This must be the place

"Piedi per terra, testa nel cielo" cantava con timbro ispirato David Byrne. Lassù, dove il mostro Zoncolan si erge chiazzato di bianco e immerso nella nebbia. Lassù, dove si può fantasticare, proiettandosi nel mito.

Lassù, dove tutti ora conosco Lorenzo Fortunato. «Mi piacerebbe vincere una tappa al Giro» diceva qualche settimana fa.

Sognare e poi fuggire, con uno scatto senza volo. Costante, scandito. Scappare via. Da Bennett, Mollema e Covi, forse più forti, ma non oggi. Riprendere Tratnik che qui in Friuli è di casa. Nato al confine, a Idria, dove si dice che gli abitanti siano un po' matti perché l'acqua del fiume che la bagna è stata contaminata dal mercurio delle miniere. Dove il piatto tipico sono gli Idrijski Žlikrofi una sorta di ravioli ripieni di patate, e, volendo, lardo ed erba cipollina.

È fatto così, Tratnik, famiglia di giocatori di basket. Grosso com'è non ce lo vedresti andare forte in salita, e infatti gli ultimi metri li percorre a zig zag vedendo la sagoma azzurra dello scalatore bolognese andare via. Vinse a San Daniele del Friuli pochi mesi fa. «Ho tenuto duro perché ad aspettarmi c'era la mia ragazza» disse. Vinse poco lontano dallo Zoncolan dove se oggi ci fosse il sole vedresti il cielo a un passo, scorgeresti la Panoramica delle Vette, ti potresti immaginare anche il mare.

Zoncolan. Un muro di nebbia. Da giorni non si parla che di lui, e portiamo pazienza per un Giro che, con un solo padrone in Rosa, a tratti inscalfibile, vede gli altri quasi in disarmo.

Giochi di fughe. Concessioni nemmeno troppo celate. Fughe che arrivano sempre e ciò non riscalda. Una sorta di Moloch contro cui lo spettatore combatte. Sarebbe auspicabile vedere i migliori lottare per la vittoria di tappa, ma poco importa, almeno per Fortunato.

Zoncolan, come il ritornello di una canzone osannata. Scendono lacrime da un incredulo vincitore che intervistato smette di parlare in inglese: «Adesso non ce la faccio» esclama radioso. Leggero su quelle rampe che non demordono, che più sali e peggio è, che più vedi la cima e più senti il petto esplodere. Prima vittoria in carriera per lui, che arriva da Bologna, dove invece dei ravioli si fanno i tortellini, lui che al basket preferiva il calcio. Prima vittoria nella storia della sua squadra guidata da Basso e Contador che in salita, a tratti, hanno fatto quel che han voluto.

E quel tifoso che a un certo punto gli si avvicina e per la troppa esultanza rischia di farlo cadere? Assomigliava a Basso, lo abbiamo pensato in diversi. Un segno del destino.

E mentre Fortunato sale, prima sul velluto, poi su un asfalto che pare infilzare le sue unghie nelle ruote, tutto intorno aumentano neve e spettatori. E mentre sale aumenta il vantaggio, e, increduli: "vince davvero Fortunato". E mentre sale, ancora nebbia, neve grigia, spettatori scalmanati, alcuni al solito travestiti, altri con un campanaccio che chissà, forse l'avranno preso in prestito da qualche mucca al pascolo.

E quando arriva: "Occhi che si illuminano, sono solo un animale che cerca casa", sempre David Byrne, caldo e intonato. Immaginavi o forse solo lo sognavi che questo sarebbe stato il posto giusto, Fortunato, "this must be the place". E oggi sullo Zoncolan, è andata proprio così.


Aprite i vostri occhi

Quando Edoardo Affini si è messo in testa a tirare per Groenewegen a poche centinaia di metri dal traguardo, nessuno si sarebbe aspettato mai di rivederlo sbucare con un certo margine all'ultima curva, con uno di quegli schiaffi al gruppo che ormai non si vedevano da tempo: il colpo del finisseur.

Dice che non era pianificato, che ha trovato lo spazio e si è gettato, ma è parso così perfetto, o quasi, che facciamo fatica a crederci. Quasi, perché le schegge della deflagrazione si infrangono a venti metri dalla linea d'arrivo.

Valgono più quattro ore di nulla praticamente assoluto, oppure quell'ultimo minuto di sprint? La risposta è difficile da dare, ma la troviamo negli occhi rossi per la rabbia di Affini e nella lingua di Nizzolo mostrata a tutti come una liberazione.

