Alessandro Fancellu: «In cima al Mortirolo…»
Alessandro Fancellu, quel giorno, stava andando in vacanza con i suoi genitori ad Aprica, dal nonno: «Ho visto la scritta indicante la salita del Mortirolo. Mi ha incuriosito. Avevo una mountain bike e ho voluto provare a scalarlo. Non ho nemmeno idea di quanto tempo ci abbia messo ma ci sono riuscito, sono arrivato in cima». Quella sera, Alessandro ha parlato con papà: «Mi ha detto: “Hai mai visto qualche scalata di Marco Pantani? Dovresti vederlo. Cerchiamo qualche tappa e guardiamola assieme”». Fancellu aveva smesso da poco di giocare a calcio e i genitori erano stati chiari: «Non mi piaceva. Forse anche perché, non essendo molto bravo, stavo spesso in panchina. Non mi divertivo. I miei me lo avevano detto subito: “Non ti piace il calcio? Va bene, ma sei giovane. Non vorrai stare tutto il giorno a far nulla al parco. Pensa a qualcosa per occupare il tuo tempo libero”. Fino a quei giorni, Alessandro, che ha studiato agraria, nel tempo libero si dilettava di meccanica: «La verità è che vorrei fare troppe cose. L’ho detto giusto l’altra sera a mia mamma: “Una vita non mi basterà mai per realizzare tutti i progetti che ho in mente. Me ne servirebbero almeno un paio”». Quell’omino di sessanta chili che “venuto dal mare sconquassava le montagne”, come scrisse qualcuno, lo incantò subito: «Marco Pantani era un uomo coraggioso. Quando ha attaccato, al Tour de France del 1998, aveva circa nove minuti di ritardo. Chi lo avrebbe fatto? Molti si sarebbero rassegnati, avrebbero puntato a una tappa. Lui ci ha provato e non è facile come dirlo. Ha passato molti periodi difficili e ha resistito tanto nella sua vita. A me piacciono atleti di questo tipo. Non a caso, oggi, ammiro molto Vincenzo Nibali e Julian Alaphilippe: sai che, se attaccano il numero alla schiena, vogliono inventarsi qualcosa. Anche se i pronostici sono contrari. Pensiamo a Nibali alla Milano-Sanremo o ad Alaphilippe al Tour de France».
Il carattere di Alessandro Fancellu emerge chiaro da quanto detto e non servirebbero neanche troppe descrizioni. Lui si definisce estroverso e “tranquillo” ma neanche troppo: «Diciamo che, soprattutto in corsa, posso essere abbastanza impulsivo. Fa parte del mio essere, come la testardaggine». Della necessità di essere testardo si rende sempre più conto. In particolare le volte in cui le cose non vanno come vorrebbe: «Credo che la tappa del Montespluga, al Giro d’Italia Under23 di quest’anno, sia stata la mia peggiore giornata da quando corro. Ero debilitato e ogni giorno andavo più piano. Lo dico: è stata una bella batosta». Fancellu, però, al traguardo è arrivato anche quel giorno e, ai pullman, ad aspettarlo ha trovato Ivan Basso, alla guida del Team Eolo-Kometa: «Con Ivan ci sentiamo al telefono quasi ogni settimana. Mi chiede come sto e mi consiglia. Quel giorno mi attese e mi aiutò molto a livello morale. Mi disse: “Ale, capita a tutti. Non sai quante volte ho lavorato bene per un appuntamento, l’ho preparato nei minimi dettagli e poi è crollato tutto. Succede. Devi reagire, è l’unico modo per andare avanti”. Aveva ragione». La grinta deriva dalla motivazione e la motivazione cresce anche grazie alle giuste parole di chi ti guida: «Rino De Candido è unico da questo punto di vista. Ricorderò sempre la sera prima della prova di Innsbruck: “Avete paura di Evenepoel? Certo, è forte. Ma è un ragazzo come voi. Ha due braccia e due gambe come voi. Allora, come la mettiamo?”. Giuro che, quando sono andato a letto, mordevo il cuscino dalla foga». Poi arrivò il grande giorno: «Fino a quando ero con il corridore svizzero e davanti a noi c’era solo Evenepoel, ho collaborato. Il podio, per me, valeva tanto a prescindere dalla piazza. Il punto è che presto mi sono accorto che davanti a noi c’era anche un altro atleta. Mi sono detto: “Terzo sì, ma quarto no”. Sai, quando guardi i pantaloncini e vedi quella scritta, “Italia”, dai l’impossibile». È così che Fancellu si è portato a casa il bronzo iridato.
Gli inizi, con la maglia azzurra, hanno il suono di una telefonata di Arnaboldi, il direttore sportivo del Team Canturino, prima squadra di Fancellu: «Mi disse che De Candido voleva vedermi a Montichiari: mi venne un colpo. Avevo preso qualche chilo di troppo rispetto al peso forma e andavo anche abbastanza piano. Avevo il timore di fare una figuraccia. Ci pensi? Per fortuna è andata bene ed il ritiro di Riccione è una delle più belle esperienze che possa raccontare». Ci spiega che si “sente scalatore” ma la sua umiltà gli impone una precisazione: «Posso dirti cosa mi piacerebbe essere. Che vorrei mi si ricordasse come un buon corridore e uno scalatore ma non so quello che effettivamente diventerò. Tutti vorrebbero diventare dei campioni, ma è ciò che fai a definirti. Sono giovane, devo ancora conoscermi». Di sicuro, quando si parla di strade, Alessandro Fancellu parla di salite: del Brinzio, “montagna simbolo della zona di Varese”, e del Monte Generoso, in particolare. «Quando questa situazione si sistemerà, potrò tornare su quei tornanti. Inizia a essere più difficile vivere queste limitazioni: si sente la mancanza, ci si sente spogliati della normalità». Qualche anno fa, al Premio Torriani, dopo “Il Lombardia”, Fancellu incontrò personalmente Alberto Contador: «Mi presentarono a lui come futuro componente della squadra che stava nascendo. Quell’incontro mi rimase impresso: ho proprio visto un campione che, piano piano, si è aperto e mi ha accolto umanamente. Qualcosa di raro. Ma alla Eolo-Kometa si lavora così. Non è solo una squadra forte, è una bella squadra. All’inizio era un problema perché molti ragazzi sono spagnoli e io non parlavo spagnolo. Ora che l’ho studiato, siamo amici prima che compagni di squadra».
Davanti ad Alessandro Fancellu c’è la realtà del professionismo, “parliamo di una passione che diventa lavoro, quanti possono dirsi così fortunati?”, e un traguardo personale che, questa volta, non è una linea d’arrivo: «Un domani, fra dieci, dodici anni, mi piacerebbe che qualcuno, dopo avermi ascoltato, potesse dire: “Davvero interessante questa cosa. Quasi quasi la imparo”. Sì, mi piacerebbe poter lasciare un insegnamento ai più giovani».
Foto: Vuelta a León
Lucia Bramati: «Gladiatori del fango»
Ci siamo chiesti più volte come si possa raccontare la sensazione che si prova nelle domeniche impastate di brina e fango dell’inverno del ciclocross. In una serata a Nalles, in mezzo a una bufera di neve, Lucia Bramati ci ha dato la risposta: «Il cross è una sorta di arena. Noi siamo i gladiatori della terra, tra due ali di gente che grida con tutta la voce che ha, nel fumo del loro respiro che si mescola alla nebbiolina che si deposita a terra. Il percorso è tutto lì, lo conosci a memoria. In estate faccio mountain-bike, ma non c’è paragone. Qualche tratto di quelle strade percorse in mountain-bike mi spaventa. Qualche discesa scoscesa o qualche irta salita. Le strade della mountain-bike si disperdono in tanti rivoli. Quelle del cross sono raggruppate in un fazzoletto di terra con cui familiarizzi». C’è una semantica di ogni intervista. Un circolo di parole che ritornano perché parte dell’intervistato e del suo approccio a ciò che fa. Certe volte si tratta di sensazioni primordiali: «Papà e mamma mi hanno sempre detto di fare sport, qualunque sport. Papà è stato un ciclista ad alti livelli. Ho giocato a tennis, fatto saggi di danza, atletica e anche pallavolo. Nel ciclismo però ho trovato qualcosa che altrove non riuscivo a rintracciare: un senso di casa. Ricordo quando ho vinto la prima gara da G3, a Bergamo: ho sentito di appartenere a qualcosa, di essere simile a qualcosa. Non mi era mai accaduto». E pensare che gli inizi col ciclismo non erano stati proprio idilliaci: «Non me ne andava bene una da piccolina. Ero molto timida, chiusa. Forse non tiravo fuori nemmeno tutto il carattere che serviva».
