Diario dal Teide: il ritorno a casa

Appena rientrata a casa, dopo il ritiro di quindici giorni al Teide, accendendo le luci, Elisa Longo Borghini rivolge l'attenzione al calendario: siamo agli inizi di febbraio, ma la pagina esposta è ancora quella di dicembre. Sì, tra una cosa e l'altra, l'ultima volta che è stata a casa era proprio il 27 dicembre. Accanto alla porta, c'è un pupazzo raffigurante un alpaca, ancora addobbato con un cappello di Natale: «L'ho subito tolto e ho girato le pagine del calendario, quasi per aggiornare la casa al periodo, a me. Per una ciclista è la normalità, eppure fa strano appena rientri. Questa casa e questo paese, Ornavasso, restano la mia boccata d'ossigeno, un posto a cui appartengo. Quando sono in viaggio e mi trovo in luoghi molto belli, spesso, provo a chiedermi se mi piacerebbe cambiare città, appartenere ad un altro paese, magari, in astratto, migliore. Sarà che qui sono nata, ma ogni volta la risposta è negativa». E anche quando, scherzando, le dicono che sembra abitare fuori dal mondo, lei, ridendo, risponde: «È la mia città».

A casa non è restata molto, in realtà, perché, proprio lunedì, è ripartita per gli Emirati Arabi, per la prima gara della stagione che sarà anche la prima edizione dell'UAE Tour femminile. Le valigie, mentre parliamo, sono già pronte, le ha preparate appena a casa. Da queste prime gare non si aspetta molto, vuole solo capire come sta e come stanno le avversarie. Dice che è lo sguardo il modo migliore per capirlo: «Al netto della pedalata, quando non stai bene, sei anche più impacciata nel muoverti in gruppo, nel fare cose semplici. Perdi la lucidità che rende tutto normale. Puoi cercare di nasconderti e nasconderlo, ma le avversarie sanno cosa guardare». A Longo Borghini, poi, muoversi in gruppo piace e l'anno scorso confessa di essersi divertita a tirare le volate a Elisa Balsamo. Sì, usa proprio questa parola: la diverte trovare il varco giusto, limare, guadagnare posizioni, intuire le mosse dei treni rivali: «Non ho l'abilità di una velocista, ma mi caricava questo ruolo. Solo la prima volta ho avuto paura di sbagliare tutto, poi Balsamo ha vinto e io ho pensato che avrei voluto un'altra volta per riprovarci». Nel 2023 ci sarà Ilaria Sanguineti a ricoprire questo incarico, ma è stata un'esperienza. Restano le sensazioni.
Come quelle particolari che ha provato quando ha visto Anna van der Breggen all'ultima gara e quando la vede in ammiraglia. Dice che il suo percorso e quello di van der Breggen sono stati abbastanza paralleli e sapere che lei è ancora in gruppo e l'olandese non più l'ha fatta pensare. Estremamente fredda in corsa, quanto genuina fuori: «È una di quelle persone da guardare quando si ha la tendenza a sollevarsi troppo da terra, perché non è mai cambiata, anche se per tutti è un simbolo del ciclismo. La sera prima della tappa di San Marco la Catola, al Giro d'Italia 2020, ci siamo scritte: "Domani bisogna fare corsa dura". Io ho vinto la tappa e lei quel Giro». Sorride, anzi, ride di gusto parlando di numeri: «Ho un legame particolare con il terzo posto. Se non vinco e sono in forma, sono puntualmente terza. Va bene, non mi lamento, ma confesso che, qualche volta, accorgendomi di essere terza, ho pensato che sarebbe bello variare. Ogni tanto, almeno. Non so, un secondo posto se proprio non riesco a vincere».

In quel gruppo che si trova spesso a scrutare attentamente, c'è anche Gaia Realini, sua compagna di squadra. Se dovesse scommettere su qualcuno, scommetterebbe su di lei e «non lo dico perché è in Trek, è una forte scalatrice e non ha molte pressioni. Non fosse stata in squadra con me, l'avrei segnata fra le atlete da attenzionare». Qualche attimo di silenzio e, poi, una parentesi colloquiale, un inciso, senza apparenti motivi, quasi una necessità: «Sai che della bicicletta mi piace proprio tutto. Quando vado veloce, poi, provo una sensazione incredibile. Sarà l'adrenalina, però non ho mai provato qualcosa di simile. Penso che, fuori da questo mondo, non ci sia nemmeno qualcosa di simile».
In un armadio, a casa dei genitori, ha ancora custodita la prima maglia azzurra, quella di un ritiro, quando aveva quindici anni: «Era solo una maglietta, ma io non la vedevo come una maglietta. Fra tutte le ragazze che avevano provato ad essere lì, io c'ero. Rappresentavo l'Italia. Quell'Italia nei cui confronti sono molto critica, perché non è come la vorrei, come potrebbe essere. Però sono profondamente italiana, anche nelle piccole cose e lo rivendico. Racconto l'Italia quando parlo con colleghe di altri paesi». Già, a quell'azzurro, però, è legata anche una delusione, probabilmente la più grossa: la mancata convocazione all'Olimpiade del 2012. Quella che «non dimenticherò mai».
«Sia chiaro: le scelte tecniche avevano tutta la loro coerenza, io, però, quel posto lo meritavo. Non era un capriccio. I risultati parlavano per me. L'ho saputo al Giro d'Italia, ho faticato a guardare quei Giochi Olimpici. Su quel divano, mi dicevo: “Nel 2016 non darò a nessuno la possibilità di non convocarmi. Farò talmente bene che mi dovranno portare per forza"». Ci sono stati mesi in cui non ha pensato a quei quattro anni che mancavano alla prossima Olimpiade e questo l'ha aiutata ad aspettare. Fino al giorno in cui la convocazione è arrivata: «Cos'ho provato? Sì, ero felice per quell'Olimpiade, ma il 2012 non riesco a dimenticarlo. Quando ti tolgono qualcosa che senti di meritare, non puoi sostituirlo con altro come nulla fosse. Non te lo restituisce nessuno».
In quei giorni a casa ha pedalato, è andata in posti a cui è legata, ma, purtroppo, ha provato per l'ennesima volta una sensazione brutta, che le nostre strade restituiscono spesso: «Parlo degli autoveicoli che sfiorano la bicicletta e sembra ti tocchino. Parlo di quando ti senti in pericolo mentre fai il tuo lavoro. Sono bastati due giorni perché capitasse di nuovo». Longo Borghini si chiede quando qualcosa cambierà e, purtroppo, si trova a constatare che servirà molto tempo, forse troppo tempo. Spiega che l'unico modo è quello di parlare ai bambini perché in futuro le strade saranno loro e spetterà a loro il compito di renderle diverse.
«Alessandro De Marchi ha dichiarato che chi guida non si rende spesso conto di avere fra le mani un mezzo che è simile a una pistola carica. Di più: non si rende conto che la strada è un luogo di convivenza, di condivisione. Questo è un qualcosa su cui dobbiamo riflettere tutti, perché anche noi ciclisti dobbiamo incrementare l'attenzione, non voglio nascondermi. Il fatto è che un pedone o un ciclista restano comunque parte debole, fragile. Parte da tutelare». Parlarne, sensibilizzare, può aiutare, poi c'è la responsabilità individuale.
Anche nel ciclismo qualcosa andrebbe cambiato, ci dice Longo Borghini. Pensa a un fatto in particolare, a quella dizione: "ciclismo femminile": «Siamo cicliste, siamo sportive. Siamo persone che lavorano con quella bicicletta, che fanno sacrifici su quella bicicletta. Perché continuiamo a parlare di "ciclismo femminile" come fosse qualcosa a parte? Le parole fanno parte della realtà e i nomi che diamo al circostante spesso rispecchiano i nostri atteggiamenti. Adesso le cose sono cambiate, ma, quando è nata la squadra femminile di Trek Segafredo, ricordo come capitava che ci guardassero i professionisti. Sembravamo quasi un mondo a parte, qualcosa con cui capire come relazionarsi. Credo il lessico abbia avuto un ruolo in questo. Nello sci, ci sono solo sciatori e sciatrici. Perché non impariamo?».
Imparare, ovvero chiudere il diario, e ripartire. Ci sarà modo di tornare ad ascoltare e a scrivere.
Buon viaggio, Elisa!


