Andare in bicicletta mi rende felice
Peter Schermann aveva ventisei anni quando comprò la sua prima bici da corsa. Fino a quel momento aveva giocato a basket in una squadra amatoriale, si era laureato in psicologia e il suo tratto distintivo era sempre stata una smaccata concitazione dentro al fisico di un corazziere: 190 centimetri per 95 chilogrammi.
Quando uscì in bici per la prima volta si era dimenticato di gonfiare bene le gomme e dopo dieci chilometri aveva dovuto farsi venire a prendere dalla sua ragazza: bucò entrambe le ruote e tornò mestamente a casa.
Alla sua prima corsa si presentò con una maglietta con su scritto "Livestrong"; la gente gli rideva dietro, vedeva questo buffo e goffo omaccione cercare di districarsi con la mountain bike e che veniva superato da ogni concorrente possibile: finì doppiato due volte ed estromesso dalla corsa. Ma non ne fu per nulla turbato.
Il ciclismo lo aveva rapito, era la brama di agonismo che lo aveva sempre caratterizzato sin da quando, bambino, si allenava giorno e notte con un canestro fuori dal garage di casa sua insieme al suo fratello gemello. Cresceva di livello nella ditta in cui lavorava, ma aveva bisogno di placare quella tirannica sete, finendo per alzarsi ogni giorno alle cinque del mattino con il solo scopo di allenarsi. Poi andava a lavoro in bicicletta, e in pausa pranzo si allenava; tornava a casa in bicicletta e la sera ancora ad allenarsi e poi, nei giorni di riposo, via ad allenarsi per recuperare il tempo perso dietro alle cinquanta ore di lavoro settimanali in azienda.
Dopo il primo anno di bici, era il 2015, Peter Schermann strapazzò la concorrenza in una gara locale su strada finendo per impressionare Marc Pschebizin, leggenda tedesca del Triathlon e soprannominato Mister Inferno per aver vinto ben dieci volte una delle prove più dure della specialità: l'Inferno Triathlon. Preparatore atletico, Mister Inferno consigliò a Peter di darsi una calmata «Sei bravo, hai talento, ma esageri con gli allenamenti». E infatti Peter, a furia di allenamenti massacranti, formaggio quark e noci, racconta che «dopo sei mesi iniziai ad assomigliare più a un ciclista che a un giocatore di basket». Due anni dopo, Peter vince la stessa corsa di mountain bike che lo aveva visto umiliato tempo prima.
Ma la mattina di Pasqua 2017 viene inghiottito da un buco nero degno di un passaggio dimensionale dentro Providence – Rhode Island. Erano passati un paio di giorni dall'ultimo allenamento e dopo aver chiamato al telefono un amico per uscire in in bici iniziò a sentirsi male. Dalla stanza penetravano rumori ovattati: Peter si guardò allo specchio e non riusciva a riconoscersi. Era, racconta sulle pagine di develo.cc, come se stesse guardando l'immagine deformata di qualcuno che non era lui. «Ho fatto la doccia e ho provato a cantare qualcosa ma non usciva nessun suono. Non riuscivo a formare le parole mentre l'acqua della doccia sbatteva così forte, come fossi nel mezzo di una grande tempesta».
Bussarono alla porta, era il suo amico. Andò ad aprire in una sorta di trance, mezzo svestito. L'amico credeva fosse un gioco, uno scherzo, poi le vertigini presero il sopravvento. Per fortuna di Schermann l'amico era stato paramedico e colse la gravità della situazione chiamando un’ambulanza. Dopo averlo visitato sul posto gli dissero: hai avuto un ictus.
Non riusciva a parlare, Peter, non poteva muovere il suo corpo: era come un pezzo di carne intorpidito ma con i pensieri vigili: «La mia mente era completamente normale a parte il fatto di sentirmi stordito, quasi sopraffatto». Mentre aspettava l'arrivo dell'ambulanza Peter ricorda, come un sogno lontano, che stava cercando di indossare la sua biancheria intima pensando: «Questa roba mi sta scomoda, non è la mia».
Gli dissero che il suo sistema nervoso era stato inattivo per oltre mezz'ora e che molto probabilmente il suo lato sinistro del corpo non si sarebbe più ripreso per via dei danni cerebrali causati dall'ictus. E lui, quattro mesi dopo, era di nuovo in sella a una bicicletta, ma non solo. Al via del Tour of Xingtai, corsa su strada del calendario UCI, aiutò il suo compagno di squadra Carstensen a conquistare un successo di tappa.
