Un giorno sul lettino dei massaggi

 

Michele De Biasi, il massaggiatore della Bardiani Csf Faizanè, è sempre stato un attento osservatore. Ha capito così che tutto, ma proprio tutto, passa dai dettagli. Soprattutto ha capito che bisogna avere il coraggio di credere ai dettagli anche quando sembrano una parte trascurabile del tutto. «Quando arriva da te, sul tuo lettino, un ragazzo che ha fatto duecento chilometri in bicicletta c’è una cosa che devi fare prima di tutte le altre. Una domanda, l’unica che hai il dovere di porre: come stai? Chiedere come sta con la vera volontà di conoscere il suo stato fisico ed il suo stato d’animo, è importantissimo. Te lo dirà? Alcuni si aprono e ti raccontano, altri non hanno voglia. Si tratta del carattere e della giornata. Non conta, tu devi chiederlo. Poi capirai iniziando a massaggiare, se ti ha detto la verità oppure no. Quando li conosci, i muscoli ti dicono tutto. Quella domanda però è importante perché permette al ragazzo di aprire una porta e di raccontare. A lui la scelta». De Biasi spiega che dopo quella domanda lascia che siano i ragazzi a scegliere come gestire quei quarantacinque, cinquanta, minuti di massaggio, perché «è giusto così». Una frase breve, secca, che viene subito ripresa e specificata.

«Tecnicamente tutti ti diranno che il massaggio serve per disintossicare i muscoli, per togliere le tossine e favorire il recupero muscolare dell’atleta. Vero, un massaggio ben fatto si percepisce subito. Se parli con un corridore affaticato prima e dopo il massaggio, ti descriverà sensazioni diverse. Il punto è che ci sono tossine tipiche dei muscoli e tossine tipiche della mente. Per recuperare da quelle, solo tu sai ciò che ti fa bene. Per alcuni è necessario parlare, sfogarsi, per altri basta il silenzio. In generale io dico che aiuta molto la leggerezza. Spesso non si capisce a fondo quanto anche una battuta possa fare bene. Il segreto è staccare la spina per “disintossicare” anche la mente».

De Biasi è arrivato al ciclismo solo quattro anni fa, per un caso, come per un caso era arrivato alla massofisioterapia dopo aver fatto studi da elettricista. «Tutti ti dicono: guarda che è tutto diverso, guarda che farai fatica, pensaci bene. Tu li ascolti ma, se sei come me, una volta che hai deciso non cambi più idea. Questo non significa che non abbia mai pensato di aver sbagliato o di tornare indietro. Ci ho messo un anno e mezzo ad ambientarmi, a capire ciò che era accaduto». In Bardiani lo chiamano Hellas: «Perché sono tifoso del Verona ma soprattutto perché ho lavorato con la squadra. Io arrivo dal calcio e dalla pallavolo. Sì, si tratta sempre di sport ma cambia tutto». Da un punto di vista mentale ma anche da un punto di vista tecnico.

«Dipende sempre dall’ambiente ma nel calcio, generalmente, avvertono il tuo lavoro quasi esclusivamente come un lavoro. Questi ragazzi sono proprio bravi, ti danno spazio, riconoscono il tuo spazio e ti ringraziano sempre. Alcuni ti chiedono anche qualche foto perché vogliono raccontare chi sei. Ti sono riconoscenti. Quelle foto le tengo da parte e le faccio vedere con orgoglio ai miei amici. In pubblico non le mostro, no. Si tratta di una forma di pudore e di rispetto. Prima parlavo della conoscenza che ti permette di capire molto senza chiedere. Ecco, la conoscenza passa anche da queste piccole forme di rispetto e di attenzione».

Poi ci sono le differenze che riguardano i tre sport. «Nel calcio il massaggio è tendenzialmente meno importante, c’è anche il cambio ritmo ma è più che altro corsa in linea. Alcuni calciatori non si sottopongono nemmeno sempre ai massaggi, sentono la necessità di terapie fisiche strumentali per traumi e tendiniti: laser, tecar e ultrasuoni. Discorso simile vale nella pallavolo per i bendaggi: gli atleti sono esperti e spesso provvedono autonomamente almeno per quanto riguarda le mani. Noi li aiutiamo con le caviglie. Il resto è riservato a trattamenti di scarico, consideriamo che si allenano tutti i pomeriggi e per almeno due mattine fanno pesi in palestra. Capisci la differenza con una gara a tappe? Cambia tutto».

Parlando di corse a tappe, De Biasi ritorna sulla conoscenza. «Non è facile lavorare su un corridore che non hai mai massaggiato. Se ti capita, lo fai ma sarebbe meglio avere affinato una certa conoscenza. Il massaggio è fatto anche di piccoli dettagli e di minuscole cure che il singolo gradisce. Scoprirlo in una corsa a tappe, in un momento difficile, non è l’ideale». I pre-ritiri sono l’ambiente in cui affinare questi dettagli, ma sono anche il luogo della sincerità e dell’accettazione. «Può succedere che un corridore si trovi meglio con un mio collega. Non deve diventare un fatto personale. Credo che tutti siamo qui per aiutare questi ragazzi, noi siamo il dietro le quinte. Non deve esserci invidia. Al primo posto c’è la squadra e perché la squadra funzioni bene è indispensabile la serenità dei singoli. Non può esserci serenità se i rapporti sono forzati o se non si ascoltano i bisogni dei corridori. Massaggiare è ascoltare, quando si ascolta, si capisce. Poi serve l’umiltà di scegliere e lasciar scegliere».

Foto: Paolo Penni Martelli


La nuova vita di Sevilla

Chissà se anche a Medellín sarà lo stesso. Se quell’eco arriva fino a lì. I nomi dei ciclisti sono evocativi. Riportano indietro di anni e si collegano quasi automaticamente ad altri nomi, come nella ricostruzione di un puzzle. Succede per il ciclismo come per tutti gli altri sport. Chi non ricorda a memoria la formazione dell’Italia campione del mondo nel 1982? Alcune volte quei nomi sono persino associati alla particolare cadenza nella loro pronuncia da parte di un cronista. Quasi sempre a ricordi o pomeriggi estivi davanti al televisore. Magari nell’infanzia o nell’adolescenza. Per questo se vi nominiamo Óscar Sevilla, è come se vi nominassimo anche Santiago Botero, Juan Manuel Garate, Beat Zberg, José Maria Jiménez, Santiago Blanco, Igor Gonzàlez de Galdeano e molti altri. Solo alcuni fra gli atleti che hanno fatto parte del gruppo a cavallo fra gli anni novanta e il duemila.

Magari eravate ragazzini e seguivate il Tour de France durante le vacanze estive, oppure eravate già adulti e per sapere qualcosa dell’andamento della Grande Boucle aspettavate di infilarvi in macchina e di accendere la radio. Sevilla ebbe il suo anno migliore proprio in quel 2001 ed il racconto apparterrebbe agli annali, non fosse che il ”ragazzino” nato ad Albacete, in Castiglia-La Mancia, il 29 settembre 1976, è ancora sulla breccia e a quasi quarantacinque anni, qualche settimana fa, si è imposto nella prova a cronometro della Vuelta al Tàchira, in Venezuela, chiudendo poi secondo in classifica generale.