Diario dal Teide: quel giorno a Roubaix

«Sentivo il fuoco dentro, non mi era mai successo. Non così, almeno. Quando mancavano trentadue chilometri all'arrivo, sono scattata e per la prima volta in tante gare, ho pensato: "Io vado, ci rivediamo a Roubaix. Ci rivediamo al velodromo". Non so cosa mi sia accaduto». Durante l'ultima sera sulle pendici del Teide, si finisce a parlare di Parigi-Roubaix ed Elisa Longo Borghini è davvero una delle persone più adatte per parlarne, lei che, l'anno scorso, ha vinto la seconda edizione nella storia della Roubaix femminile. Il sole, intanto, sta calando fuori dall'albergo e Longo Borghini confessa che, a casa, dei cieli di queste sere in alta montagna sentirà la mancanza. Ci dice che non crede molto a quella cosa della malinconia della sera, non ci ha mai creduto e, anzi, di fronte alla sera, ha sempre pensato al giorno dopo, alla possibilità di progettare. Ma quella volta, a Roubaix, non c'erano progetti nell'aria. Anzi, a Roubaix, Elisa Longo Borghini non avrebbe neppure voluto andarci.

Dopo l'inverno, era ormai diverso tempo che la tormentava una sinusite che rendeva tutto più difficile: in gara e fuori gara. Ad un certo punto, stanca, aveva detto a tutti che avrebbe staccato per un periodo dalle corse, che sarebbe tornata in primavera inoltrata, guardando all'estate, intanto avrebbe pensato a curarsi e a risolvere definitivamente il problema: «Dico spesso che, in quei momenti, ho fatto "la matta", ma proprio non volevo correre». Sono trascorsi molti giorni e la convinzione è sempre stata la stessa: non era il momento giusto per partecipare alle gare. Fino a una telefonata di Luca Guercilena, direttore generale di Trek-Segafredo. Una telefonata che la spiazza.

«Elisa, il tuo programma lo stabilisco io. Sarà una stagione intensa: a settembre c'è il mondiale, a luglio il Tour de France e, poco prima, il Giro d'Italia. Non possiamo permetterci di farci trovare impreparati. All'Amstel Gold Race non partecipi, alla Parigi Roubaix, invece, devi andare. Senza pressioni, ma il numero sulla schiena, quel giorno, dovrai attaccarlo». Immaginate un telefono: da una parte queste parole, dall'altra Longo Borghini che non dice no, ma resta dubbiosa. Di lì a poco telefona al suo compagno, a Jacopo Mosca, racconta la telefonata avuta con Guercilena e aggiunge «dovrò fare la Roubaix, ma non mi sento pronta. Non so come andrà». Mosca l'ascolta e risponde con poche parole: «Segui l'istinto e, se ne hai voglia, fai “la matta” verso Roubaix». Ancora silenzio.

Tutto riprende proprio il giorno della Parigi Roubaix, il 16 aprile 2022. Per spiegare quanto tutto fosse inaspettato, Longo Borghini parla della pressione prima delle gare e del modo in cui, grazie a Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport, abbia imparato a gestirla in vari modi: dalle tecniche di respirazione alla visualizzazione del luogo sicuro. La sera prima della Roubaix, però, c'è tranquillità. Ciò che accadrà non è nemmeno nei pensieri.
Poi lo scatto e l'arrivederci a Roubaix. «Sentivo le persone gridare, sentivo tutti scandire il mio nome e, se da un lato mi faceva piacere, dall'altro mi imbarazzava. Sì, stavo vincendo la Parigi Roubaix, ma ero sempre Elisa da Ornavasso. Lo sono ancora. Ho pedalato e ho vinto, ho pedalato più forte delle altre, però non sono e non sarò mai abituata a quell'attenzione. Forse non la merito neppure». Giro di pedali dopo giro di pedali, il velodromo si avvicina e lei vorrebbe fosse sempre più vicino, vorrebbe che la Roubaix fosse già finita, vorrebbe essere sdraiata a terra, a piangere, a ridere. Lo vorrebbe soprattutto per incontrare lo staff della squadra: «Penso, ad esempio, alle nostre massaggiatrici. Loro i massaggi ce li fanno ogni giorno. La Roubaix c'è una volta all'anno, quante volte può capitarti di vincerla? Loro ci sono anche se non la vinci, anche quando sei così delusa che fatichi a parlare. In quelle occasioni penso che dovremmo dirci più spesso che, alla fine, si tratta solo di una gara di biciclette, che, comunque vada, non stiamo salvando il mondo».

