La corsa in collina

Nella “Casa in Collina” Cesare Pavese descrive le fughe serali in collina del protagonista del romanzo per evitare i bombardamenti su Torino durante la seconda guerra mondiale. Nella lettura del libro il ricordo va ad una mia insegnante della scuola media che era solita raccontare delle sue fughe nella collina torinese durante la guerra, anche lei per evitare le bombe. Quindi fin da piccolo ho vissuto con un'immagine, un’idea di una collina torinese protettiva, materna, sicura.
Poi il caso volle che venni ad abitare proprio ai piedi della collina torinese, presente ogni mattina come sfondo alla mia colazione. La luce che passa tra i campanili di Superga vale più dell’orologio al polso per sapermi regolare con gli orari.

Pochi forse sanno che la collina torinese è stata dichiarata assieme al parco del Po “Riserva di Biosfera italiana UNESCO” all’interno del programma “Man and Biosphere”.

L’area è prevalentemente agricola, ma ricca anche di boschi e con una presenza urbana non ancora aggressiva. Fino all’arrivo della pandemia da Covid erano pochi i torinesi che si avventuravano nei sentieri e boschi a ridosso del centro città, molti invece i cicloamatori in bici da corsa o mtb.
Con la pandemia e il divieto di uscire dal territorio del proprio comune, la collina è diventata oggetto del desiderio di scampagnate in cerca di libertà e natura dopo il confinamento.

Le cartine dei sentieri della collina sono andate a ruba, ma soprattutto è rinato l’amore tra la collina e la città. La collina, che fa da sfondo alla città, è sempre lì pronta a regalarti momenti di relax dallo stress cittadino.
Finalmente quest'anno per la seconda volta nella sua storia il Giro percorre quelle strade. La prima volta fu nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, fu organizzata una tappa a Torino in cui era prevista la salita dell’Eremo dei Camaldolesi passando da Villa della Regina, ma mai è stata sfruttata in tutta la sua potenzialità ciclistica prima di quel sabato 21 maggio.

C'è stato un cambio di percorso rispetto al disegno originale che non ha scalfito il nostro entusiasmo, anche perché il secondo circuito era solo poco meno duro della prima versione e aggiungeva il muro micidiale di Strada della Vetta e come veri e propri tifosi si facevano discorsi scaramantici: una serie di contro-gufate per esorcizzare la nostra fremente attesa.

Finalmente il 21 maggio arriva.
Di buon mattino decido di percorrere il circuito in scooter, pensavo in un primo momento di farlo in bici, ma avrei compromesso la possibilità di pranzare con un amico.

La luce dell’alba, già calda, rendeva luccicanti i prati e le piante; nei camper già appostati il silenzio dell’ultimo sonno mattutino; i primi camion dell’organizzazione iniziavano a scaricare le transenne e gli archi lungo il percorso.
Stava iniziando la vestizione della collina: tutto sarebbe dovuto essere perfetto.

A metà mattinata ancora non ho deciso dove seguire la tappa. Il primo progetto era un pic-nic al Parco del Nobile con la famiglia, ma la lunga salita a piedi con le borse del cibo sotto un caldo afoso come non mai ci ha fatto desistere.
Fortunatamente ho l’intuizione giusta, portare lo scooter dentro la zona rossa del circuito prima che questo venga chiuso al traffico.
Pranzo con mio figlio e un amico al seguito del Giro: non si parla che della tappa e di quello che può succedere.

Mai ho azzeccato un pronostico, ma una birra fresca all'ora di pranzo deve avermi ispirato per bene. Racconto di quanto possa essere decisiva la salita che porta da Revigliasco all’ingresso del circuito del Parco della Rimembranza, del caldo infuocato che ci sarà lì e di come volendo una squadra possa far scoppiare proprio in quel punto la corsa. -La Bahrain? La Ineos?- mi chiede l'amico -No, la Bora- rispondo.
E sapete com'è andata, no? La corsa scoppia a 80 km dal traguardo grazie proprio alla squadra del futuro vincitore del Giro; una corsa che ci regalerà distacchi e spettacolo come e forse più di un tappone dolomitico.

Intanto dopo pranzo mio figlio ed io raggiungiamo lo scooter e iniziamo a risalire la collina. Il primo intento è di salire a strada del Nobile, da dietro, ma la polizia ed un volontario alpino ci impediscono di fare l’ultimo tratto a piedi.
Non tutto il mal vien per nuocere. Non ci avevo pensato, ma il secondo tratto della salita che porta all’eremo è libera, da lì raggiungere la strada della vetta ci sarà circa un chilometro a piedi.

Rimontiamo in scooter, ancora delusi ma fiduciosi, e partiamo. Lungo la salita vedo ciclisti e pedoni sudati fradici risalire la strada.
Quanto grande può essere la passione per il Giro, da rischiare un collasso su una salita in una giornata afosa che nemmeno a luglio?! Pantaloni inzuppati, maglietta bagnata incollata, gocce di sudore sulla fronte, ma il passo in salita non cede, non manca molto al passaggio!
Mio figlio e io siamo più fortunati, ma tocca anche a noi farci la nostra bella sudata. Lascio lo scooter su un piccolo piano vicino ad un passo carraio, prendiamo la bottiglia dell’acqua e si inizia a salire.

