L'orgoglio di un giovane campesino

Spesso ciò che distingue un buon ciclista da uno altamente competitivo non è solo il puro talento, ma la capacità di unire alla sofferenza, tratto distintivo di chi sale in bici, la disciplina. Diego Andres Camargo Pineda arriva da El Alisal, vicino Tuta, dipartimento di Boyacá, un posto che faresti fatica a trovare nelle cartine, ma dove il ragazzo conosce proprio la fatica e la disciplina.

Diego Camargo è davvero uno di quelli che si potrebbe definire, senza tema di smentita: "casa e chiesa". Quarto di cinque fratelli, vive con Isidro Camargo e Blanca Pineda, i suoi genitori, in una piccola casa di mattoni. I suoi non volevano assolutamente diventasse un ciclista. Poveri in canna, volevano mandarlo a raccogliere caffè oppure tenerlo lì in casa per badare agli animali della loro piccola fattoria, e difatti, come raccontato da diversi quotidiani colombiani, "quando iniziò a correre in mountain bike i suoi genitori erano fermamente contrari". Immaginatevi poi cosa successe quando Diego cadde in discesa durante un allenamento e si ruppe la testa del femore. Il dolore e la preoccupazione dei genitori che si faceva largo tra i rimbrotti "te l'avevamo detto che sarebbe finita male!". Lo avranno certamente redarguito così.

Ma mettetevi nei panni di chi andava forte in bici. Di chi vedeva i suoi compaesani, i suoi conterranei, corregionali e connazionali sbarcare in Europa, realizzarsi in bicicletta, lasciarsi alle spalle la fame da cui provenivano e permettere ai propri genitori di riscattarsi, regalando loro magari una casa, magari un futuro, comprando un negozio e donandogli una prospettiva ancora più dignitosa. Thomas Blanco, sulle colonne de L'Espectador, ne traccia un interessante profilo dal titolo "La casa dignitosa di Diego Camargo, il nuovo padrone del ciclismo colombiano". Il giornalista racconta le umili origini del ragazzo classe '98, salito tardi su una bicicletta, e soprattutto, come in ogni storia, narra il giorno in cui il suo viaggio comincia.

Era una notte buia e tempestosa. Non è vero, non inizia così il suo racconto, anche se la pioggia da quelle parti cade sempre copiosa. Era un pomeriggio diverso dagli altri per Diego perché era stato invitato con tutto il suo club a prendere parte a una gara di ciclismo. Diego è sconosciuto a tutti, ha poco allenamento e corre con una bici che potremmo definire di un'altra epoca: un vero e proprio rottame di alluminio. «Fin dal primo giro Diego è stato da solo in testa, ha battagliato in modo impressionante con ragazzi più esperti, allenati e che correvano anche su strada. Ha vinto con più di un minuto di vantaggio. E mi ha colpito anche il fatto che non avendo un posto dove mettere la borraccia sulla sua bici, si è fermato due volte al traguardo per chiedere l'acqua. Si è fermato, l'ha bevuta con calma, e poi è ripartito» racconta Ricardo Mesa - il suo scopritore - ai media colombiani.

Non aveva i soldi per comprarsi una bici, e gliela regalò il sindaco di Tuta. Non sapeva andare in discesa, si paralizzava per la paura, e ora corre nelle prime posizioni del gruppo, attento, concentrato, prendendo appunti e cercando di migliorare ascoltando attentamente ogni minimo consiglio. «Va forte a cronometro e in salita come tutti i grandi campioni, ma a differenza di tanti grandi campioni è molto disciplinato. Ascolta i consigli e questo lo ha portato a ottenere risultati. Ha una capacità di soffrire che definirei barbara. Anche questo fa parte del suo talento», racconta sempre Ricardo Mesa, che dal giorno in cui lo scoprì non lo ha mai abbandonato.

Diego, fedele a Dio come fa intendere da ogni suo post su Facebook che inizia con “Gracias a Dios”, è cresciuto di anno in anno, ha iniziato a correre intorno ai 17 anni, ha vinto prima il circuitino vicino casa, poi il giro della sua provincia, poi quello della sua regione, infine, in questo 2020, la Vuelta de la Juventud e la Vuelta a Colombia - per gli amanti delle statistiche è il terzo nella storia a fare questa accoppiata, l'ultimo fu il mitico Oliverio Rincón nel 1989.
Non è basso, anzi, ha il fisico perfetto per uno scalatore, 176 centimetri e una naturale magrezza che gli dona forma longilinea. Cresciuto a quasi tremila metri di altitudine, ha caviglie affilate e pancia affamata come quella di un pugile che tira di boxe per salvare la sua famiglia prima ancora che se stesso. A inizio stagione ha corso con i grandi alla Vuelta a San Juan dando l'idea del suo talento e finendo sui taccuini degli scout sempre affamati, anche loro, nella corsa ad accaparrarsi i talenti più interessanti.

A fine Vuelta, Diego Camargo è stato travolto dalla celebrità che in Colombia assume aspetti amplificati. In televisione hanno urlato il suo nome come fosse quello di un eroe. A Tuta l'altro ieri hanno organizzato una festa in suo onore con tutto il paese: invitati anche celebrità dello sport colombiano e massime autorità, per rendere grazie alle sue fatiche in bicicletta. Se fate un giro su tutti i principali media sportivi colombiani vi accorgerete dell'eco del suo successo.
Inquadrato al termine della corsa, Diego si è mostrato insieme ai suoi genitori, ha stretto la madre in lacrime con un forte abbraccio, il padre appariva invece irrigidito per timidezza e rispetto. La pelle di entrambi bruciata dal sole e solcata dalle rughe. La tempra di una vita passata a lavorare nei campi, l'umiltà del campesino. “La disciplina del padre e l'amore della madre formano le buone persone, e il carattere forte del padre contadino nasconde sotto sempre un oceano d'amore”, si legge in un commento su Twitter.

E mentre Diego Camargo pochi giorni fa vinceva la corsa a tappe colombiana, nelle stesse ore nello Stato sudamericano si consumava l'ennesima tragedia. El Pais riporta: "Tredici persone uccise in due diversi agguati nella notte ad Antioquia e Cauca". Regioni devastate dal conflitto ormai da diversi anni.
Diego probabilmente nel 2021 volerà in Europa, ma non scapperà mai dalla sua Colombia, anche se ad aspettarlo c'è un contratto con la Ef Pro Cycling, dove troverà Rigoberto Urán, un mito per ogni ragazzo del suo paese e che presto diventerà come un fratello maggiore. Non scapperà dalla Colombia, perché con dignità cercherà un futuro migliore per lui e per quei genitori che lo hanno accolto all'arrivo dell'ultima tappa sognando un avvenire di cui andare fieri, più per lui che per loro, increduli, inizialmente contrari o semplicemente fatti di quell'educazione che solo chi apprezza le piccole cose può capire. Sognando, perché male non fa, che anche lui possa essere d'ispirazione per chiunque cerchi una rivincita sociale, lontano dalla povertà, dalle tragedie che da anni consumano il popolo colombiano in nome di soldi, potere e droga. In sella a una bicicletta, strumento di riscatto e dove a volte tutto appare possibile. Sogni e speranze riflesse anche negli occhi pieni di nobiltà d'animo e che contraddistinguono un campesino.

Foto: Diego Camargo, Facebook


Alberto Bettiol: «Ti racconto questa»

«Ti racconto questa: sai a che ora sono andato a letto la sera prima del giorno in cui ho vinto la Coppa d'Oro? Alle quattro del mattino. Eravamo in questo albergo a far baccano con i miei compagni e il sonno non veniva mai. Sono andato a letto a quell'ora ed il giorno dopo ho vinto. Non lo dico per vantarmi. Lo dico perché oggi una cosa di questo tipo non accadrebbe più ed è un peccato». L'intervista con Alberto Bettiol scorre fluida, all'ora di cena di una gelida serata di novembre, tra la sua parlata toscana, qualche risata e diversi aneddoti. Ogni racconto, anche se giocoso, scherzoso, contiene un insegnamento. Ed è questa la migliore forma di leggerezza, quella che è in grado di riflettere profondità schivando la pesantezza.