Torna proprio in quel velodromo un telefono, un cellulare. È Paolo Barbieri, addetto stampa di Trek Segafredo, a fare il numero di Jacopo Mosca e a passare il cellulare ad Elisa: «Hai visto? Hai fatto la matta e ce l'hai fatta. Ce l'abbiamo fatta un'altra volta». Sebbene Longo Borghini non riveda spesso le gare a cui partecipa, la Roubaix l'ha rivista e le è sembrato strano: «Ho notato che si ha più paura quando ci si riguarda, anche una sbandata sembra più difficile da gestire. In parte mi sono anche vergognata. Sì, avevo terra ovunque e questo potevo anche immaginarlo. Non pensavo, tuttavia, di averla anche fra i denti. Avevo anche i denti pieni di terra». Tra le telefonate, anche quella con i suoi genitori: «Così porti a casa un altro bel pezzo di marmo. Non ti pare che ne abbiamo già abbastanza?». E giù a ridere perché i suoi genitori sono marmisti.
In realtà, quella pietra di Roubaix è ancora a casa dei genitori, custodita attentamente. Ad un certo punto, racconta Elisa, quel trofeo è entrato anche a far parte del presepe: «Sono le stranezze di casa Longo Borghini, rappresentava una piccola montagna». In tutto questo c'è la fatica, della Roubaix e del ciclismo in generale. C'è il dolore ai muscoli che la fatica porta, una sensazione «che accetti il giorno in cui decidi di diventare ciclista. Sai che, da quel momento, non ti lascerà più. Diventa parte di te, qualcosa che conosci alla perfezione. Diverso è il dolore delle cadute, quello fa paura. Una paura che è necessario continuare ad affiancare al coraggio per fare il mestiere del ciclista».

La caduta più brutta per Longo Borghini risale al 2013, al campionato nazionale, in discesa, contro un guard rail, con una ferita molto profonda all'addome, a sfiorare il peritoneo. Da quel giorno ha una certezza: «Dicono che il dolore si dimentichi, che la mente lo cancelli, in qualche modo. Non è così, per me, almeno, non è certamente così. Ho ben chiaro quel dolore lancinante del guard rail sull'addome e, solo a ripensarci, mi sembra di risentirlo. Non a caso, anche quando sono arrivata al Teide, ho guardato i guard rail da queste parti. Mi capita spesso. Si va oltre il dolore causato dalle cadute. Non si dimentica quasi mai».

Poche altre parole e si torna in camera a preparare i bagagli. Oggi si riparte, verso casa.


Diario dal Teide: "E io chi sono?"

Erano i primi anni 2000, il periodo dei mondiali di ciclismo, l'inizio dell'autunno: Elisa Longo Borghini ricorda i cortili, le telecronache in televisione e un gruppo di amici che giocavano a fare i ciclisti professionisti, ispirandosi alla gara vera di cui arrivava la voce dal televisore. Ricorda tutti quegli "io sono Freire", "io sono Valverde" che i bambini improvvisavano prima di dare il via alla contesa. Ricorda soprattutto il suo spaesamento perché il ciclismo femminile si vedeva poco in televisione, del ciclismo femminile si sapeva poco e lei, mentre tutti avevano un campione da interpretare, restava a chiedersi: «E io chi sono?». Si è domandata e continua a domandarsi quante ragazzine abbiano provato la stessa cosa. Un sospiro di sollievo lo ha tirato qualche tempo fa, quando Marta, sua nipote, di nove anni, le ha detto: «Da grande, voglio scattare come Katarzyna Niewiadoma». Ha pensato che lei avrà qualcuno in cui rispecchiarsi, che non resterà a farsi quella domanda. Parte proprio da qui il racconto di una nuova pagina di diario.

Ormai sono diverse le ore di allenamento che Longo Borghini ha messo nelle gambe sulle pendici del Teide e questo la porta sempre più vicina alla stagione che sta per iniziare. Nel mezzo di una pioggia fitta, per contrasto, è tornata con la mente a Cesena, al Giro dello scorso anno, ad una crisi dovuta al caldo, al troppo caldo, e, alla fine, si è detta che, per quanto sia stato difficile arrivare al traguardo in quelle condizioni, quello dell'anno scorso è stato un Giro importante. Capiamo presto che il concetto di bellezza del ciclismo per Longo Borghini non è strettamente legato a un risultato personale: dice che una delle tappe più belle della storia del Giro d'Italia femminile è stata in Liguria, nel 2016, «ho accumulato un sacco di minuti di ritardo, ma sentivo che davanti il gruppo era scatenato».
Quando non deve fare classifica, riesce a fare cose che vorrebbe fare sempre, come parlare a inizio gara con le più giovani del gruppo, le cicliste meno conosciute: «Alcune corrono in bici pur avendo un altro lavoro e vanno ad allenarsi a sera, concluso il turno. Hanno una voglia intatta e attaccano. Non interessa se poi vengono riprese, interessa il fatto che abbiano ancora il desiderio di provarci. Non è facile a certe condizioni. Mi chiedo: cosa potrebbero fare se avessero le possibilità ideali per essere cicliste? Credo dovremmo chiedercelo tutti».

Sono proprio le diverse condizioni di partenza a far pensare Elisa Longo Borghini, quando, ad esempio, parla di quelle realtà in cui alcune ragazze hanno solo una bicicletta e quella di scorta è condivisa, perché l'allenamento fa molto, ma, se non si parte dallo stesso punto, il confronto è falsato.
«Non mi vergogno a dirlo: da junior c'è stato un periodo in cui non andavo avanti. Ho provato a ritirarmi dopo trenta chilometri di una corsa perché non ne avevo più e, quando non riesci a finire le gare, è dura. Spero di essere un modello per loro, perché mi rivedo in loro. Non sono un fenomeno, non lo sono mai stata, non pensavo di arrivare dove sono arrivata, per nulla. Quel che sono oggi deriva solo dall'allenamento, fatto di tanta fatica e sacrifici. Vorrei che a queste ragazze fosse permesso di fare lo stesso perché possono farlo, ma per permetterglielo bisogna cambiare qualcosa». Così è un bene che ci siano più gare World Tour affiancate alle gare maschili, però bisogna salvaguardare le corse minori, incrementarle, se possibile, come è necessario tutelare le squadre più piccole, anche perché «senza il loro futuro, anche le squadre più grandi non ci sarebbero. Non bisogna scordarlo, quando si arriva».