Raggiungiamo Strada della Vetta, l’inferno, il punto più duro di tutta la tappa, forse la pendenza più dura di tutto il Giro 2022.
La folla è enorme, non è nemmeno scontato trovare qualche centimetro a bordo strada libero.
Dopo tanti anni di corse viste dal vivo, scelgo strategicamente l’ultimo tratto duro della salita. In questo punto, dopo che la salita ha fatto gran parte della selezione, è più facile vedere i corridori sgranati uno a uno oppure in piccoli gruppi.
Due battute con i vicini, regalare un po’ d’acqua a chi l’aveva finita e poi cellulare in mano a seguire la diretta.
Dietro di me si forma un capannello di appassionati, non tutti esperti di ciclismo, ma sinceramente presi da questa tappa.
I corridori sono sulla panoramica, rotonda Margaria, manca poco! Ripongo il cellulare, niente foto o video. Voglio godermela all’antica, senza l’ansia del ricordo, di una foto sbiadita, di un video mosso. I migliori arrivano. C’è Vincenzo Nibali tra loro e lo incito alla vecchia maniera. Gli urlo un lungo “Vai Vincenzo, forza!” con una grinta pazzesca.
Lui mi vede e mi fa un cenno con la testa - almeno così mi piace pensare - in realtà parlava a se stesso e alla sua fatica. Poi si fa il tifo per tutti, nessuno escluso. Un tributo a Valverde con uno spagnolo con la maglia di campione del mondo Movistar che gli corre accanto per qualche metro. Il giusto quadro che mi porterò dietro come uscita di scena di un fuoriclasse.
Al primo passaggio vedo ancora volti lucidi, tranne il povero Julius Van den Berg, che a mandibola aperta e storta disegna sul suo volto una smorfia da urlo di Munch.

Non mancano domande tipo: “Tu che li conosci, chi è questo?” Ovviamente non è facile rispondere, alcuni li riconosco, altri li manco completamente. Primo passaggio auto di fine corsa e nuovamente si torna al cellulare.
Nibali è ancora tra i migliori. Nel primo pomeriggio avevo ricevuto un messaggio da mio cognato “Vedo Nibali favorito”, tra di me ho pensato “Forse mio cognato segue poco il ciclismo ultimamente, preso dal suo Milan che sta soffiando lo scudetto alla mia Inter”.
Invece Nibali è ancora con i migliori. Io amo lo sport perché è giusto che vinca il più bravo e non il più forte, altrimenti è inutile gareggiare.
E oggi Vincenzo è davvero bravo, gestisce i tratti duri, tira fuori tutta la sua esperienza, controlla i ragazzini che lo affiancano come un fratello maggiore alla prima uscita serale del minore.

Al secondo passaggio Nibali è staccato di qualche metro da Carapaz e Hindley. Gli urlo, lo so sono ingenuo ma l’istinto mi ha detto così, -li riprendi subito perché sopra spiana!- Come se lui già non lo sapesse.
Al passaggio di Landa mulino il braccio velocemente, come se lo stessi tirando su con una corda. Un poeta si aiuta sempre!
Sempre più sgranati passano il resto dei corridori, alcuni in solitario, altri in coppia, spesso della stessa squadra, per incoraggiarsi.
Un bambino è preso di mira dai corridori per il regalo della borraccia. Lui è felicissimo, così tutti noi con lui.
Gli consiglio di non tenerla in mano, altrimenti non ne riceverà altre. Lui con uno sguardo sveglio capisce al volo, lascia la borraccia al nonno e riprende posizione. Verrà premiato altre due volte.
I due gruppi, quello di van der Poel e poi, dopo qualche minuto, quello di Démare sembrano soldati al ritorno dal fronte, con poca voglia anche di salutare e preoccupati solo del tempo massimo.

Infine passa di nuovo Van Den Berg, sembrava impossibile ma è avvenuto, la mandibola ancora più storta, ora tutto il corpo si contorce sulla bici, sta dando tutto! Da domani tiferò per lui!
Chi fatica di più e non molla è il vero campione di una corsa come il Giro. Non è retorica, guardate i loro volti, le loro smorfie, i tendini affilati e capirete che non c’è nulla di retorico in questo. Poi se avete sofferto una crisi in bici su una salita, sarà più semplice capirlo e rivivrete con orgoglio quel giorno in cui non hai mollato (sul Finestre, per quanto mi riguarda).
La macchina di fine corsa è passata, si riprende il cammino verso casa.
Il caldo è meno opprimente rispetto a prima, tutti sorridono, qualcuno si ferma a prendere un gelato all’Eremo dove una gelataio da strada ha parcheggiato la sua ape.
Scendiamo a Torino desiderosi di una buona birra per cancellare l’arsura e sentire e leggere subito i commenti della tappa.
Sono orgoglioso delle ”mie” colline, hanno fatto vedere al mondo cosa valgono. Speriamo RCS le sappia valorizzare a dovere, magari facendo della Milano-Torino, la vera decana, una corsa da sogno con un circuito in collina simile a questo del Giro.
Un mondiale? Perché no. Ma avere una corsa spettacolare come questa ogni anno è il mio desiderio.

