Il suo mondo è nel ciclocross
La vittoria conquistata nella seconda gara del Grand Prix Dohnany in Slovacchia non ha certo l'importanza statistica di un successo in Coppa del Mondo, di una prova del Superprestige o dell'affermazione al Campionato Mondiale.
Ma il sapore che dà alzare le braccia al cielo, dopo essersi sbizzarrito in mezzo ai campi del Ciclocross, ha comunque un gusto particolare, Mondiale, Coppa del Mondo, Superprestige o Grand Prix Dohnany non fa differenza, e questo Zdeněk Štybar lo sa.
Pochi giorni fa, 16 ottobre 2022, Štybar ha disputato la sua seconda gara stagionale nel Ciclocross lui che di questa disciplina è stato Campione del Mondo, che si è preso a sportellate con alcuni dei migliori interpreti della storia: accadde per esempio quando, nel 2014, vinse la sua ultima gara prima del 16 ottobre 2022, e che gara! ai mondiali di Hoogerheide, Olanda. Vinse la maglia iridata battendo un certo Sven Nys al termine di una battaglia fino all'ultimo metro. Fu la terza volta dopo Tabor 2010 e Sankt-Wendel 2011.
Štybar, nato in Repubblica Ceca, il 16 ottobre 2022 le braccia le ha alzate al traguardo della seconda prova del Grand Prix Dohnany vincendo davanti a un ragazzo belga di diciassette anni più piccolo di lui e che lo aveva battuto poche ore prima; la squadra di Ward Huybs, questo il nome del giovane belga, successivamente alla vittoria del suo corridore aveva postato sui suoi profili social una foto che ritraeva Huybs da bambino proprio di fianco a Štybar.
Di Štybar su strada conosciamo il suo profilo da corse del Nord, una vita a inseguire quel successo mai arrivato tra Paris-Roubaix, soprattutto, o Giro delle Fiandre, una carriera nella squadra più forte per quel tipo di corse, la Quick Step, in tutte le sue declinazioni, nomi e maglie; una carriera che lo vedrà il prossimo anno portare il talento e tutta la sua esperienza (saranno 37 a dicembre) nel Team Bike Exchange.
Sono stati anni difficili per Štybar, gli ultimi, con un intervento di ablazione al cuore, una condizione inseguita, una perfezione mai più raggiunta, così come il successo che su strada manca da quasi 3 anni, in un gruppo che viaggia a ritmi a tratti insostenibile anche per chi ha fatto della cadenza e della tecnica imparate tra solchi nel fango, sabbia, brughiere, punti fondamentali delle sue caratteristiche.
Ha deciso a fine stagione di rientrare con più continuità nel ciclocross con l'obiettivo, chissà, magari di chiudere il cerchio proprio a Tabor, Repubblica Ceca, nel 2024, dove si sovlgerà il Mondiale di ciclocross.
Intanto, proprio a Tabor, nello scorso fine settimana, si è corsa la terza prova stagionale di Coppa del Mondo. Vinceva Iserbyt come gli riesce spesso e volentieri soprattutto a inizio stagione, mentre Štybar chiudeva al 17° posto.
La sua non è stata una presenza banale: «Il pubblico è stato meraviglioso. Mi sosteneva come fossi al primo posto o stessi vincendo il Mondiale. Mi manca qualcosa soprattutto a livello di tecnica, ma miglioro di gara in gara. Nel periodo natalizio voglio continuare a fare cross anche in vista della stagione su strada».
Štybar è arrivato al traguardo a braccia alzate, anche stavolta, ma per un 17° posto, in mezzo a due ali che lo spingevano a suon di urla e applausi. Il pubblico di Tabor sa che il mondo di Štybar, nonostante quell'inflessione da stradista, appartiene al fango e gli restituisce indietro la sua passione.
Buone corse Diego Rosa
Al Giro d'Italia 2022 ci aveva fatto emozionare. Lo abbiamo cercato spesso, con gli obiettivi delle fotocamere per immortalare un momento, con la nostra penna per raccontarne un gesto, un'azione, per farci descrivere un'impressione, due battute, e alla fine delle tre settimane gli abbiamo riservato uno spazio all'interno della nostra rivista per raccontarne l'attitudine di un Giro corso all'attacco.
«Attacchi magari un po' senza senso, ma come quelli che piacciono a me» ha raccontato.
Oggi Diego Rosa ha annunciato il ritiro dalle corse o meglio dal ciclismo su strada perché dopo dieci anni tornerà alla sua vecchia vita quella da biker.
Lascia il ciclismo dopo aver sfiorato il successo al Giro di Lombardia del 2016, quello che segnò la prima grande classica vinta da un colombiano. Passò per primo Chaves, lui arrivò a tanto così da quella vittoria.
Lascia il ciclismo con 3 successi in carriera, il primo alla Milano-Torino del 2015, l'ultimo alla Coppi & Bartali del 2018, in mezzo il successo più bello in una tappa del giro dei Paesi Baschi, al termine di una lunghissima fuga tagliò il traguardo da solo alzando di peso la sua bicicletta.