Óscar Sevilla arriva in gruppo nel 1998. Esile, non molto alto, ha il classico fisico da scalatore ed il sorriso tipico degli spagnoli. Corre per la Kelme marchio di abbigliamento divenuto noto in Italia per quella maglia a strisce verdi e bianche. Squadra di scalatori e fuggiaschi: Roberto Heras e Fernando Escartìn i più celebri, Alejandro Valverde tra i volti noti lanciati nel professionismo. Al Tour del 2001 chiude settimo, Sevilla. Ha quasi venti minuti da Lance Armstrong, non tiene il passo dell’americano ma è sempre nel gruppo dei migliori e prova anche a giocarsela. A Parigi vestirà la maglia bianca di miglior giovane e solo poche settimane dopo rischierà di vincere la Vuelta, superato dal connazionale Ángel Casero. Sarà la sua migliore annata, negli anni successivi stenterà a riconfermarsi a quel livello. Ma la batosta non è questa, la batosta deve ancora arrivare ed inizia a serpeggiare a fine giugno del 2006 fra le pagine dei giornali e il villaggio di partenza del Tour de France a Dunkerque. È l’Operación Puerto.

Sevilla non è coinvolto personalmente, ma come compagno di squadra di Jan Ullrich alla T-Mobile. «Ho sofferto molto- racconta a Cyclingnews- non potevo fare nulla. Non potevo neanche difendermi perché non ero accusato personalmente. La federazione ci ha lasciato in un limbo: non potevamo tornare e non avevamo nemmeno una giusta pena da scontare». Il ricordo più doloroso per Sevilla è legato alla sofferenza che respirava in casa, la paura di aver deluso. Se vuole andare avanti, deve cambiare qualcosa. Una delle possibilità, è cambiare terra. «Non fosse stato per l’Operaciòn Puerto correrei ancora in Europa. Avrei guadagnato più soldi e sarei anche stato più famoso. Ma non sarei mai stato felice come lo sono ora». Sevilla parte, va in Colombia.

Lì trova la vita vera: «La verità è che sono contento di aver superato quelle difficoltà e di essere qui. Nonostante tutto sto ancora facendo ciò che ho sempre voluto fare. Ho trovato un’altra vita, me la sono costruita. Perché? Perché ho trovato un’altra nazione, dove la vita è considerata per ciò che è e per quanto vale. Spesso in Europa non apprezziamo quello che abbiamo e abbiamo tantissimo. In Colombia hanno molto ma molto meno però danno un valore enorme ad ogni cosa. Si godono la vita e si godono ogni giorno. Non sono arrivato qui in un periodo facile, ma sono riusciti a farmi sentire a casa, a farmi sentire felice».

Così, a chi si chiede perché Óscar Sevilla corra ancora, a chi si meraviglia e non capisce come faccia ad essere così competitivo e a sfidare ragazzi che potrebbero essere suoi figli, lui risponde spontaneamente, quasi non percependo la profondità di ciò che va a dire. Sempre quel suo sorriso, a metà tra lo spavaldo ed il timido e quella cadenza impastata di spagnolo. «Alcune volte la vita ti toglie delle cose. Alcune volte molte cose, ma sappi che te ne restituirà altre. Cose che nemmeno ti immagini. Se ho avuto l’opportunità di ricominciare da capo, dovevo sfruttarla fino in fondo. Con tutto il bene e con tutto il male».

Foto: BettiniPhoto©2020


Tutto il tempismo del mondo

Heinrich Haussler a quasi 37 anni correrà per la prima volta un mondiale di ciclocross, lo farà domenica difendendo i colori della nazionale australiana e ammette candidamente: «Spero di non farmi doppiare da Mathieu van der Poel. Se riuscirò a evitarlo per me sarà il più grande successo».

Ma quello che Haussler racconta – e anche come lo racconta – rispecchia il suo carattere, estroso, ma genuino, e anche il suo bizzarro talento: è uno che si fece battere alla Sanremo da Cavendish, superato al fotofinish sulla linea d’arrivo – era il 2009 – e che quando corre la Roubaix e il Fiandre lo fa guidando senza guanti e con risultati eccellenti.

Nella sua vita Haussler ha dovuto superare problemi di natura personale di una certa rilevanza, incidenti automobilistici causati dall’alcol, problemi fisici che sembravano irrisolvibili, e anche psicologici, ma oggi Haussler è cambiato e dice di sentirsi felice come un bambino nel prendere parte a questa esperienza e che si picchierebbe forte in testa per non aver scoperto il ciclocross vent’anni prima. Era il 2019 e lo convinse un amico e collega, Sascha Weber, che lo invitò a partecipare a una gara dalle parti di Friburgo, vicino dove Haussler vive. «Ho due gemelli di cinque anni. Se un giorno mi chiederanno di iniziare a pedalare, li manderò a praticare ciclocross».

Racconta che in questa stagione ha fatto tutto da sé, senza l’aiuto di un team, si è pagato da solo le trasferte, non ha uno staff o un camper al seguito, né un meccanico («Quando può la ragazza di Sascha Weber mi passa la bici di scorta, sempre che non sia impegnata a pulire la sua bici») , si sistema il mezzo da solo al termine di una gara o ricognizione, sentendosi come uno che lo fa per hobby in mezzo ai professionisti. «A volte mi fermo lungo il tracciato per osservare come si muovono van Aert e van der Poel». Resta ammaliato dalla loro maestria nello scegliere le linee, nel guidare la bici, nel prendere determinate traiettorie in discesa. «Sono due gladiatori: vinceranno tutto anche su strada».

Dice, Haussler, che fare ciclocross già lo scorso anno gli ha permesso di svolgere un’attività in strada di maggiore qualità grazie a quell’esplosività e reattività che solo il fuoristrada ti può dare e che i colleghi del ciclocross per lui hanno un motore superiore agli stradisti. «Pensavo fosse perlopiù qualcosa di tipicamente belga, un po’ di cross nel fango e ragazzi che non sarebbero capaci di fare granché su strada. E invece li ho visti da vicino: i migliori crossisti hanno un motore superiore alla maggior parte dei professionisti». E non parla solo dei soliti noti. «Per diventare un grande corridore devi passare da qui».

Domenica avremo un motivo in più per seguire il mondiale di Ostenda, soprattutto perché quel motivo ha la faccia simpatica di Heinrich Haussler, tedesco d’Australia, che pare avrà a disposizione due meccanici mandati dalla sua squadra, la Bahrain Victorious, appositamente per sostenerlo. Peccato che, difficilmente lo vedremo inquadrato – in stagione il miglior risultato è stato un 47° posto e non c’è mai spazio per gli ultimi secondo la regia – ma di sicuro qualcosa di interessante da tramandare ci sarà.