Vale tanto quell'ultimo minuto di sprint, vale per tutti, ma in particolare per lui. Una serie ridondante di piazzamenti al Giro senza vittoria e poi oggi, nel più semplice degli sprint, nella più semplice delle tappe, è il più veloce. Il più forte. Il più quadrato. Vigoroso e intenso nella sua maglia di campione europeo.

È un paradosso quello che coinvolge i folli delle volate. Perché concentrano in pochi attimi emozioni che si tengono dentro per lunghe ore interminabili, per lunghi anni passati a sognare un successo di questo genere.

E sono mesi che Elia Viviani sogna questo traguardo: «È una strada che conosco a memoria, la faccio tutti i giorni sin da quando sono bambino». Forse anni a pensarci. Se chiude gli occhi, Elia potrebbe descriverti perfettamente ogni centimetro di asfalto che porta verso il traguardo. Se chiude gli occhi e pensa a quando fra pochi mesi sarà il portabandiera italiano ai Giochi Olimpici forse un minimo riuscirà ad arginare l'amarezza.

Ma chiude gli occhi e parte lungo Nizzolo, dribbla Sagan, piomba sulla ruota di un Gaviria che rimbalza contro l'attrito, sfinito da gambe che non trovano più i giorni migliori.

Apre gli occhi, Nizzolo, perché a destra c'è ancora Affini e al traguardo mancano 150 metri. Che sono quantificabili in... tre secondi?

E noi sgraniamo gli occhi in quel lungo attimo, urliamo "Affini" come fa Rob Hatch in televisione, urliamo "Nizzolo" perché al Giro non ha mai vinto e vorremmo vederlo vincere prima o poi.

E siamo la delusione di Viviani, e di questo suo lungo momento, e siamo l'incredulità di Affini, che ha sfiorato il colpo.

Siamo il denso giubilo di Nizzolo che stavolta la vittoria la prende a piene mani e l'assapora. Una vittoria che, come dicono loro, i ciclisti, prima o poi a furia di cercarla arriva, semplicemente.
Banale e sorprendente, come in quel gioco assurdo che è la follia degli sprint.

Foto: BettiniPhoto


Tormento senza estasi

A una media di circa 37 km/h e in sella a una bicicletta, Bagno di Romagna è parecchio lontana da Siena. Se poi vai giù dopo quattro chilometri diventa un calvario.

Sono passati pochi minuti dal via, forse sei o sette, massimo otto, quando Marc Soler cade. Sbatte la schiena e si rialza, come fa un ciclista quando assaggia l'asfalto, e chi va in bicicletta sa di cosa parliamo. La telecamera si ferma a lungo su di lui, mesto, con un compagno di fianco, arriva l'auto del medico, persino l'ambulanza, si tocca la schiena, ha male dappertutto. Qualche gesto plateale che fa parte del personaggio.
Chi ha visto il documentario sulla Movistar uscito un paio di anni fa si è fatto un'idea di lui. Talentuoso quanto bizzoso, quando si accende in salita è tra i più forti, e il Tour de l'Avenir vinto non fu per caso.

Due anni fa, durante la Vuelta, mentre il gruppo saliva verso Andorra, Soler era davanti in fuga e assaporava il successo. L'ammiraglia lo richiamò: «Dietro Valverde e Quintana hanno bisogno di te», Soler si girò mandando tutti a quel paese, volarono insulti quel giorno e in quelli successivi. Soler è un tipo difficile da tenere a bada.

A questo Giro era tra i pretendenti a un buon risultato, tanto che l'altro ieri, tra uno sterrato e l'altro, aveva dato un'accelerazione in testa al gruppetto dei migliori, pagando poi nel finale di corsa.

Soler è sempre lo stesso, forte ma volubile, è quello che vinse al Romandia un paio di settimane fa esultando polemicamente col dito davanti alla bocca, lo stesso che ieri è caduto e si è rialzato nonostante il dolore. È cambiata solo la prospettiva in questo Giro dopo una rincorsa al gruppo che stava diventando un'agonia.

E ieri il suo tormento si è chiuso dopo 50 km di telecamera fissa sul suo malessere. Lascia il Giro, mancando l'ennesima occasione per dimostrare chi è.
Il ciclismo, tra le sue peculiarità, è uno sport che dà poco e toglie molto. Ripido in salita come in discesa: una bilancia della giustizia falsificata. Pensate a De Marchi: a un certo punto lo abbiamo visto riverso sull'asfalto. Chi ha mandato in onda le immagini è stato penoso ancora più che impietoso, lo diciamo senza morderci la lingua: era proprio necessario indugiare come l'occhio di un avvoltoio? Era proprio così utile farlo senza sapere nulla sulle sue condizioni?
De Marchi solo qualche giorno fa ha vestito il sogno di una vita per un corridore italiano: la maglia rosa. Ieri è stato trasportato in ospedale con botte e fratture, e quelle immagini non le avremmo mai volute vedere, noi, figuriamoci le persone più vicine a lui. Quelle immagini non sarebbero mai dovute andare in onda almeno fino a notizie rassicuranti avvenute.