Oggi Peter Schermann pedala ancora, più di prima. Racconta di come il ciclismo abbia avuto una parte fondamentale nella sua riabilitazione, di come gli abbia dato la motivazione nell'alzarsi ogni mattina, prima pedalando qualche minuto, poi un po' di più, poi diverse ore al giorno, al sole o sotto la pioggia. Ha corso su strada, ha vestito la maglia della nazionale tedesca nella coppa del mondo di mountain bike ottenendo piazzamenti dignitosi e all'inizio del 2020 ha persino chiuso nei primi dieci la Cape Town Cycle Tour. «Incredibile, vero?» racconta. «Nessuno ha capito perché mi è successo quello che mi è successo, ma io so una cosa soltanto: andare in bicicletta mi rende felice».
Foto: Peter Schermann/Facebook
Smog
“Dolce massacro, bici, dolce massacro. Perché ho cominciato ad andare in bici mascherato come un clown per le strade di Roma? Mandando giù lo smog fino alle cavità più nascoste degli alveoli, rischiando un'infinità di volte di finire sul lastricato, inghiottito da qualche paraurti.
Perché continuo a pedalare ancora per dieci chilometri dentro una giungla di lamiere, prima di uscirne fuori e finalmente respirare senza sentir dentro l'anidride carbonica che mi divora i polmoni?
Perché i chilometri, la fatica, gli scatti, i controscatti, le salite, le forature, le mani sporche di catena, i tubolari che non vogliono né uscire né entrare, gli automobilisti, i clacson?
Gli automobilisti che ti suonano in continuazione, che ti evitano per miracolo mandandoti al diavolo se pedali un centimetro più a sinistra della “loro” corsia. Perché?
Non saprei, ma ogni tanto, a cavallo di quella bici, mentre ti mantieni miracolosamente in equilibrio su quei due centimetri di gomma, sospeso in aria, senza rumore, spinto dalle tue sole forze, ti succede qualcosa di insolito e ti senti la vita addosso. E non capita spesso di sentirsi la vita addosso, sia pure per un attimo. A volte ne basta uno per capire che ce la possiamo fare, che ce la stiamo facendo; solo uno per sentirsi ancora in corsa, continuando a nuotare senza andare a fondo.
E non c'è nient'altro che ti vada di fare se non far girare le tue maledette gambe su quei pedali.
Mi rendo conto di quanto tutto questo possa essere crepuscolare per una gnocca grunge e il suo teddy boy tutto anfibi e mimetica: rimarrebbero un po' perplessi, soprattutto sulla questione della vita addosso. E ogni tanto, lo ammetto, la penso come loro. Penso davvero che quel frenetico frullio sia veramente stucchevole, che non abbia niente a che fare con un terzo tempo di Jordan, una stop volley di Mac, una pirouette del Tartaro Volante...
Pure, quella solida presa sul manubrio che te la fa possedere – soprattutto quando lo impugno da sotto in posizione da volatona finale, da crono, alla Jacques Anquetil o alla Charly Gaul in salita, insomma nel bel mezzo della sua curvatura – quella posizione compatta sul telaio, quel mento spinto in avanti sopra il manubrio, quei muscoli tirati dai tendini sui pedali, danno un potere inesauribile in sella alla tua bicicletta.
Ecco perché vado in bici, e non rompetemi, pseudogiocatori di calcetto notturno, con la solita storia che non ci trovate niente d'interessante in una corsa ciclistica o in un'uscita fuori porta di sessanta chilometri...
La bici la ami se la cavalchi, finquando non riesci a domarla la odi e ti viene la nausea soltanto a guardarla.
Finquando non la domi, la bici è meglio che non la stuzzichi (detto degli ultimi sopravvissuti pedalatori delle città).”
Il brano si inserisce apparentemente senza un senso, all'interno di “Miguel y Marco – la fantastica corsa nella terra di Macondo”, libro del 1995 di Maurizio Ruggeri, edito da Limina. Un resoconto ironico, pungente e romanzato del Mondiale di Duitama, e dove un finale alternativo elimina – nel vero senso della parola – Olano, “compañero ribelle che sembra il suo gemello monozigote, il suo replicante che non ha voluto perdere di vista”, e lancia Indurain e Pantani verso il traguardo. Un libro geniale, che alterna rabbia verso il mondo del giornalismo e del doping, sprezzante ironia contro i mostri sacri dell'epoca – da Adorni a Bugno e De Zan. Tra agonismo e poesia proietta i protagonisti di quell'indimenticabile gara nell'olimpo del cinema di Bergman, delle imprese di Gimondi e dell'epica di Melville e di Omero.