Lucia Bramati ha diciassette anni e guardandosi indietro focalizza chiaramente alcuni cambiamenti che le hanno fatto bene: «Se sono cambiata è anche, se non soprattutto, grazie al ciclismo. Alla fine, il mondo che frequenti ti plasma un poco. Il mio carattere si è aperto qui. Ho messo da parte quella timidezza, pur custodendola, e mi sono buttata in quello che volevo fare. Certe volte, la troppa timidezza ti frena anche e non è giusto. Ho imparato a divertirmi correndo in bici. Ho imparato a dare il massimo, a fare sacrifici, con serenità». Già, serenità perché l’ansia divora: «Papà me lo ha sempre detto: “Stai tranquilla perché l’ansia ti divora l’energia”. Ed è vero. Prima delle gare mi metto tranquilla sul letto della mia camera e ascolto musica indie o guardo film. So quello che devo fare ma faccio attenzione a non farlo diventare ossessione».
Quando vedeva le gare di ciclocross in televisione, Lucia Bramati si diceva che, da grande, avrebbe voluto assomigliare a Eva Lechner e a Pauline Ferrand Prevot: «Poi le ho conosciute, le ho incontrate, ci ho parlato. Fa strano vedere a pochi metri da te ragazze che prima vedevi solo in televisione. Ricordo che guardavo le immagini e mi dicevo: “Quanto vorrei provare anche io”. Quando durante il riscaldamento mi passano accanto van der Poel o van Aert mi volto sempre sorpresa e li fisso. Quando provo il percorso, ricordo le immagini della tv e mi dico: “Hai visto Lucia? Ci sei tu qui. Proprio tu”. Ti dici che stai crescendo. Che stai diventando grande».
Lucia studia, è al quarto anno delle superiori, e si allena duramente con una consapevolezza rara: «I sacrifici pagano sempre. Tu fai sacrifici e vedrai che qualcosa di bello succederà. Prendi il terzo posto in Coppa del Mondo lo scorso fine settimana. Non me lo aspettavo. Sai perché? Perché nelle prove di inizio stagione almeno cinque o sei ragazze andavano più forte di me. Invece stavo proprio bene. Siamo andate via subito in tre e per un buon tratto mi sono giocata anche il primo posto. Cosa significa? Che lavorando cresci, che lavorando migliori sempre. E quando te ne rendi conto ti viene una grinta che non si può nemmeno lontanamente immaginare». E dopo? «Dopo è ancora più bello. Non so quante volte ho chiesto: “Ma è vero? Ditemi che è vero. Sto sognando? Non svegliatemi se non è vero. Per favore”». Tra l’altro, a Tabor, c’erano proprio le condizioni climatiche che piacciono a lei: «Era freddo. Ma un freddo assurdo. Io con il freddo, con la pioggia, con il fango mi galvanizzo. Il percorso diventa più tecnico e vado meglio. A me piacciono percorsi come Brugherio: è uno spettacolo quel tracciato. Il cross deve essere così: movimentato, imprevedibile, caotico. Se c’è tutta pianura, che gusto c’è?».
Lucia Bramati ha vinto tante volte ma solo una volta ha pianto di un pianto forte, vero. Di quel pianto che prende la bocca dello stomaco, di quelle lacrime grosse come noci a scorrere sulle guance: «Parlo del campionato italiano da allieva secondo anno. Venivo da una stagione disastrosa: prima un infortunio, poi il citomegalovirus e, alla fine, persino la mononucleosi. Ero stata ferma due, forse tre mesi. Mi sono presentata in corsa solo per provare, per tornare a fare ciò che amavo: andare in bicicletta. Ho vinto. Non mi sembrava possibile. Ero disperata di felicità. Ho pianto». Lucia Bramati, alle partenze, ama ascoltare: «Sono fortunata. Nella mia squadra ci sono diverse fra le migliori atlete nella specialità al mondo. A me piace stare ad ascoltarle. Mi danno consigli ma soprattutto mi raccontano le loro esperienze: questo è molto importante perché anche dalle esperienze altrui si può imparare. Vorrei fare bene al mondiale per la categoria junior ma soprattutto vorrei confermarmi al passaggio fra le élite. Credo lì sia in un’altra dimensione, una dimensione che impone una ripartenza e una conferma. Solo lì puoi davvero sentirti arrivata dove volevi arrivare».
Le parole corrono veloci come gli appunti sul nostro taccuino. Di certe cose ti accorgi solo rileggendo: «Sono una ragazza semplice. una ragazza che ama uscire con gli amici per andarsi a mangiare una pizza e stare in compagnia a tavola. Una ragazza che è contenta ogni volta in cui gli amici le dicono: “Vogliamo venire a vederti alle gare. Vogliamo esserci anche noi a fare il tifo per te”. Magari non posso partecipare a qualche gita scolastica. Magari devo rinunciare a qualche uscita serale, ma sono contenta. Quello che sto facendo, lo sto facendo per me. Per il mio domani. E il domani te lo costruisci giorno per giorno. Rinuncia per rinuncia. Essere liberi significa proprio questo. E a me la libertà piace da morire».
Foto: Lucia Bramati, Instagram
Guarda, c'è l'ammiraglia di Moser
Aldo e Francesco. Come tutti i loro fratelli, ben dodici, e come tanti altri ragazzi. Almeno fino ad un certo punto, ma forse anche dopo. Insieme a Palù di Giovo, anche negli inverni in cui c’era più neve che anime in città. Oggi sono poco più cinquecento gli abitanti di questa frazione in provincia di Trento e, non fosse che per il silenzio di certi giorni, Palù di Giovo è come tante altre città. Non sappiamo quanti abitanti ci fossero negli anni sessanta del novecento, ma non abbiamo difficoltà a immaginarci le strade di Palù in quegli anni. Non abbiamo difficoltà a figurarci lo stupore raccontato da Francesco Moser in questi giorni, quando Aldo, il fratello maggiore, tornava a casa in ammiraglia: «Non eravamo abituati. In queste vie passavano solo i carri trainati dai buoi o dai cavalli». Si vedevano poche macchine, l’ammiraglia era quasi un mezzo futuristico. Non solo per i fratelli minori in casa Moser ma per tutti coloro che affacciandosi alle finestre vedevano quest’auto così diversa parcheggiare in città. Qualcosa che assomigliava alle speranze di un futuro diverso anche per i più poveri. Qualcosa che somigliava a un domani in una grande città e a un lavoro che potesse riscattare un passato difficile. Per i più giovani ma anche per i più anziani che in quel domani ci avevano creduto ed erano stati delusi sin troppe volte.