Ieri è stata la tappa del calvario e dell'agonia: Bagno di Romagna è davvero lontana da Siena. Naesen cade mentre cerca di mettersi una mantellina; Goossens cade, batte il fianco destro e si ritira, Dowsett chiude il suo tormento poco dopo quello di De Marchi, sconfitto dai dolori allo stomaco. Masnada dà una risposta alle contro prestazioni dei giorni scorsi e abbandona per un problema al ginocchio. E poi ancora lo strazio di vedere Petilli, Ulissi e Tesfazion soffrire in discesa e staccarsi. E poi un altro ritiro, quello di Mäder. Pochi giorni fa vinceva la tappa il giorno dopo la caduta con ritiro del suo capitano Landa, prendendosi una rivincita su quel finale strappacuore della Parigi-Nizza. Per la sua squadra un tormento continuo. Bello il Giro d'Italia, è vero, formidabile sport il ciclismo. Ma quanto patire.

Foto: Luigi Sestili


L'ultimo Giro di Manuel Belletti

Quando Manuel Belletti è partito per il Giro d'Italia era felice, ma aveva anche paura. Al Giro di Turchia, una caduta gli aveva causato delle microfratture delle costole, bastava un nulla per peggiorare la situazione ed in corsa può succedere di tutto. «Purtroppo durante la terza tappa sono caduto: il medico di gara ha capito subito la situazione e mi ha consigliato di fermarmi. Non l'ho ascoltato e all'arrivo faticavo a respirare. Nei giorni successivi ho provato a continuare, ma un colpo di vento, mentre infilavo la mantellina, mi ha messo fuori gioco. Non è possibile fare i conti solo con ciò che si vuole, arriva il momento in cui devi accettare ciò che puoi e non puoi fare. Alla sesta tappa, sono tornato a casa».

Sì, perché Manuel il suo ultimo Giro d’Italia avrebbe voluto concluderlo a tutti i costi. «Dopo la caduta ho proseguito solo di testa. Il ciclismo ti insegna anche ad usare la testa per ingannare il corpo e per arrivare dove non penseresti mai. Quando ti guardi indietro, non riesci nemmeno a capire come hai fatto, perché lo hai fatto. Sembra illogico pedalare per cento chilometri quando anche da fermo senti un male assurdo perché non respiri. Anzi, è illogico». Belletti è sempre stato così, sin da ragazzo, dopo quattordici anni di professionismo, però, c'è di più: «Ho imparato a conoscermi, ho scoperto cose di me che non avrei mai immaginato. Molti mi dicono che ora sono un uomo più forte, in parte è vero. Ma è altrettanto vero che sono anche fragile, molto fragile su certi aspetti. Senza dubbio mi conosco e questo credo sia un dovere di ogni persona. Per esempio, dopo la Tirreno Adriatico di qualche anno fa, ho capito che ho paura del freddo, l'ho accettata ed ho provato a farci i conti per superarla».

Belletti è un ragazzo sincero, lo capisci quando gli chiedi come stia e non si limita alla risposta di circostanza. Te lo dice chiaramente, prendendo seriamente la domanda ed ancor più la risposta: non sta ancora bene e si sta sottoponendo a fisioterapia. Una domanda che, quando sei un ciclista, ti senti fare dai tuoi familiari al telefono, ogni mattina ed ogni sera. «Loro vogliono solo che io stia bene e di questo si preoccupano. Però, nel tempo, ho capito anche che non puoi pensare di ascoltare sempre tutti, di non far mai torto a nessuno. La tua fatica e le tue scelte ti appartengono: devi imprimere tu la direzione che vuoi».
Lui spiega di averlo sempre fatto, anche quando ha deciso che sarà l'ultimo anno da professionista. «Proprio perché credo al valore delle decisioni, voglio scegliere io quando smettere. Non voglio arrivare ad essere obbligato a farlo per mancanza di contratti. La mia testa dice così. Chi mi conosce, pensa che avrei potuto ottenere di più nella mia carriera se, in qualche occasione, non mi fossi accontentato. Credo sia vero. Io, così critico con me stesso, mi sono accontentato diverse volte. Continuare a pensarci, però, non cambierà la situazione. Ad un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di una vita più regolare. Meglio: ho iniziato a sentire la necessità di vivere il mondo che c'è la fuori, quello reale».

