in mezzo al vento, e Marc Madiot (team manager già all’epoca della Française des jeux) lo strappa alla concorrenza delle squadre di casa. «Ho preferito la Francia per sentire meno pressione» racconterà spesso Gilbert.

Ma intanto in quella Remouchamps una piazza porta il suo nome, così come un’ala del Museo della Bicicletta – situata ai piedi delle Grotte di Remouchamps e fortemente voluta da Christian Gilbert, fratello di Philippe e assessore alla cultura della cittadina belga. Un’importante corsa che si disputa da quelle parti è stata ribattezza “La Philippe Gilbert Juniors” (nel suo albo d’oro vittorie di Pidcock nel 2016 ed Evenepoel nel 2017), quando vinceva lui, vinceva tutto il paese. Di fan club in giro per il mondo se ne perde il conto, di tifosi che si asserragliano lungo quelle salite, il giorno de “La Doyenne”, non basterebbero giorni per contarli tutti. “Philomani” li chiamano. A fine “Doyenne”, la decana delle classiche, ovvero la Liegi-Bastogne-Liegi, per esteso, e che negli anni ha perso molto del suo fascino antico, si organizza sempre una grande festa in suo onore. Uno stand, magliette. gadget, balli, musica, salsicce e birra. Eroe per i valloni che dai tempi di Criquielion – e di Magritte -aspettavano un figlio della loro gente per guardare negli occhi i fiamminghi.

Ha vinto una Liegi (una soltanto, è il caso di dirlo) da favorito e dominatore. Era il 2011: decadi che passano. Sconfisse i due fratelli Schleck nella volata verso Ans. Volata via senza storia. Quando ha conquistato il Fiandre (2017), lui che per un lungo periodo si è sentito tagliato fuori dalle corse sulle pietre a causa pare anche di una difficile convivenza in casa BMC, lo ha fatto come un matto. Attacca lontano dal traguardo, poi 55 chilometri in solitaria con 8 muri ancora da affrontare. «Ci vuole coraggio per fare quello che ho fatto. Sì mi sono sentito davvero pazzo», disse appena tagliato il traguardo, la bici tirata su in aria, tutti prostrati davanti alla sua classe.

E poi il 14 aprile del 2019 il colpo alla Roubaix, cercato, ma inaspettato. Il paradosso vuole che ancora per questa primavera, la seconda consecutiva stramaledetta primavera, c’è il rischio che il suo resterà l’ultimo nome scritto nell’albo d’oro della Regina delle Classiche, lui che delle classiche è di sicuro stato un Re. Quattro Amstel, un Fiandre, una Roubaix, una Liegi, una Freccia Vallone, svariate tappe tra Giro, Tour e Vuelta, un Mondiale, una Freccia del Brabante, due Parigi Tours, due Lombardia, una Strade Bianche, un San Sebastian, un Gp de Quebec, due Het Volk, due titoli nazionali – uno in linea e uno a cronometro. Allora gli mancherebbe e probabilmente gli mancherà, solo la Sanremo per eguagliare Van Looy, Merckx e De Vlaeminck, belgi come lui, prima di lui, ma deve fare i conti con il tempo che passa.

Gilbert smuove, ma forse ha smosso definitivamente ormai, non ce ne voglia. A 38 anni, quasi 39, si farà da parte e smetterà a fine 2022. Oltre al logorio del tempo che scalfisce ci sono tanti infortuni pure gravi, pure recenti. È vero: ci piacerebbe giocare proprio con quel tempo e plasmarlo a nostro piacimento. Ci piacerebbe prendere il Gilbert dello scatto devastante di Anagni al Giro 2009, oppure quello dell’attacco su quel sottile capezzolo sopra Valkenburg quando si lanciò verso l’iride, e proiettarlo per una sfida alla pari con van Aert, van der Poel, Alaphilippe, ma non è possibile. Non ci sono armi né sotterfugi, né capacità di sottrarsi al destino e al tempo. Rimane solo la capacità di chiudere gli occhi e immaginarsi ancora quella scritta sull’asfalto della Redoute: “Philippe Gilbert” oppure semplicemente “Phil” e via di nuovo, tornare indietro e ricominciare tutto da capo come un attacco folle a cento chilometri dall’arrivo di una grande corsa. All’infinito.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2018