Foto: olympodeportivo
«Sei sempre il benvenuto»
La prima volta che ho scambiato qualche parola con Cecilie Uttrup Ludwig eravamo a Innsbruck, al Mondiale 2018. Ero con un collega nella zona bus della partenza della prova femminile: «Vieni con me, ti presento Cecilie. È una ragazza speciale». Avrei accettato senza alcun dubbio, in realtà ho tentennato qualche minuto. La partenza di una prova mondiale è un momento estremamente delicato, non tutti hanno voglia di parlare e, per carattere, temevo di disturbare. Mi è bastato incrociare lo sguardo di Cecilie Uttrup Ludwig, ma chiamatela pure Cylle, per cambiare idea ed avvicinarmi. Qualche parola, qualche sorriso e poi un congedo. Non un congedo qualunque. Poche parole ma dense di significato: «Torna quando vuoi, sei sempre il benvenuto». Cose rare, insomma.
Quel giorno ho iniziato a capire chi era Cylle. Il resto l’ho compreso col tempo. Questa ragazza da leggere. Un libro piacevole, dedicato all’allegria. E lei lo dice: «Io rido perché è bello ridere. Ed è bello il mondo con tante persone felici». Un inno alla felicità, alla genuinità. Come a modellare quel sentimento che sembra innato in lei. In realtà no, in realtà la felicità va difesa, protetta, voluta. Non è una scelta facile, comporta una forte capacità di lettura alternativa del circostante. Una lettura non omogenea, una lettura che sappia distaccarsi dalle tante cose che dice la gente. Ma Cecilie Uttrup Ludwig è affezionata alla felicità e a ciò che è felice. Sarà per questo che oggi parla di “un arrivo felice”. Sarà per questo che raddoppia, se possibile triplica, gli aggettivi che definiscono le sue sensazioni. Non è solo felice, è felicissima. Non è solo soddisfatta, è estasiata.
Una felicità radicata. Sì, perché Cylle nota tutto. Anche il minimo graffio delle compagne di squadra, anche sotto la pioggia, sotto il diluvio. Chiede, si informa, si interessa. Ha un’interiorità ricca che trabocca dalla mimica. Ogni tanto anche dalle parole. Così appena taglia il traguardo del San Luca, dopo aver abbassato le braccia, grida con tutta la voce che ha. Dice solo sì. Yes, in inglese. Uno sfogo. Arriva in fondo al rettilineo, torna indietro, incontra una compagna di squadra ed esulta con tutto quello che ha. Con un’incredulità bambina: «Oh my God, oh my God, oh my God». Fino al podio. Che le restituisce l’applauso degli addetti ai lavori e una inconfessata timidezza quando troppe macchine fotografiche la inquadrano. Si scosta, quasi un passo indietro a fare spazio alle compagne. Un pensiero fugace a tante cose. E di nuovo il suo sorriso.
Sì, Cylle. Sei felice. Tanto.
E te la meriti tutta questa felicità.
Foto: CLaudio Bergamaschi
Diavolo di un Gerbi (e di un Evenepoel)
Che bellezza i vent'anni. Immaginatevi ad averli durante un Giro di Lombardia e magari vincerlo come Giovanni Gerbi, il diavolo rosso. O semplicemente poterlo correre, come Remco Evenepoel, lo spauracchio dei nostri tempi. Vent'anni: e chi mai potrà ridarceli.
C'è un filo che accomuna i vent'anni di Evenepoel e quelli di Gerbi e che potrebbe essere annodato. Su quel filo scorre il primo Lombardia della storia: lo vinse proprio Gerbi. La corsa nacque per chiudere la stagione e fino a un tempo nemmeno troppo lontano era definita “la classicissima”. La prima edizione si disputò nel 1905 e sarebbe dovuta essere la resa dei conti tra i clan di Cuniolo e Albini per una lite scoppiata dopo una serie di vittorie dell'uno sull'altro: era un 12 novembre e la corsa si svolse in mezzo al freddo al fango. Alla fine la vinse Gerbi, abile a metterci lo zampino, diavolo non per caso.
E visto che si ricorre a stratagemmi cabalistici: sarà il primo Giro di Lombardia (ahinoi chiamato ora Il Lombardia – che di accattivante non sembra avere nulla) per Evenepoel, a vent'anni – tanti quanti Gerbi quella volta. Un talento fiorito in primo pelo, con quella forza straripante che per qualcuno sfocia persino in arroganza. Quando parte non ti resta che vederlo sempre più piccolo e con un distacco sempre più grande. Fossimo nel ciclismo dei pionieri ne scriveremmo la sua epopea. Fosse vissuto un secolo fa ne esalteremmo la grandezza, abbandoneremmo maldicenze e dubbi guardando solo alle sue imprese.
