Maghalie Rochette e la forma del fango
C’è stato un giorno, neanche troppo lontano, in cui Maghalie Rochette ha pensato di smettere. Era a bordo strada, a piangere, mentre i pedali non giravano e, sfinita, ha chiamato il suo allenatore. «David ho deciso di lasciare il ciclismo. Non ce la faccio più. Ho tanti altri interessi, la lettura, la scrittura, i podcast che realizzo, mi dedicherò a loro». Lui l’ha ascoltata e poi, seraficamente, ha ripreso a parlarle: «Vuoi mollare? Fai pure, non te lo impedisco e sicuramente hai le tue ragioni. Sappi, però, che un lavoro normale ti impiegherà circa otto ore al giorno e per le tue passioni non avrai comunque tempo. Il ciclismo ti stanca ma ti piace e, in ogni caso, il tempo te lo lascia».
Così Maghalie ha cambiato idea. Spesso si è sentita estranea, non al ciclismo ma all’Europa a cui è arrivata dal Canada, dal Quebéc. Dalle piccole cose perché il senso di appartenenza si crea attraverso i dettagli. Soprattutto attraverso la condivisione delle difficoltà. A chi le dice che il ciclocross è una strana disciplina, forse anche un poco folle, risponde che è vero ma è proprio per questo che attrae, è per questo che le si resta legati. «A volte sembra che la tua bici non sia attrezzata per tutto ciò che devi affrontare, ma ti basta riuscire a prendere quella curva che pensavi di non riuscire a tenere per dimenticare tutto. Ci sono erba, sabbia, colline, fango e ora anche ghiaccio». ha detto a Cyclingtips.
L’unico motore per andare avanti, a suo parere, è proprio la sperimentazione di nuovi territori e nuove prove: ciò che blocca è la paura delle novità, il restare a ciò che si è sempre fatto. Rochette è riconoscente al passato e alle atlete che con il loro operare hanno fatto in modo che il cross sia ciò che è oggi anche dal punto di vista economico. Tutti corrono per passione ma c’è un fatto di sostenibilità economica perchè «anche noi cicliste andiamo a fare la spesa».
Spesso Rochette si è trovata ad essere l’unica canadese in gara. In Canada, purtroppo, si investe ancora troppo poco nel ciclismo, lei ed il compagno investono nelle giovani generazioni, non solo in termini di denaro. I gesti contano: «Se un giovane mi vede andare a podio sa che può riuscirci anche lui. È una motivazione per entrambi». E lei è sempre lì, si butta nella mischia, prova, è spesso nelle prime.
Quando torna nel camper, dopo le gare, ad attenderla c’è Mia, il suo cane. Per esserci, questa femmina di Retriver, ha affrontato un viaggio di sei ore, da Montreal e Bruxelles. Rochette aveva dei dubbi, poi ha pensato che in aereo avrebbe dormito e che, in fondo, Mia non poteva che essere con loro, con la sua famiglia. La sua presenza significa normalità, significa una tranquilla passeggiata a sera, tranquillità. Poi ci sono i valori importanti, quelli che vengono in mente vedendo un cane che fa la festa al padrone che torna da lui: «Mia mi ha insegnato ad essere umile. A lei non interessa se ho avuto una gara brutta o se ho vinto. Per lei sono sempre la stessa».
Un'idea di giovani: intervista a Roberto Reverberi
«Continuiamo semplicemente a fare ciò che abbiamo sempre fatto, solo anticipando i tempi» esordisce così Roberto Reverberi, direttore sportivo della Bardiani CSF-Faizanè quando gli chiediamo degli otto ragazzi, tra cui due juniores, che la squadra ha aggiunto all’organico nell’ambito del progetto giovani. «Parliamo di atleti da proiettare tra i professionisti passo dopo passo. Anche sulla spinta dei procuratori, se non si agisce prima, questi ragazzi giungono subito in squadre World Tour o in Continental satellite. Da lì, il rischio temo sia quello di bruciarli».