Essere se stessi in pista: intervista a Elisa Balsamo

L'intervista con Elisa Balsamo parte da uno sguardo. Elisa fissa le compagne che girano all'interno del velodromo di Montichiari e cerca un'idea per rispondere alla nostra domanda. «La verità è che non riesco ancora a immaginare la mia Olimpiade a Tokyo. Sarà perché ci ho pensato spesso e ci tengo davvero molto, sarà perché manca ancora un po' di tempo e non ho la certezza di esserci, ma ad oggi mi sembra ancora qualcosa di irreale, di troppo bello per essere vero e non voglio illudermi». Le parole tornano a fluire libere quando si parla di orgoglio e questa ragazza, timida, che ancora abbassa lo sguardo quando ti incrocia, alza quasi spontaneamente il tono della voce, quasi a sottolineare il valore di ciò che è avvenuto. «Il ciclismo non è come l'atletica. Noi non qualifichiamo le singole atlete, noi qualifichiamo la nazione. È una responsabilità: quando ti avvii alle qualificazioni il problema non è se Elisa Balsamo parteciperà a quella manifestazione specifica, il problema è se l'Italia lo farà. Fa un poco paura, non lo nego».


Accanto a Elisa, su un tavolino, c'è un fumetto, Diabolik. Ci racconta che in realtà non è appassionata di fumetti, ma questo è un caso particolare. «Da bambina, nonno aveva sempre in casa diverse copie di Diabolik. Io amavo già leggere, così lo prendevo e lo sfogliavo. Non ho mai letto Topolino, per esempio. Però, appena capito in una stazione o in un'edicola e trovo Diabolik lo compro. Prima di arrivare a Montichiari ne ho comprate tre copie e ora mi manca solo questa da ultimare». L'altro volto dell'introversione, quello che ama il racconto, scritto se possibile perché la carta fa sentire sicuri. Balsamo spiega che un domani vorrebbe diventare giornalista, ancora prima però vorrebbe scrivere un libro e a questo pensa da quando era bambina. «Credo sia importante raccontare ciò che ci succede. Non possiamo sapere cosa stanno vivendo le altre persone, magari la tua storia le aiuta ad oltrepassare un momento difficile. Cerco spesso libri che raccontino storie vere, perché, alla fine, diventano il tuo esempio e ti fai forte ricordandoti ciò che hai letto. Sì, bisogna raccontare e prendersi tutto lo spazio che serve».

Non occorrono domande, perché è lei stessa ad aggiungere una parte di quella storia che tanto vuole raccontare. «Sono una perfezionista, ma, nonostante questo, non sono quasi mai contenta di me. Sarà un fatto caratteriale. Io dico sempre che la componente più importante del ciclismo sono le compagne e non è retorica. Per come sono fatta, senza loro al mio fianco, probabilmente avrei già smesso. Di sicuro non avrei ottenuto tutti i risultati di cui parliamo. Sento la necessità di qualcuno che mi sproni, che mi faccia capire che devo crederci, che quello che immagino può succedere». Così è accaduto al mondiale su pista, nel 2019, quando Balsamo non è stata all'altezza dell'atleta che avrebbe voluto essere. «Avevo sbagliato preparazione e sono arrivata stanca, così ho fallito l'obiettivo. Io penso molto, rimugino molto e quella delusione mi ha lasciato a terra per settimane. Poi è tornato l'entusiasmo, è tornata la voglia di provarci».
Elisa Balsamo racconta che in gara cerca spesso con lo sguardo Chiara Consonni. «Ci conosciamo da tanti anni e siamo completamente diverse ma c'è una chimica particolare fra noi. In corsa ci capiamo alla perfezione, siamo sintonizzate. Quando sono io a vincere, le prime braccia ad alzarsi al cielo sono le sue, poco dietro di me. Succede dai mondiali di Doha».