«Ci sono gli sponsor che investendo vogliono risultati e i direttori sportivi che, forse poco consapevoli, si rifanno sui ragazzi. Parliamo di bambini di otto, dieci, anni che fanno i rulli o che ricevono in regalo biciclette in carbonio e pedali da professionisti. A cosa serve quella bicicletta ad un bambino che deve fare dodici chilometri? Così si bruciano le tappe e quei ragazzi divenuti allievi non vivranno più quegli entusiasmi che, per esempio, io ho vissuto. La mia prima bicicletta in carbonio, l'ho avuta da juniores, a sedici anni, e per assurdo pesava di più di quella in alluminio perché era un carbonio grezzo ma a me sembrava di aver sotto una Ferrari. Quando ho avuto il mio primo potenziometro, il mio primo srm, da professionista mi sentivo una divinità in terra. Molte volte sono anche i genitori che, credendo di fare del bene, esasperano ogni situazione. In realtà si arriva a casi gravi, a ragazzi che diventano anoressici o bulimici per inseguire le brame genitoriali. Io dico sempre di dover ringraziare i direttori sportivi e le persone che hanno consigliato il mio babbo quando ero piccolo. Hanno sempre detto che avevo delle capacità ma hanno evitato ogni esasperazione. Anche la società, oggi, va in una direzione opposta con la continua ricerca dei risultati. Ma che senso ha il protocollo cerimoniale nelle gare dei più piccoli? Ai bambini non interessa, i bambini di quel risultato si ricordano per pochi minuti, poi vogliono andare a giocare a basket, a calcio, a passeggiare in compagnia nei prati. Il bello in quell'età è proprio questo. Per me il ciclismo era la possibilità di andare lontano da casa, di stare fuori a dormire, di festeggiare con gli amici la fine dell'anno o il capodanno, di stare insieme, di fare gite. Mi sembra che tutto questo si stia perdendo nonostante i tanti volontari che investono soldi propri per aiutare i ragazzini, per portarli alle gare. Nonostante la loro dedizione».

Lugano, dove abita ora Bettiol, è lontano da quel condominio di Castelfiorentino in cui tutto è cominciato: «Noi abitavamo al terzo piano, al secondo c'era il presidente della società locale di ciclismo. Avessi abitato in un altro condominio forse questa storia non sarebbe mai iniziata. Papà mi ha accompagnato ad iscrivermi alla società ma ho continuato anche a fare altri sport. C'era lo studio, c'erano gli amici e tante altre cose che, in quel momento, venivano prima del ciclismo. Può essere che una passione diventi un lavoro ma è un percorso per cui serve tempo. Un percorso graduale in cui i dubbi e i ripensamenti sono all'ordine del giorno, giustamente direi». A Castelfiorentino, in realtà, Bettiol ci è ritornato a fine stagione, lì ha festeggiato il suo compleanno: «Puoi immaginare la gioia di mamma, saranno stati più di cinque o sei anni che non ero a casa con loro il giorno del compleanno. Solitamente ero in vacanza in paesi caldi. Quest'anno non si può ma comunque mi sono regalato delle belle giornate». La sorella della mamma di Alberto Bettiol è insegnante e ha sempre insistito perché Alberto studiasse: «Mi ero anche iscritto all'università ma poi la mia facoltà richiedeva la presenza, quando ho siglato il mio primo contratto, mi sono fermato. Avevo un lavoro, avevo una sicurezza economica. Forse a mia mamma quella scelta non è piaciuta sul momento ma non si poteva fare altro. Ma anche lì: non sai quante volte mi sono chiesto se davvero volevo fare questo. Anche al passaggio a professionista, tante volte mi sono detto: vale la pena fare così tanta fatica per arrivare novantesimo? Sono davvero convinto di quello che sto facendo? Ma io non voglio fare solo questo, io voglio studiare, voglio imparare. Cosa sto facendo? Sono ancora qui perché ho stretto i denti e perché ho trovato persone che mi hanno aspettato con una rara pazienza. Una pazienza che oggi manca. Ai giovani lo dico sempre: il problema non è passare professionisti, il problema è fare i professionisti e restare sempre professionisti». Il ciclismo di Bettiol è medicina «per non pensare a questa situazione, per sentire ancora una parte di normalità» e routine da cui, ogni tanto, staccare la spina: «Riposo, per me, è anche solo la consapevolezza di svegliarsi la mattina e non dover scegliere maglia, guanti, calze, casco e orario per uscire. Ogni tanto staccare è salutare».

Alberto Bettiol è un ragazzo estroverso: «Rido, scherzo, mi racconto molto ma c'è una linea di confine. Per gli affetti e le cose a cui tengo di più ho una cura particolare, queste cose le sanno in pochi, in pochissimi». Quella cura che, forse, è più difficile da preservare dopo la vittoria al Fiandre, l'anno scorso: «Mi dicono tutti che ho fatto un'impresa, che è una vittoria importantissima e mi elogiano. L'altra parte di quella vittoria, però, non la vede nessuno. Ho perso quell'irriconoscibilità, quel silenzio attorno che certe volte è necessario. Non solo sono più controllato in gruppo ma anche nella vita di tutti i giorni. Se Alberto Bettiol non pubblica nulla sui social per qualche giorno sono tutti a chiedersi che fine abbia fatto, cosa sia successo. Sono senza dubbio di più i lati positivi di quelli negativi ma esiste anche l'altro lato della medaglia. Io mi concentro su di me, sulla mia persona. Io sono più importante, poi viene il resto: è l'unico modo per affrontare la situazione». La prima volta in cui Bettiol ha rivisto integralmente quella gara è stato il 7 aprile di quest'anno, nel corso di una replica: «Non amo particolarmente rivedermi. Volevo invece tornare in quei luoghi a passeggiare da solo, a piedi. A guardarmi attorno, incontrando la gente, quella gente, che ha un legame così viscerale col ciclismo. Alcuni erano lì quel giorno. Cosa ho fatto quel giorno, l'ho capito quando sono tornato nelle fiandre quest'anno. L'avevo intuito dall'atteggiamento del pubblico alle gare, da tutte le telefonate arrivate a mamma, papà e a mio fratello, dalla Rai ad attendermi in aeroporto al ritorno. Pensa che, la sera stessa, telefonarono a mio papà per fare delle riprese a casa mia. Lo dico sempre: se il Fiandre lo avesse vinto Sagan, Alaphilippe, Gilbert o Cancellara non sarebbe stato così. Invece lo ha vinto Bettiol e nessuno se lo aspettava. Questo è speciale».

E la pressione? Come si gestisce la pressione che una vittoria del genere comporta? «L'unica pressione che mi resta addosso è quella che mi metto io. A me gli appuntamenti importanti, caricano. Se so che devo correre il mondiale mi gaso, faccio tutto il possibile per arrivarci al meglio, torno dagli allenamenti arrabbiato se non riesco a correre come vorrei e, stai tranquillo, che non sbaglio. Quello che dicono gli altri è relativo. Di più. Quello che dicono gli altri è spesso condizionato da quello che diciamo noi. A me fanno sorridere le colpe date alla stampa. Voi scrivete quello che diciamo noi. In un certo senso invidio i giovani che fanno dichiarazioni mirabolanti. Beati loro che hanno tutte queste sicurezze. Io non ci riesco. Io posso dire che mi impegnerò al massimo, che farò il possibile ed anche di più, ma non mi metterò mai, da solo, fra i favoriti di una corsa. Non mi appartiene caratterialmente e credo sia un bene».

Lo è, Alberto. Lo è.