Forse, proprio pensando al suo periodo più difficile, dice che, sin da ragazza, ha imparato che, quando si va a vedere una gara di ciclismo, è giusto aspettare fino al passaggio degli ultimi, non correre via dopo il transito della maglia rosa o della maglia gialla. Quel periodo è stato quello in cui si allenava con il fratello Paolo e una salita di nove chilometri, vicino a casa, sembrava non finire mai: «In quei giorni, le mie barrette erano le merende kinder, Paolo continuava a spingermi, a dirmi che mancava poco, sempre meno. Doveva aspettarmi perché, se fosse andato più veloce, mi sarei fermata. Mi aspettava come si sedeva accanto a me in quei sabato sera a casa, con me influenzata e i miei genitori lontano per lavoro. E non si può credere a quanta fatica faccia ancora oggi Elisa Longo Borghini, per questo la parola gregario è fra più belle che conosca e, se non fosse andata com'è andata, mi sarei messa a disposizione e essere un buon gregario non mi avrebbe reso meno orgogliosa di me. Anzi». Qui torna il concetto di lavoro e di quanto, visto che il ciclismo è uno sport di squadra, fare bene il proprio compito, qualunque esso sia, permetta di tornare in camera d'albergo la sera ed esserne fiere: «Il nome che resta è uno, ma nelle mie vittorie c'è chiunque abbia fatto qualcosa per me in quel giorno o nei giorni prima. Si dice che i compagni di squadra tengono coperto il capitano e questo "tener coperto" non è gratuito. Costa acqua, vento, ritmi elevati, acido lattico. Le mie compagne si prendono carico di tutto questo».

Elisa Borghini ritiene sia essenziale permettere la conoscenza di tali aspetti perché serviranno a tutte quelle ragazze che, magari senza che nessuno lo sappia, stanno sognando di essere cicliste. L'anno scorso, al Tour de France, ha acceso la televisione e su France2 ha visto una pubblicità del Tour femminile: «Come me, l'avranno vista in molte e avranno avuto la certezza che, oggi, non bisogna più aspettare una replica a tarda sera per vedere una corsa femminile». Il Tour, spiega Elisa, fa bene al movimento, perché è un'idea cresciuta nel tempo, perché l'organizzazione è andata a casa delle ragazze che si contendono la generale e le ha intervistate, poi, ha diffuso quei contributi in televisione, chiunque ha potuto conoscerle. «Certo non bisogna scordarsi delle corse più piccole che hanno sempre scommesso su di noi, ma questo innalzamento dell'attenzione porterà anche loro a continuare a crescere, a migliorarsi».
L'alba ha dei colori stupendi al Teide e vale anche la pena anticipare la sveglia per godersela. Accade pure alle cicliste che poi salgono in sella e scattano. Forse accadrà così pure a una bambina di oggi che un domani, ricordandosi uno di quegli scatti, potrà dire: «Mamma, voglio scattare come Elisa Longo Borghini».


Diario dal Teide: "Io non sono capace di farti tanto male"

In cima al Teide, il passaggio delle nuvole è particolare ed Elisa Longo Borghini lo ha notato proprio lunedì, quando si è trovata a pedalare fra quelle nuvole basse che avvolgono pietre e terra. Dopo qualche metro, la mantellina era bagnata, piena di minuscole gocce, come se piovesse, in realtà il cielo era limpido, ma, «sarà l'altitudine del Vulcano, sarà che quelle nuvole erano davvero radenti il terreno, si ha la sensazione di sfiorarle». Non le era mai capitato e, anche mentre ce lo racconta, fatica a spiegarselo. Le montagne, in fondo, possono sorprendere anche chi le scala da sempre. In realtà, però, oggi Longo Borghini ha in mente un'altra cosa, una frase che torna da molti anni fa. Una frase che dice così: «Io non sono capace di farti tanto male».

Sarà perché martedì è stata giornata di test e al Teide è arrivato Paolo Slongo, il suo preparatore, da molti anni, non da sempre, però, perché, nei primi tempi, Elisa era preparata dal padre.
Ferdinando Longo Borghini allenava i fondisti, si occupava dello sci di fondo, e, quando la portava a fare le salite, diceva più o meno così: «Negli ultimi cinquecento metri, fai il medio, la soglia e poi lanci la volata». Elisa ricorda ancora le volte in cui lo guardava e: «Ho i battiti alti, papà». Lui rispondeva con naturalezza: «Tira su un dente». Longo Borghini aveva la sensazione che per suo padre la fatica fosse qualcosa di inevitabile, non solo nel ciclismo, nella quotidianità, per questo l'accettava: bisognava sopportare e continuare a spingere. Anzi, abituarsi a farne di più. È cresciuta così, almeno fino a quando il padre le ha detto che ormai era tempo che percorresse la sua strada affiancata da un preparatore professionista.

«Non volevo, perché mi trovavo bene con lui, perché significava ripartire da capo e chissà come sarebbe andata. Ho chiesto molti perché: mi ha detto che era il momento per lui di farsi da parte, che le cose diventavano più importanti e che bisogna lasciare che un figlio percorra da solo la propria strada. Ad un certo punto, ha riso. Mi ha fissato, lo ricordo come fosse adesso: "Poi, se vuoi sapere la verità, io non sono capace di farti tanto male". Quella frase l'ho capita tempo dopo, ho capito il bene che c'era dentro: quando ci si prepara, ci si allena, si soffre e non tutti riescono a vederti così». Prendete, ad esempio, la giornata di ieri: cinque ore di allenamento e il test del lattato.
Funziona in questo modo: un tratto di salita, un chilometro e mezzo, un piccolo esame del sangue per verificare il valore del lattato prima di iniziare a pedalare e si torna a ripetere continuamente lo stesso tratto. Ogni volta che si arriva in "vetta" si ricalcola il valore, fino a che si raggiunge un parametro standard, denominato soglia, quattro millimoli. Da quel momento, si ripete ancora il test, da fermi, per due volte, dopo tre e sei minuti. Ciò che emerge fotografa la condizione attuale dell'atleta: «Non sarò in piena forma per le prime gare, ma da marzo penso di sì, lì potrò dire la mia». A noi, allora, viene naturale parlare di scatti, di quando si lascia il gruppo o il gruppetto sul posto e si va via, si va a vincere. Cosa c'è di più naturale della tentazione o della voglia di scattare per una ciclista?
«Ti confesso che, all'inizio, scattare mi faceva paura. C'è un gruppo di cento atlete e tu, da sola, parti, attacchi. Nei primi tempi, sembra quasi una lesa maestà al plotone. Mi vergognavo ad attaccare. Pensa che il primo attacco, che ricordo come tale, avvenne al trofeo Binda 2011. Non per andare a vincere, ma per riportarsi sul primo gruppo. Mi dicevo "adesso parto", mi rispondevo "ma no, che figura ci fai se non riesci a staccarle?" e argomentavo "tanto non ti conosce nessuno, anche se ti riprendono, non si ricordano chi sei". Dopo questa frase, ho attaccato davvero». A Plouay, sempre nel 2011 il primo scatto dalla testa del gruppo, per provare a vincere. Un poco di margine e il plotone che torna ad inglobarla: «Non potevo andare da nessuna parte, mi sono spenta da sola. Sono rientrate senza nemmeno aumentare il ritmo. In quel momento, però, avevo la percezione di essere davvero una ciclista».