Foto: Anton Vos/BettiniPhoto©2020


I sogni leggeri di Umberto Marengo

Umberto Marengo ricorda molto bene i giorni d’estate della sua infanzia. Nonno usciva presto con la bici, andava in edicola, comprava il giornale, faceva un giro in paese e poi tornava a casa. Dopo pranzo si sedeva con lui sul divano e aspettava la sigla d’inizio del Giro. «Vedevo quella macchia di colore sulle strade e mi immaginavo di essere lì». Marengo ricorda come le volate di Mario Cipollini riuscivano a tenerlo incollato allo schermo. «Da ragazzino avevo i suoi poster in camera. Chi avrebbe mai pensato di poterlo incontrare? Mi piacerebbe passarci una settimana assieme, solo per stare ad ascoltarlo. Avrei tante cose da farmi raccontare».

Quando invece pensa alle salite, pensa allo Stelvio e ad Alberto Contador. «Forse non dovrei nemmeno dirlo perché non sono uno scalatore puro e quando la strada sale faccio abbastanza fatica. Ma credo sia per questo che Contador mi ipnotizzava con la sua pedalata. Lui non saliva, lui danzava sui pedali. E poi aveva tanta fantasia, di quella fantasia leggera, da potersi permettere di inventare qualsiasi cosa». La famiglia di Umberto è appassionata di ciclismo, papà operaio e mamma maestra, ma, quando si tratta di scegliere uno sport, il ciclismo è la scelta più difficile. «A otto anni sono entrato nella mia prima squadra. Forse i miei avrebbero voluto facessi altri sport».

Nonno c’è sempre e, se non può seguirlo nelle trasferte più lontano da casa, appena Umberto è vicino corre a vederlo. «Mi chiamava a fine gara e riusciva a farmi star bene anche quando ero deluso. Purtroppo è mancato due anni prima che diventassi professionista. Ero il suo orgoglio, il suo nipote ciclista».

Il fratello di Umberto ora è un cuoco ma, per un anno, ha corso assieme a lui. I loro caratteri sono diversi e, forse, Umberto non poteva che avere il suo carattere per diventare professionista. «Un conto è ciò che vuoi fare, un conto è quello che ti accade. Ci ho creduto solo quando ho firmato, in alcuni momenti, per quanto mi intestardissi, mi sembrava impossibile». Sono tempi difficili: Marengo resta dilettante e torna a casa alla sera deluso, amareggiato, talvolta con l’idea di rinunciare. Gli amici gli dicono che forse dovrebbe cambiare strada, lui non vuole ma capisce che così non si può andare avanti. «Ho provato ad andare a letto con l’idea di buttare tutto all’aria, certo. Ma al mattino mi alzavo più convinto di prima».

Se Marengo parla in un certo modo della fuga è anche per il suo vissuto. «È la mia chiave di lettura del ciclismo: un modo per migliorarsi e mostrare che ci sei». Certo, perché quando ci metti tanto a conquistare qualcosa e sembra sempre che ti sfugga via, poi hai più paura di chiunque altro all’idea di svegliarti di nuovo a mani vuote. L’altro sostantivo per parlare di ciclismo è la furbizia. «Sono furbo. Riesco a risparmiarmi e ad attaccare nel momento giusto. Nelle volate ristrette questa dote è fondamentale».

L’altro giorno parlava con Giovanni Visconti e si dicevano che ormai è il loro terzo anno assieme. Marengo ha fame di imparare e appena parla di un compagno più esperto questo sentimento torna forte, per Enrico Battaglin ad esempio. «La Bardiani Csf Faizanè condensa tutto ciò che potevo immaginarmi del ciclismo. Ora so come ci si sente, mi immedesimo in ogni corridore quando vedo una corsa. Ora comprendo la fatica oltre l’impresa». Sorride quando gli chiediamo di proiettarsi in avanti e di immaginarsi fra cinque o sei anni e ritornano tutti i sogni semplici di un ragazzo alla mano. «Ho sempre sognato di correre la Milano-Sanremo e l’ho già corsa più di una volta. Sì, forse vorrei far bene al Giro d’Italia, magari vincere una tappa. Ma non chiedo poi molto. A me basterebbe restare qui, in questo ambiente. Ed essere una di quelle maglie colorate in mezzo al gruppo. Chissà quanti altri bambini a casa vedono le corse con i nonni e vogliono immedesimarsi. Non voglio altro. Davvero».

Foto: Paolo Penni Martelli


La schiettezza e l'orgoglio: intervista a Roberto Reverberi

Poco dopo la metà della Vuelta 1996, Bruno Reverberi ha fatto le valigie ed è tornato a casa. In ammiraglia è restato il figlio, Roberto. È il 19 settembre. Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, Roberto telefona a casa, risponde papà: «Papà, abbiamo vinto. Abbiamo vinto con Biagio Conte». Bruno Reverberi non ci crede. «Sai, più di vent’anni fa non c’era tutta l’informazione che c’è oggi e papà non sapeva nulla. Probabilmente pensava fosse uno scherzo, ci ho messo diversi minuti per convincerlo che era effettivamente andata così. Suo figlio aveva vinto la prima corsa in cui si era trovato in ammiraglia da solo». In realtà il ciclismo era di casa dai Reverberi, almeno dai tempi in cui, con Roberto ancora piccolo, Bruno aveva corso qualche periodo nei dilettanti. Successivamente il passaggio come direttore sportivo nelle categorie minori e qualche anno dopo nel professionismo. Parliamo di circa 39 anni fa. Roberto si era subito appassionato al ciclismo guardando papà. Aveva anche provato a correre, per circa sei anni, ma ben presto si era reso conto che non sarebbe mai diventato un corridore di livello. «Inizialmente seguivo papà e facevo il meccanico. Mi piaceva, e per sette, otto anni ho continuato. Poi mi sono sposato e ho deciso di aprire e gestire un negozio. Il fatto è che a me la vita del direttore sportivo è sempre piaciuta, soprattutto per il fatto organizzativo. Mi piace pianificare, organizzare, studiare tutto nei minimi dettagli. Forse, in cuor mio, ho sempre saputo che, alla fine, sarei ritornato». Bruno sa che la passione di Roberto è il ciclismo e vede in lui alcune delle doti fondamentali per fare bene questo lavoro. Passa qualche tempo e Roberto torna. Questa volta in ammiraglia accanto a papà.

«Io e papà siamo molto diversi. Il mio carattere somiglia a quello di mia mamma. Papà è uno molto forte, duro, autoritario direi. In famiglia come con i corridori. Lui ci va giù dritto. Ha ben chiare poche e semplici regole e quelle devono essere rispettate. Io cerco di mediare maggiormente, dico ciò che c’è da dire ma lo pondero bene prima. Il punto è che poi, quando mi rendo conto di non essere ascoltato, sbotto e quando sbotto non ce n’è per nessuno. Non so se sia un bene, forse sarebbe meglio essere più lineari». Con papà si parla molto di ciclismo ma Roberto avverte: «Certi argomenti è meglio evitare proprio di toccarli. Ogni tanto ho provato a impuntarmi ma con lui è una battaglia persa. Non ti dirà mai che hai ragione. Magari lo pensa ed agisce di conseguenza ma non lo ammette nemmeno per scherzo. Una cosa però devo dirla: mi ha sempre lasciato fare la mia strada liberamente, non si è mai intromesso, non mi ha mai condizionato nelle decisioni».

