Marco Villa guarda già a Parigi

«Forse l'idea di dover affrontare i detentori del record del mondo ha fatto tremare le gambe anche alla Danimarca» scherza Marco Villa, CT della nazionale azzurra su pista. Spiega così la medaglia d'oro olimpica nell'inseguimento, dopo cinque anni a dimostrare il valore del lavoro fatto. Villa, da uomo di sport, sa bene che la concretizzazione, in questi casi vale quanto la fantasia. «Nelle prove degli ultimi giorni i tempi delle nostre avversarie erano migliori, non so se sia stata tattica. La Danimarca, poi, negli ultimi due anni aveva quasi sempre fatto meglio di noi». Se dei timori potevano esserci, al quartetto sono sempre arrivati stimoli, risposte e razionalizzazioni. «Vero che i danesi si sono praticamente riportati sugli inglesi in semifinale, altrettanto vero, però, che hanno potuto sfruttare la scia. Lo stesso discorso vale per le qualifiche: molte squadre hanno avuto il vantaggio di potersi basare su dei tempi di riferimento. Ai ragazzi ho detto questo la sera prima».
Marco Villa ha da sempre le idee chiare: le analisi, per essere utili, vanno fatte prima. «In partenza eravamo in vantaggio e non era un caso: sulle nostre tabelle era previsto. Sapevamo che avremmo potuto perdere qualcosa nel finale. Uno era il punto: dovevamo restare dai sette ai nove decimi, perché quei tempi sono nelle gambe di Ganna». Poi gli azzurri hanno festeggiato come chi ha avuto ragione a discapito dei momenti difficili. «La caduta di Lamon durante le qualificazioni a queste Olimpiadi è stato uno dei momenti più difficili, oltre alla pandemia. Si è sempre in tanti e i posti sono pochi. Saremmo stati pronti anche lo scorso anno, lo abbiamo dimostrato».
Villa spiega, razionalizza, chiarisce e soprattutto chiede. «Dopo lo scratch a Elia Viviani ho detto solo: “Elia, cosa sta succedendo?”. Mi ha detto che le gambe c'erano, la testa no. Era stato irriconoscibile. La risposta se l'è data da solo, io non posso entrare nella sua testa o nelle sue gambe. La tempo race non è mai stata la sua gara, ha fatto un'eliminazione stupenda e una grande corsa a punti». Per questo il bronzo di Tokyo vale come l'oro di Rio, perché viene da un periodo difficile. Per questo, se parla di madison, il CT è certo che la coppia Viviani-Consonni abbia molto da dire. «Simone quella mattina non stava bene e una gara di sessanta chilometri non puoi improvvisarla. Sulla base delle circostanze non puoi costruire un'analisi per il futuro. Succede e basta».
Intanto, via verso Parigi 2024. «Il gruppo è rodato con uomini di esperienza, allo stesso tempo ho dimostrato che la strada per i giovani è sempre aperta. Si guardi Milan. È uno stimolo per loro e anche per gli altri perché se non si danno da fare sono sopravanzati». Ora basta chiacchiere, a Parigi mancano solo tre anni.


Malinconica essenza

Quando si hanno giusto quei venti, venticinque anni, si arriva dai piedi del Massiccio di Gorbeia, tra Bizkaia e Álava, si va forte in salita, si ha lo sguardo che più malinconico non si potrebbe, il fascino che si emana è come quello di un romanzo ben scritto, un film che colpisce, che solo cuori freddi come abitassero oltre la barriera del nord potrebbero restare glaciali, indifferenti, apatici.
Mikel Landa, che oggi di anni ne ha più di trenta, con quel ciclismo atipico che viaggia sempre a metà tra il desiderio e la realizzazione, tra il colpo risolutivo e quello velleitario, tra la sfortuna e il successo definitivo, è quel romanzo, quel film, è colui che emana fascino e prova a scalfire gli animi più impenetrabili. Prova a fare breccia nella barriera.
In questa stagione non gli è riuscito molto in verità, quasi nulla; respinto, come quando arrivava al Giro tra i favoriti e alla quinta tappa sbatteva contro il segnale di uno spartitraffico. Oh, no, ci risiamo ancora.
Quei cuori - non quelli glaciali - si sono fermati ad osservare, a soffrire, non c'era più alcun modo per cambiare la situazione, nessun passo indietro o cambio di sceneggiatura. Nessuna finzione, né concetti astrusi e astratti come il landismo.
Si è disfatto il corpo, ha continuato a farsi del male nonostante quella quantità di sconfitte, di incidenti, di discese, di delusioni, avrebbero demolito anche un colosso.
E pochi giorni addietro è tornato alla vittoria a Burgos, dove Landa ha iniziato tempo fa a studiare ingegneria: conterebbe poco come successo se non fosse che uno così ha vinto poco. Sulfurei, in molti sostengono che, nonostante tutto, Mikel Landa difficilmente potrà vincere la Vuelta che parte oggi, ma soprattutto non potrà nemmeno andarci vicino.
«Il mio desiderio? Vincere una tappa, salire sul podio. Il momento più difficile dopo la caduta al Giro? Non partecipare alle Olimpiadi, non essere in questo circo che a vederlo da fuori ci sono momenti in cui non ne vorresti più far parte» racconta Landa sulle pagine di AS.
Chissà, amanti (a volte) delle storie a lieto fine ci aspettiamo qualcosa dalle tre settimane in terra spagnola e il conto con la sorte prima o poi dovrà dare qualcosa indietro al buon Mikel Landa, basco, scalatore, difficile da non amare. Nonostante tutto, o forse proprio grazie alla sua malinconica essenza d'antan.