«La fine di un capitolo non è sempre la fine di una storia» ha annunciato sul canale YouTube che ha appena aperto con l'obiettivo di raccontare quello che combinerà nelle ruote grasse.
«Il prossimo anno correrò in Mountain Bike - ha detto Diego Rosa - su strada sono stati dieci anni divertenti dove ho conosciuto un casino di persone che mi sono state vicino e mi hanno aiutato. Sono nato biker e morirò biker... ritornerò a fare quello che so fare meglio».
Noi lo vogliamo ricordare su strada con un'immagine scattata mentre era in fuga nella tappa del Blockhaus al Giro 2022.
Buone corse Diego Rosa, goditi la Mountain Bike!
Un nuovo inverno per Ferrand-Prévot
La notizia è di questi giorni. Dalla prossima stagione Pauline Ferrand-Prévot indosserà la maglia Ineos Granadiers. Interessante perché Ferrand-Prévot sarà la prima donna a firmare con Ineos per un progetto ambizioso che ha come orizzonte l'Olimpiade di Parigi 2024, ma che parte da un inverno pieno di programmi, in direzione ciclocross, con il campionato europeo di Namur e i Mondiali di Hoogerheide. Ma si parla anche della Coppa del Mondo di Mountain Bike a Valkenburg in primavera.
Quando si tratta di traguardi, tra l'altro, all'atleta francese non si possono proprio porre limiti. Sembra in grado di declinare la bicicletta come un sostantivo greco o latino, ovvero in ogni forma, in ogni specialità. Conoscendone casi, eccezioni, particolarità. Non solo ci prova, sarebbe già un bel segnale, ma ci riesce. Quest'anno si è laureata quattro volte Campionessa del Mondo in quattro diverse specialità, l'ultima volta proprio qualche giorno fa, nel gravel. Prima c'erano stati lo Short Track, il Cross Country e il titolo Marathon. Il talento nelle sue forme, una delle quali è l'esplorazione, la prova, la possibilità di divertirsi sempre più anche in quelle cose che, diventando importanti (come importante è una maglia iridata) dovrebbero diventare sempre più "pesanti", difficili.
Questo piacere si impara. Ferrand-Prévot lo ha imparato, sulla propria pelle, nel 2016 quando avvertiva il peso dell'essere chi era, dell'essere una campionessa, una di quelle atlete a cui si chiede sempre la perfezione, la vittoria, l'essere al posto giusto nel momento giusto. Senza la capacità di scindere atleta e persona: l'atleta può anche illudersi di non sbagliare mai, o quasi, la persona non può farlo. C'è la fragilità, c'è la paura, c'è l'errore. Serve un permesso: il permesso di essere come tutti gli altri, di cadere, di lasciar perdere. Quando ci si permette questa possibilità, arriva quel piacere, quell'entusiasmo, quella estrema manifestazione della bellezza del talento. La forza di Ferrand-Prévot è stata quella di concedersi questo permesso. E guardatela adesso, guardate il rapporto che ha con quella bicicletta, la stessa che per qualche tempo non poteva vedere, perché le ricordava quella finzione di infallibilità.
Per l'arrivo in Ineos, ha parlato di sperimentare materiali, possibilità, di migliorare perché vuole fare ancora di più, ha parlato della libertà di scegliere un calendario di gare, di prendere un volo per un altro luogo del mondo con la consapevolezza di questa decisione. Si è soffermata sulle presenze, sulle persone che ci sono, che puoi chiamare quando hai bisogno, senza troppe domande o remore. Le gare? Sì, le gare le vedremo e saranno un'occasione di divertimento anche per chi guarda, di chiedersi e dirsi: «Cosa ha fatto? Cosa ha fatto anche questa volta?».
In questo modo il legame con la bicicletta si è rafforzato. Una bicicletta è diventata il modo per esprimere tutti i modi di essere di una persona: forte, fortissima, incredibile, quattro volte iridata in quattro specialità diverse nella stessa stagione, ma anche fragile, mentre riscopre la goduria di due ruote e di un equilibrio straordinario, e si permette di lasciare andare tante cose. Nello stesso tempo, Ferrand-Prévot ha permesso a quella bicicletta di essere tutto ciò che poteva essere e di farlo con la stessa perfezione delle ruote che girano assieme, simili alla perfezione. Sarà un inverno da vivere.
Au Revoir Philippe
Ci viene in mente quel 24 aprile del 2011 quando Philippe Gilbert vinceva la sua prima -che poi sarà l'unica e ci è sempre parso come uno scherzo del destino - Liegi-Bastogne-Liegi, battendo i fratelli Schleck. Frank ed Andy sul traguardo, nell'ordine.
Gilbert realizzava un filotto che non era proprio robetta da nulla o da tutti gli anni: Freccia del Brabante, Amstel Gold Race, Freccia Vallone e appunto Liegi nel giro di una decina di giorni.