Ed è a proposito di quel mondo che Belletti ha la sua paura più grande. «Ho fatto tanta fatica in bicicletta, ma chiunque lavori fa fatica. Sono stato un privilegiato perché sono stato pagato per fare ciò che mi piaceva. Molte persone, per portare a casa uno stipendio, devono fare cose che non amano, che odiano nel peggiore dei casi. Ora che anche per me viene il momento di andare là fuori, ho il timore di non esserne capace. So di non avere le competenze per fare un altro lavoro, so di dover ripartire da zero e questo mi fa paura. Ma l'ho scelto e lo farò. Senza dubbi».


Se vince Andrea Vendrame

Se vince Andrea Vendrame, diciamolo francamente, siamo tutti più contenti. Perché vince un corridore un po' matto, ma matto in senso buono. Perché al Giro d'Italia siamo un po' di parte e ci eravamo stufati di vedere tutti quei secondi posti. Perché vince un corridore di quelli bravi davvero, ma che ha dovuto superare avversità di ogni genere.

Perché fino a pochi giorni fa era l'ultimo vincitore del Tro-Bro Léon, corsa che, come sapete, ci piace in modo particolare.
Perché oggi in fuga si è speso per Bouchard: aiutarlo a conquistare punti della maglia azzurra era una parte della sua missione. Ha sgranato il gruppo in discesa andando giù a "tomba aperta" come diceva il grande Mario Fossati. È sceso giù a tutta come quando vinse il Giro del Belvedere tra gli Under 23: a fine gara il cameraman della Rai gli disse: «Tu sei scemo. In discesa non ti seguirò mai più».

Perché un anno dopo quella vittoria un'auto l'ha preso in pieno durante un allenamento: cinquanta punti interni e sessanta esterni sulla parte destra del viso. Perché la cicatrice è rimasta e lui non la nasconde: da allora si fa chiamare "Joker". Fino a un po' di tempo fa il Joker ce l'aveva anche disegnato sul casco.
Perché l'ha inseguita, l'ha sfiorata e sembrava non arrivare mai. Perché, racconta, ridendo, che ha iniziato ad andare in bici su consiglio del portalettere che recapitava la posta tutti i giorni a casa sua. Perché uno che ha "The Wolf of Wall Street" come film preferito, non può non starci simpatico.

Perché è un po' matto, lo abbiamo detto, è vero, ma oggi è stato il più lucido tatticamente. Sull'ultima salita si è staccato sui primi attacchi, è rientrato, ha attaccato anticipando il tratto duro, avvantaggiandosi e venendo ripreso solo quando la salita spianava. È stato perfetto.
Ha tenuto, ha giostrato, ha rifiatato e poi nel finale ha allungato con Hamilton battendolo allo sprint.

Perché Vendrame oggi andava davvero forte in salita pur essendo uno particolarmente veloce: come un paio di anni fa quando arrivò secondo nella tappa di San Martino di Castrozza. Si arrivava in salita, ma Chaves, un altro tanto bravo quanto sfortunato, andò meglio di lui.

Perché oggi entrare in fuga è stato un gioco massacrante e lui ha giocato e ha vinto. Perché ha combattuto la legge che vorrebbe un corridore come lui restare nell'ombra nelle tappe così. Lui quella legge l'ha combattuta e l'ha vinta.

Diciamolo francamente e non ce ne voglia nessuno: quando vince uno come Andrea Vendrame siamo tutti più contenti.


Quel che si è visto a Montalcino

Vedo pochi spezzoni di corsa di questa Perugia-Montalcino attesa dal mondo da 11 anni, da quando arrivò Cadel Evans in maglia iridata a nobilitarla. Sono concentrato su un intervento che mi preme fare in diretta Rai; cose da dire su questo territorio, sul suo giacimento di strade bianche che non si sono salvate per caso. Apprendo che L'Équipe scrive di chissà quali strati di cemento sotto, come se da queste parti si fosse forzata la natura per fare delle piste ad uso ciclismo con polvere.

Ciò che intravedo tra una postazione e l'altra, gelataio compreso, mi basta. Conosco queste immagini, questi luoghi magici dai nomi fantastici. Passo del Lume Spento sembra scritto da Collodi, incrocio di Gatto, Volpe ed Assassini tutti insieme. Al mondo trasmettiamo l'idea di un reame di sogni, di colori, della natura trionfante in simbiosi con l'opera dell'uomo, per una volta persino capace di migliorarla. In più ho appena scorso, anche in foto, ciò che vidi domenica con l'Eroica Juniores, per gli ultimi 30 chilometri sullo stesso tracciato e per gli altri 80 su bellezze altrettanto degne: facce mirabili di ragazzi pieni di sorrisi e schizzi di fango, visi da affiggere fuori da ogni pub in cui molti pari età esagerano con gli spritz.

