Spingere Wout van Aert

Secondo, secondo, secondo, secondo, secondo. No, non ci si è incriccato il cervello e nemmeno incantata la tastiera. Se ci pensate bene il ritornello assomiglia al ruolino di marcia di Wout van Aert tra prove olimpiche e mondiali, appuntamenti iridati nel ciclocross e su strada: parliamo più o meno degli ultimi 12 mesi.
Due volte secondo nel 2020 ai Mondiali di Imola: prima nella crono dietro Ganna, poi pochi giorni dopo nella prova in linea, dietro Alaphilippe.
Secondo poi al mondiale di Ciclocross a Ostenda dietro van der Poel; secondo qualche mese fa a Tokyo dietro Carapaz, secondo domenica dietro Ganna. E più che un ritornello sembra diventata una sorta di maledizione per lui che in carriera, almeno quando si infangava con regolarità, le sue maglie iridate le ha vinte.
Ma quella di questa domenica è la medaglia d'argento che fa più male, perché spinto dal suo pubblico che a un certo punto goliardicamente faceva persino segno a Ganna di rallentare all'imbocco di una strettoia.
Spinto dall'idea di consacrarsi numero uno del ciclismo mondiale dopo aver vinto quest'anno 13 corse tra cui Gand-Wevelgem, Amstel, campionato nazionale in linea, 3 tappe al Tour e 2 alla Tirreno Adriatico.
Spinto da un motore che è un tutt'uno con la testa: chi la conosce la descrive come senza eguali. Un motore che gli permette di andare forte in salita, in pianura, in volata. Una testa che lo ha fatto ripartire dopo un incidente drammatico al Tour di un paio di anni fa. Che lo fa spingere oltre ogni limite, perché a trovarne di corridori che ieri lottano con Ganna, domani con Pogačar e Alaphilippe, dopodomani con van der Poel.
Alla fine della prova di domenica ha abbracciato Ganna, nonostante tutto, a dimostrazione dello spirito e del rispetto che trasmette il ragazzo di Herentals.
Si è dichiarato deluso, non poteva essere altrimenti, e ha aggiunto che da un punto di vista razionale perdere una crono per 5 secondi da un "super specialista", così lo ha definito, come Ganna, normalmente sarebbe una gran cosa, ma resta un argento che brucia, perché arrivato in casa e dopo essere stato in testa per due terzi di gara.
Dice, poi, van Aert che analizzerà la gara con calma da lunedì, ma che in realtà un'idea su dove ha perso la corsa ce l'ha: in un punto ha rischiato di cadere, e poi nel finale, tra Damme e Bruges, Ganna ha spinto nettamente più forte.
Domenica, tra i tanti corridori al via, abbiamo già trovato per chi simpatizzare: nessuno ce ne vorrà. Abbiamo trovato chi spingere con forza verso il traguardo per vederlo a braccia alzate - se proprio non dovesse essere qualcuno in maglia azzurra.
Siamo schietti, un Wout van Aert iridato non ci dispiacerebbe. O almeno che non arrivi di nuovo secondo, ecco.