Spiega Longo Borghini che quella sensazione non cambia mai: appena si affaccia alla mente l'idea di scattare, quel misto di adrenalina torna e scompiglia come le prime volte. Basta solo pensare: «Adesso le seguo, poi attacco e le stacco». Si insegue di grinta o di intelligenza, dipende dalle salite.
C'è Elisa e c'è Longo Borghini. A fare tutto questo, sul Teide, è Longo Borghini, Elisa, invece, è altro. «Per chi mi vuole bene voglio essere solo Elisa. Devo essere solo Elisa. Longo Borghini resta da una parte, resta agli incoraggiamenti delle persone, dei tifosi, tutte cose che fanno piacere, ma non posso fermarmi lì. Elisa, invece, racconta il ciclismo come un qualunque altro lavoro perché per Elisa è così. Per Elisa c’è la strada in cui è cresciuta, la scuola che ha frequentato, le amicizie di quel tempo, le parole con mia madre che vedo sempre meno e che, per stare con me, è arrivata fin quassù».
E ancora ci sono tutti quei fogli su cui, anche in una camera, affacciata sul Teide, anche mentre fuori ci sono solo le poche luci dell’alba, segna ciò che le viene in mente. Il foglio, poi, lo butta via, ma ha bisogno di vedere scritte le idee che le frullano in testa. C’è un libro di Carlos Ruiz Zafón, “L’ombra del vento”, che è il suo preferito da sempre e la musica che porta ovunque. “Qui vicino, ho percorso una salita che si chiama “Jama”. Questo è anche il titolo di una canzone che mi ha fatto ascoltare una persona molto importante per me. Ho iniziato a scalare e, nel frattempo, in mente avevo solo le parole di quella canzone”. Forse il senso della musica, come delle parole, per chi pedala è questo: legare cose lontane.
Tutte cose apparentemente normali, come un passaggio di nuvole basse in alta montagna o uno scatto per una ciclista. Tutte cose che, in realtà, normali non lo diventano mai. Per fortuna, aggiungiamo noi. Elisa Longo Borghini, intanto, là fuori, ha ripreso i lavori sulla soglia e sui cambi di ritmo: il menù di questi giorni.


Diario dal Teide: la prima volta di Elisa Longo Borghini

Mentre il dialogo con Elisa Longo Borghini si infittisce, sulle pendici del Teide, dove si trova da sola, in altura, da giovedì, sono le cinque del pomeriggio, in Italia, invece, a qualche migliaio di chilometri di distanza, l'orologio segna già le sei della sera. È una delle prime cose che Longo Borghini ci fa notare: «Alle diciotto, qui, calerà il silenzio. Un silenzio totale, assoluto. Non so cosa accada alla giornata, quando scocca quell'ora, ma ogni volta è così. I rumori scompaiono, sembra non esserci più nulla». Sarà questa l'ora delle parole, dei ricordi, dello scambio di opinioni, fino a che Elisa Longo Borghini sarà lassù. Basterà un telefono e questo sarà il nostro "Diario dal Teide".

Il Teide, già, la vetta più alta della Spagna, un vulcano, sull'isola di Tenerife, che raggiunge i 3715 metri sul livello del mare, con ancora un lato avvolto nel mistero, almeno nell'immaginazione, come tutte le vette. È la prima volta che Elisa Longo Borghini, Trek Segafredo, viene in altura qui, lei che il primo ritiro in altura l'ha fatto nel 2011, a Livigno. Certo, del Teide ha sentito più volte parlare, perché sul Teide vanno molti ciclisti a costruire il lavoro della stagione che verrà, ma arrivarci è tutta un'altra cosa: «Lo scorgi da lontano sull'ampia strada che percorri. Pensi che, lassù, sia il luogo della solitudine, invece no, invece, qui, durante la giornata, non ci si sente soli. Ci sono navette che accompagnano i turisti, c'è, soprattutto, la funivia che arriva in vetta e che continua a percorrere il suo tragitto, a scandire il tempo che passa». Longo Borghini ripensa alla montagna, a quello che per lei ha sempre significato, al fatto che, ci dice, forse, è necessario esserci cresciuti per conoscerla meglio.

«Potrei dire che sono sempre andata a pedalare in montagna: pedalavo ore e ore, da sola, strada dopo strada, passi e valichi in successione, cambiava la vegetazione, cambiava l'aria, mi stancavo, mi sfinivo in montagna. Però, per qualche ragione, ho sempre avuto la spinta per tornarci». Del resto, Elisa Longo Borghini, fra le montagne, è cresciuta, quelle del Verbano Cusio Ossola che non hanno l'aspetto lunare che si nota affacciandosi adesso alla sua camera d'albergo, ma sono sempre montagne e la spiegazione del suo carattere, del suo modo di essere, la trova proprio vicino a casa.
«La nostra è una vallata, le vette sono tutte attorno, da qualunque parte guardi. Non è detto che chi ci arrivi si trovi subito a proprio agio perché spesso piove e, quando fa freddo, l'aria punge. Ma chi resta, chi ha pazienza e inizia a camminare scopre cosa c'è nei meandri della vallata: certi scorci, quel verde che resta in memoria. Ora che ci penso, io assomiglio a quella vallata. All'inizio posso sembrare sulle mie, "musona", in realtà non lo sono. Mi piace ridere, rido di gusto, ma ho bisogno di tempo. Perché, per iniziare a ridere, devo iniziare a fidarmi, a conoscere. La vera Longo Borghini è questa». Intanto c'è il Teide e anche "lui" è da conoscere, da studiare. Non a caso, Elisa cerca informazioni, ovunque, legge, studia, fotografa oltre a pedalare e, poi, riflette e si preoccupa di ciò che resterà di tutto questo, quando sarà passato molto tempo: «Posso dire di vedere i luoghi da una prospettiva privilegiata, quella di atleta. Una prospettiva che, però, non prevede un tempo per il turismo, perché i luoghi ci scorrono accanto e non si visitano quasi mai. Però la cultura ci è concessa, possiamo informarci e tornare a casa sapendo qualcosa in più. Viaggiare consapevolmente. Altrimenti cosa resta? Solo valigie e zaini che si riempiono e svuotano di continuo. Ora sto cercando di capire qualcosa in più a livello geologico di quel gigante, del Teide».