Roberto Reverberi è di poche parole con i suoi corridori, questione di chiarezza e schiettezza. «Io lo dico sempre: i treni passano una volta sola nella vita. Posso dirti una volta che per fare la vita da ciclista devi impegnarti, altrimenti è meglio se vai a lavorare. Non te lo dirò una seconda volta. A me fa sorridere chi continua a criticare le squadre per i corridori lasciati a piedi. Sia chiaro e cerchiamo di ricordarcelo: non siamo un ente assistenziale. Un conto è dare una possibilità, un conto è approfittarsene. Alcuni ragazzi se ne approfittano e a questo gioco non ci sto».

Negli anni Roberto Reverberi ne ha viste davvero di tutti i colori e con cortesia estrema, ma anche fermezza, ci tiene a non lasciare dubbi. «Molti ragazzi che sono venuti in Bardiani hanno corso subito il Giro d’Italia, la Milano-Sanremo o altre gare importanti. Da noi funziona così: se sei forte, se hai le caratteristiche adatte per una gara, hai tutta la squadra a disposizione anche se sei giovane. A queste condizioni devi metterci tutto l’impegno possibile. Non puoi permetterti di fare il turista, di trovare scuse ogni volta che c’è da andare in fuga, di pensare a vivacchiare. Nel ciclismo non si può vivacchiare. Alcuni non lo hanno ancora capito: ci sono atleti con un fisico e delle potenzialità incredibili che si buttano via perché non hanno la testa giusta. Non sai quanto mi fa arrabbiare questa cosa».

Bardiani è sempre stata una squadra di formazione, in cui molti giovani hanno spiccato il volo e Reverberi ne è orgoglioso. «La cosa più bella che possa succedere a un direttore sportivo è veder vincere un neo professionista. Valgono anche i piazzamenti, i tentativi. È inutile girarci intorno: o sei un campione, o ci provi da lontano, o ti metti a disposizione. Si tratta dei ruoli, chi non rispetta i ruoli fa un danno tremendo a tutta la squadra. Pensano di fare di testa loro per un piazzamento che salvi il contratto, in realtà fanno peggio. Noi vediamo tutto, vediamo chi si impegna, chi è solo sfortunato, chi ha qualità, chi si mette a disposizione e chi fa il furbo. Negli anni i furbi ho imparato a riconoscerli a chilometri di distanza».

Quando parla di ricordi ed emozioni, Reverberi pensa alla maglia gialla di Ciccone al Tour de France, quella che lo ha commosso perché «Giulio era stato fermo un anno e mezzo per un’ablazione e noi abbiamo continuato a crederci. Fosse stato in una squadra World Tour, chissà…». Alla mente poi affiora il piazzamento di Sacha Modolo alla Sanremo: «Alla Tirreno-Adriatico lo vedevo che era fresco come una rosa. Al ritorno, in auto, c’erano lui e Pozzovivo, e ho detto al Pozzo: “Hai da fare nel fine settimana? No? Porta Sacha a provare il percorso. Questo arriva nei cinque”. Alla fine è arrivato quarto. Ma ci credevamo solo io e Domenico, gli altri quasi mi prendevano in giro. Bisogna guardarli i corridori, c’è poco da fare». Quest’anno Bardiani ha in parte cambiato politica, inserendo in squadra due atleti di esperienza del calibro di Enrico Battaglin e Giovanni Visconti. Per stare vicino ai giovani e aiutarli a crescere nel migliore dei modi. «Giovanni ha proprio l’indole del capitano, è un atleta modello. Lo vedi che li consiglia in ogni cosa, dal pranzo alle frenate brusche in corsa. Lavorare con uomini così è un piacere».

Questo cambio di politica è dato anche da un cambio abbastanza radicale nel modo di orientarsi del ciclismo. «I giovani si fanno ingolosire sempre più dalle squadre World-Tour perché credono di avere più opportunità lì. Così per sperare di inserire qualche buon corridore dobbiamo cercare sempre ragazzi più giovani. Faccio notare una cosa: le corse non vengono disputate da trenta ragazzi per squadra. Non è detto che tu correrai perché sei in quel team. Lì ci sono i capitani che hanno sempre la precedenza, non puoi inventare molto, non puoi inventare fughe o azioni particolari. Ti vengono a riprendere e ti mettono a lavorare. Preferisci fare panchina in una squadra di grande livello o provare a crescere in una buona squadra? Noi abbiamo vinto trenta tappe al Giro d’Italia, non so se rendo l’idea. La domanda è semplice, basta rispondersi».

La colpa però non è solo dei ragazzi. «Quante litigate ho fatto e faccio quotidianamente con i procuratori? Molti pensano solo a inserire i ragazzi nelle squadre per la soddisfazione di dire di averli inseriti. Sai quanti ne hanno bruciati facendo così? Il loro compito dovrebbe essere quello di fare il bene dei ragazzi, così fanno tutto tranne che il loro bene». Il tempo ha cambiato anche Roberto e la constatazione per quanto amara è molto significativa. «All’inizio mi fidavo ciecamente di tutto ciò che mi dicevano i corridori, li giustificavo sempre, non mettevo mai in dubbio una parola. Così qualcuno cercava di fare il furbo, di schivare le fatiche e magari consigliava male i compagni. Non tutti gli atleti esperti si mettono a disposizione del gruppo. Rimanendo deluso ho capito che certe volte bisogna aspettare a fidarsi, bisogna essere lungimiranti. Purtroppo il mondo non è sempre come ci piacerebbe che fosse. Basta saperlo e provare a prenderne le misure».

Foto: Paolo Penni Martelli


Voler bene alla bicicletta: intervista ad Antonio Tarducci

Antonio Tarducci ricorda benissimo le mani di suo papà. Quasi tutti le ricordiamo in ogni dettaglio le mani di nostro padre, il ricordo di Antonio, però, è particolare. «Se ripenso alle mani di papà mentre aggiustava le biciclette mi sembra di rivederle. Non riparava biciclette di professionisti, erano normalissime biciclette della vita di ogni giorno». Quelle mani erano sporche di olio e segnate dalla fatica, come le sue, mentre ci parla. Ma, e Tarducci lo spiega bene, il senso del suo lavoro è proprio qui, nell’artigianalità. «Un grande costruttore qualche tempo fa me lo disse prendendomi da parte: “Antonio, ricordalo sempre, noi siamo dei biciclettai”. Ecco, essere biciclettaio, è questo che mi rende orgoglioso. Qualcuno che lavora plasticamente con le biciclette, che le plasma. La bicicletta è un mezzo che viene dalla povertà, un mezzo che ha visto la povertà, che l’ha affrontata e l’ha riscattata. Su quella sella puoi viaggiare, spostarti, vedere ogni angolo di mondo, anche quelli più nascosti, più intimi, senza spendere una lira. Fatico a vedere un difetto nelle biciclette. Guardiamole assieme: che difetto gli vedi?».