«Scambierei quelle tre corse per vincere una Liegi» disse alla vigilia della corsa il ragazzo di Remouchamps, pochi chilometri dalla salita simbolo della Doyenne, la decana delle classiche; il figlio della Redoute, quello che vedeva il suo nome scritto per terra su quella storica "montagna" quando ancora non era nemmeno maggiorenne tanto che quella volta a darsi battaglia erano due tipi niente male come Bartoli e Vandenbroucke.
In quel 2011 segnato dal dominio nelle Ardenne, Gilbert vinse anche Strade Bianche, Gp Quebec, San Sebastian, campionati nazionali in linea e poi a cronometro, una tappa al Tour e una alla Tirreno, salì sul podio alla Sanremo e chiuse nei 10 il Lombardia.
Ci viene in mente quella volta, un anno dopo o poco più, quando con la maglia della sua nazionale attaccò sul Cauberg, partì e se ne andò lasciando per terra schiantati i suoi avversari: divenne Campione del Mondo.
Un Campione del Mondo belga sette anni dopo Boonen; e i suoi connazionali dovranno aspettare dieci anni esatti per vincere nuovamente il titolo: un legame tra due corridori che su strada hanno mostrato caratteristiche completamente differenti, ma uno spessore simile. Tra uno che, crescendo in bicicletta, guardava ammirato le sue imprese, e l'altro che, invecchiando, non nascondeva la stima per il giovane emergente. «Non potevo sognare di avere un successore più degno di te - raccontava Gilbert in un video su Youtube fatto durante un allenamento, poco dopo la vittoria di Evenepoel a Wollongong - È stato commovente, tanto che, devo ammettere, mi sono scese le lacrime quando hai tagliato il traguardo».
Ci potrebbero venire in mente altre mille occasioni: quella Roubaix nel 2019, quasi inaspettata, lui campione perlopiù da corse vallonate, da scatto bruciante al termine di uno strappo «Ho attaccato con Politt - dirà nella conferenza stampa al termine della gara - perché è fatto come me, non fa molti calcoli: è generoso e coraggioso, lo stimo molto. Oggi meritavamo entrambi la vittoria»; si potrebbe pensare al Fiandre del 2017 vinto dopo una lunghissima fuga (un po' come quando vinse la sua seconda Omloop Het Nieuwsblaad, era il 2008, si fece cinquanta chilometri in avanscoperta) e l'arrivo in maglia tricolore con bici sollevata sul traguardo, a modo, si direbbe dei ciclocrossisti, in una di quelle giornate da racconto epico come il ciclismo spesso sa regalare senza andarsi a inventare chissà quali significati retorici dietro le azioni di un corridore. Gilbert che attacca, Boonen che corre l'ultimo Fiandre con una bici con telaio bianco e scritta in oro, Sagan, favorito e campione uscente, che cade nel finale dopo essersi impigliato a una giacca appesa su una transenna lungo l'Oude Kwaremont e rovina a terra portandosi dietro Naesen e van Avermaet e regalando così a Gilbert quel vantaggio di cui aveva certamente bisogno, in avanscoperta da troppo tempo, per completare l'opera.
Ha vinto ovunque e in ogni modo, ci sono stati dei momenti in cui pareva così dominante da farci dire: "Gilbert è il ciclismo" oppure "Gilbert può vincere a piacimento ogni corsa di un giorno a cui prende parte". È stato una sorta di van der Poel ante litteram per la capacità di sprigionare potenza con un solo scatto devastante, ma anche di infiammare il cuore dei tifosi che ovunque, pure qui in Italia (ha vinto al Giro sul traguardo di Anagni nel 2009 e si è ripetuto due volte nel 2015), lo hanno amato.
Si potrebbe pensare ancora alle cadute rovinose, alla poetica del suo modo di attaccare o stare in bici, alla sua eleganza da re Vallone come spesso è stato chiamato, amato anche dai fiamminghi. Fatto tutt'altro che scontato.
Invece ci tocca pensare che nel week end che ha visto lasciare il ciclismo a Valverde, Nibali, Nieve, Kangert, Terpstra per fare giusto qualche nome di peso, anche il suo è stato scritto per l'ultima volta nelle liste di partenza di una gara di professionisti di quello sport chiamato ciclismo. È pensare a questo ci fa male, ma passerà. Almeno si spera. Altrimenti chiuderemo gli occhi e ci immagineremo ancora una volta il suo attacco quasi prepotente sul Cauberg con la maglia della nazionale belga, il cerotto al naso e i denti di fuori per lo sforzo, mentre dietro gli avversari arrancano, sfuocati sullo sfondo.