Francesco e Aldo come tutti quei fratelli che si divertivano assieme nei cortili e per le strade e poi si fermavano a mangiare un panino appoggiati a un muretto, magari con i pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate. A fianco un piccolo podere di famiglia, il primo, e il cimitero del paese. Aldo che è del 1934, Francesco del 1951. Aldo che diventa uno sportivo importante mentre Francesco sta ancora crescendo. Francesco che sente ciò che tutti dicono di suo fratello ed è certo di essere fortunato ad avere un fratello così. E si parla a voce e a testa alta di un fratello maggiore così e quell’aggettivo possessivo si acuisce di tutto quello che, ora più che mai, appartiene ai Moser: grinta, dignità, orgoglio. Gente di poche parole e di tanta concretezza perché in quegli anni non potevi che essere in questo modo per poter sperare di farcela. Quando Aldo torna dal Giro d’Italia del 1969, guarda Francesco e glielo dice. Gli dice: «Ma perché non provi anche tu? Dai, prova anche tu». In quelle tre settimane in giro per l’Italia era andato tutto bene e Aldo aveva capito che il ciclismo poteva avere lo stesso volto di quello sperare e credere in quel paesino che gli aveva dato i natali. Dovevi fare fatica, certo. Ma non l’avresti fatta fra quella terra? La terra è sincera, ti restituisce crudamente ciò che dai. In questo assomiglia alla bicicletta. Entrambe non possono mentire.
Francesco che quel giorno si sentì scelto e probabilmente pensò quello che pensiamo tutti quando qualcuno ci sceglie: «Davvero credi io possa farcela? Pensi davvero io sia come te?». Fiero perché Aldo era, ed è, il suo modello e pensare che, in fondo, quel fratello maggiore lo immaginava così simile a lui non poteva che farlo felice. E Aldo faceva lo stesso che fino a qualche anno prima aveva fatto Francesco: ne parlava con gli amici e con i colleghi. Li portava a vederlo correre e diceva: «Certo che il mio fratellino corre davvero forte. Guardalo». Lui che aveva scalato il Bondone sotto una nevicata degna di questi giorni, ma era giugno. Era l’8 giugno del 1956 e, per oltrepassare i massi di neve, la bicicletta la si prendeva pure in spalla. Mentre qualche direttore sportivo faceva ritirare i suoi atleti perché “non aveva più senso”. Forse molti gli avrebbero semplicemente detto: «Non gasarti troppo. Dovrai vederne di cose». Lui si stupì e lo disse a tanti. E noi siamo certi sia stato meglio così.
Non sappiamo cosa Aldo abbia detto a Francesco, quando lo vide tornare a casa in maglia rosa dal Giro d’Italia del 1984, quel Giro che Francesco Moser vinse. Non sappiamo, ma ci piace immaginarlo, come Aldo Moser vivesse la rivalità Saronni-Moser. Come si gustasse le corse in televisione e cosa dicesse, al telefono con Francesco, di “quello là”. Chissà come lo chiamava. Chissà cosa si sono detti in quell’ultima passeggiata assieme. Chissà che aria c’è oggi a Palù di Giovo. Forse qualcuno guarderà fuori dalle finestre, poi cercherà con lo sguardo un bambino e gli dirà: «Vedi quel parcheggio? Lì, tanti anni fa, c’era l’ammiraglia di Aldo Moser…».
Foto: Aldo Moser al Trofeo Baracchi 1956
Umberto Inselvini: «Per farli stare meglio...»
«Magari sei lì, seduto su queste sedie di plastica, in un paese sperduto e passi agli atleti il loro sacchetto del rifornimento. Ci hai messo qualcosa che non si aspettavano e loro ti guardano stupiti e ti ringraziano. Anni fa, all'inizio della stagione, gli hotel aprivano apposta per le gare, talvolta erano freddi e allora noi compravano delle coperte elettriche per riscaldare il lettino dei massaggi. Vuoi mettere quando senti un ragazzo che ti dice: “Che caldo, dopo il freddo di oggi, era quello che ci voleva”. Ora puoi trovare di tutto in ogni angolo del mondo, una volta non era così. Allora, prima di partire per la Colombia o per l'Australia, pensavamo a comprare tutte quelle piccole cose che potevano servire per fare stare meglio i ragazzi. Per farli contenti. Per noi non chiediamo tanto. Ci basta uno sguardo soddisfatto o un pollice alzato. Un pizzico di gratitudine ci rende più felici di molto altro. Tanti ci dicono che siamo fortunati a fare questo lavoro: forse è vero, ma è un lavoro difficile, con tante varianti. Spesso si è stanchi e dopo una giornata in auto, lontano dalle famiglie, devi saltare giù dalla macchina e metterti a smontare e rimontare biciclette. Forse bisognerebbe viverlo dall'interno per capirlo meglio». Umberto Inselvini è massaggiatore dal 1984, fra i professionisti dal 1985, ne ha viste davvero di tutti colori ma, per i suoi ragazzi, ha sempre voluto solo una cosa: «Parlo della tappa del Gavia del 1988: i corridori arrivavano al traguardo congelati. Noi avevamo l'hotel lì vicino: dovevamo portarli a braccetto per le scale, farli distendere sul letto, avvolgerli in delle coperte e strofinarli forte, per riscaldarli prima della doccia. Certe volte li accompagnavamo noi in doccia, ancora vestiti, e li aiutavamo a spogliarsi. In quei momenti senti che loro hanno bisogno di te, ti senti utile, sai che li hai aiutati, li hai fatti stare meglio e così stai meglio anche tu».
Far stare bene gli altri o, per quanto, farli stare meglio: Inselvini spiega che l'essenza del massaggio è questa. «Dal punto di vista fisico il massaggio ti permette di smaltire in anticipo le tossine che il corpo accumula. In un certo senso velocizza un processo del tutto naturale. Qual è il punto? L'aspetto psicologico è importante. Se tu stai bene su quel lettino, se tu ti senti a tuo agio, se ti senti libero, il corpo reagisce meglio. Il mio compito non è solo massaggiare, il mio compito è mettere a proprio agio la persona, fare in modo che in quel momento stia bene, che possa riposarsi facendo ciò che preferisce. C'è chi vuole parlare della gara, chi di informatica, di calcio, o di casa. C'è chi vuole stare in silenzio e chi vuole leggere e rispondere ai messaggi. Io devo lasciare questa libertà, devo modellarmi sulle loro esigenze: sono lì per loro». Questo significa che da quel momento, dal momento in cui il ragazzo entra in camera, devi mettere da parte la tua vita: «Ci sono giorni in cui anche io sono nervoso, preoccupato, giorni in cui non sto bene. Sono cose di cui devi scordarti. Devi metterti al lavoro e pensare solo ai ragazzi. Non puoi permetterti di sfogare le tue ansie o preoccupazioni. Il ragazzo deve alzarsi alleggerito da quel lettino, non puoi appesantirlo con i tuoi problemi. Questo bisogna impararlo, soprattutto quando si lavora a contatto con gli altri: non dobbiamo mai scaricare sugli altri ciò che ci opprime o ci infastidisce. Allo stesso tempo è necessario restare ciò che si è, tenere viva la voglia di ascoltare e di capire. Solo così potrai fare un buon lavoro». Un lavoro che negli anni è cambiato molto pur mantenendo ferme alcune caratteristiche: «Sai, una volta al Tour de France, a fine cena, non avevi neanche voglia di andare in camera. Alcune camere erano anche senza aria condizionata e rischiavi di soffrire il caldo. Così uscivi in giardino e ti mettevi seduto sull'erba, tiravi tardi e ridevi e scherzavi con gli atleti. Adesso è cambiato molto: si va in camera, si guardano i social o si chiamano i parenti, anche dall'altra parte del mondo. Questo è importante: sentire la tua famiglia, poterci parlare, ti aiuta ed è un motivo in più per lavorare serenamente. Però toglie qualcosa al rapporto fra colleghi e al rapporto con i ragazzi. Ci si parla meno, ci si conosce meno nei momenti di spensieratezza. Ci si vede anche meno: le gare sono aumentate e si disputano in sempre più paesi. Con alcuni colleghi ti vedi a dicembre e dopo la conclusione del Tour de France. Non dico sia peggio, è diverso. Prima c'erano anche più squadre che investivano, oggi ci sono squadre con molto budget che possono permettersi stipendi molto alti. La carriera del corridore finisce presto e i ragazzi scelgono anche in base a questo aspetto. Non perché non si trovino bene in squadra, ma perché la paura dei mancati rinnovi li induce ad assicurarsi un contratto fino a che possono. A novembre alcuni corridori non sanno ancora cosa ne sarà del loro futuro. Qualche anno fa a maggio, giugno, si sapeva. Non è facile. Anche loro hanno una famiglia».