La voglia di normalità di Fabio Aru

Leggere il suo nome fra gli otto Qhubeka NextHash che parteciperanno a La Vuelta al via sabato, ci ha fatto piacere non c'è che dire. L'uomo Aru che è esattamente l'Aru corridore, che merita rispetto per i suoi tentativi di provarci, di stare a galla, di riuscirci anche a costo di fallire.
Di rispondere alle critiche come se poi essere Aru dovesse cambiare qualcosa più a noi che a lui; essere Aru nella sua normalità, quella del corridore, dell'uomo che ci prova sempre e comunque. Che sprofonda e ritenta, che ingoia delusioni e prova a dribblare critiche - a volte sacrosante quando espresse con giudizio, a volte, troppo spesso, ingiuste, pesanti. Che più che critiche sembrano lo sfogo amaro di chi aspetta sempre un passo falso altrui.
Ci riprova: in quella Spagna dove conserva alcuni fra i suoi migliori ricordi: «La mia prima Vuelta è stata nel 2014: ho vinto due tappe e sono arrivato tra i primi cinque della classifica generale. Nel 2015 ho vinto la Roja è stato fantastico: mi ha davvero cambiato la vita» ha raccontato poche ore fa.
Sarà il ritorno in un Grande Giro dopo il ritiro al Tour 2020 che lasciò scorie nella sua giovane testa e nelle gambe già usurate dal tempo, e portò al divorzio con la sua vecchia squadra.
Non interessa se "a parlare sarà la strada", come si direbbe, perché essere Fabio Aru risulta poi troppo spesso un tentativo di dimostrare qualcosa a chissà chi; a chi gli fa i conti in tasca, a chi la prende sul personale per i risultati che non arrivano, come se fosse la loro vita a dipendere dai piazzamenti di Aru e non quella di Fabio.
Oggi leggere il suo nome tra i partecipanti alla prossima Vuelta non può che riempirci di piacere, a prescindere dai risultati, e da quello che verrà. "Dalla parte di Fabio Aru", anche questo si è scritto e letto spesso nei mesi scorsi. Oggi l'intento è quello di schierarsi di fianco a lui e alla sua voglia di normalità. Al desiderio di attaccarsi un numero sulla maglia e correre, faticare, sudare, come uno dei tanti. Comunque andrà la corsa a noi interessa il giusto: forza Fabio, allora, dietro la sua voglia di normalità si nasconde l'amore per la bicicletta.


British Legacy

Una foto che assume diversi significati tra i quali l'ispirazione per chi inizia a correre, per chi sa che non deve mollare perché nella vita non si sa mai. Soprattutto quando inizi a fare qualche sport e magari chiudi gli occhi e ti immagini un giorno sul podio dei Giochi Olimpici.

Una foto che pare raccogliere direttamente l'eredità su pista dei Clancy, Wiggins, Thomas, Cavendish, eccetera.

Una foto che ritrae il podio della madison agli "School Games" inglesi del 2014. Li avrete anche riconosciuti (uno di loro sicuramente): i quattro ragazzi al centro (qui poco più che quindicenni) corrono nel World Tour, ma non solo. Tre di questi escono da Tokyo dopo aver conquistato titoli e medaglie. Sapete chi sono?