Alvento a Scuola
Tutto è iniziato vedendo la copertina di Alvento18 e guardando quel sasso, quello di Roubaix, quello vinto da Sonny Colbrelli, conquistando la Parigi-Roubaix. Massimo, insegnante di scuola dell'infanzia, l'ha vista con suo figlio e quel bambino ha iniziato a porsi e a porre domande su quel sasso. «Un sasso è per un bambino piccolo qualcosa di pesante che non bisogna lanciare, si chiedono subito come possa diventare un premio, un regalo. Il compito di un adulto è provare a spiegarlo». Da quel momento, Massimo ha avuto la certezza che le domande di suo figlio sarebbero in realtà state le domande di molti altri bambini. Alla scuola dell'infanzia "Clorofilla" di Milano sono arrivate così alcune copie di Alvento.
«Basta appoggiare una rivista per terra o su un tavolo e lasciare che i bambini la sfoglino. A quel punto saranno le immagini a evocare qualcosa su cui i più piccoli si interrogheranno. Noi seguiamo questo modello nell'insegnamento: cosa dice quella foto, quel disegno, quel colore? Che storia c'è dietro? Da queste domande, si impara». Sì, perché per spiegare la storia di quel sasso serve viaggiare con la mente, arrivare "nell'Inferno del Nord" e spiegare di quelle biciclette che "vanno sui sassi" per poi entrare in un velodromo e sfidarsi in velocità. «Non solo, bisogna parlare di materia, di tatto: di quanto sia pesante quel sasso, del suo essere ruvido o lisciato dalla pioggia. E se un sasso è duro, il fango è morbido e cosa si prova a toccarlo, a pedalarci o camminarci dentro? Qualcuno lo sa, altri vogliono capirlo».
Gli adulti parlano, spiegano, raccontano, i bambini si avvicinano a quelle foto, avvicinano tutte le mani e indicano anche i dettagli minori. «Si arriva a parlare di velocità, di equilibrio, del come faccia una bicicletta a restare in piedi, a non cadere e di cosa facciano i ciclisti per scalare una montagna o per curvare in discesa». Allora i bambini si confrontano tra loro: c'è chi va in bicicletta con i genitori, chi sta imparando, chi sa fare qualcosa che gli altri non sanno fare. L'equilibrio stupisce sempre, come ogni storia: «Il gioco è immaginare dove stia andando una persona in bicicletta, cosa farà una volta arrivata, quanto tempo ci metterà per arrivare, chi incontrerà. Si tratta del concetto di possibilità che la mente dei bambini esplora di continuo. Qualcosa che forse crescendo si rischia di perdere».
Ad un certo punto, si guardano le immagini della Parigi Roubaix femminile, qualche bambino chiede: «La bicicletta è per bambini o per bambine?» e la risposta se la danno loro stessi: «La bicicletta è per tutti, non vedi le foto?». Per tutti e anche, soprattutto, per i più piccoli: basta tornare indietro di qualche pagina e proprio all'inizio della rivista tutti fissano l'immagine di una bambina che va in bicicletta. «Allora si parla dell'essere grandi. Qualcuno spiega che è già grande e adduce a motivazione il fatto che va già in bicicletta, altri si chiedono cosa significhi diventare grandi, adulti, altri ancora aggiungono che si è grandi quando si può andare in bicicletta da soli». Mentre gli adulti si confrontano, anche i bambini si confrontano, così crescono.
Il concetto è quello di autonomia. Cosa accade quando un adulto insegna a un bambino a fare qualcosa? Ad andare in bicicletta, ad esempio. «La nostra idea è che, poi, adulto e bambino siano sullo stesso piano. Certo, l'adulto ha imparato prima, il bambino dopo, ma ora che entrambi sono capaci che differenza c'è?». Questo vuol dire dialogare e ascoltare: «Serve fiducia e disponibilità: “Ora che hai imparato, decidiamo assieme dove andare, cosa fare”. Si parte così ed allora i più piccoli propongono, si mettono in gioco, magari sbagliano. Stanno imparando». Non c'è più solamente una guida e qualcuno che impara, ci sono due persone che stanno esplorando un bosco, un sentiero, una strada. «Credo sia vero che le strade di oggi sono pericolose, non sono, purtroppo, il luogo ideale per giocare o correre in bicicletta, ma per cambiare tutto questo abbiamo un solo modo. I bambini devono conoscerle, raccontare ciò che li diverte e ciò che li spaventa. Fare domande, interrogare quel mondo che non sembra a misura di bambino. Da qui può nascere il cambiamento». Se gli adulti ascoltano, se gli adulti hanno coraggio.
«Consegniamo ai bambini la loro autonomia, consegniamola a piene mani e lasciamo che possano viverla. L'esperienza di pedalare da soli, senza più nessuno che tiene una mano sulla loro spalla, è straordinaria. Sono felici, ridono, gridano, perché stanno scoprendo cosa sanno fare, cosa possono fare. Mentre lo scoprono continuano a interrogare la loro immaginazione e si proiettano in altri mondi, in altre strade, in altre possibilità. È un esercizio difficile ma importantissimo». Un esercizio che può partire da un'immagine, da una bicicletta e portarli chissà dove. Nel loro diventare grandi, a partire da un'aula di una scuola dell'infanzia in una mattinata di ottobre.