Con lo scooter taglio per Val San Martino, la mia valle preferita della collina, amata anche da Salgari, a tal punto che la scelse come luogo dei suoi ultimi attimi di vita.
La temperatura è più primaverile qui e gli odori dei fiori si sentono bene. Il Giro è passato, la festa di Maggio. Sarebbe stato perfetto se avesse vinto Nibali, ma è stato bello così. Un quarto posto, conquistato con classe e fatica, è la migliore metafora della giornata.
La materna collina ci ha accolto, entusiasmato, protetto da un sole cocente e ci ha regalato l’ennesima lezione di vita: non c’è età per smettere di pedalare e divertiti in bici e anche se non arrivi primo, qui sarai sempre felice, affaticato, protetto.

Per Alvento magazine - Kristian Perrone
Foto Daniele Molineris


L'ultimo giorno al Giro

L'ultimo giorno è proprio ciò a cui pensi quando parli di ultimo giorno. Un misto di gioia e malinconia. La gioia di chi vince, della sua squadra, la gioia di chi due anni fa aveva perso il Giro d'Italia proprio all'ultimo, Jai Hindley. Oggi aveva un vantaggio tale da non avere più paura. Nemmeno degli spettri che ti possono prendere la notte quando cerchi di prendere sonno.
L'ultimo giorno è la gioia di chi finisce per una sera di far fatica, sapendo che domani mattina potrà dormire qualche ora in più. Vale per il gregario e per il capitano. Vale per chi porta avanti il gruppo e magari vorrebbe fermarsi a bordo strada. Per chi si guarda dentro mentre pedala e chi trova la forza di fermarsi a fare l'occhiolino a un piccolo tifoso come fa Dries De Bondt in piena fatica sul Passo Fedaia.
È l'ultimo giorno di Jakko Hanninen, finlandese, non è il più giovane al via, ma se lo vedi ti verrebbe qualche dubbio. Dice di aver apprezzato questo Giro in particolare per il caldo: «Anche se arrivo dalla Finlandia e allora tutti pensano che mi piace il freddo. Ma per me il caldo è come stare in una sauna. E io amo la sauna».
L'ultimo giorno è la malinconia: di e per Vincenzo Nibali. Viene quasi un groppo in gola a pensare che non ci saranno più altri Giri d'Italia; un po' per lui, un po' per noi. Il ritiro di un corridore del quale si è vista tutta la parabola. Il segno di un momento che finisce. Delle rughe che avanzano e degli acciacchi che aumentano. Ha fatto un'epoca Nibali, ha dato spettacolo e ribaltato. Oggi - salvo ripensamenti – è stato il suo ultimo momento al Giro. Dura da scrivere.
L'ultimo giorno è la gioia ripensando a van der Poel su queste strade: non si è mai sottratto dall'idea di dare spettacolo. L'ultimo giorno è quello che riempie Verona di transenne, di gente e colori nonostante il grigio del cielo; riempie l'Arena di musica tamarra e urla a ritmo, c'è pure quella macchia gialla sudamericana che se ne frega e allora è tutto un grido: “Carapaz! Carapaz! Carapaz!”
L'ultimo giorno è quel misto di sentimenti: la gioia di chi torna a casa, ma con quella punta di malinconia che prende sempre al termine di un viaggio: corridori, massaggiatori, autisti, cuochi, fotografi, giornalisti, addetti stampa, chi da dietro si muove per portare a buon fine il circo e a portare in giro il Giro con tutto il suo baraccone.
L'ultimo giorno è quello del podio: Hindley, lo abbiamo detto, smetta di avere paura del buio, questo è il suo giorno e di tutta la BORA-hansgrohe che si traveste di rosa in mezzo al pubblico dell'Arena. Per il suo ultimo giorno c'erano la famiglia e la sua ragazza in mezzo al pubblico. Scavalca le transenne, mentre l'Arena ribolle, e va da loro dopo aver appena concluso la sua prova. È l'ultimo giorno di Carapaz, mai troppo brillante, ma tornerà e vincerà quando vorrà nuovamente giocare di fantasia come in quel 2019. L'attendismo non è roba che gli appartiene. L'attendismo è roba che è appartenuta troppo agli uomini di classifica in questo Giro.
L'ultimo giorno è quello di Sobrero che aspettava da tempo una vittoria così; è quello di Verona, di nuovo, che al tramonto della corsa smonta le transenne e domani non le rimetterà da nessuna parte. Oggi è stato davvero l'ultimo giorno del Giro.