I primi giorni di un ritiro in altura vanno affrontati con tranquillità, con calma, altrimenti "ti finisci", precisa Elisa in modo deciso. Fra poche ore, con lei ci sarà anche Paolo Slongo, il suo preparatore. Intanto si pedala dai 1980 metri fino ai 2300 e quando si arriva intorno ai 2100 il respiro inizia a essere più difficoltoso. «La sensazione è quella del cuore in gola, qualcosa che si avverte spesso all'inizio. Il corpo deve ambientarsi e serve qualche giorno. Questo processo avverrà anche quando tornerò a casa e dovrò abituarmi nuovamente a un'altra aria. Quello è il momento in cui "smaltisci il ritiro", la migliore forma fisica arriverà dopo poco». C'è anche il fatto che, in ritiro, si è lontani dalle gare e ci si resta per molti giorni. Ovviamente è una percezione soggettiva, tuttavia, per molti, il ritorno in corsa è difficile. Così, almeno, è successo spesso a Longo Borghini.
Lassù ci si prepara per un traguardo distante settimane, a volte mesi. Un traguardo che, inutile nasconderselo, quest'anno sarà il Tour de France. Anzi, ancora meglio, come aggiunge lei stessa: il mese di luglio, arrivare pronti in quei giorni e «quando si è pronti, ce la si gioca ovunque». La differenza non è sottile e Elisa l'ha compresa in un momento di apparente rammarico: l'anno scorso, dopo il Tour de France. «Ricordate come avevo vinto lo Women's Tour? Bene, avevo provato sensazioni buone e avevo anche vinto divertendomi e facendo divertire. Eppure, dopo il dolce amaro lasciato dal Tour, sembrava cancellato. Mi sono resa conto che sono bastate le prestazioni della Grande Boucle e delle Ardenne perché mettessi tutto in discussione». Il tutto per diversi giorni, fino a che, a fine stagione, si fa il punto di ciò che si è fatto e la prospettiva cambia: «Avevo vinto una Parigi Roubaix a cui non pensavo nemmeno di partecipare, non potevo dimenticarlo. Forse, in quel momento, si è fatta ancor più strada la consapevolezza che fosse giusto lavorare in vista di un periodo più che di una singola gara».

L'ubicazione della camera di Longo Borghini fa sì che dalle finestre si senta il rumore del vento, una brezza che, a tratti, risuona. Non c'è solo l'allenamento in un ritiro in altura, c'è anche il tempo della riflessione e Longo Borghini dedica molto spazio all'introspezione. «Anche la solitudine, che si prova quando tutto tace, non è negativa. Anzi, credo sia una solitudine che fa bene perché consente di fare chiarezza. Talvolta non ci si pensa, ma abbiamo bisogno di momenti da dedicare alla riflessione, per avere un quadro più chiaro delle cose. È un tempo importante quello che le dedichiamo, non meno importante di quello sui pedali. Tutto è strettamente collegato: quello che hai già fatto, quello che stai facendo e quello che farai. Penso non esista futuro, senza quello che hai già lasciato alle spalle. Di più: serve oggettività nel vedere quello che è già passato. Serve la volontà di vedere gli errori, perché imparerai, ma anche quella di vedere il buono che c'è stato perché ti renderà forte, ti restituirà consapevolezza»
In quei momenti di solitudine, di riflessione, il vento sembra portare odore di zolfo, un odore che Longo Borghini non è nemmeno certa appartenga a queste zone: «Penso sia un ricordo di quando, da bambina, andavo in vacanza alle isole Eolie. Sull’Isola di Vulcano c’è quel profumo. Qui non credo, gli altri non lo sentono. A me, però, piace pensare che sia reale, così non indago oltre. Mi fa felice percepirlo».
Adesso fuori c’è solo silenzio. Martedì sarà giorno di test e noi torneremo lassù, seppur a molti chilometri di distanza. Il “Diario dal Teide” è solo all’inizio.


Promesse

Quel numero di dorsale poteva sembrare una promessa: uno. E l'uno, stamattina, a Carpi, nel primo giorno di ottobre, lo aveva Elisa Longo Borghini. Lei che, appunto perché conosce il valore delle promesse, le tratta con cura. Dire troppo, sbilanciarsi troppo, significa generare attese e, se poi le gambe ti lasciano, le peggiori delusioni per chi è lì a guardare, a guardarti, vengono proprio da lì. Dalle promesse, da ciò che, ascoltando le tue parole, aveva immaginato. La sua promessa è, da sempre, il suo lavoro. Il lavorare duro, il non cedere nulla nemmeno in autunno, il non dimenticare nulla nemmeno a fine stagione. Ed è questa, in fondo, l'unica cosa che si può promettere: volerci essere. Fare il possibile per esserci.
A Bologna, i portici della salita di San Luca sembrano fuori dal tempo. Li abbiamo visti in primavera, promessa di maggio, in estate, intermezzo di frescura, in inverno, riparo dall'aria tagliente, in autunno, con le mani nelle tasche della giacca nelle giornate più aspre. Elisa Longo Borghini li conosce bene, come ben conosce quella salita, perché quell'uno è anche passato, quello delle due volte in cui qui ha già vinto. Promettere di fare il possibile vuol dire guardare avanti perché promettere è fissare un punto nel futuro e credere di andarci, vuol dire stare su una bicicletta che ha poche certezze e quella di andare avanti è una di queste, vuol dire scattare in salita, anche se sei stanca, anche se è più difficile.
Elisa Longo Borghini ha fatto così ancora oggi ed è stato uguale e diverso da tutte le altre volte. Qualcosa che colpisce, che resta in mente, perché non è solo il risultato, è il modo: una sorta di presagio che abbiamo quando alcuni atleti fanno qualcosa di straordinario in modo normale o qualcosa di normale in modo straordinario. È questo il capovolgimento che attira, che calamita. Un segreto, forse.
Seconda Veronica Ewers, terza Sofia Bertizzolo. Ne abbiamo parlato qualche giorno fa, della sua fatica, dell'ultimo strappo del mondiale di Wollongong, e guardatela oggi, mentre è lì a giocarsela che è un piacere. Il discorso non è molto diverso, sempre di promesse si parla: di quelle fatte agli altri e di quelle fatte alla propria persona.
Una ciclista sa che non si può illudere chi aspetta per ore un passaggio di qualche secondo, sul San Luca anche qualche secondo in più tanto è duro, ma una ciclista sa anche che ha il dovere di promettersi qualcosa di grande, di molto grande, quasi essenziale, per andare avanti.
Pensiamo a Marta Cavalli che proprio oggi è rientrata dopo la caduta al Tour de France Femmes ed è arrivata sesta. Vogliamo immaginare cosa sia stato per lei questo giorno, dopo tutti i risultati della stagione, dopo la crescita di questi anni. Questo giorno è stato quello che si era promessa dopo essersi rialzata dall'asfalto francese, costretta a tornare a casa. Promettersi il giorno del ritorno significa avere la pazienza di aspettare e il coraggio di dire no pur volendo dire sì. Significa credere al fatto che arriverà. Anche per Marta Cavalli è stato un sabato uguale e diverso dagli altri, un giorno da cui non si aspettava nulla e in cui chiedeva a tutti di non aspettarsi nulla perché è meglio pedalare leggeri in salita. Il suo essenziale era pedalare in gruppo, risentirsi in quel caos del plotone. Le promesse sono promesse e bisogna averne cura. Tutto qui.