In quarant’anni di questo lavoro, Reverberi ha visto le cose cambiare: «Una volta, passavano in pochi, probabilmente con un talento più pronunciato sin dall’inizio. Oggi il professionismo ha alzato di molto l’asticella. Questi otto ragazzi non devono dimostrare nulla, non chiediamo vittorie o risultati. Li sgraviamo da ogni pressione. Vogliamo solo professionalità massima, soprattutto per loro. Perchè questi treni passano una volta sola e non si possono lasciare scappare. È importante che lo capiscano».
Per i grandi risultati, invece, bisogna attendere e l’attesa, per Reverberi, è opportunità e consapevolezza. «Sanno che hanno la squadra a loro disposizione in ogni momento, se dimostrano di stare bene. Sanno anche che alla loro età il risultato principale è la continuità, non il picco. Purtroppo questo è un momento difficile. Senza gare fuori dall’Europa, a causa della pandemia, non c’è quasi più la possibilità di confrontarsi con un livello più tranquillo, ma ci si va subito a scontrare con squadroni e performance di altissimo livello. È necessario affrontare quelli più bravi, perchè quella è la realtà del ciclismo, ma servono anche le gare in Cina o in Malaysia perché ti danno morale. Ti consentono di continuare a lavorare mentre aspetti di essere all’altezza».
Nella scelta dei ragazzi, Reverberi ha osservato coloro che se la cavavano da soli e che erano sempre fra i primi pur, magari, non essendo in squadre molto blasonate. «Nelle squadre molto forti, vincono anche atleti che magari non vincerebbero in team minori. Li aiuta la tattica, li aiuta il controllo della gara. Se un ragazzo, da solo o quasi, riesce a farsi valere merita questa possibilità. Sono minimo tre anni di contratto, per provarci. Potremmo fare anche meno, perché per vedere il talento puro bastano tre mesi. Noi aspettiamo, non abbiamo fretta. Non serve diventare campioni o fare cose straordinarie. Per qualcuno ci vuole più tempo e glielo diamo».
La considerazione si sposta sui ragazzi più giovani, gli juniores, che hanno ancora un percorso scolastico in essere. «Faranno una quarantina di gare, non di più. La priorità è lo studio. Tutelarli significa anche questo». Qui si apre una parentesi importante e Reverberi vuole fare chiarezza, soprattutto in merito alla discussione sull’opportunità del passaggio nel professionismo di ragazzi così giovani: «C’è un buco normativo, solo in Italia tra l’altro. Il regolamento in essere risale a quando le squadre si dividevano tra dilettantistiche e professionistiche, per questo non prende in considerazione le Continental. Questi ragazzi, correndo con le Continental, potrebbero tranquillamente correre con i professionisti senza problemi. Si ritiene, invece, che non possano passare professionisti in quanto, in Italia sono richiesti due anni da Under23 per il passaggio. Non dico sia sbagliato, dico che le norme dovrebbero essere uniformi». Non finisce qui, perché l’accento Roberto Reverberi lo sposta proprio sulla tutela dei giovani: «Offriamo un salario minimo dei team Professional che altrimenti non avrebbero. Cerchiamo di preservarli. Credo sia necessario un adeguamento della norma. Le cose cambiano e le norme devono riconoscerlo».
Di consigli se ne potrebbero dare tanti. L’ambiente aiuterà perché, oltre ai direttori sportivi, in squadra ci saranno uomini di esperienza a supporto. Reverberi non fa nomi. Dice che non ha senso, soprattutto per non creare quelle pressioni di cui tanto si parla. «Tranquillità e lavoro sodo devono andare di pari passo. Voglio che questi ragazzi imparino a considerare ogni gara a cui parteciperanno come quella giusta da vincere. Spesso guardano troppo in là, selezionano i traguardi. Non si fa. A questa età ogni volta in cui sei in corsa devi provare a vincere. È un punto di partenza, si lascia da parte ciò che si è già fatto nelle categorie minori e si riparte. Nella vita bisogna saperlo fare. Impararlo a vent’anni è importante».