Un ananas al gusto punk

Ieri avevamo visto Dries De Bondt lungo la strada che portava in cima al "Menador". Erano passati diversi minuti da quando il suo capitano van der Poel finiva di dare spettacolo. Lo abbiamo fotografato mentre mostrava fiero e divertito un'ananas che gli aveva passato un ragazzo che si fa chiamare "il cuoco in bicicletta". Scontato dirlo: segue il Giro vestito da cuoco e sale su in bicicletta.
Oggi Dries de Bondt ha mostrato il petto sul traguardo di Treviso. Ieri un'ananas, oggi il mondo, parafrasando o forse meglio dire omaggiando in qualche modo i Ramones. Per via del gusto punk con cui la Alpecin (van der Poel, Oldani, De Bondt: tre successi al Giro per loro e tanto spettacolo anche fuori dal contesto gara) sta condendo la Corsa Rosa edizione 2022. Avanguardisti più che elementi di rottura, proiettati, a livello di comunicazione, nel futuro.
De Bondt è esattamente uno di noi. Si ferma a parlare alle transenne per decine di minuti con i tifosi; lo trovi in cima al Menador che porta in giro un'ananas come fosse un amatore e il giorno dopo va in fuga e vince.
Nei giorni scorsi Filippo Cauz ci raccontava di aver visto il corridore belga - corridore di grande livello - al termine della sua fatica nell'ultima tappa del Giro 2021, dall'altra parte delle transenne: si era messo al tavolino di un bar a chiacchierare.
E Dries De Bondt chiacchiera e poi lo vedi in fuga, come oggi, con Affini che al termine della tappa si va a congratulare con lui che lo ha battuto di un niente nonostante si possa dire come, se la fuga è arrivata al traguardo, una percentuale di merito è del corridore della Jumbo Visma, che quando tirava, dilatava il tempo tra i fuggitivi e il gruppo.
Va in fuga De Bondt, le fughe senza speranza, senza una ragione. L'altro giorno sembrava andare via così per fare, è stato ripreso a 700 metri dall'arrivo. Era da solo: «le fughe delle cause perse» le ha definite.
Oggi quella fuga è andata in porto e Dries ha vinto. Con quel sapore punk e la mente che va subito a quella foto di lui con un ananas in mano che è già simbolo del Giro 2022.


Elogio al Vanderpoelismo

Ci risiamo e non ce ne voglia nessuno: gli altri pedalano, mentre Mathieu è il ciclismo. Tempo fa qualcuno lo definiva vanderpoelismo. Abbiamo esagerato? Esageriamo volentieri.
Lo state vedendo a questo Giro? Attacca ogni giorno. Non vince? Chi se ne frega. Oh Mathieu, Mathieu, scusaci per la confidenza, ma quanto ci stai facendo divertire?!
Oh Mathieu, Mathieu, oggi più passavano i chilometri e più prendeva forma una cosa che pareva impensabile. Al diciassettesimo giorno di gara, che poi fanno praticamente venti, stavi per vincere una tappa di montagna. Non avrai mica tra le tue doti persino il recupero? Non avrai mica strane intenzioni per il futuro? Provocazione che arriva da diverse parti: e se un giorno disegnassero un Giro per te (e van Aert)?
Oggi non hai vinto? È come se avessi vinto.

Ma che motore hai? Stai facendo ricredere gli scettici, quelli del "ma tanto viene qui, vince una tappa e torna a casa". Non è nel tuo stile, quello che ti ha insegnato nonno Poulidor. Come invece è nel tuo stile concederti sempre nelle interviste prima e dopo la gara; fermarti alla partenza a firmare autografi e a sorridere ai tifosi. L'altro giorno dopo la tappa di Torino abbiamo visti due ragazzini inseguirti letteralmente dietro le transenne. Correvano in ciabatte e urlavano "Mathieu, Mathieu!". Ti sei fermato. L'altro giorno sul Santa Cristina hai avuto la lucidità di impennare e sorridere. La gente dopo il passaggio dei primi aspettava quel momento.

È nel tuo stile prendere il manubrio e strapazzarlo. Generoso in fuga – pure troppo- oggi la rinfrescata arrivata sin dalla sera prima sul percorso sembrava farti volare sulle salite. Tu, un ciclocrossista, un cacciatore di classiche, con quei dorsali e quel peso, sembravi all'improvviso come fatto per scalare le montagne. Hai rischiato in discesa, dove hai costruito parte della tua tappa e dove hai rischiato di chiudere anzitempo la giornata. Hai salvato quell'errore in curva, ma non si capisce ancora come.