Uno splendido giro in bicicletta

Difficile trovare le parole in un sabato pomeriggio in cui Elisa Longo Borghini decide di accelerare e andare via da sola. Mancano trentatré chilometri all'arrivo e nella sua testa un progetto folle: arrivare, da sola, nel velodromo di Roubaix.

Difficile trovare le parole e magari aiutateci voi nei commenti, altrimenti ci facciamo supportare da qualche foto, oppure, dopo aver ripreso fiato, guarderemo e riguarderemo la corsa centinaia di volte come si usa fare con un bel film, di quelli che non vorresti mai terminare e che alla fine hai imparato a memoria.
Siamo deboli. Di cuore. Siamo inclini all'emozione. Siamo pieni di retorica. Questi sono quei momenti in cui ci concediamo qualcosa; le parole vengono fuori di getto come un'azione di Longo Borghini sul pavé. Superlativi. Eccessi di gioia e di foga. Non riusciamo a stare fermi.

Abbiamo avuto più di un sussulto. Quando Elisa Longo Borghini prendeva male quella curva dentro Camphin-en-Pévèl, settore numero 5, uno di quelli decisivi. Oppure ci si è stretto il cuore quando Kopecky da dietro faceva il forcing sul pavè e il distacco per un attimo era di poco superiore ai dieci secondi.

Difficile trovare parole quando il traguardo si avvicinava ed Elisa non smetteva mai di spingere il rapportone. Lei aveva male alle gambe? Noi avevamo male alle gambe. Lei aveva male alle braccia? Noi avevamo male alle braccia. Non riuscivamo a trovare pace. Dai, traguardo, arriva, avrà pensato lei. "Dai traguardo, arriva!" ci siamo detti noi.
Giornata blu. Cielo caldo. Difficile trovare le parole in un sabato pomeriggio passato a spingere Elisa Longo Borghini, partita mentre sulla sua destra il Moulin de Vertain a Templeuve era vestito con i colori della Roubaix.

Tutto intorno i tifosi spingevano le atlete che in qualche modo facevano rotolare le loro ruote sulle pietre infide della Regina delle classiche.
Siamo senza parole. Come Elisa Longo Borghini a fine gara: non ci crede o forse ci crede più di tutti noi. Tranquilla ai microfoni come dopo una bella pedalata. «E pensare che nemmeno ci volevo venire qui. Sono stata poco bene, non avevo intenzione di fare la comparsa, ma la squadra ha insistito». Vieni, attacca e vinci, le hanno detto.
Tranquilla, Longo Borghini, come dopo una bella pedalata nella storia di questo sport. Entrata direttamente dal varco che porta all'Inferno del Nord. Oggi, così polveroso da sembrare un paradiso in terra. Grazie Elisa Longo Borghini per lo splendido giro in bicicletta.


Pensieri e parole

Quando Annemiek van Vleuten ha tagliato il traguardo di Plouay, ha guardato il cielo e mischiato sorriso e pianto. La gola, probabilmente, avrebbe voluto sorridere ma dagli occhi scendevano già alcune lacrime. Ci rendiamo conto che dire una cosa del genere per van Vleuten rasenti l’assurdo ma, forse, l’olandese non era la più forte, ieri pomeriggio. C’è stata molta tattica psicologica nella gara in linea delle donne élite e Annemiek van Vleuten ha giocato d’astuzia sino al rettilineo d’arrivo. Si è messa nella scia di Elisa Longo Borghini e Kasia Niewiadoma, non ha tirato un metro. Della serie: «Sono la più forte e dietro, in gruppo, ho una squadra altrettanto forte. Vogliamo andare via da sole? Bene. Tirate voi. Noi potremmo vincere lo stesso». Questo il messaggio da consegnare. Forse nella sua mente pensava altro e non tirava appunto perché non ne aveva le forze. Perché se avesse collaborato maggiormente, poi, non avrebbe avuto la stessa brillantezza per lo sprint. Van Vleuten ha raccontato una bugia senza proferir parola. E, consapevoli della straordinarietà della atleta di Vleuten, ci abbiamo creduto quasi tutti. Sì, perché chi era lì qualcosa ha intuito. Forse perché quando è rientrata Chantal Blaak è stata proprio van Vleuten a mettersi in testa al drappello, come per salvaguardare la compagna. Longo Borghini e Niewiadoma devono averlo pensato: «Strano. Sono in due e si limitano a controllare la situazione. Annemiek non scatta: o sta a ruota o si mette in testa e fa calare l’andatura. Queste vogliono portarci alla volata e metterci nel sacco».