Chiedi chi è Philippe Gilbert
Basterebbe dire che, professionista dal 2003, il 2021 è stato il suo secondo anno senza vittorie, la prima volta nel 2020. Forse ci si potrebbe anche fermare alle quattro classiche monumento, manca solo la Milano-Sanremo, o al Campionato del mondo 2012. Magari alla considerazione che ha vinto su ogni terreno, dalle pietre, alla pianura, agli strappi, alla salita, che conta 77 vittorie all’attivo, tante per non essere un velocista.
Il legame tra Philippe Gilbert e la vittoria parla di tutto questo e di una considerazione che il fuoriclasse belga ha fatto in un’intervista a Procycling. A quasi quarant’anni, dopo aver vinto praticamente tutto, all’ultimo anno da professionista Gilbert si chiede che effetto gli farà tornare a vincere. C’era abituato e ricorda bene di essere sempre stato in perfetto controllo, lucido, freddo. Ora non sa come reagirebbe. Ha, però, la certezza che quest’ultimo anno non sarà pura malinconia, che tornerà a cercare la vittoria e non si accontenterà di una gara minore pur di riassaporarla, non abbasserà il livello pur di riuscirci.
Forse una nuova vittoria avrà il sapore delle vittorie degli altri, dei compagni di squadra per cui Gilbert si è messo a disposizione. Sempre, a partire da Cadel Evans, sino a Caleb Ewan. «Quando sei tu a vincere- ha raccontato- sai esattamente cosa sta succedendo, gestisci la situazione. Quando fai di tutto per aiutare qualcuno a vincere, appena te lo dicono la felicità esplode». Perché non eri pronto a provarla, perché non sei nelle gambe dell’atleta per cui hai lavorato, non sai cosa ha provato ad ogni metro. C’è una fragilità particolare anche dietro quell’atteggiamento così sicuro, quello che il belga ha maturato negli anni.
La prima vittoria, come racconta, è certamente questione di merito, ma tornare a vincere è più difficile perché tutti sanno che hai vinto, che puoi farlo e quindi te lo chiedono. Tornare a vincere per Gilbert è prima di tutto volerlo e fare qualunque cosa sia necessaria. Lì dentro c’è il fatto che per molti mesi potresti non vedere la tua famiglia, che potresti dover non pensare ad altro che a quello, limitare tutto il resto.
Philippe Gilbert ha calcolato che, nella sua carriera, ha dormito nello stesso letto al massimo per due, forse tre settimane consecutive, forse per un mese nello stesso posto. In certi periodi è stato difficile, ma, oggi, è convinto del fatto che se ti limiti «a stare a casa» non va bene perché non ti fa bene.
Per il 2022 proverà a mettere un ulteriore tassello, come detto non cederà alla tentazione di accontentarsi: se finirà fra i primi cinque, fra i migliori, alla prossima Omloop Het Nieuwsblad sarà contento perché con loro vuole lottare. E se, un domani, un ragazzino, con fra le mani la prima bici, gli chiederà qualcosa del ciclismo, lui saprà rispondere a tutto, ma proprio a tutto.
L'avventura di Tom Dumoulin
Tom Dumoulin era già tornato. Lo aveva fatto in silenzio, a bordo strada, in primavera. Poi lo aveva fatto in sella al Tour de Suisse, “un ragazzo al primo giorno di scuola”, nonostante il Giro d’Italia vinto nel 2017, nonostante i podi al Giro e al Tour. Al Tour de Suisse dove quella bicicletta era così simile a quella su cui pedalava da ragazzo, con poche paure, con la voglia scoprire e riscoprire. Aveva continuato a tornare all’Olimpiade, in quella voglia di porsi un traguardo e raggiungerlo, mentre la bicicletta iniziava a cambiare forma, a diventare qualcosa in più di una scoperta, ovvero un obiettivo.