Nello stesso modo sono cambiate le persone e anche lo stesso Inselvini: «Quando ho iniziato a massaggiare non ero ancora sposato, non avevo figli, avevo ventisette anni. Certe volte mi ritrovavo a massaggiare atleti con più anni di me. Ora ho due figli e massaggio ragazzi che hanno l'età dei miei figli. Certe volte massaggio anche i figli di atleti che ho avuto a inizio carriera. Le esperienze di vita ti aiutano sempre a capire e magari a cambiare. Ho sessantadue anni e alcuni mi dicono: “Ma vai ancora in giro con i corridori?”. Sì, perché il ciclismo è una passione e sul ciclismo ho basato gran parte della mia vita. Mi sono sposato al giovedì e non al sabato per avere quindici giorni per il viaggio di nozze. Ho vissuto con il mio primo figlio i primi quindici giorni dopo il parto in quanto la stagione non era ancora partita e sono tornato in aereo dalla Polonia per il parto cesareo di mia moglie quando è nato il secondo. Ricordo tutte le vacanze invernali con i compiti dei bambini per fare in modo che, pur perdendo qualche giorno di scuola, non rimanessero indietro con il programma». Questo lavoro nato per caso e proseguito per scelta: «Quando ho smesso di correre, a ventitrè anni, mi sono trovato a fare la considerazione che fanno tutti i ragazzi: “Adesso cosa faccio? Devo trovarmi un lavoro”. Ho fatto per un paio di anni l'assicuratore poi, da una telefonata con il mio ex direttore sportivo, alla vigilia della Settimana Bergamasca, è nato tutto questo. Non avrei mai pensato di fare questo lavoro per così tanti anni e invece sono ancora qui. Il mio è un lavoro che fa scorrere il tempo molto velocemente: viaggi, ti sposti, hai stimoli continui, quando torni a casa ti godi la famiglia, ti organizzi quei mesi prima di ripartire e poi riprendi la corsa».
Umberto Inselvini ha una parola chiave per svolgere il proprio lavoro: «Dico sempre che è fondamentale il rispetto dei ruoli. Io devo attenermi alle mie competenze e rispettare quelle altrui. Rispetto a qualche anno ci sono molte più figure che hanno competenze specifiche all'interno delle squadre. Se ognuno fa ciò per cui ha competenze si lavora meglio, le cose vanno meglio e si è anche più sereni». Certo, perché poi c'è il momento del giudizio. Momento inevitabile: «Tutti veniamo giudicati per il nostro operato. È giusto: percepiamo uno stipendio e dobbiamo portare a casa dei risultati. Qui c'è anche un altro aspetto: quello della comprensione. Quando vinci, il giudizio è facile. Quando non vinci ma aiuti gli altri è più difficile. I capitani non sarebbero lì senza chi li aiuta. Personalmente non amo nemmeno chiamarli gregari: sono ragazzi che aiutano altri ragazzi. Questi ragazzi sono importantissimi per la squadra. Fondamentali. Questa utilità, però, non è lampante come quella delle vittorie. Deve essere compresa. L'opinione pubblica, certe volte, la trascura e fornisce giudizi che sono massi. La realtà di un ciclista è fatta di molti aspetti e molte sfaccettature, non basta guardare l'ordine d'arrivo per capire cosa hanno dato i ragazzi quel giorno. Quello che conta è quello che hanno dato. Bisognerebbe pensarci due volte prima di esprimere giudizi senza sapere».
Foto di Ilario Biondi per gentile concessione di Umberto Inselvini
L'orgoglio di un giovane campesino
Foto: Diego Camargo, Facebook
Alberto Bettiol: «Ti racconto questa»
«Ti racconto questa: sai a che ora sono andato a letto la sera prima del giorno in cui ho vinto la Coppa d'Oro? Alle quattro del mattino. Eravamo in questo albergo a far baccano con i miei compagni e il sonno non veniva mai. Sono andato a letto a quell'ora ed il giorno dopo ho vinto. Non lo dico per vantarmi. Lo dico perché oggi una cosa di questo tipo non accadrebbe più ed è un peccato». L'intervista con Alberto Bettiol scorre fluida, all'ora di cena di una gelida serata di novembre, tra la sua parlata toscana, qualche risata e diversi aneddoti. Ogni racconto, anche se giocoso, scherzoso, contiene un insegnamento. Ed è questa la migliore forma di leggerezza, quella che è in grado di riflettere profondità schivando la pesantezza.
«Ci sono gli sponsor che investendo vogliono risultati e i direttori sportivi che, forse poco consapevoli, si rifanno sui ragazzi. Parliamo di bambini di otto, dieci, anni che fanno i rulli o che ricevono in regalo biciclette in carbonio e pedali da professionisti. A cosa serve quella bicicletta ad un bambino che deve fare dodici chilometri? Così si bruciano le tappe e quei ragazzi divenuti allievi non vivranno più quegli entusiasmi che, per esempio, io ho vissuto. La mia prima bicicletta in carbonio, l'ho avuta da juniores, a sedici anni, e per assurdo pesava di più di quella in alluminio perché era un carbonio grezzo ma a me sembrava di aver sotto una Ferrari. Quando ho avuto il mio primo potenziometro, il mio primo srm, da professionista mi sentivo una divinità in terra. Molte volte sono anche i genitori che, credendo di fare del bene, esasperano ogni situazione. In realtà si arriva a casi gravi, a ragazzi che diventano anoressici o bulimici per inseguire le brame genitoriali. Io dico sempre di dover ringraziare i direttori sportivi e le persone che hanno consigliato il mio babbo quando ero piccolo. Hanno sempre detto che avevo delle capacità ma hanno evitato ogni esasperazione. Anche la società, oggi, va in una direzione opposta con la continua ricerca dei risultati. Ma che senso ha il protocollo cerimoniale nelle gare dei più piccoli? Ai bambini non interessa, i bambini di quel risultato si ricordano per pochi minuti, poi vogliono andare a giocare a basket, a calcio, a passeggiare in compagnia nei prati. Il bello in quell'età è proprio questo. Per me il ciclismo era la possibilità di andare lontano da casa, di stare fuori a dormire, di festeggiare con gli amici la fine dell'anno o il capodanno, di stare insieme, di fare gite. Mi sembra che tutto questo si stia perdendo nonostante i tanti volontari che investono soldi propri per aiutare i ragazzini, per portarli alle gare. Nonostante la loro dedizione».