«È stata dura?»
Intorno alla bocca, Giosuè Epis ha un segno che pare un principio di disidratazione. Subito tagliato il traguardo, affannato ma felice, circondato da un gruppo di persone, esclama con un sorriso a pieno volto: «Questa è buona!» lasciando in sospeso il riferimento: la vittoria nella seconda tappa del Giro della Regione Friuli Venezia Giulia, la più importante della sua giovane carriera? Oppure il piacere di scolarsi una bevanda - seppure in versione ridotta - che quando la mandi giù dopo una giornata in bicicletta provoca un benessere difficilmente spiegabile? Non glielo abbiamo chiesto.
Vanno all'attacco in nove, poi diventati otto vedremo, su un percorso che è un su e giù estenuante, durante tutto l'anno, per i ciclisti amatori della zona che spesso maledicono il dover tornare a casa passando per queste strade, sapendo che non c'è un metro di pianura, ma che invece, chi il corridore lo fa di mestiere (o studia per esserlo) beve di gusto come fosse, appunto, la bevanda di cui sopra. Dissetante, ma con le bollicine.
Ha tenuto duro, Epis, racconta a quel gruppo di persone che lo circonda, ma sapeva di poter contare sul suo guizzo veloce; con lui c'era gente navigata - per la categoria - come Zurlo, oppure la coppia piena di talento della Alpecin Devo, Vandebosch e Verstrynge, ma davanti è arrivato lui, con la maglia gialloblù della Carnovali Rime. Questo è ciò che conta.
Subito dopo passato il traguardo di Colloredo di Monte Albano, in provincia di Udine, un rettilineo infinito che tira all'insù, Davide Toneatti sembra quasi spaesato. Si guarda intorno dentro la sua maglia azzurra leggermente diversa dal celeste Astana che indossa in questa stagione su strada: è qui con la nazionale italiana che per l'occasione ha portato cinque corridori tutti provenienti dal ciclocross. Toneatti è un ragazzo della zona, di Buja per l'esattezza, come Milan, come De Marchi per contestualizzare il talento che arriva da un piccolo paese alle porte di Udine, e ci teneva a spiccare e poi a lasciare il segno. In fuga anche lui ci è andato vicino tanto così.
Lo dipingono tutti come puntiglioso, serio, quasi maniacale nel cercare la perfezione. Lo sprint lo vede battuto, ma più che spaesato in verità sta cercando con lo sguardo i suoi genitori che da almeno un'ora e mezza non stavano più nella pelle in attesa dell'arrivo del figlio.
La gioia di Epis, la tranquilla ricerca di uno sguardo familiare di Toneatti, la delusione di Nicolò Buratti, altro ragazzo quasi di casa, Corno di Rosazzo, sempre in provincia di Udine, ma quasi dalla parte opposta.
Indossa la maglia gialla di leader - che passerà sulle spalle di Zurlo - perché ieri sera la sua squadra, il Cycling Team Friuli, aveva dominato la crono che apriva il Giro della Regione Friuli Venezia Giulia (Giro del Friuli, per gli amici e per farla breve) e lui era passato per primo sotto lo striscione del traguardo.
Oggi l'arrivo era perfettamente tagliato sulle misure di un ragazzo (classe 2001) cresciuto per gradi, ora esploso quest'anno e appena uscito da tre vittorie in fila, Poggiana e Capodarco, dure e prestigiose, Rovescalesi. Tre vittorie che indicano perfettamente le caratteristiche di un corridore veloce, resistente, esplosivo.
Davanti in fuga c'era Bryan Olivo suo più giovane compagno di squadra (2003) nel Cycling Team Friuli: altro ragazzo friulano. Talento da coltivare del nostro ciclismo, forte nel ciclocross, fortissimo su pista e - giovanissimo, è un primo anno - alla ricerca della sua dimensione anche su strada.
Un problema meccanico lo ha tagliato fuori dalla fuga e la sua squadra successivamente non è riuscita a chiudere il buco. Ci dicono piangesse a fine gara per la delusione, ma le occasioni non mancheranno per ricamare un palmarès da primo della classe.
La rabbia di Buratti ha gli occhi rossi dalla fatica, ma si dissolve all'improvviso quando si accorge che dietro le transenne ci sono alcuni amici venuti a vederlo correre. «È stata dura?», gli chiedono. Buratti, fa un segno con la testa come dire: "che ci vuoi fare, questo e il ciclismo". Buratti, poi, sorride.