Il papà di Antonio, Ugo, ha iniziato questo mestiere nel 1960 a Viareggio e da quei giorni non ha mai smesso di ricordare al figlio la cosa che più conta in ogni mestiere: osservare. Così gli occhi di un padre e di un figlio sono cresciuti assieme: «Qui si impara sempre ed ogni giorno devi alzarti dal letto sapendo che imparerai, altrimenti parti col piede sbagliato. Bisogna porsi accanto a chi questo lavoro lo sa fare meglio di te e guardare. Se stai lì e guardi, cresci. L’ho sempre fatto: in un angolo, in silenzio, quasi timidamente per la paura di disturbare. Servono uomini esperti che non abbiano timore di condividere ciò che sanno, in particolare per quanto concerne i giorni di corsa, la loro organizzazione, e giovani curiosi che abbiamo fame di sguardi».

I due maestri di Tarducci sono indubbiamente stati Luciano Galleschi ed il mitico “Falcone”. «Avevo vent’anni e per fare il mio lavoro cercavo sempre un posto accanto a Falcone. C’era grande rispetto, divoravo tutto con gli occhi». L’indole di Antonio è quella sanguigna, tipicamente toscana; gli anni però, Tarducci ne ha cinquantacinque, hanno smorzato quell’anima da “toscanaccio” che oggi resta lì, sotto pelle. «Se ho un rammarico è quello di non aver visto crescere mio figlio che ora ha ventiquattro anni. Lui è cresciuto con mamma. Gli mancano due esami alla laurea e i suoi anni più belli me li sono persi. Ricordo come anni fa facevo queste code chilometriche alle cabine telefoniche di ogni città per riuscire a parlarci qualche minuto. La lontananza è una brutta bestia, non ti fa stare tranquillo, ti immalinconisce e così fatichi anche a lavorare. per lavorare bene devi essere sereno. La vita è così, non ci si può fare molto. Però col tempo ti fai un esame di coscienza e capisci che, alla fine, non sei così male. Ti senti soddisfatto di te e sei felice al solo pensiero della famigliola che hai a casa».

Avere a casa un figlio così giovane è anche la molla per capire tutti i “suoi” ragazzi, quelli che Antonio definisce “come figlioli”. «Essere meccanico significa essere a disposizione. Io sono un uomo a disposizione di altri uomini. Non c’è nulla di male, sai? Questa consapevolezza mi ha portato a superare tutte le difficoltà che normalmente si incontrano. Se tu sai che devi reagire per aiutare gli altri, lo fai. Il rapporto umano con questi ragazzi è fondamentali, per capirli, per aiutarli e soprattutto per rispettarli. Cerco sempre di sdrammatizzare. Il punto è che bisogna capire quando si può sdrammatizzare, quando serve e quando invece bisogna stare in silenzio e dare spazio allo sfogo o ai pensieri. Non si può sempre scherzare. C’è un’interiorità da rispettare». Così Tarducci ci racconta dei viaggi in auto in assoluto silenzio dopo una sconfitta o dopo una delusione. Così ci parla della responsabilità che avverte forte. «Non sono mai stato un campione ma ho corso anche io in bicicletta. La verità? Ho sempre avuto paura delle volate. Ne ho anche oggi per i ragazzi. Il nostro è un lavoro di responsabilità, basta un nostro piccolo errore e si può compromettere tutto. Tu devi fare il massimo, non devi poterti rimproverare nulla perché più di così non potevi fare. È l’unico modo per essere sereni. A questo penso spesso».

Dei vecchi tempi, quelli che ora il Covid fatica persino a permettere di immaginare, Antonio ricorda sale di alberghi piene di gente, le chiacchierate nei cortili e quei tavoli con una birra e qualche risata. «Quando arrivi alle partenze e vedi questi piazzali vuoti, ti prende un morso allo stomaco. Quanto è cambiato il nostro caro vecchio ciclismo in questi tempi?». La sua indole sanguigna torna quando parla della gara che ha organizzato per dieci anni, il Trofeo città di Viareggio. «In questo periodo non si sta facendo più nulla per i giovani, questo è un dramma. I ciclisti professionisti di domani sono i ragazzini di oggi. Vorrei tornare a organizzare qualcosa, spero di poterlo fare un domani. Con gli amici di sempre, con Emanuele, con Marietto, tutte persone che vogliono bene a quelle biciclette lì».

Anche Antonio Tarducci vuole bene alla bicicletta, a queste come a quelle che ha a casa, fra le biciclette d’epoca, la sua grande passione, ereditata da papà. La voglia di ritornare a Viareggio è una voglia particolare, qualcosa che riappacifica con sé stessi e con ciò che c’è attorno. «Basta poco, basta tornare a casa, alzarsi la mattina e camminare in Piazza Mazzini, fermarsi al caffè Margherita e dare una sbirciata al lungomare». Sì, perché, alla fine, anche qui a Benidorm c’è il mare ed è bellissimo ma ognuno ha il suo mare. E quello è inconfondibile.


Christophe, la neve, il martello, un vecchio Gallo

Baffi come si usavano un tempo a disegnargli il viso e ad acuire uno sguardo che, si racconta, ammaliava le donne.
Grossi polpacci lordi come il ciclismo a cui apparteneva, un maglione di lana sporco sudato alla fine di ogni gara anche se lui, Eugène Christophe, era uno che ci teneva particolarmente allo stile.

Lo chiamavano il vecchio Gallo – le vieux Gaulois – proprio per il suo aspetto. Vinse la Milano-Sanremo del 1910 tra freddo, neve e pioggia. Freddo, neve e pioggia annunciate a pochi minuti dalla partenza fissata alle 5.30 sul piazzale di Porta Genova “sotto una pioggia fine e noiosa, con aria pungente”: su novantaquattro che dovevano partire si presentarono al via in sessantatré, mancarono all’appello tra gli altri anche Faber e Gerbi, e arrivarono al traguardo in quattro, il secondo a un’ora di distacco da Christophe.

Non fosse stato per la sua abilità nel ciclocross – sostiene proprio Christophe, che vinse sette titoli nazionali francesi nel fango – non avrebbe mai scavallato il Turchino. «Un tempo cupo, spaventoso. Incontrammo la neve a bordo strada e un vento gelido che sibilava. Avevo mani e piedi completamente congelati. Prima di scollinare mi misi la bici in spalla e proseguii». Grandinava a tratti, chicchi grossi come pugni stretti, gli occhi lacrimavano, le labbra erano gonfie e tumefatte per il gelo.

Scese a rotta di collo, aveva un distacco di circa sei minuti dalla testa; incontrò Van Hauwaert sul punto di ritirarsi con un mantello sulle spalle per ripararsi dal freddo e accompagnato da un ragazzo che lo aveva incontrato per strada. C’era ancora neve, ma ora lo scenario era cambiato.

Il cielo si fece terso, sempre più freddo, venti, trenta centimetri di neve depositata sulla strada. Scese ancora dalla bici per superare alcuni tratti e affondò coi piedi: gli prese un crampo allo stomaco e un principio di congelamento, quasi svenne su una roccia e si poggiò ai lati della strada. Passava di lì un uomo; Christophe, che di italiano sapeva poche parole se non probabilmente solo casa e acqua, si fece capire, e quell’uomo lo prese in spalle e lo portò nella piccola locanda che gestiva. Si asciugò, fece qualche esercizio, bevve del rum, si racconta, per riscaldarsi, e nel frattempo altri corridori che videro la luce accesa si fermarono ed entrarono. Alcuni, raccontò tempo dopo proprio Christophe, misero le mani congelate direttamente tra le fiamme del camino. Ma Christophe tornò a fibrillare: aveva una missione.