Oggi hai attaccato, scusa volevamo dire, anche oggi hai attaccato. Era una tappa di montagna e pensavamo rimbalzassi all'indietro. “Indovinate chi c'è in fuga anche oggi?”. Ormai il ritornello all'ora di pranzo quando si cerca di capire chi è scattato e chi è davanti. La tua maglia verde con casco bianco e l'inconfondibile sagoma è sempre lì a prendere vento in testa al gruppo. Pensavamo fosse un altro dei tuoi tentativi "tanto per dare spettacolo". E invece.
Hai dato spettacolo, ma hai rischiato pure di portare a casa la tappa. Mica una qualunque. C'era una salita col nome fantasy, Menador, con una vista impagabile sul lago, Caldonazzo, c'erano le rocce che sfioravano la testa dei corridori e ammaccavano i camper dei tanti tifosi saliti fin su.
Ci hai provato e ti sono mancati pochi chilometri, ma chi se ne frega, dai.
Al traguardo erano tutti senza parole, un gruppo di giornalisti sudamericani si è scaldato quando ha visto partire Buitrago, degno vincitore oggi, eppure anche dentro di loro è rimasto quel piccolo rimpianto per non averti visto davanti a tutti sul traguardo. Oggi, Mathieu, non hai vinto. Domani, Mathieu, cascasse il mondo, ci riproverai.


Mutazioni sensibili

Muta il cielo sopra di noi, sembra più vicino più in alto ti spingi. Muta il paesaggio sotto i nostri occhi, muta al passaggio dei corridori. Estensioni di campi a perdita d'occhio, cime da verdi a innevate. Gente, sempre. Striscioni, una costante.
Mutano le bici, quelle di tre ragazzi appassionati di ciclostoriche sono degli anni dei pionieri: «una volta esistevano solo tre marce: in sella, fuori sella e piede a terra» raccontano.
Muta la montagna valdostana attorno a Cogne, con i suoi giacimenti minerari. Sembra friabile e dà il via all'arte dei lauzeurs. Avete presente la particolarità dei tetti sulle case in Valle d'Aosta? Ecco. Posatori o copritori, da queste parti dicono “la montagna portata sui tetti”.
Muta l'atteggiamento del gruppo, un essere complesso composto da unità multiformi.
Muta il Giro che esplode in una tappa di mezza montagna e invece quando arriva in montagna dorme un sonno leggero, ma complicato.
Muta la forma di Giulio Ciccone, muta il suo Giro, ma non dovrebbe mai mutare la sua indole d'attaccante. Un cambiamento strano perché ritorna a quello che era in origine, un corridore in fuga, dalle gambe nervose. Da tappe in salita, da vittorie in solitaria.
Muta la sua tappa, entra in fuga, insegue, e poi la spacca. Attacca: non c'è mai nessun modo per essere Ciccone. Muta la corsa. Non per gli attaccanti. Loro non mutano mai.
Non muta, finalmente, per Ciccone. Ha cambiato ed è tornato. E ora, magari, non cambierà mai.


Uomini di mondo

Thomas arriva dagli Stati Uniti, ma pedala tra le strade di Cuneo. Si ferma e scende dalla sua bici, una mountain bike verde e nera, cercando di passare in mezzo alla folla. Dice ad alta voce: «Oggi qui è una bella giornata, finalmente ci sono tante biciclette e nessun'auto che passa per queste strade».
Maestri arriva da Reggio Emilia dove l'altro giorno ha provato a fare la volata. Oggi invece è andato in fuga, la cosa che gli riesce meglio in sella a una bici, per spirito e vocazione. È arrivato a poche centinaia di metri dalla vittoria. I fuggitivi (per i quali tifiamo sempre e comunque) si sono guardati, forse un po' troppo, e dietro il gruppo lanciato li ha svegliati bruscamente come da un sogno.
Xandra è spagnola, gira con una bandiera e non era in programma essere qui oggi. Sta girando l'Italia e in questi giorni era in Piemonte: «Poi ho scoperto che c'era un mio connazionale in Maglia Rosa e sono venuta qui a tifare per lui».
Démare arriva dalla Francia, ma in Italia sta trovando un legame speciale. La Sanremo, otto tappe vinte in tre edizioni, il colpo di reni con il quale rimanda indietro Bauhaus e poi un urlo che è forza e gioia.
Potente, elegante, ha una maglia ciclamino che nessuno gli strapperà più di dosso. Dalla vicina Francia sono arrivati anche i suoi tifosi: "Allez Arnaud" hanno scritto sulla bandiera. Démare si ferma alle transenne per chiacchierare un po' con loro.
Anche Prodhomme arriva dalla Francia, ma quando taglia il traguardo piange e tossisce. Ha il viso rosso per il gran caldo e l'emozione che non si può trattenere, Era nella fuga, quella che sembrava semplicemente di giornata e che poi diventa quasi giusta. È ancora giovane, forse non è ancora un uomo di mondo, ma si farà. Un gioco di coincidenze vuole che qualche anno fa in Italia vinse anche lui una "Sanremo". In versione Under 23, quella che si corre a Sovizzo e che in realtà si chiama "Piccola Sanremo".
Intorno al pullman della BORA-hansgrohe c'è una tifosa in maglia rosa che sventola una bandiera australiana e aspetta Hindley; tutta la zona è presa d'assalto dai bambini: «Borracch, borrach» dicono, letteralmente, ridendo e simulando una erre che all'improvviso diventa anglosassone. Ovunque si vada in giro per il mondo è una costante: ragazzini a fine corsa che chiedono un ricordo.
Totò diceva: «Sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo». Oggi a Cuneo era una bolgia: nella città scavata da Stura e Gesso, se non c'era gente da ogni parte del globo, poco ci mancava.