Dietro il sorriso di Chaves
Eppur sorride. Verrebbe da dire così, incontrando Esteban Chaves in questa Vuelta a España. Eppure ovvero nonostante tutto. Nonostante la fatica che è più fatica del solito, nonostante i risultati che non arrivano, nonostante le ruote degli altri sempre più distanti. Una distanza che aumenta ogni volta, davanti a lui, non dietro. Da solo, con pochi, in coda, non in testa. Quasi che quel colibrì danzante fosse diventato un colibrì sgraziato. Leggero eppur pesante. Non una leggerezza di pensieri e azioni, di imprevedibilità e velocità, di scatto e controscatto. Una leggerezza di vuoto: quando le gambe non vanno, quando l'energia finisce.
Pensare a Esteban Chaves senza quel sorriso fa quasi strano perché il suo è un sorriso che sembra restare anche quando fatica, quando si commuove, quando non ce la fa più. Quasi un negativo di una foto, qualcosa che in controluce traspare sempre. Anche in questi giorni in cui, già fuori dalla lotta per la classifica generale, dopo aver lavorato, dopo aver preparato la corsa, far fatica sembra senza un fine, se non quello di immagazzinarla, di assorbirla, di farsene parte. Una prospettiva difficile.
Qui la leggerezza diventa davvero difficilmente sostenibile; da vivere e da trasmettere. Eppur ancora c'è, eppure ancora sorride quando può. Quel sorriso è in realtà un modo di prendere le cose, una filosofia semplice e profonda. Un fanciullino di Pascoli, qualcosa di primordiale. Primordiale, all'origine come sognare di vincere una grande corsa a tappe: così puro, così grande sognano i bambini. Gli adulti ridimensionano, talvolta nascondono quando il sogno è troppo grande. Chaves, per i sogni, è restato il bambino che era e lo ammette.
Anche se ora ha paura. Non tanto di non vincere: un ciclista sa che perdere è molto più facile, molto più probabile. Ha paura di deludere la squadra, le persone che lavorano con lui, che credono in lui. Ha paura perché sente di non poter dare quello che ci si aspetta da lui. Qui la leggerezza diventa pesante, diventa difficile. Perché anche vedere quella festa sulle strade può fare male quando non sai perché le gambe non girano, quando non ti riconosci.
Restare Esteban Chaves, restare un colibrì, che fatica a planare, ma pur sempre un colibrì, era la prova decisiva, l'ostacolo da affrontare ancora una volta. "È la vita da atleta, da professionista" ha detto Chaves. È la vita, direbbe chiunque. Chaves ci sta riuscendo.
La misura di ciò in cui crediamo è nei giorni in cui quel qualcosa, pur potendo svanire, resta. Perché lo abbiamo voluto, non solo perché è capitato. Questa è la forza: Chaves che continua a sorridere e pensa a quando quella bicicletta lo farà nuovamente felice. Davanti a tutti.
L'oro di Tel Aviv: imparare a vincere, imparare a perdere
Ci fu un giorno in cui Daniele Fiorin, padre di Matteo, gli consigliò di conoscere meglio la sconfitta perché gli sarebbe servito. Essenziale per lui, essenziale per qualunque giovane, nello sport e fuori. Accadde mentre, da ragazzino, Matteo Fiorin giocava a calcio e faceva ciclismo: preferiva il ciclismo, lì vinceva spesso e stava quasi decidendo di dedicarsi solo a quello. «No, credo tu debba continuare almeno per un altro anno anche a giocare a calcio. Non perché il ciclismo non faccia per te, esattamente il contrario. Vinci molto, vinci tanto con quella bicicletta, ma, alla tua età, bisogna anche imparare a perdere altrimenti poi sono problemi». Matteo quel giorno ascoltò suo padre ed oggi, a diciassette anni, nonostante le vittorie, conosce la sconfitta.
«So che quando si perde si è sbagliato qualcosa e bisogna tornare ad analizzare ciò che si è fatto. In realtà, però, so anche che pure quando si vince bisogna riguardare la gara e imparare qualcosa in più per un semplice fatto: chi ha perso, in quel momento sta imparando, se tu che hai vinto non lo fai resti indietro e la prossima volta perderai». Essere pronti, questo è il punto. Pronto per fare il proprio dovere, per un velodromo a Tel Aviv, per una maglia azzurra al mondiale, per il quartetto juniores, per l’inseguimento a squadre, per una medaglia d’oro.
Sì, Matteo Fiorin non avrebbe dovuto essere a Tel Aviv, ai mondiali juniores su pista, ma quando il suo telefono è squillato sapeva esattamente cosa fare, perché lo aveva sempre fatto, perché è un ciclista. «Non ho avuto paura, ma dubbi sì. È normale. Forse per questo devo ancora realizzare. Tutto però apparteneva a Matteo ragazzo, non a Fiorin ciclista. In sella riesco ad essere “cattivo”, deciso, convinto, molto preciso. So quello che devo fare e lo faccio». Nella vita di tutti i giorni è contento di essere Matteo prima che Fiorin. Ha amici ciclisti e con loro parla di ciclismo ma con i compagni di scuola o con chi non è interessato alle due ruote non sente il bisogno di raccontare ciò che fa in bici perché «sto bene così, essere al centro dell’attenzione non mi interessa, non mi piace». In pista, a Tel Aviv, loro: Alessio Delle Vedove, Matteo Fiorin, Renato Favero, Luca Giaimi e Andrea Raccagni Noviero e i timori che passano dopo le qualifiche.