Foto: Claudio Bergamaschi


Trifula Trail, un'avventura sulle strade di casa

Suona la sveglia.
Sono le sei, ma in realtà sono le sette.
No, in realtà sono le cinque. Forse.
Quando si cambia l’ora, per due giorni non riesco mai a capire che ore sono. Se ci aggiungi che ieri, dopo cena, si è tirato tardi con gli amici dei miei, accompagnando il tutto con qualche bicchierino di Passito, fare i conti di prima mattina diventa davvero difficile.
Sono le sei, ma in realtà sono le sette. È il 25 ottobre, fuori c’è quella nebbiolina fine che ti si attacca addosso e ti fa sentire più umido di quella volta che sei uscito d’estate, impavido, pensando “tanto non la prendo” e mamma mia se l’hai presa.
Mi alzo. Vado in bagno. Che occhiaie, amici. Una sciacquata e mi cambio.
Tutto è pronto sul servo muto da ieri pomeriggio: calze pesanti, salopette a tre quarti felpata, maglia termica, giacca, scaldacollo e capellino Alvento – “Fate i watt, non fate la guerra”.
Mia madre scende giù con me, ormai l’ho svegliata, dice. Facciamo colazione, in silenzio.
Carico la bici in macchina, insieme al borsone con il cambio e una busta della spesa con barrette, panini al latte e qualche gel.
«Ciao, Ma’».
«Vai piano».
Mentalmente, rispondo: «sto andando in bici, per giunta la chiamano bici da corsa. Vado più veloce che posso».
Ho una quarantina di minuti prima di arrivare al luogo della partenza, ma per strada non c’è un cane (con ‘sto tempo), si viaggia bene, così ho la possibilità di pensare un attimo.
La settimana prima avrei dovuto correre la mia prima granfondo, quella di Alassio, ma, per come stavano andando le cose, ho deciso di ripiegare su qualcosa di meno affollato e quindi mi sono messo a cercare su internet.
Leggo: «Torino Bike Experience presenta Trifula Trail, prova personale, non competitiva con percorso ad anello tra Torino ed Asti, partenza alla francese». Quattro possibili percorsi: due gravel e due su strada con diverse distanze. Chiaramente non sarebbe una vera prova con me stesso, se non facessi il percorso più difficile, su strada; la gravel è ancora un sogno da realizzare.

Arrivo che c’è già qualcuno che sta tirando giù la bici dalla macchina, la nebbia si è diradata, ma il freddo c’è tutto. Mi preparo in gran fretta, nel pomeriggio danno pioggia e ne faccio volentieri a meno, come se due minuti in meno potessero salvarmi.

In un piazzale, nella zona sud di Torino, ci aspetta Alessandro, sorridente. Anche lui è vestito come se fosse pronto per partire, la maglietta verde con il logo di Torino Bike Experience e la bici da Gravel, tutto un trionfo di verde.
Siamo tutti con le mascherine, ma in questi ultimi mesi abbiamo imparato a leggere le emozioni altrui negli occhi, e si vede che siamo tutti felici di essere lì. Solo venti iscritti, un po’ per il meteo incerto già da settimane, un po’ per la situazione Covid.
Alessandro ci dà il nostro buono pasto consumabile a Moncalvo, località che toccheremo nel nostro anello, dove potremmo mangiare un piatto di ravioli al tartufo proprio alla fiera del Tartufo. Dopodiché ci dà le ultime indicazioni: non è una gara, se abbiamo bisogno possiamo chiamarlo, quando arriviamo in determinati paesi dobbiamo mandargli la posizione su WhatsApp: più per farlo stare tranquillo che per verificare che stiamo facendo il percorso corretto, senza barare.
Il primo ragazzo decide di partire, io scrivo ancora un messaggio a mamma per dire che sto bene, così è contenta, e sono pronto anch’io. Sono 160 chilometri e, a parte la mitica salita di Sassi-Superga, la prima che si affronterà, non conosco un metro del percorso. Parto tranquillo e faccio i miei primi chilometri in piano, in agilità, cercando di scaldare i muscoli, di non farmi stirare dalle poche macchine che si incontrano la domenica mattina alle 7, a Torino.

Neanche il tempo di pensare se sto bene, se ho chiuso la macchina, se ho preso tutto e sono ai piedi di Sassi. Sono quattro chilometri, mica tanti, ma per tre chilometri la pendenza è a doppia cifra e tocca punte del 16%. Passata la prima curva ricomincia ad esserci nebbia, fitta. Incontro qualche signore che corre, un ragazzo in MTB e, quando leggo 178 bpm sul mio Wahoo, è finita la salita.
Giù in discesa verso Baldissero, molte foglie e strada umida. Alla prima curva un po’ più stretta freno in modo un po’ troppo deciso con la ruota posteriore. Sto andando dritto, speriamo non arrivi nessuno. Urlo. Vedo la macchina spuntare… Sono salvo, tiro un sospiro di sollievo. Sono salito sul marciapiede e la macchina ha fatto in tempo a fermarsi sentendo le mie urla, così non ci siamo neanche sfiorati. Scende un signore gentilissimo, è preoccupato più di me che ora rimpiango i battiti che ho visto in cima alla salita per Superga. Ci salutiamo stringendoci la mano, nonostante il Covid. Ce la siamo vista brutta e lo sappiamo entrambi.
Si riparte, vado molto più piano e nelle curve mi tremano un po’ le mani.

Finita la discesa è già tempo di risalire, uno strappo, il primo di una lunga serie. Solo un chilometro, ma a fine giornata avrò più di tremila metri di dislivello, senza aver mai affrontato una di quelle salite belle lunghe che tanto mi piacciono.
È passata un’ora e mezza e sono solo a 33 chilometri dal via: di questo passo si prospetta una lunga giornata.
Non si passa mai su strade trafficate, sempre stradine in mezzo ai boschi o ai vigneti. Vigneti ovunque, peccato non vedere oltre il secondo filare per la nebbia. Meno male che sto passando per strade secondarie dove non incrocio neanche una macchina, perché altrimenti il pericolo di essere investiti ci sarebbe tutto.
Leggo i nomi dei paesini che attraverso e mi godo il rumore delle ruote sull’asfalto. Non sono stanco, neanche dopo due ore e mezza, cinquanta e qualcosa chilometri e circa mille metri di dislivello. Sto mangiando e bevendo. Mi sono fermato solo per qualche foto e per una pausa pipì. Non capisco se sto andando forte o meno; è vero che non si tratta di una gara con gli altri, ma, quando monti in sella ad una bici in un qualsiasi evento, l’unica cosa che vuoi fare è vincere. Vincere contro te stesso, andare ancora una volta oltre quelle che credevi essere le tue possibilità e pensare ancora una volta “ce l’ho fatta”.

Arrivato a Castelletto Merli non capisco più se è nebbia oppure pioggia. La visibilità non è ottima, mi sento bagnato. In cima alla salita per il santuario di Crea non c’è più dubbio.
La nebbia si è diradata completamente per far posto ad un acquazzone, proprio mentre devo scendere. Arrivo in fondo alla discesa, sono fradicio e voglio solo arrivare a Moncalvo per mangiare il mio agognato piatto di ravioli al tartufo e potermi mettere il cambio che intelligentemente mi sono portato.
Leggo il cartello Moncalvo e sono felice, ma ingenuo. Prima di vedere l’abitato mi aspettano ancora una decina di chilometri e una salita con due tornanti; io questo non lo so e spingo sui pedali. Mi divoro il pezzo in piano e sono ai piedi della collinetta su cui è arroccata Moncalvo. Chissà che panorami che mi devo essere perso oggi a causa della nebbia.
Attacco la salita neanche fossi Pantani ai piedi di Oropa mentre doveva recuperare il gruppo. Arrivo in cima stremato e mi ritrovo nel pieno della fiera del Tartufo di Moncalvo.
Sono solo le 11.30, ma ho fame e voglio evitarmi la pioggia del pomeriggio. Il cielo si è aperto, mangio il mio piatto di ravioli cercando di capire se il tartufo mi piaccia (mica l’ho capito) mentre ascolto un signore che in un italiano condito di dialetto piemontese decanta le proprietà del tartufo e cita cifre allucinanti sulla quotazione giornaliera.