La vittoria di Oldani attraverso i sensi di Genova

Un silenzio particolare cala sul traguardo di Genova mentre Stefano Oldani, Lorenzo Rota e Gijs Leemreize imboccano il viale in leggera pendenza che li porta al traguardo. È quel silenzio che si può distinguere anche in mezzo a tanto rumore, quello degli occhi che, mentre scrutano per capire cosa accade, sembrano inibire la parola. Uno strano legame di senso. La città brulica ma la gente, per qualche attimo, guarda solo senza fare nulla.
E sono gli occhi a cercare, abili segugi. Stefano Oldani controlla Leemreize e risponde ad ogni attacco, ad ogni anticipazione di tempesta, poi parte e non lascia a Lorenzo Rota che la possibilità di seguirlo senza quasi poterlo affiancare. Ci siamo chiesti spesso cosa si provi quando ci si sente impotenti in sella, quando vai ma non vai, quando il movimento non è fuga, salvezza o ritorno, ma condanna, asfalto che trattiene, calura che scioglie. Rota, dopo una giornata in fuga, deve avere provato questo.
Oldani vince, si sdraia a terra, si mette su un fianco, quasi a dare aria ai muscoli e piange. È lì, sdraiato e accerchiato da fotografi e giornalisti: non si vede nulla, solo un insieme di persone che guardano, qualcuno lo applaude con le mani sopra la testa. Notiamo una ragazza, dall’altro lato delle transenne, che si abbassa e guarda sotto, nello spiraglio delle transenne e in mezzo al groviglio della gente. Lei ha voluto e potuto vedere solo così Oldani, dopo la vittoria. Lei ha cercato di vederlo così, nelle fessure, nelle pieghe, nel caos. Sono gli stessi occhi segugi, quelli che hanno fatto silenzio in mezzo al rumore. Quelli di cui il ciclismo è pieno.
Pensate alle bandiere dell’Eritrea stamattina a Parma e questo pomeriggio a Genova. Verrebbe da chiedersi perché così tante proprio ora che Girmay non è più qui. Noi lo chiediamo e ci chiedono se davvero crediamo non sia possibile tifare per qualcuno che non c’è, poi aggiungono che quella è la bandiera dei vincitori. Una bandiera legata a un ramo, chissà se di un albero di queste zone o di chissà dove, con un pezzo di cartone attaccato sopra: «Forza Eritrea!». Una piccola lezione: basta strappare un pezzo di cartone, un pennarello, un appiglio e puoi dire a tutti ciò che pensi, quello in cui credi.
Nella giornata delle fughe, nella giornata in cui si è passati dal Passo del Bocco, quella in cui si è ricordato Wouter Weilandt e il suo numero che non è più solo un numero, le persone a Genova hanno usato tutti i loro sensi per arrivare anche dove non si può o dove si credeva di non potere. A costo di sdraiarsi per terra e sbirciare da una transenna fra i passi dei tanti fotografi: la vittoria di Oldani è bella anche da lì.


Potenza e fantasia

Ci voleva estro, un colpo di fantasia per farsi piacere la tappa di oggi. Ci voleva potenza per sfuggire al piazzamento su quel rettilineo dove una bava di vento ogni tanto portava refrigerio all'ennesima giornata calda. Perché più sali verso il nord e più pare di soffocare, l'asfalto ribolle e i corridori in gruppo hanno di che temere: contro queste temperature non c'è riparo. Nemmeno se freni o corri veloce. Niente.
C'era bisogno di furbizia, o chiamatela sapienza. Conoscenza delle leggi della fisica: prendere la scia giusta e saltare gli avversari stremati verso il traguardo in una delle tappe più veloci della storia del Giro. Ci voleva in fondo, un po' di fondo, di velocità, scaltrezza e doti non comuni.
Ci voleva senso del dovere e passione per seguire una tappa pianeggiante, noiosa, quasi spocchiosa e inefficace, ma il Giro è anche questo, strappa applausi e sbadigli: per chi lo segue in gara è attraversare città, colline, costeggiare il mare, salire passi e infilarsi dentro centri storici; per chi lo segue per strada è aspettare il gruppo che passa per pochi secondi, applaude e poi scompare nei portici come succede a Forlì verso l'ora di pranzo. Si chiama passione, oppure curiosità.
Ci voleva estro per diventare un grande scalatore nascendo sul mare. Siamo partiti, con la nostra giornata Alvento, da Cesenatico. Doveroso. Ieri a salutare Scarponi a Filottrano, oggi a rendere un omaggio a Pantani.
Ci voleva coraggio, o le leggi del gruppo che ti mandano in fuga sapendo come il tuo destino sarà quello delle prede coscienti di essere braccate: così per Rastelli e Tagliani. La legge del gruppo che poi è la legge del regno animale da cui evade, con estro, Dries De Bondt scatenato: per un attimo ha pensato persino di farcela, per spingere più forte, quando si voltava dietro e vedeva il gruppo, quella vaga e incomprensibile macchia multiforme, si sarebbe appoggiato sul manubrio persino con i denti. Avesse potuto.
C'è voluto un rettilineo, qualche sbandata, un treno, un rallentamento, qualche gomito e poi una volata. Ci voleva Dainese a farci saltare sulla sedia: «Ha vinto Gaviria! Ha vinto Bol! Ma no ha vinto Dainese!» Che è spuntato da dietro all'ultimo, all'improvviso. Con le doti di chi sa scrivere un finale ma troppo spesso gli è rimasto sulla punta della penna.
«La volata è venuta fuori un po' così» ha raccontato con quel suo fare sempre umile e costante, a fine gara, lui che diceva a inizio stagione che se non avesse vinto avrebbe iniziato a pensare a fare altro. Ad esempio il pesce pilota. Oggi il suo pesce pilota è stato Bardet.
Di gran carriera, Dainese, per una gran carriera, lanciata da lontano come una volata. Fatta con potenza e fantasia, ideale per farsi piacere una giornata piatta, calda e veloce, come quella di oggi. E alla fine godereccia come la bella Reggio Emilia.