«Dove pensi di andare?» gli disse il padrone di casa «Non vorrai mica tornare lì fuori?»
«Certo, ma non vi preoccupate: andrò fino a Sanremo in treno».

Invece, ripresosi, pedalando, superando uno per uno gli avversari, Christophe giunse a Sanremo verso le sei di sera, primo e vincitore, ad attenderlo una folla gremita. «A volte pensavo di aver sbagliato strada perché in giro non c’era più nessuno». Secondo arrivò Ganna “in stato semplicemente pietoso” che fu squalificato: «La mia carriera è finita con questa spaventosa Milano-Sanremo» dichiarò prima di essere trasportato via in braccio.

Lo chiamavano il Vecchio Gallo, ma anche il ciclista fabbro. Da bambino a scuola, quando non avresti scommesso un centesimo sul suo avvenire, picchiava forte sul ferro con il martello. Dopo quella vittoria alla Sanremo fu ricoverato un mese all’ospedale per congelamento e ci mi se un bel po’ prima di riprendersi. Fece secondo al Tour nel 1912 e divenne il favorito l’anno successivo. Si scalava il Tourmalet, il leader della classifica fino al giorno prima, Defraye, si ritirò dopo aver superato Osquich, Soulor e Aubisque. Ormai sembrava fatta per Christophe, secondo in classifica con il rivale Thys alle sue spalle a distanza di sicurezza. In cima al Tourmalet passò primo, si fermò per invertire le ruote, e si lanciò in discesa quando arrivarono le prime notizie su un vantaggio di circa diciotto minuti in classifica generale. All’improvviso sentì che c’era qualcosa che non andava, era il manubrio della bici: «Ho rotto la forcella» si disse. Disperato, iniziò a piangere, avrebbe dovuto fare tutto da solo come imponeva il regolamento. La sua fortuna, in quel frangente, fu quella di essere abile a battere il ferro: dopo una decina di chilometri a piedi trovò su indicazione di una bambina una fucina a Saint-Marie-de-Campan, di proprietà del signor Lecomte – e ancora oggi in quel luogo si ricorda quell’avvenimento con una targa – e lavorò per oltre quattro ore. I commissari lo stavano aspettando proprio lì, avevano chiuso le porte a chiunque volesse osservare quella scena. Il signor Lecomte voleva aiutare Christophe: «Posso aggiustare la tua forcella» ma non era permesso dai giudici che stavano lì a osservare come aguzzini. «Per lavorare mi servono entrambe le mani» disse il corridore quasi troppo velocemente, con gli occhi rossi di rabbia e lacrime, i vestiti strappati. «Come posso azionare il mantice allo stesso tempo per mantenere viva la fiamma?». Un bambino si intrufolò e gli diede una mano, Christophe ripartì dopo quattro ore con le tasche piene di pane che gli aveva dato la moglie del fabbro, non prima però di essersi preso una piccola rivincita morale con un giudice affamato. «Hai davvero fame? Non puoi andare da nessuna parte: il carceriere deve restare col carcerato, però guarda se vuoi lì c’è del carbone». Giunse a Luchon in serata, Christophe, penalizzato ulteriormente per aver avuto un aiuto esterno nel riparare la bici. Chiuse quel Tour al settimo posto, stanco, ma felice tra le braccia della sua amata che lo aspettava a Parigi.

È stato, lui sì per davvero, il primo corridore a indossare la maglia gialla: era il 1919 e quel Tour lo stava per vincere. Vestì il simbolo del primato, di un giallo sbiadito che, sempre parole sue, lo facevano sembrare un ridicolo canarino. Anche in quel Tour ruppe la forcella in un tratto in pavè a poche tappe dal termine mentre era in testa alla classifica. Nel ’22, ancora in corsa per vincere il Tour, lungo la discesa del Galibier, ruppe ancora una volta la forcella.

Suo nipote Bernard qualche tempo fa ha raccontato che Eugene non ha mai voluto parlare di quella maglia gialla, quanto piuttosto di quel giorno sui Pirenei, e lo descrive, come farebbe qualsiasi nipote, come un uomo probo «tanto che rettificò i giornalisti che gli attribuivano quindici chilometri percorsi a piedi invece che dieci, quel giorno sui Pirenei». E quando era in pensione sfidava i suoi ragazzi in bicicletta: «L’ultimo paga da bere! – esclamava – Ci faceva andare avanti e poi verso la fine ci superava come una moto».

Anni dopo il suo ritiro, il giornalista Jock Wodley gli fece visita nel suo paese natale, a Malakoff vicino Parigi. «Christophe – racconta Woodley – mi disse di non essersi mai sentito un uomo ricco dal punto di vista economico, ma di ricordi felici e dotato di buona salute». Andava ancora in bici, soprattutto nelle zone vicino casa sua, ma senza mai fare troppo sul serio. «Sulla bici ho sofferto a sufficienza».

Foto: Archivio S.E.S.


Di Adriano Malori o del giorno in cui ti portano via

«Durante la mia riabilitazione ho visto bambini lottare per alzare un braccio e lo facevano da quando erano nati. Ecco, cose di questo tipo ti aprono gli occhi». Era passato poco più di un anno dal 22 gennaio 2016, quando Adriano Malori raccontò così a “La Gazzetta dello Sport”. Era passato poco più di un anno da quel messaggio: «La caduta è grave, Adriano Malori è grave».

Uno dei tanti messaggi scambiati in una serata di lavoro mentre qui era ancora inverno e, a dodicimila chilometri di distanza, in Argentina, al Tour de San Juan, c’era un sole che spaccava le pietre. Ma questo non importa. Non sarebbe cambiato nulla, del resto cosa importano le stagioni quando ti portano via? È sempre un brutto giorno per andare via. È sempre inverno quando ti portano via. Ancora peggio quando quel giorno d’estate era proprio quello in cui volevi partire, volevi andare lontano, molto lontano e avevi già preparato tutto. Eri andato a parlare con Francisco Ventoso e glielo avevi detto. Gli avevi detto che quel finale ti piaceva, che avresti provato a sparigliare le carte. Chissà, magari, presagisci lo strappo, qualche volta. Forse ti senti solo più strano, più triste o più felice, eppure dovrebbe essere un giorno qualunque. Forse, quella voglia di fuggire è desiderio di restare. Di essere qualche metro più in là. Spasmo inquieto come è inquieto il giorno in cui ti portano via.

Adriano Malori era in testa al gruppo quel giorno, quell’ora, quel minuto, quel secondo. Lui che forse in qualche modo crede nel destino ma non lo sopporta: «Non ho mai accettato l’idea che sia il destino a sorprenderci e a decidere per noi. No, non è possibile». Era in testa al gruppo e tirava come sa tirare il gruppo uno specialista contro il tempo. Chiedetelo a uno scalatore che per tenergli la ruota deve masticare vento e acido lattico. Ve lo racconterà lui come ci si sente lì dietro. Cade, Malori. Cade e cade dalla testa del gruppo, quando la velocità è vettore innescato, moto di reazione che trascina tutto ciò che prima spingeva. Cade Malori e cade buona parte del gruppo. Le biciclette si agganciano e si abbattono come pedine del domino. Qualcuno scriveva che un ciclista sa bene che la morte può capitare ma non ci pensa. Corre come se quel rischio non ci fosse. Sono degli illusionisti i ciclisti, degli illusionisti che si illudono di credere alla loro illusione. Per questo si rialzano subito tutti e sembrano dare per scontato che così debba sempre accadere. Quel giorno no, quel giorno Malori non si rialza, è immobile, non reagisce agli stimoli. È il giorno in cui ti portano via.