Qualche tempo fa, in un’intervista al Magazine olandese Helden, aveva raccontato del perché, da ragazzino, aveva scelto il mestiere del ciclista: per tirare fuori il meglio di se stesso. E il meglio, per lui, ha sempre avuto a che vedere con la vittoria. Solo quando ha momentaneamente abbandonato il suo mondo, Dumoulin ha avuto qualche dubbio. Per quegli anni in più che si sentiva sulle spalle, per quel peso che si sentiva addosso.
Bisognava tornare leggeri per tornare a parlare di futuro.
Che Dumoulin parli di grandi giri in questi giorni è importante sopratutto perché significa che quella leggerezza è davvero tornata insieme a lui. «Puntare alla classifica generale di un grande giro è il meglio che si possa chiedere per un ciclista e io voglio puntare a questo il prossimo anno» ha dichiarato a De Telegraaf.
Allora tutti hanno iniziato a pensare a quale corsa si riferisse. Ci sono indizi che portano verso il Giro d’Italia, altri verso il Tour de France e altri verso la Vuelta. Nelle prossime settimane le cose saranno più chiare, nei prossimi mesi evidenti. Quello che già si sa è che Dumoulin ha cambiato modo di vedere le cose e lo ha fatto proprio grazie a Roglič, colui che lo ha battuto all’Olimpiade, colui con cui condivide la squadra. A “L’Équipe” ha detto che Roglič è una delle poche persone realmente in grado di ascoltare i problemi senza giudicare. Se avesse dovuto scegliere una persona da cui essere sconfitto, avrebbe scelto proprio lui.
Ascoltando e permettendo allo sloveno di ascoltare, Dumoulin ha iniziato a vedere in maniera diversa la sua carriera. Un’avventura, una semplice avventura. Da scrivere, progettare, inventare. Di cui essere fieri perché non capita tutti i giorni. A cui volere bene perché lo si fa solo e unicamente per se stessi.
Non sappiamo se la “farfalla di Maastricht” sarà all’altezza dei voli di pochi anni fa, se tornare per vincere vorrà dire davvero vincere. Però sentirlo entusiasta per i giovani prodigi con cui andrà a sfidarsi è una bella promessa. Sentirgli dire che «sarà un’occasione speciale e sarà stupendo a prescindere da come andrà, da quanto sarà difficile» fa il resto. Perché, se Tom Dumoulin parla così, significa che è davvero tornato quello di una volta. Anzi, meglio di quello di una volta. Con una nuova visuale sul mondo.
Alla scoperta dell'eliminator: intervista a Gaia Tormena
Gaia Tormena ricorda che, da ragazzina, nel bosco, si divertiva a fare impennate: se cadeva, si rialzava come nulla fosse e ricominciava a giocare con quella bicicletta. Non è cambiato molto e non potrebbe che essere così, perché la diciannovenne della Val d’Aosta sa bene che il ciclismo è uno sport troppo faticoso per continuare a farlo se non ci si diverte più, così, se si proietta avanti nel tempo, ha solo una speranza: «Fra cinque anni spero di divertirmi come adesso, altrimenti sarà un problema. Anche perché, per chi è cresciuto come me, è difficile pensare di fare altro nella vita».
Tempo fa, si era iscritta a Strava, ma tutti i suoi percorsi erano privati, nessuno poteva vederli se non lei e lei non si è quasi mai preoccupata dei percorsi degli altri, dei loro tempi, dei loro watt. «Credo sia una perdita di tempo e di tranquillità per un professionista. Per migliorare puoi lavorare solo su te stesso, questi strumenti invece continuano a metterti in competizione con altri e, alla fine, ti tolgono tempo e spazio per lavorare su di te». Già, perché per quanto le piaccia la competizione, Tormena sa che non è tutto, che c’è altro. Così, ogni tanto, chiama il suo allenatore e gli dice che stacca, che va al Bike Park di Pila e si butta in discesa. Giù, in libertà, come qualche anno fa.