Starei lì ancora un po’ ma è ora di partire.
Mi sono infreddolito e vorrei solo fermarmi in un bar per scaldarmi. Cosa ancor più triste è che si riparte con una discesa, ma, se ho imparato qualcosa dai vari video di ciclismo che ho visto, è che il ciclismo è uno sport così, in queste situazioni si mette un rapporto agile e si va davanti a menare. Io faccio in questo modo, anche se davanti non ho nessuno.
La maggior parte del dislivello ormai è già stata affrontata e, tolto qualche strappo di un paio di chilometri, il resto sembra essere una passeggiata.
Sulla salita per Montafia incrocio il ragazzo che era partito prima di me sulla sua Cinelli verde scintillante. Scambiamo qualche parola. Siamo felici, ma lui ha un altro passo e quindi lo saluto e riprendo la mia andatura. A posteriori sarei potuto rimanere con lui, perché le asperità sono praticamente finite e restano solo molti chilometri in piano nelle praterie nei dintorni di Chieri.
Mi sono sfinito per aumentare un po’ la velocità media e non sapendo, o forse volutamente ignorando, che c’è ancora la collina di Torino da valicare. Mi ritrovo a spingere un rapporto più agile rispetto al solito, che però pesa come un macigno. Vedo la linea di arrivo sulla mappa, c’è ancora da salire.
Arrivo in cima stremato, mi butto in discesa e faccio i pochi chilometri in mezzo alla città sperando che finiscano il più in fretta possibile.

Svolto a sinistra e vedo la bici di Alessandro che scende dalla macchina e mi guarda un po’ stupito, ci aspettava tra un’oretta almeno. Io gli racconto di quanto bella sia stata questa avventura e lui di qualche suo progetto: vuole iniziare a creare borse per il bikepacking su misura. Gli dico che ha già un cliente.
Mi lascia un pacchetto di Tartufi di cioccolato da pasticceria come premio per essere arrivato primo, è dispiaciuto per non aver potuto fare nessun rifornimento, dannato Covid.
Ci salutiamo sicuri di rivederci l’anno prossimo ad un Trifula Trail diverso: magari su due giorni, sperando di poterci conoscere davvero percorrendo strade poco distanti da casa, che però regalano paesaggi che ci invidia tutto il mondo.

Di: Alessandro Zecchino

Foto: Edoardo Frezet


La ciclista che voleva dare una mano al mondo e a se stessa

Il fuoco che divampa dentro Elise Chabbey è una di quelle sensazioni difficili da spiegare – intime, personali, il cielo dentro ognuno di noi. Chi ne viene colpito a volte cerca di sfogare faticando, sudando, stando continuamente in attività nel tentativo di assecondare quel non riuscire mai a stare fermi. Aiutare se stessi per conoscersi meglio. Spostare i propri limiti per definirsi o semplicemente per mettersi alla prova come atto di vita.
A volte aiutare se stessi non basta. E infatti Elise Chabbey ha spostato la propria asticella preferendo dare una mano agli altri. Erano i primi giorni di marzo. Squilla il telefono. È il suo insegnante del Master in medicina che gli dice di come la situazione sia iniziata a essere difficile anche in Svizzera. "Tesa" è la parola esatta che usa, si sbilancia, ma fino a un certo punto: è un medico e cerca un modo equilibrato anche in un momento di questo tipo. Fatto sta che la richiesta è diretta quanto semplice da fare, ma così complicata da esaudire: l'evolversi dei noti fatti in Svizzera stanno precipitando e ci sarebbe bisogno di aiuto all'HUG, che non vuol dire abbraccio, ma è l'acronimo di Ospedale Universitario di Ginevra.
Sì, perché Elise Chabbey, che arriva proprio da Ginevra, dopo essere stata quattro volte campionessa svizzera di kayak, partecipando pure ai Giochi Olimpici di Londra, dopo aver lasciato l'acqua per correre maratone e mezze maratone, aveva abbandonato lo sport a livello agonistico per studiare medicina riuscendosi, infine, pure a laureare.
A Marzo 2020 ormai la pandemia era diventata non solo un termine in uso e ahinoi diffuso, non solo qualcosa con cui avere a che fare marginalmente, ma stava uccidendo, mettendo a terra il sistema, la società, riempendo ospedali e, per ultimo, costringeva alla chiusura temporanea della stagione ciclistica - che sarebbe poi ripresa diversi mesi più tardi.
Elise, che nel frattempo, dopo essersi laureata, è diventata anche una ciclista professionista di livello importante, si stava preparando per la Strade Bianche – corsa poi annullata - quando arrivò la chiamata. All'inizio, ha raccontato spesso, fu difficile dire di sì. La situazione era incerta a trecentosessanta gradi, lei si era preparata durante l'inverno badando con minuzia a ogni particolare, facendo sacrifici, allenamenti duri, curando l'alimentazione, per quella che sarebbe dovuta essere la sua ultima stagione in bicicletta. «Ma non potevo mica starmene con le mani in mano! Anche se quella laurea in medicina l'avrei sfruttata a fine carriera. E invece...». E invece Elise smette i panni del corridore e indossa il camice.
Pochi mesi dopo si riapre la stagione ed Elise torna in bicicletta. «E i risultati mi sorpresero» racconta a un giornale francese. «Avevo valori importanti» wattaggi, li definisce, per esattezza. «Nonostante fossi impegnata ogni giorno in ospedale riuscivo a trovare nelle ore di pausa la motivazione per allenarmi e non perdere la forma». Medaglia d'argento nella prova a cronometro a squadre dell'Europeo, ventiquattresima al Giro Rosa, tredicesima alla Liegi-Bastogne-Liegi: in mezzo alla crema del ciclismo mondiale. C'è chi ha passato ore estenuanti finendo per farsi venire la nausea pedalando sui rulli, c'è chi è riuscito ad allenarsi ugualmente in strada, infine chi ha diviso la sua attività tra ospedale e allenamenti. «Psicologicamente lavorare in ospedale mi ha aiutato molto di più che se fossi stata ferma ad aspettare o semplicemente andando solo in bicicletta: sono tornata in corsa più motivata che mai».
Poche settimane fa, prima della chiusura della stagione, Elise Chabbey si presenta al via della prova in linea del campionato svizzero. Nebbia, freddo, un percorso difficile per corridori in un piccolo paese del Canton Turgovia tra Winterthur e San Gallo: parte a settanta chilometri dalla conclusione e arriva da sola a braccia alzate.
«Ultimamente le persone sono più interessate a me per quello che ho fatto fuori dalla bici, ma non è un problema, anzi. Se quello che faccio può far sognare le persone? Tanto meglio. Se quello che faccio può essere utilizzato per pubblicizzare il ciclismo femminile? Meglio ancora. Quello che ho fatto non è un motivo di orgoglio personale, ma semplicemente una bella esperienza» racconta alla fine di quella corsa.
A fine stagione avrebbe dovuto smettere di andare in bicicletta – come la sua squadra, che chiuderà i battenti - e invece continuerà con il sogno di correre un'altra Olimpiade. Elise, oggi, ancora non sa se ritornerà in corsia a dare una mano, ma si dice pronta a tutto. «Intanto posso dire di essere stata campionessa nazionale nel kayak e poi nel ciclismo: sembra una cosa divertente». Il fuoco che divampa dentro Elise Chabbey potrebbe anche essere quello che si accende dentro di noi, ma di storie come la sua non se ne sentono tutti i giorni.