Lugano, dove abita ora Bettiol, è lontano da quel condominio di Castelfiorentino in cui tutto è cominciato: «Noi abitavamo al terzo piano, al secondo c'era il presidente della società locale di ciclismo. Avessi abitato in un altro condominio forse questa storia non sarebbe mai iniziata. Papà mi ha accompagnato ad iscrivermi alla società ma ho continuato anche a fare altri sport. C'era lo studio, c'erano gli amici e tante altre cose che, in quel momento, venivano prima del ciclismo. Può essere che una passione diventi un lavoro ma è un percorso per cui serve tempo. Un percorso graduale in cui i dubbi e i ripensamenti sono all'ordine del giorno, giustamente direi». A Castelfiorentino, in realtà, Bettiol ci è ritornato a fine stagione, lì ha festeggiato il suo compleanno: «Puoi immaginare la gioia di mamma, saranno stati più di cinque o sei anni che non ero a casa con loro il giorno del compleanno. Solitamente ero in vacanza in paesi caldi. Quest'anno non si può ma comunque mi sono regalato delle belle giornate». La sorella della mamma di Alberto Bettiol è insegnante e ha sempre insistito perché Alberto studiasse: «Mi ero anche iscritto all'università ma poi la mia facoltà richiedeva la presenza, quando ho siglato il mio primo contratto, mi sono fermato. Avevo un lavoro, avevo una sicurezza economica. Forse a mia mamma quella scelta non è piaciuta sul momento ma non si poteva fare altro. Ma anche lì: non sai quante volte mi sono chiesto se davvero volevo fare questo. Anche al passaggio a professionista, tante volte mi sono detto: vale la pena fare così tanta fatica per arrivare novantesimo? Sono davvero convinto di quello che sto facendo? Ma io non voglio fare solo questo, io voglio studiare, voglio imparare. Cosa sto facendo? Sono ancora qui perché ho stretto i denti e perché ho trovato persone che mi hanno aspettato con una rara pazienza. Una pazienza che oggi manca. Ai giovani lo dico sempre: il problema non è passare professionisti, il problema è fare i professionisti e restare sempre professionisti». Il ciclismo di Bettiol è medicina «per non pensare a questa situazione, per sentire ancora una parte di normalità» e routine da cui, ogni tanto, staccare la spina: «Riposo, per me, è anche solo la consapevolezza di svegliarsi la mattina e non dover scegliere maglia, guanti, calze, casco e orario per uscire. Ogni tanto staccare è salutare».
Alberto Bettiol è un ragazzo estroverso: «Rido, scherzo, mi racconto molto ma c'è una linea di confine. Per gli affetti e le cose a cui tengo di più ho una cura particolare, queste cose le sanno in pochi, in pochissimi». Quella cura che, forse, è più difficile da preservare dopo la vittoria al Fiandre, l'anno scorso: «Mi dicono tutti che ho fatto un'impresa, che è una vittoria importantissima e mi elogiano. L'altra parte di quella vittoria, però, non la vede nessuno. Ho perso quell'irriconoscibilità, quel silenzio attorno che certe volte è necessario. Non solo sono più controllato in gruppo ma anche nella vita di tutti i giorni. Se Alberto Bettiol non pubblica nulla sui social per qualche giorno sono tutti a chiedersi che fine abbia fatto, cosa sia successo. Sono senza dubbio di più i lati positivi di quelli negativi ma esiste anche l'altro lato della medaglia. Io mi concentro su di me, sulla mia persona. Io sono più importante, poi viene il resto: è l'unico modo per affrontare la situazione». La prima volta in cui Bettiol ha rivisto integralmente quella gara è stato il 7 aprile di quest'anno, nel corso di una replica: «Non amo particolarmente rivedermi. Volevo invece tornare in quei luoghi a passeggiare da solo, a piedi. A guardarmi attorno, incontrando la gente, quella gente, che ha un legame così viscerale col ciclismo. Alcuni erano lì quel giorno. Cosa ho fatto quel giorno, l'ho capito quando sono tornato nelle fiandre quest'anno. L'avevo intuito dall'atteggiamento del pubblico alle gare, da tutte le telefonate arrivate a mamma, papà e a mio fratello, dalla Rai ad attendermi in aeroporto al ritorno. Pensa che, la sera stessa, telefonarono a mio papà per fare delle riprese a casa mia. Lo dico sempre: se il Fiandre lo avesse vinto Sagan, Alaphilippe, Gilbert o Cancellara non sarebbe stato così. Invece lo ha vinto Bettiol e nessuno se lo aspettava. Questo è speciale».
E la pressione? Come si gestisce la pressione che una vittoria del genere comporta? «L'unica pressione che mi resta addosso è quella che mi metto io. A me gli appuntamenti importanti, caricano. Se so che devo correre il mondiale mi gaso, faccio tutto il possibile per arrivarci al meglio, torno dagli allenamenti arrabbiato se non riesco a correre come vorrei e, stai tranquillo, che non sbaglio. Quello che dicono gli altri è relativo. Di più. Quello che dicono gli altri è spesso condizionato da quello che diciamo noi. A me fanno sorridere le colpe date alla stampa. Voi scrivete quello che diciamo noi. In un certo senso invidio i giovani che fanno dichiarazioni mirabolanti. Beati loro che hanno tutte queste sicurezze. Io non ci riesco. Io posso dire che mi impegnerò al massimo, che farò il possibile ed anche di più, ma non mi metterò mai, da solo, fra i favoriti di una corsa. Non mi appartiene caratterialmente e credo sia un bene».
Lo è, Alberto. Lo è.
Foto: Claudio Bergamaschi
Trifula Trail, un'avventura sulle strade di casa
Suona la sveglia.
Sono le sei, ma in realtà sono le sette.
No, in realtà sono le cinque. Forse.
Quando si cambia l’ora, per due giorni non riesco mai a capire che ore sono. Se ci aggiungi che ieri, dopo cena, si è tirato tardi con gli amici dei miei, accompagnando il tutto con qualche bicchierino di Passito, fare i conti di prima mattina diventa davvero difficile.
Sono le sei, ma in realtà sono le sette. È il 25 ottobre, fuori c’è quella nebbiolina fine che ti si attacca addosso e ti fa sentire più umido di quella volta che sei uscito d’estate, impavido, pensando “tanto non la prendo” e mamma mia se l’hai presa.
Mi alzo. Vado in bagno. Che occhiaie, amici. Una sciacquata e mi cambio.
Tutto è pronto sul servo muto da ieri pomeriggio: calze pesanti, salopette a tre quarti felpata, maglia termica, giacca, scaldacollo e capellino Alvento – “Fate i watt, non fate la guerra”.
Mia madre scende giù con me, ormai l’ho svegliata, dice. Facciamo colazione, in silenzio.
Carico la bici in macchina, insieme al borsone con il cambio e una busta della spesa con barrette, panini al latte e qualche gel.
«Ciao, Ma’».
«Vai piano».
Mentalmente, rispondo: «sto andando in bici, per giunta la chiamano bici da corsa. Vado più veloce che posso».
Ho una quarantina di minuti prima di arrivare al luogo della partenza, ma per strada non c’è un cane (con ‘sto tempo), si viaggia bene, così ho la possibilità di pensare un attimo.
La settimana prima avrei dovuto correre la mia prima granfondo, quella di Alassio, ma, per come stavano andando le cose, ho deciso di ripiegare su qualcosa di meno affollato e quindi mi sono messo a cercare su internet.
Leggo: «Torino Bike Experience presenta Trifula Trail, prova personale, non competitiva con percorso ad anello tra Torino ed Asti, partenza alla francese». Quattro possibili percorsi: due gravel e due su strada con diverse distanze. Chiaramente non sarebbe una vera prova con me stesso, se non facessi il percorso più difficile, su strada; la gravel è ancora un sogno da realizzare.
Arrivo che c’è già qualcuno che sta tirando giù la bici dalla macchina, la nebbia si è diradata, ma il freddo c’è tutto. Mi preparo in gran fretta, nel pomeriggio danno pioggia e ne faccio volentieri a meno, come se due minuti in meno potessero salvarmi.
In un piazzale, nella zona sud di Torino, ci aspetta Alessandro, sorridente. Anche lui è vestito come se fosse pronto per partire, la maglietta verde con il logo di Torino Bike Experience e la bici da Gravel, tutto un trionfo di verde.
Siamo tutti con le mascherine, ma in questi ultimi mesi abbiamo imparato a leggere le emozioni altrui negli occhi, e si vede che siamo tutti felici di essere lì. Solo venti iscritti, un po’ per il meteo incerto già da settimane, un po’ per la situazione Covid.