Togliendo il primo e l'ultimo, non sappiamo chi siano, da sinistra ecco Matthew Walls, BORA-hansgrohe, ventitré anni. A Tokyo oro nell'omnium e argento nella madison. Ma su strada si è già fatto notare, veloce e resistente: sì farà, ha le doti giuste.

Di fianco a lui: Ethan Hayter, INEOS Grenadiers. Ventitré anni li compirà fra qualche settimana e lui tra i giovani britannici è sempre stato ritenuto quello più interessante. Un predestinato, secondo la stampa di casa sua. Nel 2019 il Telegraph lo inserì tra gli otto profili da seguire - tra tutti gli sport - in vista di Tokyo.

Torna a casa con l'argento - conquistato in coppia proprio con Walls - e su di lui un certo Ed Clancy, leggenda della pista mondiale, disse, dopo che i due condivisero l'oro nell'inseguimento a squadre nella rassegna iridata del 2019, «A vederlo non sembra sia così giovane. Ha fatto due giri e mezzo in testa e ci ha strapazzati. È un po' come il prescelto, the choosen one. Tempo fa stavo guardando Matrix e ripensandoci mi sono sentito un po’ come Morpheus quando incontra Neo». Insomma, non stiamo nemmeno ad elencare quanto ha già vinto su strada Hayter, nelle categorie giovanili, possiamo immaginare quanto potrà vincere tra i professionisti - e in realtà ha già cominciato.

Scorrendo, sempre verso destra: Fred Wright. Lui forse è quello che, anche per caratteristiche, fatica di più a emergere, ma di questi è l'unico ad esempio, che ha già corso il Tour. Traguardo non di poco conto.

L'ultimo è il più conosciuto e riconoscibile, non serve nemmeno fare il suo nome. Del suo già noto palmarès non serve dire altro. Del suo potenziale, di quanto va forte e andrà ancora più forte nemmeno. Di quanto è piccolo rispetto ai suoi compagni di viaggio lo si vede a occhio.

Un foto che è passato, che è futuro e che per loro rappresenta un luminoso presente. L'eredità inglese si è fatta ingombrante: spalle larghe, talento, un insegnamento a crederci. Da una medaglia ai Giochi Scolastici a una ai Giochi Olimpici. Sembra un sogno di ragazzi, non lo è.


Sempre Peter Sagan

Trentuno anni, più di cento vittorie in carriera: pare siano 118, ma quando superi il centinaio, fa lo stesso, dicono.
Trentadue anni quando vestirà ufficialmente la maglia dei francesi del Team TotalEnergies che dà fondo al budget per fare suo uno dei corridori che ha cambiato, o almeno ha provato a farlo, il modo di intendere il ciclismo.
Di tanto in tanto sopra le righe, spesso spettacolare, sempre sorridente. Atteso, a volte fuori luogo, ma tifatissimo. Mangia caramelle gommose a fine corsa, impenna in salita. Le sue esultanze piacciono al pubblico e fanno innervosire alcuni suoi colleghi.
Tre mondiali, un Fiandre, una Roubaix, due tappe al Giro, dodici al Tour, tre Gand Wevelgem, sette maglie verdi. Quando è venuto in Italia è sembrato una copia un po' sbiadita del Sagan amato per i suoi successi, eppure ha vinto, nel 2020 persino andando in fuga. Ma a noi sarebbe andato bene lo stesso, pure senza successi.
In Francia, come impone la tradizione di alcuni grandi capitani del ciclismo, si porterà dietro i fedelissimi: il fratello Jurai, Bodnar e Oss.
È vero, sembra ieri quando a 20 anni vinceva due tappe alla Parigi-Nizza, oggi inesorabilmente la sua parabola è discendente, ma resta sempre Peter Sagan, benedizione per il ciclismo, uno dei corridori più divertenti e amati dal pubblico. Comunque andrà la sua ricerca della vittoria con la sua nuova maglia, quello che ha fatto per il nostro sport non si scorda. Sempre alvento, sempre Peter Sagan.