Per raccontarci meglio la corsa in pista, Balsamo ci mostra i suoi scarpini. «Vedi? Nelle discipline di gruppo, quando osservi le scarpe a fine corsa le vedi striate, sfrisate. È il contatto fra noi a renderle così. L'adrenalina non te ne fa rendere conto ma sfiori ogni manubrio. Molti mi chiedono se non mi fa paura l'idea di essere senza freni. Bene, se avessimo freni ci faremmo molto male perché ad ogni contatto l'istinto sarebbe quello di frenare. Invece sappiamo che per accelerare si scende nel lato basso dell'anello e per frenare si sale».

Sostiene che la nostra nazionale ha come punto a proprio vantaggio il fatto di praticare anche strada perché molti meccanismi si ereditano da lì. «Non a caso facciamo molto bene nell'omnium da quando non ci sono più prove individuali. Credo ci sia da lavorare sul quartetto e sulla madison. In quest'ultima serve molto la tecnica oltre alle gambe e questa si acquisisce col tempo. Un buono spunto può venire dalle atlete inglesi che sono molto brave in questo campo».

In fondo, Elisa Balsamo si sente sicura in ogni velodromo e trova la forza per fare anche ciò che, per insicurezza o timore, non farebbe nella vita di tutti i giorni. Questo è il suo segreto. «La prima volta che sono stata in un velodromo a Torino, dimenticandomi di non avere i freni, sono caduta, una brutta caduta. Mi faceva male dappertutto, ma sai qual è la prima cosa che ho fatto? Mi sono sistemata in fretta perché dopo pochi minuti sarebbe partita un'altra gara e non potevo perdermela nonostante tutte le sbucciature. Ci ho pensato parecchio e ho capito che, nonostante tutto, io sono proprio quella ragazza lì».

Foto: Paolo Penni Martelli


Racconti dai due mari

Per raccontare questa Tirreno-Adriatico partiamo dalla reception di un albergo di Terni che ci ha accolto sotto un diluvio torrenziale, venerdì sera. Un signore sulla cinquantina, mentre registrava i nostri documenti, guardandoci ci ha chiesto: «Non mi raccontate nulla della corsa?».
Ci è sembrato bello perché ha tradito quella voglia che tutti abbiamo di ritornare in strada, accovacciati sul bordo di un marciapiede a vedere il passaggio del gruppo. Quella stessa voglia che si è palesata in ogni angolo delle strade che da Monticiano conducevano a Gualdo Tadino, dove gli abitanti delle case vicine si posizionavano distanziati ad aspettare di sentire il suono della corsa proveniente dai margini di quei borghi per tirare fuori cartelli e scritte. Poche persone che interrompevano il silenzio assordante delle strade.