Così perfezionista che dopo l’oro nel quartetto era dispiaciuto per aver mancato per un niente il record del mondo: qualche istante, poi urla, abbracci, l’inno e qualche ricordo. “Da esordiente primo anno quando persi una prova in batteria al meglio delle tre. Mio padre mi si avvicina e mi dice: «Vai e divertiti. Ora devi solo divertirti. Arrivai terzo». Padre e figlio, soprattutto questo, in grado di crescere assieme e poi di fare autonomamente strada: “Quest’anno mi sento più autonomo, ma l’autonomia l’ho costruita anche grazie ai suoi consigli”.
Imparare a vincere, imparare a perdere. Come è successo nella Elimination Race: «Non ero così lucido come avrei dovuto essere. L‘ho riguardata e la riguarderò, capirò l’errore e imparerò». Anche di questo è fatta la realtà di un ciclista: delle corse viste e riviste, di studio, in fondo. Perché quando l’adrenalina della corsa scende, vedi molti dettagli che prima non avevi nemmeno considerato. E poi divertirsi vedendo Wout van Aert e Mathieu van der Poel, su fango o su strada. Quel sano piacere che vedere la bravura fa provare.
In quel velodromo, a Tel Aviv, Matteo Fiorin ha voluto fare una foto con Walter Perez, già Campione Olimpico e Campione del Mondo, ora C.T. della nazionale Argentina. A casa, aveva rivisto una foto con lui, di quattordici anni fa, a soli tre anni. «Ci tenevo ad avere un’altra foto con lui, dopo tanto tempo. Ci tenevo a rivivere quel momento. Soprattutto perché di quel giorno, ovviamente, non ricordo nulla e mi spiace. Volevo ricordarmi di quel momento, così ho chiesto un’altra foto. Un ricordo di quello che ho fatto, di quello che posso fare».
Ferragosto: c'è chi va e c'è chi torna
Ferragosto 2022. C'è chi va e c'è chi torna. Cambiamenti, non rivoluzioni. Il sole scalda, ma non come due settimane fa. Puoi trovare persino un po' di brezza se sei in giardino o stai passeggiando da qualche parte, da un affollatissimo lungomare, fino a una più tranquilla - ma nemmeno troppo - stradina di montagna.
Puoi avere paura dell'orso se ti inoltri in un sentiero, ma poi a un certo punto quello che senti ringhiare è lo stomaco, altroché, e sei pronto a ingozzarti con tutto quello che hai preparato o, visto che ormai si mangia fuori, con quello che puoi ordinare in trattoria.
Ferragosto 2022. C'è chi va e c'è chi torna. Nel giro di poche ore accade tutto ciò. Arrivano delle notifiche in una giornata che, a parte il pomeriggio che si accenderà a suon di ciclismo su pista, doveva andare via tranquilla, indisturbata, ma è colpa dell'abitudine, maledetta abitudine. Ti sei detto, guardandoti allo specchio con la massima sincerità di cui disponi: "oggi il telefono non lo tocco fino a sera", ma è una bugia e controlli lo stesso mentre aspetti un piatto di pasta (e che pasta!) e scorri le notizie fino alla prima che cattura la tua attenzione: "Tom Dumoulin abbandona il ciclismo con effetto immediato".
C'è anche una lunga lettera con la quale l'olandese stavolta dice basta - bravo Tom, grazie Tom -, non ce la fa più, e noi ci sentiamo vicini alla sua scelta ancora di più di quando decise di riprendere a correre e tirò fuori una prestazione che gli valse la medaglia olimpica un anno fa.
C'è chi va, come Tom Dumoulin, che anticipa il suo ritiro di un paio di mesi: «Volevo chiudere la mia carriera con il botto ai campioni del mondo in Australia - sui suoi profili social (https://www.facebook.com/tomdumoulinofficial/) - e ho sognato di affrontare quelle strade come quelle di Tokyo. Con il senso di libertà che mi contraddistingue, con le mie motivazioni, alle mie condizioni, con il sostegno della squadra. Ma poi mi sono accorto di non riuscirci più. Il serbatoio è vuoto, le gambe si sentono pesanti e gli allenamenti non vanno come pensavo. Ora è il momento di godermi altre cose della vita ed esserci per le persone a cui tengo. Un grande grazie alla mia squadra e a tutti coloro che mi hanno sostenuto e hanno vissuto con me questa fantastica carriera».
Dumoulin lascia il ciclismo con 1 Giro vinto, 3 tappe al Tour, 4 al Giro e 2 alla Vuelta, un mondiale a cronometro, due argenti olimpici e uno mondiale, sempre contro il tempo, altri due podi al Giro e al Tour nel 2018 diventando uno dei corridori più vicini alla storica doppietta Giro-Tour nello stesso anno, da diverso tempo.