I due sono figli del proprio tempo: immaginatevi se oggi Remco Evenepoel sparasse a un contadino con una carabina o investisse una signora in piazza Campo del Palio ad Asti. Oppure se corresse con una bicicletta pagata trenta lire, andasse in fuga per duecento chilometri e vincesse con quaranta minuti di distacco sul secondo. Oppure immaginatevelo che si sveglia tardi dopo aver dormito in una locanda, parte insieme al suo compare con un quarto d'ora di ritardo, riprende il gruppo, stacca tutti e vince – davanti al suo compare.
Immaginatevi Remco Evenepoel fare lo scalpellino, il sarto, il garzone di bottega oppure immaginatevelo sulle strade del Tour scambiato per un suo avversario, assalito, buttato a terra e picchiato, e salvato solo grazie all'intervento di alcuni tifosi armati di pistola.
Immaginatevi Remco Evenepoel presentarsi al via con un maglione rosso; ma “chi a l’è chel diau? “ potrebbe sentirselo dire davvero oggi, se gli venisse qualche strana idea.
Immaginatevelo in corsa, proprio oggi, in mezzo a quelle strade tortuose come un accidenti, ma vuote per colpa di quel maledetto virus. Immaginatevelo all'attacco, ad accelerare la sua educazione e a strapazzare il destino degli altri.
Comunque vada sarà un bel vedere, diavolo di un Evenepoel, di Gerbi ne abbiamo soltanto letto, ora tocca a te farci divertire.
Foto: Giovanni Gerbi, Le Monsterrato
Dai Paolo! Dai Paulinho!
Uno è Paolo (Bettini), l'altro è Paulinho (Sergio). Uno è affamato, l'altro, a sentire la telecronaca della Rai, sembra quasi lì per caso. Un turista che sceglie la Grecia come meta estiva e vaga in preda ai vapori dell' ouzo e al sapore divino delle costolette. Oppure uno spettatore accaldato che insegue a torso nudo i suoi idoli.
Uno è un grillo, l'altro una sfinge del galio. Uno è un lupo, l'altro un buon segugio che fiuta il momento giusto, la ruota giusta, la schiena più ammiccante tra trenta o più. Uno è un fuoriclasse, l'altro un comprimario - «ma non sottovalutarlo», gli ripete Ballerini in corsa. Era Atene, era la Grecia, era il 14 agosto del 2004. E faceva un caldo che sembra di sentirlo ancora oggi.
Uno attacca, l'altro risponde. Il Licabetto che sovrasta Atene è lontano dal traguardo, ma nemmeno troppo. Dai Paolo! Attacca Paolo! Scatta su quella salita non irresistibile ma che alla lunga fa male. Non avrai mica voglia di usare la funicolare? Non pensare a Ullrich, fa paura solo a se stesso. E quel Valverde, poi? Gli stai insegnando il mestiere e da te imparerà come si fa. Gilbert, invece, è ancora un bambino. E Vinokourov? Ha occhi piccolissimi che sembrano due fessure, parla in un idioma incomprensibile, tutto suo. Lo hai mai sentito quando prova a dire qualcosa in italiano? Non puoi avere paura di lui. Dai Paolo! Fatti beffe di loro, non crederai mica che se loro avessero la possibilità di staccarti ti lascerebbero vincere? Sono soldati del Re, tu un brigante: ti salterebbero in groppa e ti riempirebbero di calci e pugni fino a farti scendere dalla bicicletta.
E così Paolo va e Paulinho pure. Uno è un mito da narrare davanti a un fuoco – due coppe del mondo (ma quanto era bella?), una Milano-Sanremo, due Liegi, poi arriveranno due mondiali – l'altro è un simpatico aneddoto da raccontare al bar davanti a una (due, tre...) pinte di birra.
Dai Paolo! Attacca su quella salita creata per sbaglio dall'ira di Atena; la tua ira è calcolata, quella di Ballerini invece è tattica sopraffina – si racconta di quante ve ne siete dette, ma tra toscani, amici, colleghi, grandi corridori, accade.
Dai Paolo, mancano mezz'ora all'arrivo e nessuno ci sta capendo nulla. In televisione parlano di Azevedo (già!) più che di Paulinho: “non potevi trovarti compagno migliore” - ti avremmo voluto gridare noi, da qui. Lo facciamo a distanza di anni e di chilometri, facendo finta che ancora nulla sia successo. Forza Paolo, forza anche te, Paulinho: dai una mano finché puoi. Il Portogallo non è mai stato così in cima al mondo – all'Olimpo? - di una corsa in bicicletta.