La corsa? Abituato alla sincerità devo dirla anche stavolta; certo che è la mia, ci mancherebbe, ma mi urge dentro, poco opportuna.

Un appuntamento del genere, in questa arena fatata, doveva essere onorato meglio. Lo stesso Egan Bernal, degna maglia rosa, aveva cerchiato la tappa, considerandola quella da vincere, quella di cui si sarebbe ricordato da vecchio. Come, appunto, Cadel Evans, che in settimana aveva definito quella Carrara-Montalcino 2010 lorda di fango come la sua vittoria più bella.

Si parla di uno che aveva in bacheca Tour e Mondiale mica del nostro Eros Poli e del suo Mont Ventoux, con tutto il rispetto una saetta su un palo. La Ineos, signora e padrona, ha lasciato quasi un quarto d'ora a una fuga numerosa, i tecnici iper preparati, scienziati con bilancini e computer, tabelle e teoremi, hanno fatto i conti che il più vicino in classifica stava a oltre mezzora. Di epica ed eroismo nemmeno parlarne, del mondo ciclistico tutto che avrebbe gradito l'impresa in diretta, del fatto che quella tappa Montalcino 2010 sia stata la più vista nei siti internet planetari importato una mazza. Gli altri una scusa l'avevano: Bernal viaggiava ad altro passo, visto a Campo Felice. Quindi si è messo in scena il copione delle frazioni di complemento, le tappette di contorno: libera uscita per reclute e caporali.

Occasione persa per consolidare la nuova posizione che questo ciclismo sta conquistando nel cuore della gente; Strade Bianche magistrali con van der Poel, Alaphilippe e tutti i più grandi davanti, stavolta uno sprint a due fra giovani dal sicuro avvenire. Ma non era traguardo da Schmid e Covi, l'avrebbe capito qualsiasi alle prime lezioni di marketing.

Fatto è che, forse, trattasi di un Giro d'Italia che paga un cast assortito con quanto il Tour lascia a disposizione, un po' poco. Sulla carta Bernal, terza punta nello scacchiere degli inglesi, è partito senza rivali veri, con Evenepoel fermo da 9 mesi, il buon Vlasov ancora tenero, un gemello Yates che non sai mai se è quello giusto e Vincenzo Nibali, già grande a prendere il via col fardello dell'infortunio e degli anni. Italiani? Tenui, bravo Damiano Caruso ma lui da anni fa il gregario di lusso; e i due migliori, Ganna e Moscon, sono a fare i Grenadiers, gli operai specializzati. È un Giro che quando perde Caleb Ewan, direzione Tour, si infuria persino Merckx; ed oggi se n'è andato a casa anche Tim Merlier, sprinter belga a segno nella seconda tappa.

Eppure a Montalcino si è visto tanto lo stesso, l'idea di un grande ciclismo di ritorno si è avuta ugualmente; Bernal ha attaccato, Evenepoel  ha pagato ma in modo tale da confermare che sarà un prossimo grande. Qualcuno si è perso, sono arrivati così alla spicciolata che un quartetto sembrava un plotone. E comunque sia queste contrade di grandi vini, bella gente e tante strade magnifiche senza asfalto hanno confermato che il ciclismo eroico parla in diretta con l'anima della sua gente. Presto lo capiranno anche certi scienziati; e magari cominceranno a divertirsi anche loro.

Foto: Luigi Sestili


Giancarlo Brocci e le strade polverose

«Gaiole ha tanti pregi, ma anche un limite: il telefono prende male. Che è un limite ma pure una risorsa».

Giancarlo Brocci risponde così alla nostra telefonata nella serata della tappa dello sterrato, del suo sterrato. Basta questo aneddoto per descrivere Brocci, anima e ideatore dell’Eroica.
Lui, testa bassa, come si direbbe in gergo ciclistico, inizia subito a parlare. «Intanto, forse, abbiamo capito che lo sterrato è un valore. Per molto tempo non lo si era considerato così, ogni tornata elettorale era quella giusta per promettere di asfaltare strade polverose. Più in generale credo sia anche un fatto di mentalità: se qualcuno viene a chiedermi una mia bicicletta per correre L'Eroica, gliela cedo volentieri. Torna impolverata, sporca? Certo, qual è il problema? Le cose vanno adoperate e nell'uso si sporcano o si rompono. Mi sembra così normale, così bello».