Il viaggio di Luis Ángel

Luis Ángel Maté ci scrive intorno a mezzogiorno: «Sono a casa con il bambino e sta dormendo. Vi scrivo più tardi, così non lo svegliamo». Passano pochi minuti e a squillare è il nostro telefono.
Luis sa bene che vogliamo parlare de “La Vuelta de la Vuelta" ovvero del suo ritorno in Andalusia in bicicletta da Santiago de Compostela, luogo di conclusione della Vuelta e meta di pellegrinaggio per molte famiglie. Ci sono voluti sei giorni e poco più di mille chilometri. Nel frattempo, Luis è tornato a respirare.
«Eravamo alla Parigi-Nizza, dopo una tappa stressante, al traguardo c'era la solita folle corsa alle borracce, ai massaggiatori e ai pullman. Le nostre corse non finiscono al traguardo, bisogna saperlo. Sfrecciai accanto a Michele Scarponi e lui mi richiamò: “Luis, fermati”. Michele mi fissò e prese un forte respiro invitandomi a fare lo stesso. Scoppiammo a ridere, però, come spesso accadeva con lui, dietro la battuta c'era una profonda serietà. Mi invitò a prendermi il tempo di respirare, almeno all'arrivo. Non siamo abituati a farlo». Da quel giorno, Luis ci ha pensato spesso e, soprattutto, ci ha pensato quando ha immaginato questo ritorno in bicicletta da Santiago de Compostela.
«Se guardassi solo al mio lavoro, non riconoscerei più la bicicletta, non saprei più perché l'ho scelta e perché, ancora oggi, quando qualcuno mi dice che la bicicletta è il mio lavoro rispondo che è molto di più». Per un professionista il ciclismo diventa stress, watt da sviluppare, allenamenti, grammi da perdere, pasti contati e ansia di controllare sulla bilancia che il peso non sia aumentato. Luis Ángel non può adeguarsi a questa idea, per questo ha progettato questo viaggio. «Voglio raccontare alle persone una storia diversa. Voglio dire che la bicicletta è il primo mezzo di emancipazione di un bambino, che in bicicletta hai il diritto di avere tempo per guardarti attorno e vedere ciò che ti circonda, che è un modo di vivere, incontrare persone e comunicare. Tutte le informazioni e l'attenzione alla performance di cui il ciclismo si è circondato hanno aiutato a formare altri campioni, ma siamo certi che non ci si perda più di quanto si guadagni? Noi non ci rendiamo nemmeno conto di dove siamo».
Maté ne è certo. Ha attraversato tutta la Spagna e sa descriverne i minimi dettagli: dal verde e dall'umidità della Galizia e del nord del Portogallo, al clima mediterraneo del sud della Spagna. Il percorso, Luis l'ha studiato nei dettagli, prima di partire: «Normalmente quando viaggiamo scegliamo il percorso più comodo o più veloce per andare da un punto all'altro. In questo modo mi sono allontanato dalle strade conosciute e ho percorso stradine nascoste, spesso deserte perché nemmeno la gente del posto, presa dalla quotidianità, sa che esistono. Ci sono monumenti e viste rare».
E poi la possibilità di fermarsi a un bar e raccontare al barista da dove si viene e dove si sta andando. Di pranzare e cenare senza fretta o di visitare un piccolo negozio locale. Di vedere ragazzi e ragazze che in Portogallo cercano strade nuove da percorrere. Qualche volta di chiacchierare con un contadino. «Ho capito che è proprio vero: tutto quello che ho, me lo ha dato la bicicletta. Non il ciclismo, non il mio lavoro, la bicicletta pura e semplice attraverso cui sto imparando a conoscere il mondo e anche me stesso».
Luis ha viaggiato con Antonio Ortiz, ex professionista di Mountain Bike e suo amico da tempo. «Quando fatichi senti la necessità di avere vicino qualcuno che ti conosca e ti capisca. Qualcuno con cui parlare di tutto o di niente alla sera». Magari insieme a qualcuno che hai appena conosciuto perché la bicicletta è anche un mezzo di socializzazione. «Non importa che tu parta da solo o con amici. Lungo la strada conoscerai persone e storie». E, ci viene da dire, la vera ricchezza sta tutta qui.


Anche se ti chiami Valverde

Il finale di stagione di Alejandro Valverde non era quello che lui si immaginava, quello che i suoi tifosi sognavano, quello che i suoi colleghi pensavano - o temevano - vedendolo (in crescita di condizione) da vicino, alla Vuelta.

Poi una caduta, brutta, anzi, orrenda. In testa al gruppo a fare le linee giuste, ma di conserva, come gli sarà accaduto centinaia di migliaia di volte; la bici prende una buca, le mani perdono il controllo per un attimo, decisivo, del manubrio. Valverde va giù e, come ha raccontato pochi giorni fa sul sito ufficiale di Fizik: «La cosa che più mi ha colpito, dopo aver rivisto le immagini, è stato rendermi conto di quanto poco spazio fosse rimasto tra il punto in cui mi sono fermato e il burrone. L'incidente è stato molto peggio di quello che sembrava». Gli è andata male, sì, gli poteva persino andare peggio.

Il finale di stagione di Valverde era stato prestampato con caratteri diversi: senza quella caduta avrebbe continuato a tirare forte in Spagna, forse una vittoria (l'ultima l'ha conquistata al Delfinato e gli mancava da quasi due anni), l'avrebbe trovata; senza forse lo avremmo visto al via del mondiale nelle Fiandre, quelle Fiandre dove lui ha corso così poche volte che ci rimarrà un po' di amaro in bocca. Il percorso gli piace, ha detto, ma diplomaticamente sostiene come i suoi compagni siano più adatti di lui. La realtà è che cadere a 25 o a 30 anni è un conto, quando ti succede a 41 recuperare diventa più difficile, anche se ti chiami Valverde.