Foto: Facebook/Elise Chabbey


Buona fortuna Tom-Jelte Slagter

Vi parliamo di Tom-Jelte Slagter ma potremmo parlarvi di tanti altri ragazzi e di tante altre ragazze. Vi parliamo di Tom Jelte Slagter perché per parlare d'altro si finisce per non parlare di ragazzi come Slagter. E invece parlare di ragazzi come Slagter è importante, perché ai più nella vita capita di trovarsi in situazioni affini a quella in cui si è trovato e si trova Slagter. Tom-Jelte Slagter ha deciso e reso pubblica la sua decisione: «Non sarò un ciclista professionista nel 2021. Ho trascorso dieci anni in gruppo, un periodo che porterò sempre con me ma ora è il momento dei saluti. Posso già raccontarvi dove sarà il mio futuro, ho da poco siglato un contratto con John Deere: sarò un rappresentante e rivenditore di macchine agricole nella zona di Groninga, la mia zona natale». Da quanto si racconta, Slagter, questa estate, dopo l'esclusione dal Tour de France, avrebbe avuto modo di incontrare un noto rivenditore di trattori della zona e costui, appassionato di ciclismo, gli avrebbe offerto un lavoro a partire dal prossimo mese di gennaio. Tom-Jelte Slagter ha trentun'anni ed è professionista dal 2011, nella sua carriera ha corso per squadre di tutto rispetto, Rabobank, Garmin, Cannondale e Dimension Data, fra le altre, non riuscendo tuttavia ad emergere con risultati di particolare spessore. Slagter è un onesto ragioniere della bicicletta ma questo ha poco a che fare con quello che vogliamo dirvi. E, forse, quello che vogliamo dirvi ha anche poco a che vedere con noi ma solo apparentemente.

Vi abbiamo sempre detto che essere Alvento vuol dire stringere i denti, vuol dire resistere, vuol dire rimanere da soli e continuare a pedalare, in testa o in coda al gruppo. Ed è vero: chi fa questo è Alvento. Senza ombra di dubbio. Ma c'è qualcosa da ricordare sempre anche quando la società tende a farcelo scordare. Già, perché sotto sotto l'idea che arriva da ogni dove è questa: devi resistere a tutti i costi altrimenti sei un perdente, altrimenti non vali, altrimenti sei un debole, senza grinta e coraggio. Questa idea è sbagliata, bisogna dirlo a voce alta. È sbagliata perché, alcune volte, nella vita fermarsi è necessario come è necessario cambiare strada o lasciar perdere. Lo è per noi, per la nostra persona. Chi si ferma, chi cambia strada, chi, a qualunque età, prova a cambiare la prova vita non manca di coraggio e di grinta, anzi. Anche se la strada precedente era stata una sua scelta, anche se l'aveva voluta con tutto ciò che poteva dare, anche se arrendersi, alcune volte, sa tanto di fallimento e come tale viene giudicato. Abbiamo la possibilità di tornare a scegliere e di cambiare scelta. Non ci è vietato, non dobbiamo temere questa opzione. Abbiamo la possibilità di fermarci dopo aver investito tanto, anche tutto, su un progetto o un'idea di futuro. Abbiamo il dovere di farlo se, in quel momento, crediamo che la nostra vita debba prendere un'altra direzione. Abbiamo anche il dovere di dirlo, di raccontarlo, senza temere coloro che semplificheranno: «Hai rinunciato perché non ci riuscivi». Forse sì o forse no. Non cambia nulla. Se non riusciamo più a continuare abbiamo il diritto di dirlo chiaramente e per una volta di non ascoltare tutti quelli che ci diranno: «Hai scelto tu questa via, ora devi arrivare in fondo. Devi farcela. Non puoi arrenderti adesso». Lo dicono per farci coraggio, certo. Molte volte vale questo discorso, altre no. Arrendersi, se così si può dire, quando non riusciamo più a fare qualcosa è possibile. Certe volte è salutare. Questo non significa non dare tutto, questo significa dare tutto ma capire, con lucidità e coraggio, quando il tuo significato è altrove.

Tom-Jelte Slagter, a quanto sappiamo, aveva altre offerte e avrebbe potuto continuare a correre anche la prossima stagione. Recentemente ha dichiarato: «Il ciclismo è stato importante ma non è mai stato tutta la mia vita. Forse anche per questo ho fatto questa scelta». Chi decide di cambiare ha paura, quasi sempre. Per assurdo, avrebbe potuto essere più comodo continuare a correre. Per assurdo, forse, avrebbe richiesto meno grinta lasciare tutto come era e far finta di niente. Far finta di non sentire quei discorsi che tutti ci facciamo, nella mente, e che ci dicono cosa fare e quando farlo. Non li ascoltiamo perché ascoltarli significa dover spiegare tante cose a tutti e sottoporsi a ogni genere di giudizi, simili a quelli citati, che sicuramente ci verranno appiccicati addosso. Dovremmo farlo, invece, e dovremmo ringraziare chi lo fa, facendogli il più grande in bocca al lupo. Perché se a ben pochi fra noi, forse a nessuno, capiterà di vincere il Tour de France o il Giro d'Italia, a molti accadrà di dover cambiare via, per stanchezza, per scelta, per necessità, talvolta solo per motivi di forza maggiore. I motivi non importano poi più di tanto. Tutte le persone che devono fare una scelta di questo tipo sono "Alvento" e fanno fatica, una fatica assurda. Hanno bisogno di ascolto, di comprensione, di appoggio e magari di qualcuno che racconti le loro storie per tutto il bello che racchiudono. Sì, perché chi sceglie di cambiare è da ammirare come chi tiene duro.

Foto: Tom-Jelte Slagter


Sul divano con papà

Vi ricordate la promessa di Giulia? Noi ce la ricordiamo bene. Di Giulia avevamo incontrato il padre al Giro Rosa, a settembre. Un padre che avrebbe voluto provare il piacere di assistere ad una gara dal vivo assieme alla figlia, una ragazza a cui il ciclismo non è mai piaciuto e per questo alle gare con papà non è mai andata. Proprio il papà di Giulia mi aveva pregato di parlarle, di spiegarle perché sarebbe dovuta andare ad una gara con papà. Così avevo fatto, una sera di settembre, dalla camera di un albergo. Ero crollato dal sonno ma le avevo strappato una promessa: «Cercami ad una delle prossime corse, mi vedrai accanto a papà. Te lo prometto». Da quel giorno, di Giulia non ho più saputo nulla. Fino a questa mattina quando Giulia mi ha scritto.

Ho risposto con l'animo di chi non sente un amico da tanto tempo e si attende il racconto di una vita trascorsa ma non condivisa. Io e Giulia non siamo amici. La nostra conoscenza passa per poco più di un nome. In fondo, però, sono io ad aver raccontato qualcosa di Giulia. In fondo, Giulia è passata per le mie parole. Mi spiego? Ci sono state delle ore, quelle di scrittura del pezzo, in cui Giulia era tutta la mia realtà. Devi essere fedele, estremamente fedele, alle storie che racconti. Cosa vuol dire? Vuol dire che devi volere bene alle tue storie, che devi dare tutto per le storie, che devi averne profonda cura perché a qualcuno arriveranno attraverso il tuo filtro. E se non sarai attento, se non vorrai abbastanza bene a ciò che racconti, lo racconterai male. Gli farai un torto, un grave torto. Una forma di trascuratezza indegna. Come invitare un amico a casa e poi non dedicargli tempo. Se non hai tempo, meglio non invitare nessuno. Se non sei attento alla tua storia meglio lasciarla ad altri. Anzi, se le vuoi bene hai il dovere di lasciarla raccontare ad altri. Così da Giulia ho voluto sapere proprio tutto del futuro di quella promessa.

G: «Purtroppo devo dirti che non sono ancora andata a nessuna gara con papà ma lo farò presto. Te lo ho promesso!»
S: «Con questa situazione, immaginavo. Chissà quando sarà quel "presto..."»

Istintivamente ho provato a portare il discorso su altri temi. Vero che a quella promessa tengo molto, che non vedo l'ora che quel giorno arrivi perché sono certo che vedrà un padre e una figlia emozionati, però alle promesse bisogna lasciare il loro tempo, affinché si avverino con delicatezza. Affinché non diventino scadenze da rispettare ma volontà palpitanti. Il mio tentativo però ha poco successo, Giulia ritorna sul tema.