Essere donna

Se si chiede a Laura Kenny come gestire una carriera impegnativa essendo madri, lei risponde che il segreto è di non farsi mai convincere a fare ciò che non si vorrebbe fare. «Devi tornare quando vuoi tu. All'inizio non volevo lasciare Albie e se non vuoi lasciare tuo figlio, non devi sentirti obbligata dalla società» ha detto in un'intervista. Ora Albie ha quasi quattro anni e lei, stamani, a Tokyo ha fatto segnare il secondo tempo nell'inseguimento a squadre con la Gran Bretagna. Kenny alle Olimpiadi ha vinto l'oro in ogni gara a cui ha partecipato e punta a ripetersi per un record storico.

«Non penso al record - spiega a Velonews - ma a fare il mio dovere e a vincere. Ho sempre fatto così». Kenny, parlando di se stessa, parla di tutte le donne con famiglia: per fare bene in sella, o in qualunque lavoro, alle donne serva fiducia, cosa che spesso manca. Lei con quella fiducia rompe gli schemi. «L'inseguimento a squadre è la disciplina a cui come Gran Bretagna ci dedichiamo di più. Perché non facciamo lo stesso con le altre?». Il cambiamento è avvenuto grazie a Monica Greenwood, la nuova allenatrice.

Laura Kenny ha iniziato ad andare in bici con sua madre che voleva perdere peso e a suo figlio Albie non ha mai chiesto nulla del ciclismo: vuole solo che abbia ricordi felici dell'infanzia come li ha lei. Ha rischiato di non essere a Tokyo, e domani, comunque vada, farà un altro passo nella storia di questo sport.


Il sogno di Bethany

Mamma Kate si è svegliata alle 2 di venerdì mattina e con lei tutti gli abitanti di Finchingfield, Essex, sud est dell'Inghilterra. Hanno urlato verso la tv: «Continua a pedalare! Continua a pedalare!»
La piccola comunità inglese si è svegliata alle 2 di mattina per vederla agitare le gambe, assecondare dossi, prendere rischi assurdi, pennellare paraboliche sulla BMX, sport che ancora cerca il suo spazio all'interno del vasto mondo delle due ruote: spettacolare, adrenalinico, scenografico, che fa storcere un po' il naso ai puristi della fatica, ma acquisisce piena visibilità in mezzo al programma olimpico.
Bethany "Beth" Shriever ha fatto la storia delle due ruote in Gran Bretagna, letteralmente impazzita per la ventiduenne ex assistente insegnante in una scuola elementare, che, per realizzare il sogno di essere a Tokyo, qualche anno fa ha dato il via a un crowdfunding per allenarsi e gareggiare.
La federazione britannica, dopo Rio, aveva rifiutato di finanziare il progetto legato alla BMX femminile: avrebbe supportato solo quella maschile. Non ha mai mollato Shriever, nonostante le difficoltà per l'assurdità della vicenda, nonostante fosse l'unica ragazza in squadra, nonostante gli infortuni, nonostante la pandemia che negli ultimi 18 mesi le ha impedito di gareggiare. Nonostante l'ansia crescente a casa dopo che suo padre Paul aveva perso il lavoro.
L'obiettivo era arrivare a Tokyo e in questo la British Cycling solo nelle ultime stagioni ha aiutato Beth, che a 9 anni si innamorò follemente delle BMX. A patto però di mollare tutto e trasferirsi a Manchester: e lei lo ha fatto. Dopo che per quasi sette anni si è dovuta arrangiare da sola e con l'aiuto di mamma Kate e papà Paul.
L'obiettivo, a Tokyo, era andare avanti ma senza grandi obiettivi: turno dopo turno è arrivata la consapevolezza di vivere una favola. Beth capisce di trovarsi sempre più a suo agio in pista, vincendo le tre manche di semifinale, e strabiliando nei 45'' della finale per l'oro, in un testa a testa con la leggenda Pajon: un arrivo da vedere e rivedere.
«Sono letteralmente devastata. Sono sotto shock» racconta Bethany stramazzata a terra alla fine della corsa vinta.
«Non so cosa succederà quando rientrerò a casa» conclude, incredula, mentre sua madre: «Quello che ha fatto Beth ha dato un significato a momenti terribili, ma vuol dire che chiunque può crederci, chiunque, lottando, può inseguire il proprio sogno».
Pochi minuti prima, la Gran Bretagna, sempre nella BMX conquistava l'argento con Kye White, nella prova maschile, che al termine della gara vinta dalla compagna di squadra, si lanciava in pista per sollevarla da terra e portarla in trionfo tra le sue braccia. «Più che per la mia medaglia, sono commosso per Beth. So quello che ha fatto, i suoi sacrifici, lo stress che stava vivendo in questi giorni. Dopo le prime prove sono andato da lei che piangeva e le ho detto: Beth, non temere nulla, stai andando forte». Così forte da ritrovarsi campionessa olimpica.