In uno di questi angoli c'era Loredana, una maestra di scuola elementare, che in questi giorni vive la realtà della didattica a distanza. Una di quelle maestre che portavano i propri alunni a vedere il Giro d'Italia. Loredana ci ha raccontato che quei bambini, il giorno prima della gara, le chiedevano sempre cosa sarebbe accaduto, quanti ciclisti sarebbe transitati e quante macchine a suonare il clacson per farsi strada. «Portare un bambino a vedere una gara di ciclismo è un modo per insegnargli la pazienza dell'attesa, la fatica che si fa arrampicandosi su una salita o camminando al sole per ore godendo della bellezza di una scia lasciata da una bici».
Forse andare a vedere una corsa ciclistica di questi tempi è anche un buon modo per ricordarsi di tante cose che ormai davamo per scontate. Di più: è un antidoto contro la dimenticanza. Lo sa quella manciata di persone che a Prati di Tivo ha applaudito l'ultimo gruppo dei ritardatari e lo ha fatto con naturalezza, battendo le mani più forte per compensare il fatto di essere pochi. Quel giorno abbiamo tirato un sospiro di sollievo perché abbiamo avuto la certezza di non esserci dimenticati momenti che non vivevamo da troppo tempo.
Quel ragazzo che è entrato in una rosticceria all'arrivo di Castelfidardo e, assieme agli arancini, si è fatto dare un foglio e un pennarello, probabilmente nemmeno sapeva cosa stava accadendo quel giorno, ma sentiva che c'era qualcosa di diverso. Per questo ci ha chiesto chi stesse vincendo e con calligrafia incerta ha scritto: “Grazie van der Poel”. Quel foglio è durato meno di dieci minuti, appoggiato a una transenna con una bruma quasi invernale a dissolvere l'inchiostro. Ma non conta. L'importante è che abbia sentito la voglia di dire grazie e lo abbia fatto così, in modo spartano, ruvido, ma vero.
Ognuno ha qualcosa da dire o da dimenticare all'arrivo di una corsa ciclistica. Lorenzo, ad esempio, a Chiusdino, ci ha detto che quello era l'istante in cui stava meglio da diversi giorni. «Sul lavoro ci sono sempre problemi, cose che non vanno, ansia e nervosismo. Certe mattine non hai proprio alcuna voglia di andare in ufficio. Sapere che ti attende un pomeriggio come questo è un buon modo per affrontare i problemi con serenità, perché quando uscirai vedrai van der Poel,  van Aert, Nibali e tanti altri campioni sfilare proprio sotto il tuo naso». È stato proprio lui a mandarci un messaggio il giorno seguente. «Che regalo mi ha fatto Alaphilippe, vincendo qui».
Noi lo immaginavamo perché Lorenzo racconta quella terra con una dedizione tale che ogni storia che accade su quelle strade è una storia che sente sua, come le mura di una casa. Sentirselo dire, però, è sempre bello.
E ancora ci piace raccontarvi di Vincenzo Nibali e di quel «una mattina ti svegli e qualcuno va più veloce di te» detto tra il rassegnato e l'amareggiato a Gualdo Tadino, delle volte in cui l'abbiamo visto scuotere la testa, come a dire «cosa posso fare?», ma anche dell'ultima risposta a San Benedetto del Tronto, quando, pensando alla Sanremo, ha esclamato: «Ci sono tante chiavi per vincerla, cercheremo quella giusta». Che è come tornare a crederci, come avere meno freddo. Di Wout van Aert che ha già detto che tornerà per vincere la Corsa dei Due Mari, ora però vuole pensare al mar ligure, quello che lo attende sabato. Oppure di Mathieu van der Poel che dopo essersi messo a disposizione di Tim Merlier, umilmente, mentre il compagno lo guardava con ammirazione alla partenza di Lido di Camaiore, non ha digerito la sconfitta patita a vantaggio di Julian Alaphilippe. Quel giorno ha tirato un pugno al manubrio, il giorno dopo ha messo quella stessa mano sul petto e ai giornalisti ha detto: «Ci penso io». E via, lungo tante altre parole.
La chiusura di questo pezzo, invece, vogliamo lasciarla a una sola frase detta, perché spesso per dire tanto, basta veramente poco. Così ha fatto Peter Sagan quando gli hanno chiesto se credesse di potersela ancora giocare con i “giovani terribili” del ciclismo. Sguardo fisso, sorriso accennato e un'espressione: «Tu pensi di no?». Che è una domanda, ma anche una risposta. Come le tante che abbiamo trovato sulla strada.

Foto: Luca Bettini/BettiniPhoto©2021


Le ferite guariranno: intervista a Francesca Pisciali

Francesca Pisciali ricorda sempre ciò che le dice il suo allenatore: «Il livello nel ciclismo femminile si è alzato molto, non puoi pensare di vivacchiare. Essere atleta ti impone dei sacrifici, se vuoi fare bene, devi accettarli tutti, altrimenti resti a metà strada. Non riesci ad affermarti come atleta e allo stesso tempo sei costretta a privarti di molte cose che, diversamente, potresti fare. Devi scegliere». Per questo non si è mai iscritta all'università, perché con i ritmi che le impone il suo sport rischierebbe di non riuscire a studiare e, a ventidue anni, non ci si può permettere di non avere le idee chiare. «Mi piace talmente tanto il ciclismo che voglio provare fino all'ultimo a farlo diventare il mio lavoro. Però non sono un'illusa, non voglio restare qui a tutti i costi. Se mi renderò conto di non riuscirci, abbandonerò questa via e ne sceglierò un'altra. L'idea di avere magari venticinque, ventisei anni, e non avere concluso nulla mi spaventa terribilmente. Non fa per me, per quanto vivere senza la bicicletta sembri un incubo in certi momenti».