La festa di Filottrano e Girmay

L’arco che porta al centro di Filottrano conduce ad un’altra dimensione: la festa. Qui usano molto questa parola: «Facciamo festa» e apparecchiano un tavolo con bicchieri e piatti di plastica, pane, salame e una bottiglia di vino rosso. Insieme. Si aprono le porte dei negozi per far spazio a più persone sul ciottolato del centro e la corsa è davvero ovunque. Un universo parallelo legato al paese come i palloncini che vengono liberati al passaggio del gruppo, che sono legati ai polsi delle persone ma, in realtà, sono le persone a essere legate a quei palloncini. Per come li guardano mentre orgogliose li lasciano volare via e vi dicono: «Questo è il mio paese».
Parlare di Michele Scarponi è difficile o forse sin troppo facile. «Era come noi» ed oggi ci sembra più vero che mai. Perché abbiamo rivisto queste persone mentre fanno un occhiolino, mentre guardano la corsa in un bar e non riescono a non commentare, mentre gesticolano, anche mentre dicono tutto in maniera così spontanea che ti chiedi se, poi, non sia più semplice. Persino nelle rughe di espressione che ricalcano le forme che il viso prende spesso: il piacere e la fatica. Mentre gridano per l’arrivo del gruppo che è ancora lontano ma chiunque passi lì in mezzo si sente atteso. E Pavese aveva ragione: da ragazzi si può pensare che il proprio paese sia il centro del mondo, girando tanto, poi, ci si accorge che tutti i paesi sono così perché il mondo è fatto di paesi. Quanto ti eri sbagliato? Quanto avevi ragione?
Il gruppo va via da qui mentre poco più in là, nei bar, si parla della fuga ripresa e i ragazzini prendo i gelati e li scartano in piazza. I giornali sui tavoli, aperti, spalancati e sfogliati e il classico odore della carta assieme al suono della lattina Coca Cola che viene aperta. «Vuole vincere per Michele» dice il proprietario quando Nibali prova ad allungare. «Gliel’ho detto io» aggiunge indicando la moglie. E appena scatta qualcuno ci si mette in punta di sedia, si appoggiano i gomiti sul tavolo e si proietta il corpo in avanti, come un ciclista su una salita, meglio su un muro o uno strappo da queste parti.
Lo stesso accade sul bancone del bar mentre Biniam Girmay parte in volata e Mathieu van der Poel gli prende la ruota. Sembra quasi un percussionista van der Poel, un percussionista che per unico strumento ha la bicicletta, insiste e si gasa mentre il suo viso prende proprio la forma dello sforzo. Deve cedere prima del tempo perché Girmay è sempre più avanti e qualunque movimento sembra inefficace. Cede alla sua maniera: quella degli attacchi folli, delle imprese incredibili, dei colpi geniali e delle batoste. Si siede e alza il pollice: «È tua». Poi lo abbraccia.
Si parlava di paesi. Asmara, la città natale di Biniam Girmay, è certamente più grande di Filottrano ma è comunque un paese, una città, e somiglia agli altri perché ti permette di essere aspettato, di riconoscerti, di riconoscere.
Accade a Girmay, il primo ciclista africano di colore a vincere una tappa al Giro d’Italia, che nei suoi tifosi riconosce le sue stesse epressioni, i modi di fare e persino di gioire. Accade a Filottrano, in cui, dopo la corsa, le persone tornano al lavoro e lo fanno con la stessa dignità, lo stesso orgoglio, con cui hanno festeggiato. Insieme. E chi manca, nel paese, è atteso e non manca mai del tutto.