Baffi, record, sterrati, ovvero Ashton Lambie

Dietro i baffoni a manubrio che gli danno un tono stile inizio '900, si nasconde la storia di uno dei più incredibili personaggi del ciclismo mondiale: Ashton Lambie. Prima di iniziare a sfidare Filippo Ganna su pista, correva nella scena gravel – e in realtà lo fa ancora.
«Il momento più duro della mia vita?» racconta in un'intervista a Bicycling.com «la Dirty Kanza del 2016». Solo, con il deragliatore rotto, distrutto dal caldo, arrivò a un passo dal ritiro. Concluse la corsa al sesto posto dopo aver telefonato alla moglie che lo convinse a non mollare.
Insieme alla moglie, insegnante di musica, vive in una fattoria nell'Arkansas; ha un dottorato in musica, suona il pianoforte e la fisarmonica, mette mano ai motori di auto e camion, ha una piccola segheria dove crea mobili e oggetti di ogni genere. A casa sua girano per le stanze due conigli d'angora: si chiamano Jacques e Marie.
Gravel, velodromi ma anche grass track. «La prima volta che ha visto una pista d'erba, ha preso in prestito una bici e ha stracciato tutti», raccontano, come fosse una leggenda, una storia di quel Tolkien che lui ama alla follia, tanto da ascoltare continuamente l'audiolibro del Signore degli Anelli nei suoi interminabili viaggi in bici.
Nel 2019 si è spezzato il suo sogno olimpico. Inizialmente non sapeva nemmeno cosa fosse il sogno olimpico. Ma gara dopo gara cresceva l'affiatamento e la voglia di trascinare il Team Usa dell'inseguimento verso Tokyo. Perso l'ultimo posto disponibile, superati dal quartetto svizzero, il giorno dopo quella gara di coppa del mondo in Scozia, Lambie prese la bici e organizzò un giro da Glasgow a Edimburgo.
Ma non è solo estro o racconto a metà tra realtà e finzione, Lambie è anche forza: un giorno in una gara a eliminazione su pista scattò al primo giro e doppiò tutti. Ha sfidato, perdendo, Filippo Ganna; ha fatto segnare il record del mondo dell'inseguimento, venendo poi superato nuovamente dall'italiano. La voglia di inseguirsi e acchiapparsi si evolve anche a distanza. Ha lanciato un programma di bike sharing, chiamato Bronco Bikes, e nel 2015 ha percorso, in Kansas, 400 miglia in 23 ore e 53 minuti.
Pochi giorni fa sui social ha svelato la sua nuova sfida: «Il 6 maggio 1954, Roger Bannister ha corso il miglio in meno di 4 minuti. Un'impresa che molti pensavano impossibile per decenni prima del suo tentativo. Ha resettato l'asticella nel mondo della corsa a piedi. Il 18 agosto 2021 cercherò di rompere la stessa barriera nel ciclismo su pista percorrendo 4 chilometri in meno di 4 minuti. Negli ultimi anni abbiamo costantemente abbassato il record mondiale di inseguimento, rendendo la barriera dei 4 minuti non un sogno, ma un fatto inevitabile». Un sognatore concreto si nasconde dietro quei baffi e gli intensi occhi azzurri. Lambie, carismatico pedalatore d'eccellenza a caccia di imprese.