Dai Paulinho, dai Paolo: c'è un caldo che ti si appiccica addosso come una seconda pelle. Dai Paolo, supera l'ultimo chilometro, non fermarti che il surplace ha gli artigli neri come un granchio di ferro, rispondi alla volata di Paulinho che sembra fatta giusto per far spaventare tutti a casa, o come per dire: “Guardate che c'ero anch'io”. Occhio: dietro il gruppo rinviene. C'è Axel Merckx che vuole portare nella famiglia “Il Cannibale” l'unica medaglia che manca.
Non ascoltare quello che dicono in sala stampa: da non sapere chi fosse, Paulinho è diventato: “ un corridore temibile allo sprint!” Dai Paolo, affiancalo, superalo, gioisci. Che il tuo trionfo è pure nostro.
Giusto il tempo di capire e di staccare le mani dal manubrio, salutare la tribuna con un gesto impercettibile, mostrare un accenno di pallidi muscoli e sfoderare una bocca a forma di o per lo stupore, il giubilo. Uno è medaglia d'oro, l'altro è argento. Dai Paolo! Dai Paulinho! L'eco si sente fino a qui, fino a oggi.
«Mamma, ha vinto papà?»
Oscar, il figlio di Damiano Caruso, un giorno era davanti alla televisione durante una gara ciclistica: «Mamma ha vinto papà?». Quel giorno papà non aveva vinto e mamma dovette dirglielo: «Non è niente mamma. Facciamo finta che abbia vinto, così gli organizziamo una bella festa». Oscar ha sei anni ed è stata la prima persona a cui ha pensato papà Damiano quando, il due agosto, è tornato alla vittoria al Circuito di Getxo, dopo sette anni e mezzo. «Ho pensato a lui dopo il traguardo. Mi sono detto: adesso papà ti porta una coppa vera e organizza una vera festa». Così Damiano Caruso ha regalato quella coppa ad Oscar e per il piccolo di casa Caruso quello è il regalo più bello del mondo. È felice e papà vuole solo questo per lui: «Quando sei felice non ti arrabbi, non provi invidia, non discuti in continuazione. Io sono un uomo felice e la felicità degli altri mi piace».
«Ho passato tanto tempo a casa con la mia famiglia. Quando sono ripartito ho cercato di spiegare ad Oscar cosa sarebbe successo da quel momento in poi. In questi anni mi sono tolto tante soddisfazioni con i miei capitani e le mie squadre; volevo una vittoria non tanto per me. La volevo per la mia famiglia e per i miei amici più cari. La volevo per ricambiare. La volevo perché era giusto che loro potessero gioire vedendomi a braccia alzate». Damiano Caruso è un gregario, un gregario di quelli bravi, ed ha una devozione incondizionata verso il suo ruolo: «Essere gregari vuol dire non avere alcuna riserva sul tuo impegno. I miei capitani si fidano di me perché sanno che la mia parola vale. Perché so quanto è importante la parola data e non la tradirei mai». Quando gli chiediamo chi sono i gregari di questa società, in questo periodo, non ha dubbi: «Credo che siano tutte le persone che, nonostante i rischi, nonostante la paura, continuano a fare il loro lavoro. Dal fattorino che non si è mai fermato un giorno per portare il cibo a casa agli anziani, ai medici nelle corsie degli ospedali. Sono questi i gregari di lusso del mondo. Coloro che rispettano il loro dovere e vanno fino in fondo».
Poi c’è il caro vecchio ciclismo che nel tempo è cambiato, forse troppo: «Credo ci sia dell’esasperazione. Non solo nel ciclismo, sia chiaro. I giovani di oggi sono troppo succubi del risultato, troppo ansiosi. Facendo così, se non finiscono per odiare la bicicletta, finiscono per prendere qualche brutta strada. Bisogna spiegare che ogni storia vale. Ogni storia conta. Anche se non vinci, anche se arrivi ultimo. Bisogna spiegare che ogni storia merita di essere raccontata e rispettata. Siamo duecento corridori con duecento storie diverse. Proviamo a raccontarle tutte».
Proviamo. È una promessa.