Alessandro ci dà il nostro buono pasto consumabile a Moncalvo, località che toccheremo nel nostro anello, dove potremmo mangiare un piatto di ravioli al tartufo proprio alla fiera del Tartufo. Dopodiché ci dà le ultime indicazioni: non è una gara, se abbiamo bisogno possiamo chiamarlo, quando arriviamo in determinati paesi dobbiamo mandargli la posizione su WhatsApp: più per farlo stare tranquillo che per verificare che stiamo facendo il percorso corretto, senza barare.
Il primo ragazzo decide di partire, io scrivo ancora un messaggio a mamma per dire che sto bene, così è contenta, e sono pronto anch’io. Sono 160 chilometri e, a parte la mitica salita di Sassi-Superga, la prima che si affronterà, non conosco un metro del percorso. Parto tranquillo e faccio i miei primi chilometri in piano, in agilità, cercando di scaldare i muscoli, di non farmi stirare dalle poche macchine che si incontrano la domenica mattina alle 7, a Torino.
Neanche il tempo di pensare se sto bene, se ho chiuso la macchina, se ho preso tutto e sono ai piedi di Sassi. Sono quattro chilometri, mica tanti, ma per tre chilometri la pendenza è a doppia cifra e tocca punte del 16%. Passata la prima curva ricomincia ad esserci nebbia, fitta. Incontro qualche signore che corre, un ragazzo in MTB e, quando leggo 178 bpm sul mio Wahoo, è finita la salita.
Giù in discesa verso Baldissero, molte foglie e strada umida. Alla prima curva un po’ più stretta freno in modo un po’ troppo deciso con la ruota posteriore. Sto andando dritto, speriamo non arrivi nessuno. Urlo. Vedo la macchina spuntare… Sono salvo, tiro un sospiro di sollievo. Sono salito sul marciapiede e la macchina ha fatto in tempo a fermarsi sentendo le mie urla, così non ci siamo neanche sfiorati. Scende un signore gentilissimo, è preoccupato più di me che ora rimpiango i battiti che ho visto in cima alla salita per Superga. Ci salutiamo stringendoci la mano, nonostante il Covid. Ce la siamo vista brutta e lo sappiamo entrambi.
Si riparte, vado molto più piano e nelle curve mi tremano un po’ le mani.
Finita la discesa è già tempo di risalire, uno strappo, il primo di una lunga serie. Solo un chilometro, ma a fine giornata avrò più di tremila metri di dislivello, senza aver mai affrontato una di quelle salite belle lunghe che tanto mi piacciono.
È passata un’ora e mezza e sono solo a 33 chilometri dal via: di questo passo si prospetta una lunga giornata.
Non si passa mai su strade trafficate, sempre stradine in mezzo ai boschi o ai vigneti. Vigneti ovunque, peccato non vedere oltre il secondo filare per la nebbia. Meno male che sto passando per strade secondarie dove non incrocio neanche una macchina, perché altrimenti il pericolo di essere investiti ci sarebbe tutto.
Leggo i nomi dei paesini che attraverso e mi godo il rumore delle ruote sull’asfalto. Non sono stanco, neanche dopo due ore e mezza, cinquanta e qualcosa chilometri e circa mille metri di dislivello. Sto mangiando e bevendo. Mi sono fermato solo per qualche foto e per una pausa pipì. Non capisco se sto andando forte o meno; è vero che non si tratta di una gara con gli altri, ma, quando monti in sella ad una bici in un qualsiasi evento, l’unica cosa che vuoi fare è vincere. Vincere contro te stesso, andare ancora una volta oltre quelle che credevi essere le tue possibilità e pensare ancora una volta “ce l’ho fatta”.
Arrivato a Castelletto Merli non capisco più se è nebbia oppure pioggia. La visibilità non è ottima, mi sento bagnato. In cima alla salita per il santuario di Crea non c’è più dubbio.
La nebbia si è diradata completamente per far posto ad un acquazzone, proprio mentre devo scendere. Arrivo in fondo alla discesa, sono fradicio e voglio solo arrivare a Moncalvo per mangiare il mio agognato piatto di ravioli al tartufo e potermi mettere il cambio che intelligentemente mi sono portato.
Leggo il cartello Moncalvo e sono felice, ma ingenuo. Prima di vedere l’abitato mi aspettano ancora una decina di chilometri e una salita con due tornanti; io questo non lo so e spingo sui pedali. Mi divoro il pezzo in piano e sono ai piedi della collinetta su cui è arroccata Moncalvo. Chissà che panorami che mi devo essere perso oggi a causa della nebbia.
Attacco la salita neanche fossi Pantani ai piedi di Oropa mentre doveva recuperare il gruppo. Arrivo in cima stremato e mi ritrovo nel pieno della fiera del Tartufo di Moncalvo.
Sono solo le 11.30, ma ho fame e voglio evitarmi la pioggia del pomeriggio. Il cielo si è aperto, mangio il mio piatto di ravioli cercando di capire se il tartufo mi piaccia (mica l’ho capito) mentre ascolto un signore che in un italiano condito di dialetto piemontese decanta le proprietà del tartufo e cita cifre allucinanti sulla quotazione giornaliera.
Starei lì ancora un po’ ma è ora di partire.
Mi sono infreddolito e vorrei solo fermarmi in un bar per scaldarmi. Cosa ancor più triste è che si riparte con una discesa, ma, se ho imparato qualcosa dai vari video di ciclismo che ho visto, è che il ciclismo è uno sport così, in queste situazioni si mette un rapporto agile e si va davanti a menare. Io faccio in questo modo, anche se davanti non ho nessuno.
La maggior parte del dislivello ormai è già stata affrontata e, tolto qualche strappo di un paio di chilometri, il resto sembra essere una passeggiata.
Sulla salita per Montafia incrocio il ragazzo che era partito prima di me sulla sua Cinelli verde scintillante. Scambiamo qualche parola. Siamo felici, ma lui ha un altro passo e quindi lo saluto e riprendo la mia andatura. A posteriori sarei potuto rimanere con lui, perché le asperità sono praticamente finite e restano solo molti chilometri in piano nelle praterie nei dintorni di Chieri.
Mi sono sfinito per aumentare un po’ la velocità media e non sapendo, o forse volutamente ignorando, che c’è ancora la collina di Torino da valicare. Mi ritrovo a spingere un rapporto più agile rispetto al solito, che però pesa come un macigno. Vedo la linea di arrivo sulla mappa, c’è ancora da salire.
Arrivo in cima stremato, mi butto in discesa e faccio i pochi chilometri in mezzo alla città sperando che finiscano il più in fretta possibile.
Svolto a sinistra e vedo la bici di Alessandro che scende dalla macchina e mi guarda un po’ stupito, ci aspettava tra un’oretta almeno. Io gli racconto di quanto bella sia stata questa avventura e lui di qualche suo progetto: vuole iniziare a creare borse per il bikepacking su misura. Gli dico che ha già un cliente.
Mi lascia un pacchetto di Tartufi di cioccolato da pasticceria come premio per essere arrivato primo, è dispiaciuto per non aver potuto fare nessun rifornimento, dannato Covid.
Ci salutiamo sicuri di rivederci l’anno prossimo ad un Trifula Trail diverso: magari su due giorni, sperando di poterci conoscere davvero percorrendo strade poco distanti da casa, che però regalano paesaggi che ci invidia tutto il mondo.
Di: Alessandro Zecchino
Foto: Edoardo Frezet
La ciclista che voleva dare una mano al mondo e a se stessa
Il fuoco che divampa dentro Elise Chabbey è una di quelle sensazioni difficili da spiegare – intime, personali, il cielo dentro ognuno di noi. Chi ne viene colpito a volte cerca di sfogare faticando, sudando, stando continuamente in attività nel tentativo di assecondare quel non riuscire mai a stare fermi. Aiutare se stessi per conoscersi meglio. Spostare i propri limiti per definirsi o semplicemente per mettersi alla prova come atto di vita.