Quel “forse” porta la mente di Brocci indietro di undici anni, al Giro del 2010, a Gianni Mura.
«Era ospite fisso del Processo alla tappa, poi accendeva il sigaro ed iniziava a scrivere. Quella sera, a Montalcino, dopo la vittoria di Evans, mi disse: “Avevi ragione, Giancarlo. Il ciclismo ha bisogno di tornare al passato per guardare al futuro”. La redazione di Repubblica gli aveva appena chiesto di raddoppiare le battute del pezzo. Alle persone questo ciclismo piace. Sapete a chi non piace? Ai maniaci della programmazione, dei watt, delle tabelle e dei numeri. A loro non piace e non piacerà mai, perché questo ciclismo le costringe a cambiare. Ma il vecchio ciclismo continuerà ad esistere e ad entusiasmare, non possono farci nulla, se non accettarlo».

Così Brocci è rammaricato per l'esito della tappa di ieri. «Il rispetto va in maniera indiscriminata a tutti, però la mia sincerità mi impone di dire che me l'ero immaginata diversa. Per questo mi sono emozionato di più domenica, coi giovani che hanno corso l’Eroica juniores. Perché lì non ci sono stati calcoli, lì si è dato tutto ciò che si aveva con la voglia di arrivare al traguardo, di vincere o anche solo di concludere. Si tratta di rispetto di quello che è il ciclismo, della fatica. Quando ti disinteressi della fuga e la lasci naufragare a minuti e minuti, forse non stai dando alla strada il rispetto che merita».

Il primo ricordo che Brocci ha del Giro lo riporta agli anni di Vittorio Adorni ed alla sua attesa di ragazzo per sentire alla radio le prime notizie riguardanti la tappa del giorno. Sostiene che, negli anni, il Giro lo ha deluso, ma allo stesso tempo confessa di non aver mai smesso di seguirlo. Per questo ieri era a Montalcino. «Perché c'è la fatica e, dove c'è fatica, c'è la parte buona dell'uomo. Noi, adesso, tendiamo ad anestetizzarla in ogni modo: non conosciamo più il vero senso della fame, della sete, della stanchezza. Questi giovani hanno scelto la fatica in un mondo che fa di tutto per cancellarla. Qualcosa vorrà pur dire».
E parlando di sterrati, di campi e di Giro, si parla di Alfredo Martini. «Mi diceva: “Noi uscivamo al mattino presto a pedalare e nei campi c'erano i contadini. Facevamo molti chilometri, poi tornavamo, e nei campi c'erano ancora i contadini. Noi eravamo fortunati, almeno eravamo riusciti a fermarci in trattoria a mangiare. Loro no”. Capisci? Si sentivano fortunati per poter fare tutta quella fatica».


Tramonto e Polvere

È successo talmente tanto tra le 15.14 e le 17.15 di oggi, su quelle strade grigie che poi diventavano bianche, che a un certo punto eravamo a metà tra il dire basta e chiederne ancora.

Schmid vinceva la sua prima corsa tra i professionisti a 21 anni, nel giorno meno indicato. Si fa presto a dimenticare: ahilùi l'attenzione era tutta a quello che succedeva poco dietro, a qualche chilometro di distanza, dove la strada cambiava effetto da asfalto a sterro come fosse un gioco perverso. Dove la classifica cambiava a ogni metro, a ogni curva, a ogni grida di tifoso, a ogni ombra riflessa da ulivi e cipressi a bordo strada.

A una certa non ne avevamo abbastanza. Avremmo chiesto persino di più a Bernal, Ganna e Moscon: padrone, dinamitardo e perfido manovratore di questo Giro.
Avremmo mai chiesto di più a Buchmann? Anticipava l'attacco della maglia rosa arrivando - più o meno - assieme a lui, e riaccendendosi in un Giro fin qui passato nell'ombra, passato soffrendo il gelo.

Avremmo voluto dire "basta, ti prego" guardando la volata di Covi che stringeva i denti. Gli occhi sembravano fuoriuscirgli dalle orbite, pareva potesse superare Schmid, ma poi si incartava: di più non poteva. Così come gli altri della fuga, con Kluge che attaccava e si staccava, De Bondt che voleva essere il primo campione nazionale belga a vincere al Giro dai tempi di Maertens, Vanhoucke che avrebbe voluto conquistare una corsa e dedicarla al suo amico Lambrecht che purtroppo non c'è più.