Non tutti conoscono la sua disciplina, l’Eliminator, e a lei, che è Campionessa del mondo della specialità, piace raccontarla. Si tratta, ci dice, della disciplina sprint del fuoristrada: tra i cinquecento e gli ottocento metri fra ostacoli naturali o artificiali. Qualificazioni e poi gare a batteria, a torneo. In Italia è l’unica a praticarla a così alti livelli: «Quando mi applaudono alle gare ci penso. Penso che, in fondo, ciò che sarà dell’Eliminator, da noi, dipende anche da me, da ciò che riesco a fare».
Essendo una disciplina recente manca ancora una regolamentazione specifica. Soprattutto in Italia perché in Coppa del Mondo le regole sono rigide. L’Italia non ha una prova mondiale dal 2019. «Mi scrivono giovani allenatori e mi mostrano filmati di bambini che provano le nostre partenze. Sono spettacolari e si divertono molto, ma c’è ancora da lavorare per resistuire all’Eliminator lo spazio che si merita».
In primis vanno sconfitte le concezioni errate. «All’estero non interviene quasi mai un’ambulanza in queste gare. In Italia, invece, si considerano pericolose e forse lo sono ma solo perché mancano regole rigide, così ci sono cadute con conseguenze importanti. Per noi sarebbe un passo fondamentale l’affiancamento delle nostre gare a quelle di cross country, ma gli atleti di cross country hanno timore a correre sui nostri tracciati perché, senza quelle regole, rischiano seri infortuni, rischiano di rimetterci la stagione».
Inoltre, l’Eliminator è una possibilità per i giovani che possono gareggiare da subito accanto a un Campione del mondo, magari stargli davanti alla ruota per un giro, sfruttando quelle fibre veloci che si hanno da ragazzi. «Anche i commissari tecnici studiano questa disciplina. Per questo vado in pista a Montichiari o faccio lavori specifici su strada: cerchiamo di capire come si interfaccino le diverse discipline, cosa aiuta e cosa penalizza».
Diciannove anni e tanta maturità. Perché Tormena sa aspettare e spesso ne parla con papà. «Potrei passare in una squadra più grande rispetto al G.S. Lupi Valle d’Aosta perché le cose più importanti piacciono a tutti, ma sono ancora giovane e ho già tanto. Ho paura che il troppo mi tolga questa “fame”, questa voglia che sento. Mi spaventa l’idea di trovarmi a venticinque anni e avere la sensazione di avere già dato tutto. Per ora mi bastano i risultati per avere stimoli, quando quelli mancheranno, forse, li cercherò nell’ambiente, in una squadra più strutturata».
Se l’esplosività, fra qualche anno, dovesse venire meno si dedicherà alle discipline endurance, discipline di sviluppo più ampio in cui serve più resistenza. Guardare avanti, però, non significa solo questo. «Alcuni sponsor mi supportano ma queste discipline, ad oggi, difficilmente consentono di avere uno stipendio. Fino a qualche anno fa, era papà a comprarmi tutto e già il fatto di avere qualcuno a supportarmi con del personale mi sembra tantissimo. Però si cresce, gli anni passano e bisogna costruirsi una propria indipendenza. Lo sport è l’unico lavoro che ti impegna tutto il giorno, quasi tutti i giorni, è triste pensare che alcuni sportivi non possano pagarsi le bollette col frutto del loro lavoro. Il cambiamento è necessario».