E quel Mondiale, strano dirlo, non vedrà Valverde per la sesta volta in vent'anni di carriera. Quel Mondiale che lo ha visto vincere nel 2018 e altre sei volte sul podio. E a quel Mondiale non ci sarà nemmeno Rojas che in quella caduta alla Vuelta lo ha soccorso. «Ho visto la sua bici - racconta Rojas, amico e compagno di squadra da una vita, dal 2006, di Valverde - e poi ho visto Alejandro che cercava di risalire tenendosi la spalla. “Fa male, molto male” mi ripeteva. La prima sensazione che ho provato è stato dolore per lui: perché prima di essere un grande corridore, Alejandro è un grande amico».

E lui, proprio perché si chiama Valverde, nonostante la caduta e la frattura, pochi giorni dopo era già in sella e lo rivedremo a breve. Niente Mondiale, sarà sulle strade italiane con poco allenamento però con l'obiettivo, difficile, ma mai scommettere contro gente come Valverde, di provare a vincere quella corsa che ancora gli manca: il Giro di Lombardia, che lo ha visto tre volte secondo. A Bergamo chiuderà la sua stagione, ma non la sua infinita carriera.

Foto: © PHOTOGOMEZSPORT2019


La responsabilità di Anna

Non era facile fare quello che ha fatto Anna van der Breggen. I più diranno che i campioni sono capaci di questo: certo, ma resta difficile. Rinunciare ai Campionati Europei di Trento e alla prova a cronometro mondiale perché non al top della forma, all'ultima stagione da professionista, è un gesto che richiede una responsabilità che, talvolta, sotto la pressione di chi sei e di chi tutti si aspettano tu sia, rischia di sfuggire. Se poi fai parte di quella macchina da guerra che è la nazionale olandese ancora di più.

«Correre una cronometro è qualcosa che puoi fare solo se sei al 100% concentrata sull’obiettivo e con una grande motivazione. Una motivazione che io non ho più perché mi sento già molto soddisfatta per le cronometro che ho corso nella mia carriera e mi sono posta degli obiettivi diversi per questi Mondiali: per la mia ultima volta voglio essere io ad aiutare le ragazze che in questi anni hanno sempre corso per me, per aiutarmi a raggiungere i miei traguardi» van der Breggen lo ha spiegato sui suoi canali social proprio negli scorsi giorni.
Van der Breggen, lo aveva raccontato in un’intervista a Velonews qualche mese fa, già da tempo meditava sulla possibilità di ritirarsi dalle corse per allargare la famiglia: «È stato molto confortante vedere l’esempio di atlete come Marta Bastianelli e Lizzie Deignan, che sono tornate a correre dopo aver avuto un figlio. Per gli uomini questo tipo di problema non si pone: possono tranquillamente portare avanti la loro carriera da professionisti e avere dei figli. Per noi donne si tratta di una questione molto importante, qualcosa che ti cambia la vita. Certo si può sempre pensare di tornare a correre, dopo aver avuto un bambino, ma occorre avere una grande motivazione per farlo. In questo momento per me il desiderio di maternità, soprattutto considerando che mio marito è di nove anni più vecchio di me, è il fattore determinante per cui ho deciso di ritirarmi dal ciclismo professionistico».

Il suo obiettivo, appena scesa di sella, sarà quello di aiutare a crescere una nuova generazione di cicliste, infatti Anna vorrebbe salire in ammiraglia come direttore sportivo nel Team SD Worx, la squadra con cui corre ormai da cinque anni. Anche se in realtà la van der Breggen pare già ragionare da direttore sportivo in corsa, basterebbe vedere il lavoro che ha fatto quest'anno alla Liegi-Bastogne-Liegi per Demi Vollering che poi ha vinto quella Liegi. Nessuno spazio per il protagonismo anche in quell'ultima volta.

Apparentemente timida, indecifrabile, non ha mai temuto di sbilanciarsi parlando di ciclismo. Tempo fa ha placato gli entusiasmi per Cherie Pridham, prima direttore sportivo donna nel WorldTour maschile. Non perché non apprezzi Pridham ma perché ritiene che uomini e donne abbiano competenze e capacità diverse e sia un errore esaltare qualcuno solo sulla base del sesso. Così Pridham non è speciale perché donna, lo è perché competente e perché smentisce quella voce, tipicamente maschilista, secondo cui le donne non capirebbero di ciclismo o di sport. Ed è proprio perché le donne di sport capiscono che auspicano un continuo mescolarsi di competenze e di persone, uomini o donne che siano, nel ciclismo, per vederlo crescere forte.