G: «Non ti ho scritto per dirti questo. Ti ho scritto per dirti che avevi ragione»
S: «Non puoi ancora saperlo. Se avrò avuto ragione me lo dirai quando ci ritroveremo ad una gara. Succederà»
G: «E invece lo so già. Dall'altro pomeriggio»
S: «Sei riuscita a vedere qualche gara dal vivo? Ma come? Non ce ne sono»
G:«No, non sono stata ad una gara però ho fatto una cosa che non avevo mai fatto prima»
S: «Raccontami»
G: «L'altro pomeriggio sono passata dalla sala mentre papà stava vedendo una gara in televisione. Credo una delle solite repliche che ormai conosce a memoria ma mio papà è così. Non si stanca mai. Beh mi sono seduta lì con lui. Non lo avevo mai fatto»

Ero contento, così contento che ho sciolto subito quella domanda che mi facevo dall'inizio del racconto: «Ti è piaciuto?»

G:«No, è stata una gara noiosissima. Non succede nulla per interi minuti, non so come facciate voi. A me ad un certo punto cala il sonno. Papà vede ore ed ore di dirette... che pazienza!»

Ho risposto con un silenzio più lungo del solito. Amareggiato, con una profonda sensazione di aver fallito. Ho ripensato a quell'uomo e al suo desiderio. Me lo sono immaginato dopo quella gara, deluso dal fatto di non essere riuscito a far capire alla figlia cosa provasse davanti a quelle biciclette. Ho immaginato ma ho immaginato male.

G: «Sapevo sarebbe finita così. Il ciclismo non mi piace e gli sforzi tuoi e di mio papà non cambieranno nulla. Mi spiace. Però ora sono ancora più convinta del fatto che andrò a qualche gara con papà. A costo di annoiarmi»
S: «Perché?»
G: «Perché, ad un certo punto, non so cosa stesse succedendo in corsa, papà si è esaltato. Ha fatto un balzo avanti sul divano e mi diceva: "Guarda, guarda, ora va via da solo". Dovevi vederlo! Ad un certo punto ha messo una mano sul mio braccio e ha stretto forte. Lui quando è felice fa così, anche quando faccio qualcosa di bello fa così. Credo sia come dire: "Sei forte". Non lo so esattamente ma se lo fa è perché è felice. A cena mi ha anche ringraziato per essere stata con lui a vedere la corsa ma non serviva. Avevo già capito di averlo fatto felice. Basta davvero poco per far felice qualcuno, no?»

Sì Giulia, basta davvero poco. Pochissimo. E noi siamo felici come papà.

Grazie per aver mantenuto quella promessa. Ci abbiamo sempre creduto e abbiamo fatto bene.

Foto: Claudio Bergamaschi

Alex Dowsett, una vittoria che vale ben una lacrima

Alex Dowsett, qualche anno fa, ha rischiato di non essere più quello che tutti conosciamo oggi. Quello che, in fondo, era sempre stato. Può succedere nella vita. Può succedere quando ti metti a fare qualcosa e scopri che ti riesce abbastanza, di più, scopri che sei proprio bravo a fare quella cosa. Che hai un talento. Dowsett, tra il 2013 e il 2014, ha capito di essere un asso nelle prove contro il tempo: oro ai Giochi del Commonwealth, sei volte campione britannico, Record dell'ora nel 2015 e piazzamenti di prestigio internazionale. Il talento è prezioso, certo. Ma ha una doppia faccia, come tutte le cose. Può farti perdere il contatto con la realtà, può convincerti di essere superiore agli altri, non più bravo in un determinato campo, quello ci sta, proprio superiore. Può portarti ad atteggiamenti di superbia. Può accadere a tutti, forse ci sono più probabilità che accada a chi magari, per arrivare a quel punto, ha sofferto molto, a chi, per qualunque motivo, non credeva in alcun modo di poterci arrivare, alle persone che nessuno credeva avrebbero potuto arrivarci. Non tanto o non solo per mancanza di fiducia nelle loro possibilità ma perché la natura ci ha messo lo zampino. Ecco, quando accade così, e tu arrivi a dimostrare a tutti il tuo talento, e arrivi comunque ad avere successo, puoi reagire in due modi: ricordandoti di te da ragazzo e provando a fare qualcosa per i ragazzi e le ragazze che oggi sono come te, oppure puoi reagire altezzosamente, senza controllare quel senso di rivincita col mondo che ti porti dentro. Un senso di rivincita che non è detto sia negativo ma, come tutte le pulsioni, ha bisogno di essere incanalato, di essere indirizzato, affinché non sia sprecato. Affinché sia "meritato" e lo si renda utile, seme e non erba cattiva.

Ad Alex Dowsett stava succedendo questo, perché quel senso di rivincita era deragliato, fuori controllo e Alex aveva dimenticato il motivo che lo aveva portato lì e se dimentichi il motivo per cui fai qualcosa, hai scordato tutto. Poi ci furono le parole di una signora in Portogallo. Una signora che non lo conosceva, o meglio, una signora che conosceva quello che era Alex Dowsett e non quello che stava diventando. Gli disse: «Grazie infinite, Alex. Ora so che mio figlio potrà condurre una vita normale». E Dowsett ricordò. Ricordò le corse in ospedale perché, quando da bambino si tagliava, anche per un minimo taglio, il sangue usciva a fiotti, non si arrestava più. Ricordò l'ansia dei suoi genitori, le paure per qualunque cosa facesse. Alex Dowsett scoprì così di essere emofiliaco: il suo sangue non coagulava bene e per rimediare a questo servivano delle iniezioni. Ma in realtà serviva molto di più, era necessario convincere tutti gli adulti che lui avrebbe potuto essere esattamente come loro. Dowsett, quel giorno, ricordò questo, ricordò i compleanni degli amici, a cui non veniva invitato per paura di quello che sarebbe potuto succedere se solo fosse caduto, se solo si fosse sbucciato un ginocchio. E pensare che Alex aveva imparato sin da bambino a farsi da solo quelle iniezioni ma le persone hanno paura, anche giustamente, se vogliamo, e non puoi farci niente.

E c'erano le storie che papà gli raccontava abbracciati sul divano: storie di sport, perché Phil Dowsett, questo il nome del padre, era stato un pilota di British Touring Car. Papà avrebbe tanto voluto che un domani fosse proprio Alex a fare da cantastorie per altri bambini, per i suoi figli. Forse per questo lo iscrisse a nuoto, perché voleva che il futuro del figlio fosse un futuro da raccontare, fosse un futuro di cui andare fieri. Sì, perché quell'istinto di rivincita verso ciò che ci capita lo abbiamo noi stessi ma prima di noi lo hanno, per noi, le persone che ci vogliono bene, i nostri genitori. A papà Phil piaceva immaginare Alex mentre raccontava storie a un nipotino perché questo voleva dire che suo figlio avrebbe potuto viverle quelle storie. Che suo figlio avrebbe potuto avere "una vita normale". Suo papà voleva esattamente quello che voleva quella signora e presto capì che l'unico modo per regalare una vita normale ad Alex era lasciargliela vivere come desiderava. Alex Dowsett desiderava correre in bicicletta.
Fu così che Alex Dowsett tornò ad essere il vero Alex Dowsett. Inizia in questo modo il racconto che questo ragazzo ha portato nelle città e nelle scuole con associazioni e campagne di sensibilizzazione. Per dire che è normale avere paura, sua mamma la ha ancora per le corse del figlio, ma l'emofilia è qualcosa con cui convivere, qualcosa da cui non farsi paralizzare, perché la medicina avanza e le cure ci sono. Lo testimonia lui, primo ed unico atleta professionista emofiliaco. Questa è la sua storia da raccontare a tutti e da gennaio a suo figlio. Già perché il desiderio di papà si è avverato e Alex diventerà a sua volta papà. Parlerà di tantissime cose con quel bambino, gli dirà che contro la paura si può sempre fare qualcosa e che la tua paura non è sprecata se serve a far coraggio ad altri. Poi gli racconterà delle gare e di quel giorno d'autunno in cui vinse una tappa al Giro d'Italia mentre piangeva e diceva che il futuro era tutto lì. E farà tanto perché queste storie non finiscano mai, perché l'immaginario di suo figlio sia il più variegato possibile. Un mese prima della nascita, per esempio, tenterà un nuovo record dell'ora e se ci riuscirà sarà ancora più felice perché quel bambino saprà che ancora una cosa in più è possibile.