Foto: Alessandro Di Donato
La nutrizione di un ciclista: intervista a Erica Lombardi
Erica Lombardi, dietista dell'Astana Premier-Tech parte dal ruolo dell’educazione alimentare per parlare di ciclismo. «Le informazioni non mancano, ma molte, troppe direi, non sono scientifiche. Così i ragazzi e le ragazze si fanno proprie convinzioni, errate, difficili da sradicare. Fare educazione alimentare vuol dire parlare della potenzialità di una corretta nutrizione per ottenere prestazioni importanti, soprattutto vuol dire allontanarli da qualunque pratica illecita». Servirebbe l’introduzione della materia nelle scuole perché, anche al di fuori del ciclismo, investire nell’educazione alimentare significa crescere persone sane e risparmiare sulla spesa sanitaria.
Abbiamo parlato con Erica Lombardi di alimentazione nel ciclismo e di come le tematiche alimentari vengano gestite all’interno delle squadre professionistiche.
Nel ciclismo le cose sono cambiate nel tempo e, oggi, parlare di alimentazione è come parlare di allenamento: qualcosa di quasi scontato. «Ciò non significa che non ci siano più disturbi alimentari legati alla pratica sportiva. Sarebbe scorretta un’affermazione del genere, ma significa che si è presa coscienza del problema e che si sta agendo: le squadre cercano sempre più la consulenza di medici, dietisti e nutrizionisti». Il discorso di Lombardi è chiaro: è cambiato l’approccio. Si è iniziato a considerare il peso in rapporto alla potenza. Nel ciclismo femminile è evidente: «Credo che una volta la spinta alla magrezza venisse da persone non qualificate e non titolate alla gestione della nutrizione, proprio perché queste figure professionali non erano ancora presenti nel team. L'attenzione al peso c'è sempre, soprattutto per scalatori e scalatrici, ma sicuramente c'è anche una maggiore consapevolezza della gestione del peso tra i componenti dello staff e l'atleta stesso. Il confronto “sulla magrezza” tra atleti c'è sempre, ma ci sono figure professionali che riescono a rendere maggiormente consapevole l'atleta del proprio percorso individuale nutrizionale e a non farsi influenzare nel raggiungere pesi non funzionali alla salute e alla performance».
L’approccio, continua Lombardi, è personale, dal camice al pedale perché gli atleti hanno una particolare routine di vita che non consente un controllo sul lungo tempo. «È importante la quotidianità, l’imprinting. Un mese senza confronti, controlli e verifiche è impensabile». Per questo lei stessa si occupa di verificare il fabbisogno di ogni atleta e di guidarlo nelle scelte. «C’è la cosiddetta dieta a watt, ovvero in base ai watt che il ciclista dovrà sviluppare in una determinata tappa. Il ciclismo è uno sport situazionale. I nostri grafici tengono conto della tappa, dell’altimetria, del meteo e persino del ruolo del corridore. In una corsa a tappe gli atleti vivono una situazione di deficit costante e il dopo tappa è essenziale per permettere il recupero. Collaboriamo anche noi alla preparazione della musette degli atleti e siamo in grado di stabilire quanti gel dovrebbe assumere un atleta su quella determinata salita, almeno in linea teorica».
Il problema, spesso, è lo stress legato a questa tematica che porta l’atleta a rincorrere qualunque novità, per risolvere un proprio problema. «Le diete nuove rischiano di essere un problema in quanto ogni dieta deve essere verificata sulla singola persona. Non c’è alcun ingrediente magico, serve tempo e consapevolezza. Accade invece che ci si perda in questa rincorsa alla novità, talvolta dannosa». Tutto perché tenere sotto controllo il peso è difficile: «È una sorta di pendolo di Schopenhauer: la forma è difficile da raggiungere e anche più difficile da mantenere. Le situazioni stressogene, nel giusto limite, favoriscono il controllo dell’alimentazione. Se esagerate, portano al training eccessivo. Serve equilibrio». Per esempio quando si parla di nutrizione e di gusto: «Tendenzialmente ciò che è buono e gustoso non nutre, ma i ciclisti sono uomini. Bisogna abbinare il nutrimento a qualcosa che sia piacevole da assaporare».