Foto: Bettini


Per tornare in sella

Per Tom Dumoulin non ci voleva, ma la strada non guarda in faccia a nessuno. Qualche giorno fa, un incidente mentre era in allenamento sulle Ardenne ha messo a repentaglio il proseguimento della stagione che per la farfalla di Maastricht sembra davvero terminata qui.

Siamo certi che la frattura al polso, che pure è la causa dell'infrangersi degli obiettivi di fine stagione, dopo che un automobilista l’ha investito, sia, in fondo, il minore dei problemi per Dumoulin che sin da subito si è mostrato molto deluso. «Ero appena tornato, non ci voleva» ha detto e qui dentro c'è già tutto ciò che non serve dire ma che è necessario capire, soprattutto in un mondo come quello sportivo che richiede freneticamente risultati. Il dolore vero è essere nuovamente fermi, bloccati.

A gennaio, Tom Dumoulin aveva scelto di fermarsi a tempo indeterminato «per scrollarsi una zavorra dalle spalle, per capire cosa effettivamente volesse, per scoprire chi fosse davvero l’uomo Dumoulin» spogliato della maschera di campione e di ciclista esemplare. Era tornato con i suoi tempi, in punta di piedi. Era tornato soprattutto a osservare il ciclismo da bordo strada come un tifoso qualunque prima di tornare a far girare i pedali, quasi gli servisse avere una visione d'insieme del proprio sport, quella che si perde quando si è a tutta, concentrati sulla linea d'arrivo. Gli era servito, se è vero che, al rientro, al Tour de Suisse, a giugno, aveva ben figurato e, poco dopo, aveva vinto il titolo nazionale a cronometro.

Mesi in cui tutto era sospeso, perché non basta tornare, bisogna esserne convinti e quando c'è di mezzo la passione, quella che porta un ciclista a scegliere il proprio mestiere, si può sbagliare, si può tornare per paura, non per volontà. Poi il progetto Tokyo 2020 e quell'argento che vale oro. Abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo quando l'abbiamo sentito dire: «Ho avuto seri dubbi, ma ora so che voglio continuare: penso ancora che il ciclismo sia uno sport molto bello». Perché il ciclismo ha bisogno di persone come Dumoulin.

Veniva dal Tour del Benelux in cui era tornato a mettersi in mostra in buone condizioni di forma. Questa caduta non gli permetterà di partecipare alle gare di fine stagione e al Mondiale, gare in cui sperava, ma siamo certi che lo restituirà al suo mondo ancora più forte. Perché a cadere, sia realmente che metaforicamente, si impara col tempo. Come a medicarsi le ferite e ripartire. Tom Dumoulin ha imparato e oggi è certo di una cosa: tutte le cadute gli hanno solo insegnato come rialzarsi. Per tornare in piedi, anzi in sella.
Foto: Bettini


Sopra Trento e poi brindare - TRENTINO 2021 - DAY 6

Sopra Trento c'è questo paesino, Povo, che ci arrivi a piedi uscendo dal centro storico. Si sale ed è facile all'apparenza anche a farlo in bici, eppure, giro dopo giro, mette a nudo forma e difetti dei corridori in gara. I margini, poi, sono accecanti: tifosi ovunque come una di quelle feste che ti aspetti in Belgio e che invece ritrovi in un paesino sopra Trento.
In cima, una decina di minuti prima del passaggio della corsa, arriva un bimbo vestito da piccolo ciclista. Spinge un rapportino, mulina le gambe e tutta quelle gente in festa lo acclama come una gradinata esultante: siamo sul punto più alto e «dopo la curva spiana». Mai modo di dire fu appropriato.

È il tratto più duro, dove Evenepoel cercherà in tutti i modi senza riuscirci di staccare Colbrelli, e lì è parcheggiato da un po' di giorni un camper con una bandiera rossocrociata.
Appartiene ad amici e parenti di Gino Mäder, ma quando passa il gruppo è un colpo al cuore per mamma e sorella: lui è già staccato. Fa nulla, la corsa è esplosa, la corsa è folle, la corsa è corsa. Mäder fa segno "tutto ok" con la mano ai suoi tifosi. Pochi chilometri dopo si ritirerà.

La gente acclama chiunque e comunque. Fan club si sprecano: Sagan, Aleotti, un gettonatissimo Moscon, Colbrelli. Ci sono anche i tifosi di Covi con parrucche tricolori che mi raccontano di seguire tutte le edizioni del Mondiale di ciclismo dagli anni '80. «Tranne quelle che disputano oltre oceano» specificano. E in una di queste gare è nato pure un gemellaggio con un fan club norvegese.