A volte aiutare se stessi non basta. E infatti Elise Chabbey ha spostato la propria asticella preferendo dare una mano agli altri. Erano i primi giorni di marzo. Squilla il telefono. È il suo insegnante del Master in medicina che gli dice di come la situazione sia iniziata a essere difficile anche in Svizzera. "Tesa" è la parola esatta che usa, si sbilancia, ma fino a un certo punto: è un medico e cerca un modo equilibrato anche in un momento di questo tipo. Fatto sta che la richiesta è diretta quanto semplice da fare, ma così complicata da esaudire: l'evolversi dei noti fatti in Svizzera stanno precipitando e ci sarebbe bisogno di aiuto all'HUG, che non vuol dire abbraccio, ma è l'acronimo di Ospedale Universitario di Ginevra.
Sì, perché Elise Chabbey, che arriva proprio da Ginevra, dopo essere stata quattro volte campionessa svizzera di kayak, partecipando pure ai Giochi Olimpici di Londra, dopo aver lasciato l'acqua per correre maratone e mezze maratone, aveva abbandonato lo sport a livello agonistico per studiare medicina riuscendosi, infine, pure a laureare.
A Marzo 2020 ormai la pandemia era diventata non solo un termine in uso e ahinoi diffuso, non solo qualcosa con cui avere a che fare marginalmente, ma stava uccidendo, mettendo a terra il sistema, la società, riempendo ospedali e, per ultimo, costringeva alla chiusura temporanea della stagione ciclistica - che sarebbe poi ripresa diversi mesi più tardi.
Elise, che nel frattempo, dopo essersi laureata, è diventata anche una ciclista professionista di livello importante, si stava preparando per la Strade Bianche – corsa poi annullata - quando arrivò la chiamata. All'inizio, ha raccontato spesso, fu difficile dire di sì. La situazione era incerta a trecentosessanta gradi, lei si era preparata durante l'inverno badando con minuzia a ogni particolare, facendo sacrifici, allenamenti duri, curando l'alimentazione, per quella che sarebbe dovuta essere la sua ultima stagione in bicicletta. «Ma non potevo mica starmene con le mani in mano! Anche se quella laurea in medicina l'avrei sfruttata a fine carriera. E invece...». E invece Elise smette i panni del corridore e indossa il camice.
Pochi mesi dopo si riapre la stagione ed Elise torna in bicicletta. «E i risultati mi sorpresero» racconta a un giornale francese. «Avevo valori importanti» wattaggi, li definisce, per esattezza. «Nonostante fossi impegnata ogni giorno in ospedale riuscivo a trovare nelle ore di pausa la motivazione per allenarmi e non perdere la forma». Medaglia d'argento nella prova a cronometro a squadre dell'Europeo, ventiquattresima al Giro Rosa, tredicesima alla Liegi-Bastogne-Liegi: in mezzo alla crema del ciclismo mondiale. C'è chi ha passato ore estenuanti finendo per farsi venire la nausea pedalando sui rulli, c'è chi è riuscito ad allenarsi ugualmente in strada, infine chi ha diviso la sua attività tra ospedale e allenamenti. «Psicologicamente lavorare in ospedale mi ha aiutato molto di più che se fossi stata ferma ad aspettare o semplicemente andando solo in bicicletta: sono tornata in corsa più motivata che mai».
Poche settimane fa, prima della chiusura della stagione, Elise Chabbey si presenta al via della prova in linea del campionato svizzero. Nebbia, freddo, un percorso difficile per corridori in un piccolo paese del Canton Turgovia tra Winterthur e San Gallo: parte a settanta chilometri dalla conclusione e arriva da sola a braccia alzate.
«Ultimamente le persone sono più interessate a me per quello che ho fatto fuori dalla bici, ma non è un problema, anzi. Se quello che faccio può far sognare le persone? Tanto meglio. Se quello che faccio può essere utilizzato per pubblicizzare il ciclismo femminile? Meglio ancora. Quello che ho fatto non è un motivo di orgoglio personale, ma semplicemente una bella esperienza» racconta alla fine di quella corsa.
A fine stagione avrebbe dovuto smettere di andare in bicicletta – come la sua squadra, che chiuderà i battenti - e invece continuerà con il sogno di correre un'altra Olimpiade. Elise, oggi, ancora non sa se ritornerà in corsia a dare una mano, ma si dice pronta a tutto. «Intanto posso dire di essere stata campionessa nazionale nel kayak e poi nel ciclismo: sembra una cosa divertente». Il fuoco che divampa dentro Elise Chabbey potrebbe anche essere quello che si accende dentro di noi, ma di storie come la sua non se ne sentono tutti i giorni.
Foto: Facebook/Elise Chabbey
Buona fortuna Tom-Jelte Slagter
Vi parliamo di Tom-Jelte Slagter ma potremmo parlarvi di tanti altri ragazzi e di tante altre ragazze. Vi parliamo di Tom Jelte Slagter perché per parlare d'altro si finisce per non parlare di ragazzi come Slagter. E invece parlare di ragazzi come Slagter è importante, perché ai più nella vita capita di trovarsi in situazioni affini a quella in cui si è trovato e si trova Slagter. Tom-Jelte Slagter ha deciso e reso pubblica la sua decisione: «Non sarò un ciclista professionista nel 2021. Ho trascorso dieci anni in gruppo, un periodo che porterò sempre con me ma ora è il momento dei saluti. Posso già raccontarvi dove sarà il mio futuro, ho da poco siglato un contratto con John Deere: sarò un rappresentante e rivenditore di macchine agricole nella zona di Groninga, la mia zona natale». Da quanto si racconta, Slagter, questa estate, dopo l'esclusione dal Tour de France, avrebbe avuto modo di incontrare un noto rivenditore di trattori della zona e costui, appassionato di ciclismo, gli avrebbe offerto un lavoro a partire dal prossimo mese di gennaio. Tom-Jelte Slagter ha trentun'anni ed è professionista dal 2011, nella sua carriera ha corso per squadre di tutto rispetto, Rabobank, Garmin, Cannondale e Dimension Data, fra le altre, non riuscendo tuttavia ad emergere con risultati di particolare spessore. Slagter è un onesto ragioniere della bicicletta ma questo ha poco a che fare con quello che vogliamo dirvi. E, forse, quello che vogliamo dirvi ha anche poco a che vedere con noi ma solo apparentemente.
Vi abbiamo sempre detto che essere Alvento vuol dire stringere i denti, vuol dire resistere, vuol dire rimanere da soli e continuare a pedalare, in testa o in coda al gruppo. Ed è vero: chi fa questo è Alvento. Senza ombra di dubbio. Ma c'è qualcosa da ricordare sempre anche quando la società tende a farcelo scordare. Già, perché sotto sotto l'idea che arriva da ogni dove è questa: devi resistere a tutti i costi altrimenti sei un perdente, altrimenti non vali, altrimenti sei un debole, senza grinta e coraggio. Questa idea è sbagliata, bisogna dirlo a voce alta. È sbagliata perché, alcune volte, nella vita fermarsi è necessario come è necessario cambiare strada o lasciar perdere. Lo è per noi, per la nostra persona. Chi si ferma, chi cambia strada, chi, a qualunque età, prova a cambiare la prova vita non manca di coraggio e di grinta, anzi. Anche se la strada precedente era stata una sua scelta, anche se l'aveva voluta con tutto ciò che poteva dare, anche se arrendersi, alcune volte, sa tanto di fallimento e come tale viene giudicato. Abbiamo la possibilità di tornare a scegliere e di cambiare scelta. Non ci è vietato, non dobbiamo temere questa opzione. Abbiamo la possibilità di fermarci dopo aver investito tanto, anche tutto, su un progetto o un'idea di futuro. Abbiamo il dovere di farlo se, in quel momento, crediamo che la nostra vita debba prendere un'altra direzione. Abbiamo anche il dovere di dirlo, di raccontarlo, senza temere coloro che semplificheranno: «Hai rinunciato perché non ci riuscivi». Forse sì o forse no. Non cambia nulla. Se non riusciamo più a continuare abbiamo il diritto di dirlo chiaramente e per una volta di non ascoltare tutti quelli che ci diranno: «Hai scelto tu questa via, ora devi arrivare in fondo. Devi farcela. Non puoi arrenderti adesso». Lo dicono per farci coraggio, certo. Molte volte vale questo discorso, altre no. Arrendersi, se così si può dire, quando non riusciamo più a fare qualcosa è possibile. Certe volte è salutare. Questo non significa non dare tutto, questo significa dare tutto ma capire, con lucidità e coraggio, quando il tuo significato è altrove.