Giovanni Visconti, come al primo giorno
Chi prova a narrare storie sa bene il talento di Giovanni Visconti nel raccontare. Giovanni parla nel modo che preferiamo: umile, semplice, spontaneo. Tu lo ascolti e, qualche volta, quasi dimentichi di rilanciare la domanda tanto quel flusso ti prende. «Sai, mi sembra tanto il primo giorno oggi. Ma non il primo giorno di corsa dell’anno, proprio il mio primo giorno di gare di quando ero un ragazzino. Forse anche bambino. Diciamo che è un poco tornare piccoli, almeno con le sensazioni». In realtà, lo sguardo al mondo del siciliano di Palermo è rimasto quello di quel ragazzo. Basta poco per capirlo. Per esempio osservare i dettagli su cui si sofferma. Dettagli che restano impressi quando si è più giovani, da grandi, purtroppo, si tende a normalizzare tutto. Una disdetta degli anni. «Penso che per i più non sia salvezza ma taluno sovverta ogni disegno» diceva Montale. Visconti è la variante.
Venerdì scorso era dispiaciuto: avrebbe voluto essere a Siena a correre quella che, per lui, è la corsa più bella del mondo, la Strade Bianche. Avrebbe potuto dire e scrivere molte cose, ha scritto solo che gli mancavano «quelle sere fuori dall'hotel a pensare a come sarebbe andata l'indomani, a toccare per l'ennesima volta le ruote, a controllarne la pressione». Gli mancava un dettaglio, un attimo. Quel giorno lo ha passato allenandosi e oggi dice che, forse, aver evitato quel caldo, quella polvere, quella fatica, potrebbe dargli qualche vantaggio. Sì, lo dice. Sorride. Ma c’è nostalgia. C’è voglia di ritorno.
Come sta, a dire il vero, non lo sa neanche lui. Non può saperlo. «Quando torni a fare qualcosa dopo tanto tempo non sai cosa aspettarti. Lo sai solo dopo averla fatta. Spero che vada tutto bene ma allo stesso tempo ammetto che qualche dubbio lo ho. È stato un periodo difficile, per tutti. È così diverso. Ci manca il pubblico. La gente è parte di noi. È così brutto non poterla vedere. Verrebbe voglia di non crederci invece è proprio vero».
Giovanni Visconti ha un desiderio. Vorrebbe che la stampa, che le televisioni, che i mezzi di informazione, raccontassero questa storia seppur triste: «Noi stiamo tornando a correre, stiamo tornando alla normalità ma c’è stata tanta sofferenza in questo periodo. Tanta fatica per restare a galla. Per esserci, per esserci ancora. Proviamo a parlare delle squadre, degli organizzatori, dello staff che c’è dietro di noi. Ricordiamo la loro importanza. Le loro difficoltà. Dovremmo smetterla di dare le cose per scontate. Nulla è scontato. Nulla».
È vero, Giovanni. È vero.
Foto: Claudio Bergamaschi
L'oro di Casartelli
Barcelona, Giochi Olimpici del 1992. Si fa la storia: Christie, Sotomayor, Settebello, Magic Johnson, Michael Jordan, Larry Bird, Dream Team. In mezzo a loro Fabio Casartelli.
Barcelona, Sant Sadurní d’Anoia per la precisione. È il 2 agosto. Prova in linea di ciclismo su strada da disputare in mezzo ai soffocanti vigneti che producono il Cava, lo spumante spagnolo. Fabio Casartelli è giovane, spumeggiante per l'appunto; come tutti i giovani è anche bello e pieno di speranze. Come tutti i suoi coetanei più che preoccuparsi del futuro si occupa del presente e il presente, quel giorno, significa Giochi Olimpici.
Dilettanti, perché quella fu l'ultima edizione: dal 1996 via libera ai professionisti. Durante la stagione Casartelli è uno dei migliori in Italia e di conseguenza è una dei tre selezionati per la prova olimpica. Su di lui molti scommettono come futuro cacciatore di grandi classiche. La Sanremo è tagliata per lui, si dice. E il tracciato olimpico, severo ma non troppo, ricco di saliscendi, dominato dall'afa delle campagne catalane e dal bollore di un asfalto così chiaro da accecarti, è fatto su misura per il corridore cresciuto nella provincia di Como. E in gruppo non lo sanno, o meglio, scelgono diversamente marcando Gualdi e Rebellin.
È una corsa che si rivela lineare come da protocollo. Coltello tra i denti, cadute, carneadi alle prime armi. A poco più di un giro dal termine si decide tutto. Casartelli rientra nel gruppo davanti; ha il fiuto per cogliere il momento buono, perfetto gioco di squadra con Gualdi e Rebellin - uno che ancora oggi pedala in gruppo. Davanti restano in tre; stringono un tacito quanto paradossale accordo, come fosse il finale di un racconto di Raymond Carver. Una medaglia sarebbe arrivata in ogni caso e difatti sul traguardo, mentre Fabio Casartelli sprinta e conquista l'oro, Dekker, secondo, e Ozols, terzo, alzano le braccia al cielo ammaliati dall'idea di un podio olimpico. Nel gruppo dietro, tra gli altri, chiudono Zabel e Armstrong.