Oggi Covi non è presente, è riserva, ma sperano di vederlo al Mondiale, la forma c'è mi dicono: nei giorni scorsi ha battuto il suo record personale su una salita test vicino casa. Loro comunque in Belgio, Covi o non Covi, ci saranno, ci tengono a precisare sorseggiando una birra in lattina: «Perché Taino è sempre presente».

Un signore con la maglia della nazionale di rugby australiana mi racconta di aver preso le ferie per venire a godersi lo spettacolo di oggi. Sua moglie lo raggiungerà domani e si fermeranno una settimana da queste parti. È belga, figlio di immigrati, dice di essere di origini della Val di Cembra, e secondo lui l'atmosfera che si respira qui oggi è come quella della Freccia o della Liegi.
Pogačar, quando passa, fa una boccaccia verso telefoni che lo filmano come fossero occhi usciti da un racconto di fantascienza; il giro successivo proverà un allungo portando via una fuga che si rivelerà quasi decisiva. Gli islandesi chiudono la corsa, ma non solo. Dopo qualche passaggio seguiranno il camion scopa salendo insieme ad alcune ragazze della loro squadra. Sorrisi, borracce distribuite, foto con i tifosi: il ciclismo è pure questo.

Il ciclismo è tavolini imbanditi di ogni sorta di cibo: ci sono insalate di riso, panini, salsiccia, patatine, ma soprattutto birra e vino. Tendoni con impianti stereo: alcuni mettono musica, altri sparano la Rai a tutto volume e si sente la voce di Ballan che racconta quello che sta succedendo in gara.

In mattinata invece c'è silenzio in zona pullman, un po' di tensione nell'aria. Sonny appare nervoso, me lo rivela un membro del suo fan club. È suo papà, che quando lo vede passare spiega: «lo vedo tirato, forse un po' troppo teso». Poche ore dopo, quando la corsa prenderà la piega giusta per lui, scaricherà quell'impressione di tensione dominando la volata a due con Remco. Diventa campione europeo accompagnato dal boato di tutta Piazza del Duomo.

Alla partenza, invece, un tifoso ferma Trentin e gli dice: «oggi si brinda», in barba alla scaramanzia. Trentin risponde, sorridendo: «brindiamo due volte, stamattina, ok. Ma l'importante sarà farlo stasera».

Foto: Bettini


In cerca di sguardi - TRENTINO 2021 - DAY 5

Lungo la salita di Povo, Ellen van Dijk cerca lo sguardo di Soraya Paladin. La osserva soffrire ma diffida: «è il tipico teatro all' italiana» - dirà sdrammatizzando a fine corsa. Ma in realtà Soraya, a tutta davvero, si stacca.

E mentre van Dijk se ne va un signore mi passa di fianco, andatura leggermente claudicante, mi intima di continuare a godere della corsa, dei corridori, di tutti quei colori, di tutta quella gente: «Tu resta qui, comodo, che io vado a prendere un po' di burro: stasera speck e finferle con la polenta».

Digiuno, riacquisto forza e spirito di osservazione cercando di leggere bene le mosse delle inseguitrici di van Dijk, che tra energie residue e tattiche di gara perdono all'improvviso tutto il margine guadagnato dopo essere arrivate a tanto così dalla sua coda.

In mattinata, durante la prova degli Under 23, accendo Eurosport sul mio telefono; incontro lungo il percorso una ex ciclista della Repubblica Ceca, mi racconta di quando in pista ha sfidato Vos e insiste perché le faccia vedere a che punto sono i suoi compatrioti.

Cerca Toupalik con lo sguardo quando sente i telecronisti dire: «passa davanti un corridore della Repubblica Ceca»; cerca Toupalik con lo sguardo quando il gruppo ci passa davanti pochi minuti dopo a una velocità che sarebbe difficile quantificare a occhio nudo. Dice che per domani tiferà per Štybar (Repubblica Ceca), Sagan (Slovacchia) e «per Italia».

Prima del via cerco gli sguardi dei corridori tra i pullman, provo a capirne atteggiamenti e concentrazione. È ancora presto e un ragazzo polacco sbadiglia e si stropiccia gli occhi, mentre Van Tricht, Belgio, è un perfettino: prima di salire sui rulli e riscaldarsi si guarda intorno, si aggiusta il ciuffo, osserva attentamente la bici, se la fa sistemare; poi non è soddisfatto, se la fa sistemare di nuovo, la prende e ci fa un giro, la molla, entra nel camper e sparisce dagli sguardi dei curiosi - me compreso - attorno.