Oppure quel Gavazzi che non è un ragazzino, sa che il tempo sfugge e allora si rende ogni giorno protagonista. Cosa avremmo potuto chiedergli di più?
Avremmo potuto mai chiedere di più a Bettiol vedendolo andare così forte, su ogni terreno, come non succedeva da tempo? E a Nibali che guidava il gruppo sugli sterrati nonostante qualche settimana fa si sia rotto un polso?

Avremmo voluto spingere Ciccone mentre si staccava per la prima volta al Giro, abbiamo detto basta vedendo la sofferenza di Evenepoel, sudato, umano, tenero nella sua difficoltà; gli avremmo dato una pacca sulla spalla e avremmo voluto dire ad Almeida di fermarsi un po' prima per aiutarlo. Avremmo voluto captare il segnale radio per sentire cosa si sono detti tra ammiraglia e corridori in quel momento.

Ci siamo esaltati nel vedere Caruso rimontare dopo essere rimasto dietro nel primo settore sterrato, per poi emergere col baffo impolverato ogni qualvolta la strada s'impennava.

Abbiamo avuto male alle gambe per loro, in quelle due ore in cui tutto si ribaltava tranne Bernal. Dove Vlasov resta l'osso più duro, Yates cresce e Carthy si conferma. Avremmo voluto essere nell'espressione di Foss e Bennett che provavano ad attaccare, ma dietro Moscon, con gambe di bronzo e cosparse di terra, li respingeva.

Avremmo voluto essere in Carboni che per qualche minuto ha pedalato con Evenepoel in salita. Avremmo chiesto “pietà, per favore”, per Bardet che era davanti, persino bellino da vedere, se solo avessimo visto l'attimo in cui scompariva.
Abbiamo visto sprofondare Formolo e ci siamo immaginati saltare Martin. Abbiamo visto calare Valter e imprecare Taaramae.

Abbiamo visto il sole nascondersi tra le nuvole per poi riapparire e illuminare la polvere. E poi tramontare su una giornata entusiasmante, di un Giro entusiasmante, che non dimenticheremo presto. Forse mai.

Foto: Luigi Sestili


La forza di ripartire: intervista a Franco Pellizotti

Il Giro d'Italia della Bahrain Victorious non è di certo iniziato nel migliore dei modi. Nel discusso finale della quinta tappa, a Cattolica, la caduta con conseguente ritiro di Mikel Landa ha stravolto ogni piano. Franco Pellizotti, direttore sportivo della squadra, quella sera ha dovuto parlare agli atleti. «Sono situazioni difficili, ma quando parti per una corsa a tappe di tre settimane sai che possono capitare. Il punto su cui ho fatto leva è stato uno: Mikel Landa aveva fiducia in questa squadra perché composta da ciclisti di valore. Questi ciclisti cosa vogliono fare? Vogliono affrontare tutto il Giro a testa bassa perché la sfortuna ha colpito Landa? Non credo sia una buona idea. Il Giro continua in ogni caso, a questi uomini l'opportunità di dimostrare quello che valgono». Sì, perché Pellizotti non ha dubbi: ogni situazione difficile può essere affrontata e risolta con successo. Tutto dipende da ciò che si sceglie di guardare.

«Credo sia fondamentale la chiave di lettura con cui si fronteggia ciò che accade. L'incidente a Landa poteva essere un alibi dietro a cui nascondersi per giustificare un Giro infruttuoso, incolpando tutto e tutti, oppure la spinta per reagire e portare ognuno a fare ancora di più. Ciò che ti arriva addosso e sembra farti solo male, spesso è anche portatore di grinta, coraggio e volontà. Certo non bisogna piangersi addosso. La squadra è ancora qui, si cambia tattica e si prosegue». Queste cose, il direttore sportivo della Bahrain le ha ripetute anche domenica, dopo lo spaventoso incidente di Mohorič, che fortunatamente ora sta bene. Anche se, continua Pellizotti, in questo secondo caso le cose sono state diverse.

«Un conto è ciò che dici, un conto ciò che accade. Per fidarsi di te, la squadra deve vedere che ciò che hai detto è vero. Che se fa in un certo modo, si può far comunque bene, seppur non puntando alla classifica generale ma alle tappe».

In questo senso, fondamentale è stata la vittoria di Gino Mäder ad Ascoli Piceno, la tappa successiva alla caduta di Landa. «Lì c'è stata la svolta. Avevo detto ai ragazzi di pensare alla Ineos Grenadiers che, l'anno scorso, dopo la caduta di Geraint Thomas ed il suo ritiro, ha costruito la vittoria del Giro. Loro hanno messo in pratica il tutto con un capolavoro tattico. In quel momento è tornata la fiducia: hanno visto ciò che possono fare. E Mäder ha trovato quella vittoria che gli sfuggiva da troppo tempo».