Dopo aver tagliato lo striscione a braccia alzate, Casartelli è assalito dai tifosi; gli strappano la maglia dalla gioia tanto che salirà sul podio con quella di Gualdi.
Abbiamo pianto quel giorno per Fabio Casartelli, piangeremo ancora per lui tre anni dopo. Quella, purtroppo, è una storia che non avremmo mai voluto conoscere, né vivere, né raccontare. Ovunque rimbalzi il suo ricordo, rubando la chiosa a Roberto Perrone: “Fa buona strada, Fabio”.
Percezioni
Quante modalità ci sono affinché l’essere umano possa percepire il circostante? I sensi, certamente: vista, udito, olfatto, tatto e gusto. Sono qualcosa di particolare i sensi, a metà tra intelletto, anima e una certa meccanicità. Il senso, infatti, seppur teoricamente connotato da un qualcosa che sfugge al nostro intelletto, in realtà, almeno per come vive la società moderna, è molto legato all’intellettualità. Tendiamo a controllare i sensi, a filtrarli, provando a capire dove vanno a parare, forse anche per evitare di smarrircisi. Forse, e ripetiamo forse, come uomini saremmo anche più “simili” ai sensi e alle sensazioni, per quanto l’intelligenza umana sia in grado di fare cose spettacolari. Li freniamo, li controlliamo, per sentirci sicuri. Come se non sapessimo che il cervello mente e spesso ricostruisce una parziale verità. Talvolta anche solo per paura. Sì, perché anche la paura è molto mente.
Capita, poi, di trovare qualcuno che assomigli così tanto alle sensazioni, che le viva così intensamente, che non le rifugga, qualcuno che sia sensazione. Francesca Baroni è così. Le chiediamo se le vibrazioni degli sterri senesi non la spaventino: «Le vibrazioni della bicicletta per me ormai sono una cosa normale. Ho un problema di udito e per comprendere le parole delle persone osservo il labiale. La mia bicicletta la conosco perfettamente, non sento i suoi rumori con le orecchie, li sento attraverso le vibrazioni. Una vibrazione strana per me significa che la bicicletta ha qualcosa che non va. I meccanici guardano, controllano e trovano il problema. Le vibrazioni sono una sorta di udito. Un mio modo per sentire. Non mi creano problemi. Il resto sta tutto nel pedalare forte». Lei, solitamente, fa cross con il team Guerciotti e alla sua prima Strade Bianche osserva: «Lo sterrato percorso con la bici da strada è tutta un'altra cosa rispetto allo stesso in bici da cross: le gomme sono lisce e più strette rispetto ai tubolari che solitamente si usano nel cross e anche le pressioni da tenere sono diverse. Il secondo e il terzo settore mi piacciono molto. Il rischio di forature è sicuramente maggiore. La paura di non essere all’altezza quando affronti qualcosa di nuovo c’è sempre. Però c’è anche la speranza di esserlo».
Francesca ha un qualcosa di Siena: lentiggini e capelli che sfumano su un rosso che tanto richiama la Toscana. Fra simili ci si capisce: « Mi ha fatto emozionare. La Strade Bianche, è sempre stato un mio sogno e finalmente lo ho realizzato, grazie al team Servetto Piumate Beltrami. Mi sono messa alla prova. Credo dovremmo farlo sempre». Del resto, glielo hanno detto anche i suoi genitori, quando la hanno accompagnata in stazione a Viareggio: «Fieri di te sempre. Ricorda: la gara finisce allo striscione di arrivo, non si molla mai». Valigie in mano e si sale a bordo. Via.
Quando ci dice che i suoi eroi sono i suoi genitori, ci scuotiamo un attimo nonostante a Siena ci siano quasi quaranta gradi. Un brivido, un’emozione. Un momento in cui l’intelletto non può intromettersi e le viscere tornano al primordiale. Finalmente. Perché, alla fine, tutti noi abbiamo avuto nei nostri genitori degli eroi. Anche se non lo diciamo. Anche se da grandi, magari, ci vergogniamo di ammetterlo. Non dovremmo. Ce lo ha detto anche la corsa, la corsa di oggi. Punto e basta.