Ognuno gestisce a modo suo: Garofoli, fuori dal pullman dell'Italia, appare concentrato come stesse facendo una partita a scacchi, mentre Colnaghi alleggerisce la difesa esclamando: «ma guarda che bel popolo quello danese: portano il caffè ai loro corridori».

Il carico sale sulle spalle degli azzurri, corridori di casa, che da lì a poco metteranno in strada una gara (quasi) perfetta. Quel quasi sta per "argento a Baroncini", mica male eh, però, parole sue: «Forse abbiamo sottovalutato la volata di Nys».

Thibaut Nys, che sono fiori nuovi che sbocciano mentre noi invecchiamo: conosciamo ogni giorno figli di leggende che abbiamo visto correre, ma nel caso del figlio di Nys significa aver già battuto (almeno su strada) il padre.

E su quel podio ci sale anche Ayuso, bronzo, che ha fatto fare gara selettiva: lo sguardo è teso a fine gara, è quello del campione che non vorrebbe perdere mai: «Almeno ho dimostrato di essere forte anche allo sprint».

La sua Spagna ha messo giù corsa dura dal primo metro, forse già dal foglio firma: il numero 33, Azparren, ha tirato a lungo. Poche ore dopo lo vedo vicino alle transenne con il sacchetto del rifornimento per le ragazze della nazionale spagnola. Incrociamo lo sguardo, poi lui guarda il gruppo passare, ma le connazionali si sono staccate. Dice qualcosa alla radio, si allontana. La gara per loro è finita da un po', mentre Ellen van Dijk tutta solo arriva al traguardo.


Figli e famiglie - TRENTINO 2021 - DAY 4

"Per i figli questo e altro". La citazione arriva direttamente dalla mamma di un corridore norvegese, Sebastian Larsen, anche se in realtà lei me lo pronuncia in tutt'altro modo, tanto che devo controllore la lista di partenza per capire di chi sta parlando.

«Per i figli viaggiamo in lungo e largo». È sempre lei a dirlo e aggiunge, con un largo sorriso «Venire in Italia è sempre bello e sai perché? Per il cibo!» Ovviamente.
Settimana scorsa lei e il marito erano a La Spezia per il Giro della Lunigiana, ma hanno girato tutta l'Europa per sostenerlo. Sebastian qui rappresenta una delle squadre faro dell'intero movimento giovanile. «Ma la Norvegia oggi sarà tutta per Hagenes» mi confida. Così sarà.

Per i figli ci si concia in ogni modo. Ci sono quelli di Pinarello, con un cartello tricolore con su scritto: "Forza Pinna"; ci sono finlandesi con delle piume di struzzo biancocelesti in testa; ci sono quelli di Francesca Barale che quando lo speaker fa il suo nome tra quelle nel gruppo di testa urlano e battono sui cartelloni come fossero allo stadio.

Quelli di Marta Ciabocco, argento nella prova junior femminile, «Un po' sono a Trento, ma altri mi stanno spingendo da casa». Mentre Hagenes, argento nella prova maschile, qui ha padre e sorella, mi dice.

Alcuni tifosi austriaci hanno la faccia dipinta, mentre quelli di Pija Galof, da Kranj, dicono che per loro essere al seguito della figlia è adrenalina, e la definiscono come una sensazione magica. Ci sono i tifosi di Alec Segaert, pochi giorni fa vincitore della prova a cronometro junior, con uno stiloso cappellino da ciclista nero e la scritta oro. Chiedo se ne hanno uno da darmi, mi ridono in faccia.

Ci sono quelli di Romele che a ogni passaggio urlano «Forza Ale!». Che "Ale" sia davanti o dietro in quel momento non importa, l'importante comunque vada è arrivare: «Perché quando tagliano il traguardo - mi racconta la mamma di Vittoria Guazzini - è un sollievo. C'è sempre un po' di ansia nel seguire le gare; per questo quando possiamo le stiamo vicino. Quando ci sono cadute si passano attimi che non augurerei a nessuno». E papà Guazzini lì vicino, aggiunge, scherzoso, con deciso accento toscano: «Forse l'era meglio la pallavolo».