Pisciali, quest'anno accasata alla Isolmant Premac Vittoria di Giovanni Fidanza, parla con serenità anche di un possibile abbandono e, quando le chiediamo come faccia, non ha dubbi. «Perché ho già provato a smettere. Avevo quindici anni e a Bolzano non c'era una realtà adatta a me. Ho smesso controvoglia e, forse, non ho mai smesso del tutto. Due anni dopo lavoravo in un bar in cima a un passo alpino e andavo al lavoro in bici. Quella pausa mi ha fatto bene. Il ciclismo è un mondo che ti ingloba e rischia di farti perdere il contatto con ciò che c'è fuori».

Attraverso l'indipendenza imparata correndo in bicicletta, Francesca Pisciali si è resa indipendente nella vita di tutti i giorni. «In alcune gare delle categorie minori mi sono iscritta autonomamente, mi sono preparata il cibo ed i rifornimenti, sono andata a ritirare i dorsali, ho controllato la bici e sono partita. Fai fatica, ma cresci, impari. Questo ti resta e fa parte di te. Non ho più smesso di correre, ma ho sempre continuato a lavorare. Con i risparmi mi sono comprata la macchina e mi sono tolta tanti piccoli sfizi».

Francesca sembra una ragazza di altri tempi. Dice che guarda poco il cellulare ed alcune volte lo lascia persino a casa. «Se dobbiamo incontrarci ad una certa ora, io mi faccio trovare per quell'ora. Non ho bisogno di una conferma qualche minuto prima. Con me preferisco avere un buon libro, così mentre aspetto posso leggere». Ci confessa che la sera, prima delle gare, legge sempre ed è tranquilla. «Quando è la giornata giusta, lo sai, lo senti. Sei serena e ti riesce tutto più facile. A me è capitato di andare in fuga con una facilità assoluta, mentre molte ragazze provavano senza riuscirci. C'è qualcosa di naturale in certi giorni».

Altre volte è l'istinto, la rabbia, il nervosismo a segnare la gara. «Quando mi arrabbio, vado più veloce. Una volta sono scattata pur non stando bene. Mi avevano fatto innervosire ed avevo deciso che sarei stata davanti. Ho preso la volata in terza posizione, una velocista l'avrebbe vinta con una gamba sola, io sono arrivata settima, ma è stato un buon risultato».

Le piace allenarsi sulle strade delle Dolomiti, ma, quando ha del tempo libero, va in Romagna perché lì c'è la sua seconda casa, tra tortellini e piada, "quella spessa" precisa lei, spiegandoci la contesa che c'è in quelle zone sulla vera essenza della piadina romagnola. Una cosa la rende particolarmente felice riguardo al ciclismo femminile: il fatto che, ultimamente, sempre più ruoli vengano ricoperti da donne. «Credo sia un bene, perché sanno meglio di chiunque altro cosa significa essere donna e, se hanno vissuto questo sport, capiscono cosa si prova, come ci si sente. Si tratta di un passo importante per l'emancipazione femminile. Un passo che abbiamo il dovere di compiere noi. Certe volte ho avuto la sensazione che come atlete non fossimo prese sul serio da alcuni uomini. Colpa loro, ma anche colpa nostra. Il primo segnale di una professionalità totale deve venire da noi».

Pisciali descrive benissimo il feeling che si instaura con alcune gare, piuttosto che con altre. «Prendiamo il Trofeo Beghelli. In astratto potrebbe anche essere adatto alle mie caratteristiche, invece no. Quello zampellotto sul finale mi blocca sempre, come se mi respingesse». Qualcosa di speciale, invece, Pisciali lo ha sempre provato per la Strade Bianche e la prova dello scorso sei marzo ne è stata la dimostrazione. Francesca è caduta nelle prime fasi di gara, il ginocchio le sanguinava e tutta quella polvere non era certo l'ideale. «Non sempre le cose vanno come vorremmo, dobbiamo accettarlo. Avrei potuto fermarmi e salire in ammiraglia, non l'ho fatto per rispetto della gara e per l'orgoglio di poterla correre. Al traguardo sono arrivata troppo tardi per rientrare in classifica, ma ci sono arrivata. Ho concluso una prova che avevo iniziato, ho tenuto fede alle mie responsabilità, dal primo all'ultimo chilometro. Le ferite, poi, guariranno».

Foto: Flaviano Ossola, per gentile concessione di Francesca Pisciali