Tom-Jelte Slagter, a quanto sappiamo, aveva altre offerte e avrebbe potuto continuare a correre anche la prossima stagione. Recentemente ha dichiarato: «Il ciclismo è stato importante ma non è mai stato tutta la mia vita. Forse anche per questo ho fatto questa scelta». Chi decide di cambiare ha paura, quasi sempre. Per assurdo, avrebbe potuto essere più comodo continuare a correre. Per assurdo, forse, avrebbe richiesto meno grinta lasciare tutto come era e far finta di niente. Far finta di non sentire quei discorsi che tutti ci facciamo, nella mente, e che ci dicono cosa fare e quando farlo. Non li ascoltiamo perché ascoltarli significa dover spiegare tante cose a tutti e sottoporsi a ogni genere di giudizi, simili a quelli citati, che sicuramente ci verranno appiccicati addosso. Dovremmo farlo, invece, e dovremmo ringraziare chi lo fa, facendogli il più grande in bocca al lupo. Perché se a ben pochi fra noi, forse a nessuno, capiterà di vincere il Tour de France o il Giro d'Italia, a molti accadrà di dover cambiare via, per stanchezza, per scelta, per necessità, talvolta solo per motivi di forza maggiore. I motivi non importano poi più di tanto. Tutte le persone che devono fare una scelta di questo tipo sono "Alvento" e fanno fatica, una fatica assurda. Hanno bisogno di ascolto, di comprensione, di appoggio e magari di qualcuno che racconti le loro storie per tutto il bello che racchiudono. Sì, perché chi sceglie di cambiare è da ammirare come chi tiene duro.
Foto: Tom-Jelte Slagter
Sul divano con papà
Vi ricordate la promessa di Giulia? Noi ce la ricordiamo bene. Di Giulia avevamo incontrato il padre al Giro Rosa, a settembre. Un padre che avrebbe voluto provare il piacere di assistere ad una gara dal vivo assieme alla figlia, una ragazza a cui il ciclismo non è mai piaciuto e per questo alle gare con papà non è mai andata. Proprio il papà di Giulia mi aveva pregato di parlarle, di spiegarle perché sarebbe dovuta andare ad una gara con papà. Così avevo fatto, una sera di settembre, dalla camera di un albergo. Ero crollato dal sonno ma le avevo strappato una promessa: «Cercami ad una delle prossime corse, mi vedrai accanto a papà. Te lo prometto». Da quel giorno, di Giulia non ho più saputo nulla. Fino a questa mattina quando Giulia mi ha scritto.
Ho risposto con l'animo di chi non sente un amico da tanto tempo e si attende il racconto di una vita trascorsa ma non condivisa. Io e Giulia non siamo amici. La nostra conoscenza passa per poco più di un nome. In fondo, però, sono io ad aver raccontato qualcosa di Giulia. In fondo, Giulia è passata per le mie parole. Mi spiego? Ci sono state delle ore, quelle di scrittura del pezzo, in cui Giulia era tutta la mia realtà. Devi essere fedele, estremamente fedele, alle storie che racconti. Cosa vuol dire? Vuol dire che devi volere bene alle tue storie, che devi dare tutto per le storie, che devi averne profonda cura perché a qualcuno arriveranno attraverso il tuo filtro. E se non sarai attento, se non vorrai abbastanza bene a ciò che racconti, lo racconterai male. Gli farai un torto, un grave torto. Una forma di trascuratezza indegna. Come invitare un amico a casa e poi non dedicargli tempo. Se non hai tempo, meglio non invitare nessuno. Se non sei attento alla tua storia meglio lasciarla ad altri. Anzi, se le vuoi bene hai il dovere di lasciarla raccontare ad altri. Così da Giulia ho voluto sapere proprio tutto del futuro di quella promessa.
G: «Purtroppo devo dirti che non sono ancora andata a nessuna gara con papà ma lo farò presto. Te lo ho promesso!»
S: «Con questa situazione, immaginavo. Chissà quando sarà quel "presto..."»
Istintivamente ho provato a portare il discorso su altri temi. Vero che a quella promessa tengo molto, che non vedo l'ora che quel giorno arrivi perché sono certo che vedrà un padre e una figlia emozionati, però alle promesse bisogna lasciare il loro tempo, affinché si avverino con delicatezza. Affinché non diventino scadenze da rispettare ma volontà palpitanti. Il mio tentativo però ha poco successo, Giulia ritorna sul tema.
G: «Non ti ho scritto per dirti questo. Ti ho scritto per dirti che avevi ragione»
S: «Non puoi ancora saperlo. Se avrò avuto ragione me lo dirai quando ci ritroveremo ad una gara. Succederà»
G: «E invece lo so già. Dall'altro pomeriggio»
S: «Sei riuscita a vedere qualche gara dal vivo? Ma come? Non ce ne sono»
G:«No, non sono stata ad una gara però ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima»
S: «Raccontami»
G: «L'altro pomeriggio sono passata dalla sala mentre papà stava vedendo una gara in televisione. Credo una delle solite repliche che ormai conosce a memoria ma mio papà è così. Non si stanca mai. Beh mi sono seduta lì con lui. Non lo avevo mai fatto»
Ero contento, così contento che ho sciolto subito quella domanda che mi facevo dall'inizio del racconto: «Ti è piaciuto?»
G:«No, è stata una gara noiosissima. Non succede nulla per interi minuti, non so come facciate voi. A me ad un certo punto cala il sonno. Papà vede ore ed ore di dirette... che pazienza!»
Ho risposto con un silenzio più lungo del solito. Amareggiato, con una profonda sensazione di aver fallito. Ho ripensato a quell'uomo e al suo desiderio. Me lo sono immaginato dopo quella gara, deluso dal fatto di non essere riuscito a far capire alla figlia cosa provasse davanti a quelle biciclette. Ho immaginato ma ho immaginato male.
G: «Sapevo sarebbe finita così. Il ciclismo non mi piace e gli sforzi tuoi e di mio papà non cambieranno nulla. Mi spiace. Però ora sono ancora più convinta del fatto che andrò a qualche gara con papà. A costo di annoiarmi»
S: «Perché?»
G: «Perché, ad un certo punto, non so cosa stesse succedendo in corsa, papà si è esaltato. Ha fatto un balzo avanti sul divano e mi diceva: "Guarda, guarda, ora va via da solo". Dovevi vederlo! Ad un certo punto ha messo una mano sul mio braccio e ha stretto forte. Lui quando è felice fa così, anche quando faccio qualcosa di bello fa così. Credo sia come dire: "Sei forte". Non lo so esattamente ma se lo fa è perché è felice. A cena mi ha anche ringraziato per essere stata con lui a vedere la corsa ma non serviva. Avevo già capito di averlo fatto felice. Basta davvero poco per far felice qualcuno, no?»
Sì Giulia, basta davvero poco. Pochissimo. E noi siamo felici come papà.
Grazie per aver mantenuto quella promessa. Ci abbiamo sempre creduto e abbiamo fatto bene.