Erica Lombardi torna così a parlare di ciclismo femminile. «Quando si verificano situazioni problematiche, bisogna parlare alle ragazze e chiarire l’importanza di una corretta alimentazione che non significa ingrassare. Sono cose diverse». Il punto è che, anche con un’alimentazione corretta, a causa dell’allenamento intenso, a volte, si verificano situazioni di amenorrea in quanto, comunque, il corpo di una donna, predisposto ad accogliere il feto, avrebbe bisogno di più grassi di quelli che ha il fisico di una ciclista. «Sono abbastanza frequenti questi casi e a lungo andare sono causa di problemi ossei. Anche qui la presenza di un apparato medico è essenziale».
Perché, se è vero che la pratica sportiva è certamente salutare, la pratica sportiva ad alti livelli può essere usurante e, in questo senso, è dovere di ogni professionista fare attenzione alla prevenzione.
Pidcock tra van Aert e van der Poel
Tom Pidcock non ci sta. Sfrontato come i suoi ventidue anni, cortese come un baronetto del Regno Unito, di Leeds. Elegante e redditizio su strada, deciso quando si destreggia nel fango come un occhio che cerca un varco nel fumo di Londra.
«Non voglio essere sempre terzo, corro per battere Wout e Mathieu» ha detto così a Het Nieuewsblad, chiamando van Aert e van der Poel per nome, un guanto di sfida, e ha gasato tutti perché Tom è uno da prendere sul serio, ciò che dice fa. Va bene il rispetto, la fiducia, l’orgoglio di essere fra loro ma il sale è quella voglia di ribellione, di provocazione, di mettere la propria ruota sporca di terra davanti alla loro. Ce la farà? Lo scopriremo.
Intanto ieri, a Rucphen, in Olanda, pur con l’assenza di van Aert e van der Poel, ha battuto Iserbyt e Vanthourenhout e non in un modo qualunque. Quasi con l’istinto di colui che sente l’odore della preda nella boscaglia e si sfregia coi rovi pur di prenderla. «Ad un certo punto mi sono detto: diavolo, ora dai tutto e vinci». La voglia di riscossa, di rivalsa. Prima Coppa del mondo fra gli élite, una di quelle pietre miliari di cui vi abbiamo parlato in questi giorni.
«Van Aert ha uno stato di forma incredibile ma anche io sto meglio di quanto potessi pensare» come se non lo vedessimo. Anche quando non ci riesce a vincere, come oggi a Namur, su quel fango che sa di Inghilterra, per dirla con le sue parole: due scivolate, qualche insicurezza e Vanthourenhout che va a vincere. Ma ha fatto la gara, ha messo pressione agli avversari, affamato, forse ancor di più dopo una sconfitta.
Van Aert, Van der Poel e Pidcock, rigorosamente in ordine sparso. Un tris d’assi da celare e poi gettare sul tavolo, mentre sotto le noccioline continuano a scricchiolare. La grande sfida è sempre più vicina e sarà una festa, comunque vada.
Testardo come Warren Barguil
Warren Barguil è nato nel dipartimento di Morbihan, in Francia, e i francesi sostengono che chi nasce da quelle parti sia decisamente testardo. Di certo, i medici che lo hanno curato dopo la caduta in allenamento e la frattura al bacino dello scorso settembre hanno saggiato la sua testa dura. Il suo corpo sembra un puzzle, tante sono le cadute che lo hanno martoriato e questa volta l’avviso è stato perentorio: «Ci vorrà tempo e pazienza. Per sei settimane non puoi mettere piede a terra». Barguil ne ha aspettate cinque, alla sesta, senza dire nulla al chirurgo, ha ripreso a camminare per casa.