Ad Alex Dowsett stava succedendo questo, perché quel senso di rivincita era deragliato, fuori controllo e Alex aveva dimenticato il motivo che lo aveva portato lì e se dimentichi il motivo per cui fai qualcosa, hai scordato tutto. Poi ci furono le parole di una signora in Portogallo. Una signora che non lo conosceva, o meglio, una signora che conosceva quello che era Alex Dowsett e non quello che stava diventando. Gli disse: «Grazie infinite, Alex. Ora so che mio figlio potrà condurre una vita normale». E Dowsett ricordò. Ricordò le corse in ospedale perché, quando da bambino si tagliava, anche per un minimo taglio, il sangue usciva a fiotti, non si arrestava più. Ricordò l'ansia dei suoi genitori, le paure per qualunque cosa facesse. Alex Dowsett scoprì così di essere emofiliaco: il suo sangue non coagulava bene e per rimediare a questo servivano delle iniezioni. Ma in realtà serviva molto di più, era necessario convincere tutti gli adulti che lui avrebbe potuto essere esattamente come loro. Dowsett, quel giorno, ricordò questo, ricordò i compleanni degli amici, a cui non veniva invitato per paura di quello che sarebbe potuto succedere se solo fosse caduto, se solo si fosse sbucciato un ginocchio. E pensare che Alex aveva imparato sin da bambino a farsi da solo quelle iniezioni ma le persone hanno paura, anche giustamente, se vogliamo, e non puoi farci niente.

E c'erano le storie che papà gli raccontava abbracciati sul divano: storie di sport, perché Phil Dowsett, questo il nome del padre, era stato un pilota di British Touring Car. Papà avrebbe tanto voluto che un domani fosse proprio Alex a fare da cantastorie per altri bambini, per i suoi figli. Forse per questo lo iscrisse a nuoto, perché voleva che il futuro del figlio fosse un futuro da raccontare, fosse un futuro di cui andare fieri. Sì, perché quell'istinto di rivincita verso ciò che ci capita lo abbiamo noi stessi ma prima di noi lo hanno, per noi, le persone che ci vogliono bene, i nostri genitori. A papà Phil piaceva immaginare Alex mentre raccontava storie a un nipotino perché questo voleva dire che suo figlio avrebbe potuto viverle quelle storie. Che suo figlio avrebbe potuto avere "una vita normale". Suo papà voleva esattamente quello che voleva quella signora e presto capì che l'unico modo per regalare una vita normale ad Alex era lasciargliela vivere come desiderava. Alex Dowsett desiderava correre in bicicletta.
Fu così che Alex Dowsett tornò ad essere il vero Alex Dowsett. Inizia in questo modo il racconto che questo ragazzo ha portato nelle città e nelle scuole con associazioni e campagne di sensibilizzazione. Per dire che è normale avere paura, sua mamma la ha ancora per le corse del figlio, ma l'emofilia è qualcosa con cui convivere, qualcosa da cui non farsi paralizzare, perché la medicina avanza e le cure ci sono. Lo testimonia lui, primo ed unico atleta professionista emofiliaco. Questa è la sua storia da raccontare a tutti e da gennaio a suo figlio. Già perché il desiderio di papà si è avverato e Alex diventerà a sua volta papà. Parlerà di tantissime cose con quel bambino, gli dirà che contro la paura si può sempre fare qualcosa e che la tua paura non è sprecata se serve a far coraggio ad altri. Poi gli racconterà delle gare e di quel giorno d'autunno in cui vinse una tappa al Giro d'Italia mentre piangeva e diceva che il futuro era tutto lì. E farà tanto perché queste storie non finiscano mai, perché l'immaginario di suo figlio sia il più variegato possibile. Un mese prima della nascita, per esempio, tenterà un nuovo record dell'ora e se ci riuscirà sarà ancora più felice perché quel bambino saprà che ancora una cosa in più è possibile.

Foto: Pentaphoto


La carne di Yoann Offredo

Il nero inghiotte. Un male oscuro. L'impossibilità di fare quel mestiere che ti è sempre riuscito così bene. La fatica a rialzarsi, il non riuscire a dormire la notte perché ancora pieno di energia. «Facevo circa trenta ore a settimana in bici e ora non sono più nemmeno abbastanza stanco per dormire la notte. Alle tre del mattino sono ancora sveglio e mi pongo delle domande. A volte mi sveglio pure in lacrime», racconta Yoan Offredo all'Equipe, annunciando il suo ritiro pochi giorni fa.

Bello, biondo, con quegli zigomi alti e lo sguardo intenso; a volte persino bellissimo in bicicletta, nato su due ruote come una creatura fatta di carne, leve, motrici, grasso e catene. Una speranza del ciclismo: quante aspettative che si riversano sulla schiena dei corridori? Una maledizione a volte soprattutto quando le avversità ti travolgono, meglio l'anonimato, a volte, anche se hai passato la tua carriera all'attacco. L'ingiustizia di dover cambiare mestiere a trentatré anni quando si vorrebbe ancora fare qualcosa, perché non si può accettare di dire basta, perché hai una caviglia a pezzi nonostante gli interventi chirurgici e il trapianto del tendine, e in bici non riesci a starci più. «Smetto di correre, volevo scrivere un post ma non sono in grado di farlo. Sono ancora nella fase della negazione. Ho sentito parlare di "piccola morte" quando un corridore si ritira: per me è sempre stato un concetto astratto. Quando corriamo abbiamo la testa sul manubrio e i paraocchi. Vorrei parlare con qualcuno ma dentro questo mondo non ho molti amici. Sono in una fase un po' di depressione. L'anno scorso Kennaugh e Kittel si sono ritirati a causa di questo male, ma è una parola ancora tabù in gruppo. La maggior parte dei corridori non si esprime e si nasconde dietro le apparenze: "ce l'ho fatta! Ho una bella macchina!". Io quando mi alzo al mattino sono triste nel non riuscire a trovare emozioni. Ho bisogno di un obiettivo da dare alla mia vita». Una macchina che ti travolge, ti mangia, ti sputa; un sistema che è un tritacarne con chi si mette a nudo e mostra la propria sensibilità.

A marzo del 2019 un episodio chiave che ferisce la sua anima e ne dilania il corpo. Il giorno preciso interessa il giusto, la gara era il GP Denain: una caduta terribile, una capriola volante nemmeno sull'asfalto ma sugli spigoli di una strada tempestata di ciottoli aguzzi. Riversato a terra mentre il tepore di un sole primaverile scaldava la pelle. Il trasporto in ospedale, la diagnosi iniziale che parlava di tetraplegia totale a causa di uno shock al midollo spinale. Il recupero lampo: trentasette giorni dopo è di nuovo in bicicletta. Il Tour del 2019, gli attacchi a vanvera, infiniti, a ripetizione, i minuti di vantaggio, in coppia fissa con l'amico Rossetto. Più di un amico, padrino di una delle figlie. Poi l'oblio e di nuovo quel dolore alla caviglia. Non riuscire a sentire il potere dell'adrenalina che diventa come una droga. La dipendenza dalle corse, dall'emozione, poi tutto scompare.

Fermato anni fa per un controverso caso di controlli saltati, «Vennero a casa mia mentre ero in corsa: come si può tenere conto di un caso del genere?», persino massacrato di botte durante un allenamento. Un'auto lo sfiorò, Offredo reagì, la donna alla guida scese con un coltello e l'uomo seduto dall'altra parte lo aggredì con una mazza da baseball. «Non sono arrabbiato, sono solo deluso dalla pericolosità di questo sport» disse quel giorno «non voglio che i miei figli un giorno lo pratichino», lui che divenne ciclista sulle orme del padre.