Sveglia presto, ricordi ed epiloghi azzurri

Mentirei se dicessi di avere un ricordo nitido e preciso della prima edizione dei Giochi vista: Seul '88. Chiudo gli occhi e vedo Gelindo Bordin che taglia il traguardo con il fisico come in preda a degli spasmi di fatica, si china, con una faccia che sembra un santo, e bacia per terra. Era mattina prestissimo, era la maratona. Gelindo Bordin che poi, scherzo del (mio) destino da appassionato, è cugino di Marco Canola vincitore di una tappa al Giro nel 2014.
Mi faccio più serio se ripenso invece al ciclismo olimpico: Barcelona '92, ricordo vivissimo di quel 2 agosto e della vittoria di Fabio Casartelli, così come è impossibile dimenticare Richard, Ullrich, Bettini, Sanchez, Vinokurov, Van Avermaet: ogni vittoria ben caratterizzata dai percorsi, dall'atmosfera, e dal fascino della frittura globale e totale dei Giochi.
Fascino. Ecco forse la parola che racchiude le settimane olimpiche e che stanotte (o mattina dipende dall'orologio biologico di ognuno) ci spingerà alla sveglia presto per vedere la prova in linea. Fascino dei Giochi: dove contano le medaglie, persino un terzo posto verrebbe accolto con entusiasmo. Fascino di un percorso che sale verso il Monte Fuji, roba da cartolina, poi sale verso il Mikuni Pass, roba da spaccarti le gambe, e arriva in autodromo. Fascino nel vestire la maglia della propria nazionale. Di sapere di avere a casa gente che magari non sa nemmeno chi sei, ma per una volta fa il tifo anche per te.
Imprevedibilità è il tormentone. Una corsa impossibile da leggere: farà caldo, ma soprattutto umido, ma è prevista anche pioggia e forse vento. Il percorso è duro, e nel ciclismo del 2021 non è che premia gli scalatori, premia corridori completi, da grandi giri (Pogačar e Roglič nomi ricorrenti), oppure quel fuoriclasse che è van Aert, che è un po' tutto. Ho provato a mettere assieme qualche nome e ne verrebbero fuori una trentina: sloveni, belgi, olandesi, francesi, spagnoli, canadesi, svizzeri, danesi, tedeschi, polacchi, sudamericani. Scegliete voi chi vi aggrada di più.
E mentiremmo tutti se dicessimo di non essere emozionati al pensiero della gara di domani. Sveglia puntata alle 4, e via. Colazione olimpica. Una volta ogni tanto si può, si deve, come quella volta a Seul, magari con un epilogo (azzurro) stile Barcelona o Atene.


Dietro le quinte

«Nella durezza di questi momenti, trovo sempre un aspetto positivo. Ogni esperienza è un tassello che aggiungo al mio bagaglio perché non dimentico mai quanto ho spinto per arrivare in cima, ma è restarci la sfida quotidiana».
Jacopo Mosca, qualche settimana fa durante il campionato italiano a cronometro, è caduto rovinosamente a oltre settanta chilometri all'ora. In quest'intervista https://racing.trekbikes.com/.../the-extraordinary..., il dottore che lo sta curando, e lo stesso Mosca, raccontano le difficoltà per via delle numerose fratture, uno pneumotorace, un'infezione, le notti insonni preoccupato per il suo futuro agonistico.
Oggi, Mosca, testardo, come ama definirsi lui, cerca di recuperare, la stagione è ormai andata, ma lui si concentra sul 2022.
Perché parliamo di Jacopo Mosca? Perché la sua carriera da corridore è un inno alla resistenza, simbolo della perseveranza. Perché nonostante i buoni risultati qualche stagione fa sembrava tagliato fuori dal professionismo «La Wilier mi lasciò a casa e quando ci ripenso, sono ancora perplesso. Mi è stato detto che non avevo le capacità per essere un corridore professionista».
Poi, dopo essere sceso nel circuito Continental, arrivò una chiamata per sostituire Irizar, ritiratosi dall'attività agonistica, e da lì la Trek-Segafredo sembra non possa più fare a meno del suo fedele servizio. «Ci sono pochi corridori seri e affidabili come lui: ce lo teniamo stretto», racconta Guercilena, il Team Manager della squadra italo americana.
Perché dietro i successi dei capitani, c'è sempre un uomo, prima ancora che un corridore e Jacopo Mosca è uno di quelli che non si stanca mai di tirare per sé e per gli altri.
Robusto: esaltazione della consistenza; il suo è un modo per far percepire come, nel ciclismo, per vincere, servano anche grandi lavoratori dietro le quinte, non comparse.
Coloro che caratterizzano una storia, portano borracce, tirano il gruppo, spingono in fuga e se hanno un compagno con loro, allora in quella fuga si dedicheranno agli altri.
Sempre una parola di conforto, un po' di watt a disposizione del prossimo. Così fanno quelli come Jacopo Mosca, che vanno benino ovunque, ma non così forte da togliersi soddisfazioni personali. «Me la cavo ovunque - ci raccontò tempo fa - ma sia in salita che in volata trovo sempre qualcuno più forte di me». Che vada forte o piano, non interessa, oggi Mosca lotta per riprendersi il suo posto.