Per i figli ciclisti c'è apprensione. «Abbiamo sempre un sacco di bende a casa» è la battuta con cui apre la mamma di Brennsaeter, altro ragazzo del nord. È pieno di genitori-tifosi norvegesi che riempiono tutte le vie lungo il circuito. «Ma noi seguiamo i nostri figli perché succede una sola volta nella vita di vederli difendere la maglia della nazionale. La sola idea mi mette i brividi». Più che paura di quello che potrà succedere domina il nervosismo nel seguire la gara: «D'altra parte non puoi avere paura: loro assorbono tutto».

I figli sono anche nipoti e difatti incontriamo il nonno di Barbara Malcotti. Barbara corre la prova Under 23 e la segue un club niente male che comprende intere generazioni: genitori, nonno, fratelli, zii e con loro un gruppetto numeroso di piccole cicliste con campanacci e trombette. Di fianco, "gli adulti" vestono tutti una maglia con scritto "Forza Barbara". «Siamo venuti giù da Storo - mi dice, orgoglioso, spiegandomi dove si trova geograficamente - per far sentire la nostra vicinanza e far sentire un po' di clima gara a questi ragazzi qua» indicando i piccoli ultras di Barbara.

E c'è un signore con una camicia a righe che negli ultimi chilometri della gara under 23 non riesce a stare fermo, si mette le mani tra i capelli, si guarda in giro nervoso. Quando Silvia Zanardi vince superando Blanka Vas sul traguardo, la piazza esplode, lui reagisce come si reagisce a un gol. Prende il telefono e piangendo riesce a dire solo: «Ha vinto! Ha vinto!». È lo zio della campionessa europea, mentre dall'altra parte del telefono, «la nonna che segue tutte le mie gare», mi rivela proprio Silvia Zanardi, tra il raggiante e il commosso.

Ci sono ragazzi, poi, che sono pura eredità ciclistica, come Lenny Martinez, bronzo tra gli junior e figlio della leggenda della mountain bike Miguel. Scherziamo, entrambi in un inglese più stentato che scolastico, sul fatto che lui e il papà sono due gocce d'acqua, ci fissiamo sul fatto che suo padre oggi non fosse presente, ma che lo consiglia sempre, soprattutto per migliorare tecnicamente nella guida del mezzo. «La corsa che vorrei vincere? Il Tour de France». Per inciso, suo nonno Mariano al Tour conquistò due tappe e la maglia a pois.

E questi figli ciclisti, poi, a fine gara vanno rincuorati come succede con Boris Reinderik. Piange a dirotto dopo il traguardo, viene consolato dai genitori e dalla sorella, si fanno fare una foto da un passante mostrando la bandiera dell'Acterhoek, la regione da dove arrivano. Vittoria o sconfitta, a fine gara, dopo un abbraccio e qualche parola torna il sorriso.

Foto: Bettini


Vittoria e cambiamenti - TRENTINO 2021 - DAY 3

Si potrebbe partire da qualsiasi momento per raccontare questa giornata, così intensa che se la agitassi ti verrebbe fuori tanta di quell'acqua da rinfrescare un pomeriggio caldo, che più caldo non si potrebbe.

«Qui va così: è il tipico settembre trentino», mi racconta Enzo. Fa il volontario e cerca di smistare le persone: tra quelle che vogliono entrare al museo, i corridori che attraversano la passerella per dirigersi al via della crono, semplici curiosi, o giovani tifosi con in mano un foglio stropicciato e sopra indicata la lista di partenza. «Adesso arriva Remco, ora passa Ganna, ora Pogačar» e così via. Affidandosi ad orario e numeri di pettorale. Già scafati.

Si potrebbe continuare raccontando dell'urlo del pubblico strozzato sull'arrivo, in quella sorta di Maracanazo in salsa (infinitamente minore, si capisce) ciclistica, quando Stefan Küng, vincitore potente, elegante, a pieno diritto nell'élite mondiale della crono, si mette dietro per sette secondi Filippo Ganna, il più atteso, il più tifato.

Il livello è così alto che te ne accorgi vedendo gente come Bissegger quarto o Affini sesto, terminare la prova completamente stremati; o Pogačar ancora più indietro, uno che non lo troveresti mai al dodicesimo posto se non, forse, in uno sprint di gruppo.

Te ne accorgi quando Evenepoel, uno che terrebbe il broncio pure se finisse secondo nella volata al cassonetto, afferma: «È un giorno speciale, se guardo a dove ero pochi mesi fa dopo l'incidente al Lombardia, per me è un miracolo già essere in bici, figurarsi stare sul podio di fianco a due così».