L'ultima corsa: l'Het Nieuwsblaad 2020, il 29 febbraio. Al nord come a lui piaceva, due volte nei quindici tra Roubaix e Fiandre e adatto alle corse di un giorno, settimo alla Sanremo del 2011 quando era ancora giovane e illuso che il ciclismo gli avrebbe dato tanto quanto lui aveva sacrificato per piacergli.
Prima di lasciare il ciclismo pedalato Offredo ha commentato il Tour de France 2020 per France Televisions mostrando quell'arguzia che gli tornerà utile nel riprendere gli studi. «Il prossimo anno mi iscriverò a un master di scienze politiche, specializzazione giornalismo». Per Yoann Offredo inizia una nuova fuga: qualcosa di buono il ciclismo glielo ha lasciato.

Foto: ARN/Pauline Ballet


Cento sfumature di solitudine

C'era un ragazzino, a Parigi, il 20 settembre. C'era anche l'ultima tappa del Tour de France, a Parigi, il 20 settembre. Quel ragazzino era accanto a delle transenne, più alte di lui, poste a protezione della bolla del gruppo, alla partenza. Quel ragazzino era lì per vedere. Per questo avvicinava gli occhi- chissà di che colore li aveva gli occhi- ad ogni fessura della transenna e provava a vedere oltre. Non crediamo abbia visto molto ma siamo certi che qualunque cosa vedesse gli bastasse, per restare lì tutto quel tempo. C'era silenzio, a Parigi, il 20 settembre e si sentiva tutto.

C'era Tao Gheoghegan Hart, a Milano, il 25 ottobre. C'era anche l'ultima tappa del Giro d'Italia, a Milano, il 25 ottobre. Tao Gheoghegan Hart aveva appena vinto il Giro d'Italia, dopo una cronometro corsa sul filo dei secondi. C'era una ragazza, Hannah Barnes, che gli correva incontro in una piazza Duomo deserta, avvolta nella nebbia. Anche Hannah è una ciclista. C'era Tao che le scostava la mascherina dal viso con una delicatezza indescrivibile, quasi a dire: «Fammi vedere ancora una volta quanto sei bella..». Poi c'era Tao Gheoghegan Hart che baciava Hannah Barnes. C'era silenzio a Milano, il 25 ottobre e si sentiva tutto.
C'erano Chris Froome e Rui Oliveira, a Madrid, l'8 novembre. C'era anche l'ultima tappa della Vuelta, a Madrid, l'8 novembre. Froome e Oliveira che si incontrano da qualche parte dopo l'arrivo, ancora in sella alle loro biciclette. Chris Froome che ha già vinto tutto ciò che si poteva vincere, Rui Oliveira che è al primo anno tra i professionisti. I due si erano fatti una promessa, chissà dove, chissà quando. Il loro è un appuntamento, in realtà, Froome toglie dalla tasca il suo numero e lo dona a Oliveira. Oliveira ringrazia, con un candore raro. C'era silenzio, a Madrid, l'8 novembre e si sentiva tutto.

Quel silenzio non lo avrebbe voluto nessuno. Quel silenzio non lo vorrebbe più nessuno. Perché è un silenzio surreale, perché è un silenzio che vorremmo fosse altrove. Ma quel silenzio c'è e, temiamo, ci sarà ancora per diverso tempo. Noi di quel silenzio vi abbiamo raccontato tre storie per raccontarvi una scelta. Si può vivere il silenzio come vuoto asfissiante e angosciante, come privazione immanente, oppure si può dargli la possibilità di essere altro. Di essere, per esempio, la capacità di cogliere ciò che nel rumore, nel caos, ci sfugge. Perché ritorneremo ad essere come eravamo un tempo. Prima o poi accadrà. E quando accadrà, forse, sapremo non farci travolgere dalla confusione e dalla folla, come viandanti distratti. Sapremo ascoltare ogni minima particella di caos e riconoscerne il valore. Sapremo vedere e raccontare più storie perché saremo meno distratti. Più felici, certo, ma soprattutto più attenti. E questo è ancora più importante.

Foto: Alessandro Trovati/Pentaphoto


La Vuelta di Roglič è un pugno agli incubi

L'aria di novembre, ai quasi 2000 metri dell'Alto de la Covatilla, sagoma ogni volto mettendone in evidenza tagli spigolosi. Gli zigomi sono lunghi coltelli a fendere il freddo come schizzati da righe e squadre in un progetto geometrico appena abbozzato. Gli angoli dell'umanità sono acuti, aspri, rigidi come la natura delle montagne quando l'autunno dirada verso l'inverno. C'è questa realtà acuminata sullo sfondo e la dolorosa nenia delle ascese- Puerto del Portillo de las Batuecas-Alto de San Miguel de Valero-Alto de Cristòbal-Alto de Penacaballera-Alto de la Garganta- come aghi nelle gambe, quando Richard Carapaz scatta ai tre chilometri e mezzo dal traguardo e la corsa sembra precipitare in un vuoto temporale che isola, attrae e respinge. Il dolore in queste circostanze assume i contorni di una pietà trasfigurata. Il dolore trasfigura e viene trasfigurato quasi sfregiato, confondendo sensi e sensazioni in un turbine che toglie il fiato passando dalla vista o dalle gambe. Che annebbia la vista col bruciore di un sudore freddo che dopo pochi metri tramuta in brividi e si asciuga in salviette appese al collo come rimasugli di battaglie dimenticate. Che taglia in pezzi grossolani le gambe, stese su pedali che non scorrono più disobbedendo alla fisica, quasi con la forza dei conati di nausea che sente risalire nelle interiora chi non deve affrontare solo l'acredine della terra ma anche il risucchio dei fantasmi che si nutrono ingordi dell'odore d'autunno e pullulano fra le foglie cadute e i tronchi ricoperti dal muschio.

I fantasmi che Carapaz getta alle spalle e trapassa come loro stessi trapassano i muri, con la scia d'aria mossa dal suo alzarsi sui pedali, a puntare con occhi iniettati di volontà sanguinea il prossimo metro di strada. Primož Roglič, in quell'istante, sa di incubi di notti scure e di albe attese rivolgendo auspici verso quella falce di luna lontana che tanto profuma di Spagna e di tutta l'intensità della nazione iberica. Trasfigurare significa cambiare forma e stato, significa segnare e farsi segnare. La trasfigurazione in questo momento è simile all'attrito del tempo e dello spazio che corrodono tutto quello che mostra loro il sembiante, scagliando in chissà quale viscera volontà e desideri. Qui non bastano più. Qui è la paura a prenderti a morsi perché non c'è più un domani imminente, perché il futuro è lattescenza confusa. Carapaz e Roglič sono sul filo di questo scorrere di realtà e ci restano per pochi minuti ma sembra l'eternità.
I denti dell'illusione sembrano conficcarsi nella pelle di Roglič e invece lasciano una vecchia cicatrice ma feriscono Carapaz che ha solo addolcito qualche chilometro danzando su muscoli vivi e sperando Madrid. Gli incubi di quella luna bugiarda che Roglič aveva visto da Parigi sono gli spettri che per qualche notte Carapaz vedrà in ogni angolo del sonno. Roglic ha sentito ancora male, come se gli avessero disinfettato una ferita con alcool puro e senza sedazione, ha teso ogni centimetro di muscolo e per qualche istante ha come avuto la sensazione che quel vuoto fantasmagorico lo stesse invadendo, che quel muro di fantasmi lo avesse imprigionato ancora a pochi sospiri dal traguardo. Come la ricerca negli incubi, con la stessa frustrazione di quella delusione, di quella mancanza. Non questa volta, Roglič. Non questa volta in cui l'andatura è quel ramo sul filo di un burrone o la rete aperta sotto. Questa volta il tutto è qualcosa che lenisce e carezza. Questa volta il tutto è un respiro appoggiato sul diaframma e uno sguardo che vola alto. Questo tutto assomiglia a Madrid che domani sarà decadenza dimenticata e bellezza in divenire.

Foto: Bettini