Franco Pellizotti è un direttore sportivo giovane e, quando si parla di esperienza, fa leva su quella accumulata da atleta. «Dirigo, ma in realtà mi sento sempre su quella sella, mi sento sempre un ciclista. Capisco bene quello che può passare nella testa in queste occasioni». Così va nelle camere degli atleti e parla singolarmente con ciascuno. «Quando accadono queste cose è giusto parlare a tutta la squadra, ma anche avere un approccio individuale. La direzione da prendere è generale, ognuno però ha un proprio carattere ed una propria sensibilità. Ciò che sprona un ragazzo, può ferirne un altro. Bisogna considerarlo».
Per farlo è imprescindibile la conoscenza. «Nella vita di ogni atleta ci sono molteplici spigolature. Quello che l'atleta è, come si comporta, non dipende solo da quello che vive nel ciclismo. Se conosci bene gli uomini con cui lavori, sai su che aspetti far leva, sai cosa hanno passato e di conseguenza che parole dire e che modi usare».

Foto: Luigi Sestili


Quando scatta Ciccone

Qualche mattina fa, alla partenza di una tappa del Giro, Giulio Ciccone si è accostato all'ammiraglia di Roberto Reverberi, direttore sportivo della Bardiani-CSF-Faizanè. Ciccone è cresciuto ciclisticamente con lui, così Reverberi si è sentito di dargli un consiglio. «Gli ho detto che deve stare tranquillo, di non perdersi per la foga di far troppo. Bernal ha una squadra molto forte, credo che la Trek-Segafredo non debba prendere in mano le sorti del Giro d'Italia. Ciccone può attendere e provare ad approfittare di un momento difficile del colombiano».

Chi conosce bene l'abruzzese spiega, infatti, che potrebbe essere proprio l'istinto ad ingannarlo. Giulio Ciccone ha sempre ottenuto buoni risultati nelle corse a tappe a cui ha partecipato ed al Giro, dove è già riuscito a vincere due tappe, nel 2019 ha anche conquistato la speciale classifica degli scalatori, senza naufragare nella generale, sedicesimo nell'occasione. Non facile, in quanto per difendere quella maglia servono scatti a ripetizione per far punti in vetta alle salite, rischiando di rimanere a secco di energie. Ciccone, che per Reverberi può centrare il podio, non può correre in quel modo, affidandosi solo alla voglia di fare. Deve programmare.

Sappiamo che studiare la tattica è una delle sue passioni ed è ciò che ha sempre preferito del passaggio al professionismo, perché ogni corsa si attaglia ad una tattica diversa e mettere in campo la tattica giusta è ciò che fa di un corridore un buon corridore. Chi ci ha corso assieme racconta che è minuzioso nell'analisi di ogni dettaglio, anche per quanto riguarda la bicicletta. Lo sanno i suoi primi meccanici. «Capitava di discuterci perché in ogni occasione voleva rivedere tutto. Quando è tutto pronto, è inutile continuare a mettersi in discussione».

Qualche anno fa, diceva che avrebbe voluto assomigliare a Vincenzo Nibali per essere un corridore da corse a tappe. L'anno scorso, dopo la vittoria al Laigueglia e la dedica alla madre, una stagione sfortunata a causa del Covid-19, quest'anno è tornato al Giro ed i più lo davano al servizio di Nibali, mentre ora le cose potrebbero invertirsi. «Non è un male. Anche per questo dico- prosegue Reverberi- che la Trek non deve “fare” la corsa e mettersi in testa a tirare nelle tappe decisive. Se lo fa, induce pressione e di conseguenza lo porta a sbagliare. A Ciccone serve la mente libera».

Ma Ciccone è anche l'uomo dei contrasti. Come uno scalatore puro che sente il fascino delle classiche, la Liegi-Bastogne-Liegi la sua preferita, e si ispira a Purito Rodrìguez per inventiva e voglia di gettarsi all'attacco. Uomo dei contrasti come il suo profilo che emerge dalla foschia, dal freddo e dalla pioggia del Mortirolo in quella tappa del 2019, come un uomo solo al comando verso Sestola ed il gruppo che non lo recupera. Come Giulio Ciccone che domenica sullo sterrato è stato uno dei pochi a reagire all'attacco di Bernal ed è arrivato secondo. Ciccone che, nel primo giorno di riposo, sa che il Giro è appena cominciato.

Foto: Luigi Sestili