Si potrebbe continuare parlando delle crono del mattino quando Marlen Reusser vince quella femminile élite e in un perfetto italiano mi racconta di venire da un paesino conosciuto solo per la sua prigione e che fino a nemmeno troppo tempo fa, in gruppo, non la facevano nemmeno passare per andare davanti. Ora batte tutte, olandesi comprese.

Si potrebbe parlare di Vittoria e Viktoria. Vittoria è Guazzini, gambe muscolose di chi a crono vola, vince l'oro tra le Under 23, la sua gioia è mista alla consapevolezza di avere grandi mezzi.
Viktorija è Senkute che arriva dalla Lituania e oggi correva la sua prima gara di livello internazionale. Quando mi avvicino alla sua ammiraglia per chiedere di scambiare due parole con lei, un membro dello staff lituano sgrana gli occhi: «La nostra Viktorija o l'italiana Vittoria?».

MI racconta, Senkute, di aver scelto il ciclismo al posto del canottaggio praticato ad altissimo livello, lo scorso anno, dopo un grave incidente. Da quel momento il ciclismo non lo ha mai più abbandonato, o anzi, precisa, è il ciclismo che non ha mai voluto abbandonare lei. L'obiettivo agonistico è migliorarsi: «soprattutto a stare in gruppo, è la cosa più difficile di tutte», ma con la bici, afferma, posso trasformare una giornata buia in una giornata luminosa.

Mentre mi spiega qualche altro dettaglio della sua vita, vicino a noi è parcheggiato il motorhome dell'UAE. Tadej Pogačar scende gli scalini, occhialini dorati, cuffiette, inizia a prepararsi sui rulli. Di fianco è parcheggiata una vecchia station wagon con targa lettone; una ragazza scende dall'auto, si prepara e sale in bici per provare il tracciato della gara in linea. Ha la maglia della BORA-hansgrohe, i calzoncini di un'altra squadra e una banana ammaccata nel taschino posteriore.

E si potrebbe chiudere, e così chiudiamo, raccontando di quel ragazzo macedone, Andrej Petrovski, che corre la crono maschile e arriva 33° a 2'30'' dal podio di Remco. Si avvicina al belga e chiede foto e autografo. Trasformeranno tutti, questa calda e intensa giornata, in qualcosa da raccontare al prossimo. Potere del ciclismo.

Foto: Bettini


A che ora passa il treno? - TRENTINO 2021 - DAY 2

«Va forte come un treno!» esclama un ragazzino avvolto in una bandiera tricolore, con una maglia nera e sopra raffigurati Rick & Morty: dalla mattina fino al tardo pomeriggio lo trovi in zona Muse a Trento a fare il tifo per chiunque gli passi a tiro, e quando tra quelli che gli passano a tiro c'è Ganna, si scalda, è incredulo, urla come posseduto.
Filippo Ganna fa proseliti: potrebbe essere diversamente con tutto quello che sta facendo per il ciclismo e per se stesso? Un boato segue il suo annuncio sulla pedana, gente a caccia di autografi lo aspetta fuori dal pullman della nazionale a costo anche di farsi cacciare dallo staff.

C'è un altro ragazzino, questo con una maglietta con su scritto "WolfPack", merchandising Quick Step suppongo, altrimenti sarebbero sin troppe le coincidenze, che probabilmente sogna un giorno di essere proprio come Ganna, come De Marchi, come Sobrero.

Quando Ganna e Sobrero chiudono la loro prova della staffetta mista con un vantaggio consistente su Olanda e Germania - De Marchi ha fatto il suo, ma si è staccato qualche km prima - è tutto sulle spalle delle ragazze: Elisa Longo Borghini, Marta Cavalli, Elena Cecchini. Spalle possenti, un bel motore, unità di squadra («fare parte di questo gruppo è uno stimolo in più», il leitmotiv a fine gara), tanto da chiudere compatte e al primo posto: medaglia d'oro, Campioni d'Europa della staffetta mista, una prova a oggi ancora un po' snobbata, ma che ha il suo fascino in quella sorta di cambio a metà gara tra frazione maschile e frazione femminile, tipologia di gara che esprime bene il valore di un movimento che anno dopo anno cresce quando si tratta di sconfiggere il cronometro.

Oggi il treno italiano è arrivato puntuale, è andato forte, da domani ci saranno tanti vagoncini, e con Ganna e Affini e gli altri ci sarà di nuovo da trepidare. O parafrasando Affini: «Con me e Pippo ci sarà da divertirsi». Immaginiamo già dove sarà e per chi tiferà il ragazzino con la maglietta di Rick & Morty.

Foto: Bettini