L’afa di Buenos Aires è soffocante quanto la sensazione di non avere via d’uscita. Malori è in uno stato di coma indotto, per salvaguardarne le funzioni vitali, si sa poco delle sue condizioni di salute. Il danno neurologico sembra grave ma non c’è nulla di certo. Alla famiglia si parla di prognosi in queste situazioni: un modo come un altro per dire che tutto, persino la migliore scienza, è al servizio del tempo e non si ammettono deroghe. Poi c’è il risveglio, c’è il momento in cui sai di essere ancora tu, in cui capisci di esserci ancora. Adriano Malori fatica a trovare la coordinazione per parlare ma qualcosa riesce a dire. Per gli altri è un sospiro di sollievo, per gli altri è la consapevolezza che non sei andato via del tutto e il resto lo si può affrontare. Lo sconforto arriva dopo, quando il sollievo lascia spazio alle parole dei medici, alla realtà, ed essere qui non basta più. C’è il classico odore di disinfettanti degli ospedali, a Pamplona. C’è quando Malori si arrabbia con quel diavolo di destino e gli dice che non c’è, che non esiste, che lui tornerà in sella alla sua bici. Ci sono i camici bianchi dei medici, costretti a rimangiarsi tante parole. Se non vai troppo via, se non ti portano troppo lontano, puoi tornare. Puoi tornare a decidere tu dove andare.

Adriano Malori sorprende tutti per la velocità con cui torna in corsa. Non va piano, tutt’altro. Ma ognuno è abituato ad una propria velocità, ognuno ha inciso nelle proprie viscere il ricordo di ciò che gli è stato consegnato e di ciò che si è preso anche quando faceva talmente male che avrebbe voluto lasciare. Adriano Malori se ne accorge. Non è più lo stesso, non è più la stessa cosa. La sua rivincita è stata tornare, non accettare nulla di tutto ciò che gli veniva detto. Ora è diverso, ora deve dirsi la verità. I giorni in cui ci portano via ma restiamo qui, sono i giorni in cui cambia tutto. I giorni in cui non ti arrabbi più per un meccanico che ti ha messo la sella quei cinque millimetri troppo in alto.

Sono i giorni in cui immagini come avrebbe potuto essere non poter più cogliere una rosa e regalarla a qualcuno, salire in bicicletta e stupirti perché quella casa aveva un colore diverso una settimana prima. Malori lo annuncia in una conferenza stampa affollata il 10 luglio del 2017: non sarà più un ciclista, intraprenderà una nuova carriera come preparatore atletico e pedalerà per guardare quanto può essere bella la strada davanti agli occhi. Ha smascherato il destino, lo ha sorpreso, ha deciso che solo lui avrebbe potuto scegliere dove andare e come farlo. Perché poi non è importante nemmeno stabilire se il destino esista oppure no. Per essere uomini o donne non c’è altra possibilità che avere coraggio. Ed essere umani è, prima di tutto, una scelta di coraggio. Anche nel giorno in cui ti portano via.

Foto: KT/BettiniPhoto©2017


Tutto quello che dice la gente

Blanka Kata Vas è un gioco di contrasti. Probabilmente incontrandola in una qualunque città, anche nella sua, anche a Budapest, non immagineresti tante cose. Quella carnagione color pastello, quei tratti delicati e quelle gote che ad ogni sorriso si riscaldano, sono la sublimazione di ciò che Blanka è. C’è un qualcosa di leggiadro, qualcosa di armonioso in questa ragazza nata il 3 settembre del 2001. Come la sua stagione, quella che sfuma nei contorni dell’estate e pizzica l’aria del colore delle albicocche. Ciò che sembra è anche ciò che è, perché Blanka è così, non c’è inganno o maschera in lei. L’imbroglio può essere in chi la guarda o magari in chi sin da bambina l’ha vista, l’ha guardata. Perché come siamo, spesso, finisce per diventare un’imposizione. Se c’è una ragione per cui tante persone non si piacciono o non si piacciono più è per questo. Perché qualcuno vedendole ha iniziato a porre limiti, a porre confini, a cancellare le righe dell’immaginazione per stabilire quelle ferree di una rete. La rete che diventa ostacolo per l’osservato è in realtà la rete in cui è intrappolato l’osservatore. Un tranello difficile da spezzare perché per rompere quei fili e correre liberi dall’altra parte bisogna abituarsi alla bellezza dei contrasti, alla loro natura. E per abituarsi alla bellezza dei contrasti è necessario abbandonare il sonno della ragione che si adagia su ciò che ha sempre visto e diviene miope.

Parlare di Blanka Kata Vas, per noi, significa parlare di tutti quei ragazzi e di tutte quelle ragazze che in un qualche modo si sono sentiti dire: «Ma figurati se quel lavoro può fare per te. Cosa pensi di fare? Non illuderti. Non credere alle favole». E per chi dice così, chi ascolta è sempre “troppo” o “troppo poco”. Per carattere, per fisico, per capacità, anche per luogo di nascita. Il problema è che molti di fronte a queste obiezioni si tirano indietro, si fermano, credono di essere “troppo” o “troppo poco”. Vi ricordate la rete dell’osservatore? Ecco, ora è rete per l’osservato. Ed il peggio è che, se l’osservato non se ne libera, un domani, diventerà rete per i suoi figli, per i suoi nipoti, per qualunque bambino incontrerà e a cui dirà: «Vuoi fare questo? Ma non farmi ridere dai. Tu vai bene per fare quest’altro». Non c’è nulla da fare: se gli occhi non sono abituati a vedere oltre, ad ammirare il contrasto, non lo apprezzeranno mai. Il contrasto non è altro che possibilità, non è altro che una manciata di futuro. Contrasto può essere apparenza di constatai come tutto ciò che già è in noi e che noi non conosciamo. Forse perché non ci conosciamo. È scoprire che tutto ciò per cui ti dicevano che non ce l’avresti mai fatta, è ciò per cui ce la fai. Il contrasto è una rivendicazione, un rifiuto e un’accettazione: «Gli aspetti del mio carattere, del mio modo di fare e tutto il resto, non sono un limite a ciò che voglio fare, sino a che questo limite non lo pongo io. Perché non voglio farlo o perché non mi interessa».