Nella mente di Longo Borghini è balenato un fulmine in quel momento. Ed è partita Elisa. Uno, due, tre scatti. Blaak si stacca. Van Vleuten non risponde subito, perde qualche metro e poi rientra. È la conferma: «Ho ragione io. Non sei la stessa, Annemiek. Non sei la stessa». Se lo dice, si volta e riscatta Elisa. È la più brillante di quello che ormai è rimasto un terzetto. Lei e Niewiadoma si guardano negli occhi, come a trasmettersi quel messaggio. Van Vleuten è sola ed inizia a capire: «Se mi mostro vulnerabile è la fine. Dai, dai uno scatto. Uno solo. Magari si staccano, potrebbero avere già speso tutto. In ogni caso devo intimorirle. Vai Annemiek, vai». Ognuno si racconta ciò che può e muove le pedine come in una partita a scacchi. Quando Annemiek van Vleuten parte, la paura è che sia un arrivederci a dopo il traguardo. Anche Longo Borghini lo pensa: «Mamma mia se fai male quando parti. Altro che storie. Questa è sempre la stessa. Che male, che male». Per un attimo crolla il fine meccanismo psicologico costruito per tanti chilometri. Poi Elisa cambia rapporto, si alza sui pedali e guarda a terra: non vuole vedere dove si trova l’olandese. Spinge più che può e rialza la testa: «Ti torno sotto, ti torno sotto. E no, Annemiek, troppo facile così. Devi sudartela». Così si riforma il duo che andrà sino al traguardo: Annemiek van Vleuten ed Elisa Longo Borghini per l’oro europeo.

Lo sanno tutti e lo sa anche lei: le volate non sono mai state il punto forte di Longo Borghini. Mentre l’olandese quando lancia l’affondo è irresistibile. «Devo fare attenzione a quando parte. Devo essere concentratissima. Se le prendo la ruota, è fatta. Devo prenderle la ruota e uscire nel finale. Sì, devo fare così». Ancora nella testa. È lì che si rimescolano le carte mentre la pioggia lascia spazio a qualche raggio di sole sulle strade bretoni. La volata è lanciata: van Vleuten parte in testa, Longo Borghini le prende la ruota. Da un momento all’altro tutti si aspettano che Elisa sbuchi a destra o a sinistra. Niente da fare. Le immagini schiacciano, tra la ruota posteriore di van Vleuten e quella anteriore di Longo Borghini ci sono diversi centimetri. Troppi per prendere la scia e tentare un sorpasso. Van Vleuten oro, Longo Borghini argento, Niewiadoma bronzo. A un passo dal tris, dopo Balsamo e Nizzolo. Ma non conta. Non così tanto almeno. Elisa è stata commovente. Non si è mai arresa sino alla linea bianca, ha rilanciato anche mentre van Vleuten stava alzando le mani dal manubrio per festeggiare. I cinici, o forse solo quelli che non hanno mai preso in mano una bicicletta, diranno che non arrendersi è un dovere. Che conta solo vincere. Che dei secondi non si ricorda nessuno. Noi diciamo che il loro mondo ci fa un poco tristezza. Dei primi si ricordano gli albi d’oro e le persone, magari dopo averli consultati. Dei secondi, a certe condizioni, si ricordano solo le persone. Senza nemmeno bisogno di controllare. Perché quello che dai ti qualifica. Solo quello. Punto e basta.

Foto: Bettini


Elisa, Filippo e una terra

Vincent Van Gogh sosteneva che ci fosse una sorta di limitatezza in ogni arte. Una limitatezza che consente solo di avvicinarsi al reale percepito senza mai raggiungerlo completamente. E quindi senza mai trasmetterlo completamente. Così ieri abbiamo ripensato a quello che ci aveva detto Elisa Longo Borghini. Elisa sostiene che l’inno nazionale sia speciale: «Personalmente devo confessare che l'inno è un qualcosa di incredibile. Quando sei lì sul podio e lo senti, provi una sensazione indescrivibile. È sicuramente qualcosa di eccezionale. Non riesco a non commuovermi quando parte». Noi abbiamo avuto la fortuna di vedere i suoi occhi, quando ha preso in mano la maglia tricolore prima di indossarla, dopo la vittoria ai campionati nazionali a cronometro, e abbiamo sentito ciò che dalle parole potevamo solo intuire. E forse Elisa Longo Borghini è la persona giusta per capire meglio questa cosa, lei che se ripensa al suo momento più bello pensa ad una compagna di squadra: «Dovessi sceglierne uno ti direi che è stato tagliare il traguardo a braccia alzate insieme alla mia compagna di squadra Audrey Cordon Ragot a Plumelec, nel 2014». Del resto anche le persone possono essere un momento, no? Lei che è umile. Talmente umile che alla sua prima gara, in Belgio alla Omloop Het Nieuwsblad, il 26 febbraio 2011, si ritrovò fra le prime e pensò solo: «Ma sono davvero qui? Che ci faccio qui fra le prime?». Lei che è per la quarta volta campionessa italiana contro il tempo.

Filippo Ganna, da ieri, ha in comune con Elisa la maglia tricolore. In realtà da sempre ad Elisa Longo Borghini, lo accomuna la terra. Il Verbano-Cusio-Ossola: di Ornavasso lei, di Verbania lui. Caso vuole che, per noi, oggi, Cittadella e il Verbano non siano così distanti. Caso vuole che un signore, in un bar, si rammarichi col barista per non aver potuto vedere le prove. Un rammarico vero, sincero. Non una di quelle cose che si dicono per conversare mentre si beve il caffè. E chiosi con un: «Pippo è così bello in sella». Bello e veloce, diciamo noi. Forse un poco timido. Ha quell’espressione da bravo ragazzo e quello sguardo che rifugge gli sguardi. Sicuramente sincero. Per Filippo Ganna la felicità non è solo la vittoria. La felicità è la consapevolezza di essere riuscito a fare il massimo. Sì, perché a fronte di una grossa onestà intellettuale, se vinci senza aver dato tutto, non senti il merito di quella vittoria. Ti manca qualcosa. «Direi che ho corso un 10% sotto le mie possibilità, sia per il caldo sia perché comunque non avevo fatto una preparazione specifica per questo appuntamento. Dopo venti, trenta minuti di sforzo ho cominciato a perdere potenza, per fortuna sono comunque riuscito a difendermi. Per questo motivo non riesco ad essere felice al 100%, però sicuramente aver confermato questa maglia tricolore è un bell'orgoglio». Perché, alla fine, devi rendere conto a te e solo a te.
Elisa Longo Borghini e Filippo Ganna sono campioni italiani contro il tempo.
E di sicuro non è un caso.