Ma il mondo è fatto di questo, di equilibri, di dimensioni, di vuoti da colmare e spazi da riempire: c'è chi va, ma poi c'è chi torna quasi come un gioco del destino.
È Egan Bernal che fra poche ore prenderà il via del Postnord Danmark Rundt, il Giro di Danimarca per capirci. Non corre da quasi un anno e dopo l'incidente si è detto di tutto, dal non vederlo più in bici, fino a bruciare le tappe per essere in gara il prima possibile. In realtà, tra fughe di notizie e speranze, la tabella di marcia è stata quasi perfettamente rispettata.
In una terra che ama il ciclismo come quella danese, riparte la seconda vita di Egan Bernal che ha detto, alla vigilia del suo rientro, in maniera molto concreta, di aspettare questo momento dal giorno in cui si è risvegliato in ospedale e che questi mesi, difficili, li porterà per sempre con se. Oggi rientra in corsa Bernal e questa non può che essere la più bella notizia di oggi.
Rientra in corsa Bernal con un Giro e un Tour sulle spalle e poi chissà...
Un abbraccio Tom, un buon rientro Egan, a entrambi per la vostra nuova vita.
Le idee che nascono in bici
«La maggior parte delle idee mi vengono quando sono in bici», ha raccontato qualche giorno fa Luis Ángel Maté, l'ultima, dice, gli è arrivata mentre si allenava sulla Sierra Nevada in preparazione alla prossima Vuelta.
Luis Ángel Maté da un paio di stagioni difende i colori della Euskaltel Euskadi, i colori mitici del ciclismo basco, quelli arancioni, dopo aver corso per una vita intera con la Cofidis e aver condiviso anche un'esperienza biennale con l'Androni di Savio.
Maté non è mai stato un ciclista qualunque, conosciuto più per le sue fughe in terra spagnola, che per le vittorie, più per la sua sensibilità fuori dal gruppo, che per qualche scatto bruciante, amato per la disponibilità con i tifosi e i compagni di squadra, per la sua affidabilità in corsa. Molti se lo ricordano anche come grande amico di Michele Scarponi, ad altri gli viene in mente di quando lo scorso anno al termine della Vuelta intraprese un viaggio particolare.
Ogni cambiamento parte da una piccola azione, ogni idea che può sembrare ininfluente, può essere di ispirazione per qualcun altro. Il classe '84 spagnolo nel 2021 decise di percorrere, subito dopo aver concluso la corsa a tappe spagnola - 16° Grande Giro portato a termine in carriera - 1000 km su due ruote da Santiago di Compostela, dove si chiuse la corsa, fino a Marbella. «Volevo semplicemente prendere la mia bicicletta e tornare a casa senza usare l'auto o l'aereo, usando soltanto le mie gambe, in armonia perfetta con me stesso e con quello che mi circonda». Non un'idea rivoluzionaria magari, ma un piccolo contributo che il corridore andaluso ha voluto dare al racconto («Tutto quello che ho - disse - me lo ha dato la bicicletta. Non il ciclismo, non il mio lavoro, la bicicletta pura e semplice attraverso cui sto imparando a conoscere il mondo e anche me stesso») e alla mobilità sostenibile, alla vicinanza con il territorio e l'ambiente: «Noi ciclisti abbiamo il privilegio di correre negli stadi più meravigliosi e imponenti del mondo, immersi dentro scenari unici. È nostro dovere cercare in qualche modo, in ogni modo, di prenderci cura di loro».
Fra una decina di giorni Maté, che, come scrive un giornale spagnolo, è "Soprannominato la Lince Andalusa non tanto per la sua vista particolarmente portentosa, ma più che altro per la sua astuzia, la sua capacità di vedere oltre l'ovvio», prenderà il via della Vuelta e, come detto, allenandosi in altura gli è venuto in mente di donare un albero per ogni chilometro che passerà in fuga nella corsa a tappe spagnola al Parco Naturale Los Reales della Sierra Bermeja. "Il mio ufficio, la nostra casa" ha definito quel posto, che è la Sierra Bermeja andalusa, ma in realtà Maté parla di ogni luogo.
La Sierra Bermeja lo scorso anno fu devastata da un terribile incendio attivo per 46 giorni e che distrusse oltre 10.000 ettari e costrinse circa 3.000 persone a lasciare le proprie case. Luis Angel Maté ha fatto partire la sua iniziativa donando 100 alberi (altri 100 sono stati donati dalla sua squadra e altri 100 dagli organizzatori della Vuelta), con l'obiettivo di sensibilizzare; noi ci auguriamo possa avere le gambe migliori possibili alla Vuelta per riuscire a scappare ogni giorno dal gruppo, e magari farsi venire in mente qualche altra nuova idea. Piccola o grande che sia non importa, si inizia sempre da qualche parte.