Forti e gentili

Forte e gentile si dice così degli abruzzesi e te ne accorgi dalla quantità di gente che ti ferma su Passo Lanciano e ti stringe la mano. Ti raccontano di tutto: chi del suo passato da ciclista, chi di quando correva contro Ciccone da bambino, chi della propria squadra del cuore, chi ti spiega nel dettaglio tutti i versanti per arrivare in cima alla Majella.
Ti parlano delle differenze esistenti tra un versante per arrivare in cima al Blockhaus e l'altro; chi ha vinto dove e quando. "Da lì vinse Merckx", "Qui su vinse Basso". "Lì, Di Luca fece il diavolo a quattro contro Menchov. E se c'era ancora un chilometro, il russo quel giorno sarebbe tornato a casa con una gamba su e una giù".
Ti offrono birra, vino e arrosticini e se la prendono nell'intimo se osi di dire di no, anche se gli spieghi che ne hai mangiati una decina prima arrivando su: "ma provate questi che sono più buoni, anzi se stasera andate giù a Pescara... quel signore lì, lo vedete? ha un ristorante dove fanno gli arrosticini più buoni di tutto l'Abruzzo".
I nomi pure da queste parti, sono forti e gentili: Lettomanoppello, Pretora, Roccamorice. Da lì partono i versanti per arrivare in cima alla “Montagna Madre”. Venerata e adorata dagli abruzzesi.
In cima a Passo Lanciano aprono la strada centinaia di amatori. La bicicletta prende possesso della montagna e unisce. Un gruppo di ciclisti di diverse parti d'Europa fa amicizia e si ferma a un ristoro e dopo qualche ora sono ancora lì con il tavolo pieno di birre vuote e rimasugli di porzioni di arrosticini. Mauro, cuoco di uno dei rifugi in cima ci apre le porte della sua piccola cucina dove prepara da stamattina presto la carne nei tipici bracieri a canalina. Si ferma a chiacchierare e non sa dirci quanti arrosticini ha già cucinato in queste ore: «Di gente ne è venuta tanta, ma speravamo anche qualcosa in più, purtroppo però già da ieri han chiuso le strade: qui d'inverno vengono così tante persone a sciare che le macchine sono parcheggiate una sopra l'altra». Con il suo accento abruzzese, forte.
Forte, molto forte, oggi è stato Diego Rosa. “Gamba paurosa” dicono i tifosi che attendono il suo arrivo cercando di capire da smartphone e tablet quanto manca al passaggio. Prova la fuga da solo, poi in compagnia, vuole la maglia azzurra. Quando la fuga si spacca lui la riprende. Quando Tesfatsion in fuga con lui cade, non si turba. La sua sorte è segnata, ma va bene così, ci saranno altre volte in questo Giro dove mostrare la sua forza, il suo viso, dai lineamenti così gentili.
Porca Majella, ti viene da dire poi, ripetendo divertito uno striscione e osservando poi il gruppo dei migliori riprendere Rosa e salire verso l'arrivo del Blockhaus. Porca Majella, gustosa, grondante fatica come quei pezzettini di carne infilati in un lungo stuzzicadenti che i ristoratori offrivano persino ai ciclisti che assiepavano la terribile salita abruzzese. «Prendine uno! Prendine uno!», urlavano.
Forte e gentile, il viso di Pozzovivo: lasciateci dire di quanto forte è andato. Ha un'età che potrebbe fare tutt'altro eppure resta lì a soffrire. Va su tutto storto che ti chiede come faccia. La risposta è semplice: è Pozzovivo. Forte è Nibali, che si salva pochi giorni dopo aver annunciato l'addio al ciclismo. Mentre Landa, Carapaz e Bardet, forse i più forti oggi di questo Giro, giochicchiano un gioco tirato all'estremo, si passano la palla senza andare a rete. Forti, loro sin troppo gentili, forse potevano osare di più.
Forte e poco gentile il caldo per tutta la tappa, Yates lo soffre, salta e si stacca, all'arrivo si accascia come tramortito sulle transenne, mentre una calca di persone attorno cerca di capire il perché. Come poi fosse facile per un corridore dare una risposta di questo genere.
Almeida fa un gioco strano, brutale, è forte ma non appare mai gentile in bici nonostante quegli occhi che intorno sembrano sempre aver un filo di matita come a rendere più morbidi i suoi lineamenti. Si stacca e poi rientra, sembra saltare e invece resta lì come se dovesse fondere il motore da un momento all'altro: resisterà fino alla fine del Giro andando così?
Juanpe Lopez è la scoperta. Sia come corridore forte che come corridore gentile. Forte: salva la Maglia Rosa per pochi secondi; gentile come le sue parole a fine tappa: «Voglio scusarmi con Oomen per avergli tirato una borraccia. Lui mi ha fatto andare fuori strada e ho perso la testa per un attimo».
Due parole poi su Hindley, forte e gentile: non poteva che essere così, lui il più abruzzese di tutti gli australiani che vince in quella che è stata una terra che per un periodo lo ha visto crescere come ragazzo e corridore.
E domani riposo per la carovana. Sulla Majella orsi e lupi stanno nascosti mentre il sole viene coperto da nuvoloni grigi. Il ristoro del ciclista erano birra e arrosticini. Il riposo della grande montagna segna la fine di un'altra lunga giornata al Giro d'Italia.