Foto: Francesca Baroni
L’è seria la faccenda
«Scegliere il tratto di sterrato in cui vedere il passaggio, l’è come scegliere dove mangiare la Ribollita. Non si fa a caso». Così ci spiega un signore sulla settantina, a pochi passi da Via dei Montanini, a Siena. Nicola Dini, massaggiatore alla Bardiani Cfs, racconta: «Se pensi alla Toscana pensi a strade affiancate da tante conifere, a una macchina che passa e alla nuvola di terra che si alza. Pensi a queste strade contadine. Sono bianche, contornate di rossastro. A un Bolgheri: un nostro vino, muscoloso, forte. Spartano, direi. Pensi al sapore robusto di un cinghiale in umido. Non a un’orata con un filo di limone. Rendo l’idea?». Sì, perché la creta senese è diversa da qualunque altro sterrato marchigiano o friulano: «Il nostro è uno sterrato fermo, mi spiego? Compatto. Per assurdo è anche più facile da affrontare». Dini è toscano, anzi è proprio senese. Vincenzo Albanese, invece, è di Oliveto Citra ma, vivendo in Toscana da anni, non ha dubbi: «La Strade Bianche è la gara più importante che abbiamo qui da noi. C’è una sorta di fierezza nell’essere toscani, no? Questa gara rappresenta la toscanità, come la rappresenta un Montepulciano, un Chianti, un Brunello di Montalcino o un Sassicaia. Il Palio di Siena. L’è tutto qui, direbbero da queste parti». Quindi oggi cosa farai? «È dura. Ma tutti vorrebbero vedermi lì davanti. Il bello è che è difficile anche provarci. Mettiamola così: provo a provarci».
Nicola Dini ha massaggiato i corridori ieri pomeriggio, giusto un’ora: «Il massaggio del giorno prima è un massaggio normale. Oggi al termine della corsa sarà diverso, massaggeremo zone che raramente tocchiamo: il collo, i muscoli scaleni, l’avambraccio, persino le dita. Quelle sollecitazioni sono tremende. Io ho provato a fare qualche tratto con i ragazzi: credimi, non riuscivo a curvare. Loro vanno, tu li guardi». Dini si fida delle sue mani e dei muscoli dei ragazzi. La sua è una consapevolezza artigianale, come quella dei panettieri quando fanno il pane. Fare è un verbo artigiano, un verbo sincero.

«Mazzucco era tesissimo, secondo me non ha dormito stanotte. Forse così è troppo ma l’adrenalina serve. Quando li vedo troppo rilassati, quasi con aria di sufficienza, mi arrabbio: avete una occasione, sapete quante persone vi guardano? Lo sapete? Sentitele. Sentite quello che andate a fare». Albanese conosce bene le strade di cui parliamo: «Mi ci alleno sempre. Ho tanti ricordi. Conosco gli angoli e le insidie più nascoste di quella ghiaia. Eppure secondo me ci farà più male il caldo: voi non avete idea della canicola in mezzo a quella polveriera. Sessantacinque chilometri di terra. Sessantacinque».
L’albergo della Bardiani Cfs è a circa quaranta chilometri dalla Fortezza Medicea. Una bolla per evitare il contagio. Poi un’altra bolla: la camera dei massaggi. «Quando entriamo da quella porta- ci dice Albanese- entriamo in un altro mondo. A parte. Bisogna eliminare le tossine che si accumulano in corsa. Se non venissi massaggiato dopo la corsa di oggi non potrei nemmeno pensare di correre lunedì». Dini guarda ogni corridore al suo ingresso e aspetta che sia il ragazzo a decidere come gestire quel tempo: «Qualcuno vuole parlare, altri scherzare. Qualcuno parla della gara e dei dettagli tecnici, altri di faccende personali, qualcuno vuole dormire. Un vincitore avrà i muscoli più tesi e sarà più difficile da massaggiare, diverso per un ragazzo che è stato tranquillo in gruppo. Fare un buon lavoro vuol dire rispettare ciò che desiderano. Passo tanto tempo con loro nei ritiri, la sera, la mattina presto, il pomeriggio sul lettino dei massaggi. Quel tempo è il mio più grande maestro. Quel tempo mi permette di conoscere l’uomo. Il corridore viene sempre dopo l’uomo».
Verrebbe da dire che quel signore di Via dei Montanini aveva ragione: non si fa a caso. Già, perché poi non vi abbiamo detto che la conversazione non è finita con quella affermazione. È finita con una domanda proprio mentre noi sorridevamo per il paragone ardito: »Non l’è da ridere. L’è seria la faccenda. Se sbagli dopo averci riflettuto, capirai anche il motivo dell’errore. Se sbagli perché hai provato a caso darai la colpa agli altri. Lo capite?». Sì e capiamo anche la prudenza di Albanese che oggi proverà a provarci. Ed è giusto così.
Foto: Claudio Bergamaschi