Guardare Blanka Kata Vas in sella può essere un buon esercizio per abituarsi. Quella ragazza, quella stessa dalla pelle color tramonto e dai modi delicati, è nel suo luogo quando è su quella sella. C’è sintonia con quegli ingranaggi meccanici. Blanka è uguale e diversa quando sale su una bici da cross o da mountain bike, si modella sulle rughe del terreno che percorre. Lo guarda, lo scruta con un’attenzione che silenzia qualunque boato. Centimetro, dopo centimetro, dettaglio dopo dettaglio. Uno zoom impietoso sulle difficoltà per focalizzarle e costruire la soluzione. Che poi altro non è se non qualcosa che scioglie. Questa è la forza delle soluzioni: il cambiare stato a qualcosa che c’è e che persiste ma che in altra forma può essere affrontato. Chi scioglie, adatta. Chi adatta è pronto per ciò che voleva. Lo si fa con i problemi e anche con se stessi. Lo si fa per ciò che si vuole fare, lasciando Kiskunlachàza e trasferendosi in Belgio, dove di terra ne trovi quanta ne vuoi. Lo si fa dandosi nuova forma che è poliedricità, mutevolezza e per questo bellezza perché sei tu all’ennesima potenza, perché ti sei definito e non ti sei lasciato definire.

Così quando a Essen viene a farti i complimenti Marianne Vos magari non ci credi ma di certo sai che hanno visto, che tutti hanno visto. Ed abituarsi alle possibilità, anche a quelle che magari non penseremmo, è una lezione, è la brezza di inizio settembre, è novità e nuova soluzione. Per imparare a non sbarrare più la strada davanti alle impressioni o al sentire comune. Certo, perché probabilmente incontrando Kata Blanka Vas non la immagineresti mai ciclocrossista e biker. Ma il segreto è proprio quello: le persone sono molto più di ciò che possiamo immaginare ed ogni volta che lo riconosciamo, che non frapponiamo la nostra “piccola idea” alla loro visione, gli regaliamo un pezzo di domani. E se anche quel domani non si avverasse le lasciamo libere di provare quello che vorrebbero nel loro domani. E se questo non è futuro, poco ci manca.

Foto: Anton Vos/CV/BettiniPhoto©2020


Tutte le domande di Lucinda Brand

Lucinda Brand ha raccontato spesso un pensiero che ha puntellato la sua mente mentre era in ricognizione sulle pietre della Paris-Roubaix. Ina Teutenberg e Steve de Jongh avevano procurato giusto qualche giorno prima le biciclette da utilizzare per la classica del Nord e quello era il giorno della ricognizione. Lucinda Brand viene da una “Piccola Venezia”, Dordrecht, nei Paesi Bassi, è questo in fondo. Una cittadina antichissima, costruita sull’acqua, con vicoli strettissimi e negozi che si intravedono da barche elettriche che percorrono il corso d’acqua. Tra porti antichi, ponti bui e case costruite sul fiume, tutto sembra scorrere lì, a pochi chilometri da Rotterdam. Sarà per questo che Brand sente così forte quella realtà tagliente tra Parigi e Roubaix e la descrive così bene, facendo filtrare parole dove prima non erano mai arrivate: «Come fa una bicicletta a non rompersi su queste pietre?».

E forse non c’è domanda migliore di questa per raccontare l’inferno del Nord. Pensiamo spesso che il problema siano le domande e la soluzione le risposte. Pensiamo che si racconti con le risposte e che le domande siano, al massimo, una richiesta di racconto. In realtà non è così o, per quanto, non è sempre così. Certe domande raccontano più di qualsiasi risposta. Le persone, molte volte, si possono capire meglio ponendo attenzione a quello che chiedono piuttosto che a quello che dicono. Sì, perché chiedere o chiedersi qualcosa è sempre più difficile, se non altro per le risposte che potresti darti.

Per esempio, lì, in mezzo alle pietre potresti risponderti che «no, la bicicletta non si rompe, ma tu sei già a pezzi e manca ancora troppo. Come arrivi al traguardo?». E, quando inizi a risponderti così, sei tu ad essere rotto in mille pezzi. Perché non è la domanda a bloccarti, è la risposta. La domanda avrebbe potuto darti la spinta che serviva. Quella spinta è nascosta nel sebbene. «Sebbene io sia distrutta, sebbene non sia forte come questo cavallo di metallo, arriverò al traguardo». Sono i nostri sebbene a renderci forti. In quel momento la tua realtà torna a scorrere: quando non hai paura di farti domande, puoi tornare a Venezia, a Dordrecht o su qualunque barca in un vecchio porto. Quella paura ti passa con gli anni e con le domande che ti arrivano tra capo e collo quando non te le aspetti. Quella paura ti passa anche grazie a chi non si preoccupa delle domande che farai ma delle risposte che saprai dare alle domande che ti verranno fatte. Per esempio grazie a un fratello. Quel fratello, per Lucinda, è Giancarlo. Il papà di Lucinda e Giancarlo era un ciclista professionista e Giancarlo vuole correre sin da bambino. Giancarlo inforca la bicicletta e corre. Eccome se corre. Lucinda lo vede e vuole imitarlo. Possiamo immaginarcela mentre chiede di poterlo seguire, di poter imparare. Succede tra fratelli e sorelle, un istinto di emulazione che è la più feroce dichiarazione d’amore: «Voglio assomigliarti».

Giancarlo fa sul serio, Lucinda inizialmente è più impacciata e, nei primi tempi, Giancarlo deve tornare indietro, deve aspettarla. Così, però, non è possibile proseguire. Giancarlo non può aspettarla sempre e Lucinda non vuole neppure chiederglielo. Il problema sono gli angoli, come sempre nella vita, il problema sono le curve. Non c’è molta scelta: se non vuoi frenare gli altri devi imparare a guardarli e avere il coraggio di credere che puoi seguire la loro scia. Avere la fantasia per immaginare tuo fratello che si volta e, vedendoti, ti dice: «Ah sei qui». Che è come dire: «Adesso possiamo davvero andare via assieme».

Giancarlo non si è chiesto cosa avrebbe potuto pensare Lucinda vedendolo andare via da solo, non ha avuto paura di quella domanda . Sapeva cosa avrebbe risposto alla sua domanda, al suo perché, e sapeva che Lucinda avrebbe capito, prima o poi. Bastava lasciar passare qualche curva e qualche brivido a mezz’aria sull’equilibrio. Vedete? Sono le domande che raccontano: il coraggio, la paura, le rincorse e anche le scivolate. Come quando Lucinda andò da papà e gli chiese di iniziare a gareggiare. Una domanda, una delle poche, fatte a cuor leggero, forse. Sì, perché c’è papà e le risposte di un padre non possono far male, no? No, le risposte di un padre non devono far male ed è appunto per questo che possono far male.

Un padre non deve preoccuparsi del male temporaneo, per quanto lo faccia soffrire, un padre deve preoccuparsi del male non guaribile, quello delle decisioni prese quando è ancora notte, quando non si vede abbastanza bene la strada, quando non è ancora tempo di decidere. Quelle decisioni, mascherate da felicità, sono terremoti dell’esistenza, te la distruggono. Per questo, quel giorno, papà disse no. «Se non ti alleni molto, non ti farò gareggiare». Lo disse per lei. Perché alle domande può anche esserci una risposta dolorosa e non è un dramma. Dopo aver chiesto saprai cosa fare e da lì dipenderà solo da te. Che fa paura, ma fa anche felici.

Foto: Vincent Kalut/PN/BettiniPhoto©2020