Non è stata la prima volta che faceva di testa propria. A Carcassonne, al Tour di quest’anno, era messo talmente male che chiunque avrebbe mollato. I suoi direttori sportivi, in Arkéa-Samsic, l’hanno dovuto minacciare per farlo fermare: «Devi ritirarti. O lo fai di tua spontanea volontà o ti escludiamo noi dalla squadra». Così testardo da far quasi arrabbiare; persino sfacciato a tratti. Come al Tour de France 2017 quando, dopo due tappe vinte alla francese, ovvero con tutto l’orgoglio, la sofferenza e forse anche la drammaticità di cui i blues sono capaci, disse apertamente, rivolgendosi alle tattiche delle altre squadre: «Ho attaccato, ci ho provato. Per attaccare non è necessario controllare i watt tuoi o dei rivali».
Probabilmente Wawa, così lo chiamano in patria, è sempre stato testardo. Più probabilmente lo è diventato. Quando gli dicevano di aspettare, di lasciare che fossero gli altri “a fare la corsa” per poi attaccare all’ultimo e lui non capiva più perché, allora, corresse in bicicletta se doveva «farsi portare in giro dal gruppo». Non c’è attendismo nel suo modo di essere e se insegue la vittoria come ognuno, per essere soddisfatto di se stesso gli basta vivere la corsa, farla, non subirla. Fino a quando l’ha subita, si è ritrovato in camera, distrutto, con la voglia di tornare a casa. Come ha iniziato a disegnarla, a casa non ci è più voluto tornare, nemmeno fatto a pezzi dalla strada.
Ora pensa al 2022. Dopo il Tour de France e la Vuelta, vorrebbe essere al Giro d’Italia. L’Italia lo affascina, il Giro lo attrae. Con Nairo Quintana, in squadra, per quest’anno punterà anche alle brevi corse a tappe e alle corse da un giorno. Intanto attende che Arkéa-Samsic diventi una squadra World Tour e a “L’Équipe” confida: «Se non sarà per il 2022, sarà per il 2023. Ma se il passaggio non dovesse esserci, di certo qualcosa cambierà per me. Mi trovo bene, ma sarà inevitabile guardare altrove a quel punto». Inevitabile come la testa dura di Warren Barguil.
Mamma, mamma ho visto van der Poel
«Ho visto van der Poel, ho visto van der Poel». Erano i primi giorni di marzo, sugli sterrati senesi, quando un ragazzo, tornando verso la propria famiglia, ha gridato così. E noi abbiamo ripensato al mare di Napoli e a chi a centinaia di chilometri di distanza, tanti anni fa, ha gridato: «Mamma, mamma ho visto Maradona». Non ci sono paragoni da fare. Chissà se, con tutte le persone che accorrevano per vedere Maradona, qualcuno lo vedeva davvero. O forse immaginava di vederlo, ne intuiva i lineamenti. Come con i ciclisti perché nel folto del gruppo, spesso, tocca immaginarli, non potendoli distinguere bene. Ma basta una vana somiglianza e tutti sono certi di quello che hanno visto e lo raccontano.
C’era un vento assassino nel giorno del passaggio nei luoghi del terremoto, al Giro d’Italia, roba che nemmeno gli striscioni dei Gran Premi della Montagna erano saldi. Ricordiamo i capelli bianchi di quel signore che tracciava la linea del Gran Premio, arruffati dal vento, gettati all’indietro. Ricordiamo la sua giacca che continuava ad aprirsi, sotto i colpi dell’aria. Perché tutti danno per scontato che lì ci sia la vetta e quasi nessuno si interroga su chi abbia tracciato quella linea o posizionato quello striscione. Su cosa sia per queste persone una gara ciclistica. Loro che il ciclismo lo vivono distrattamente, pieni di sudore o d’acqua. Forse più che vederlo lo intuiscono come chi fa un lavoro di fatica per permettere agli altri di divertirsi.
Quello stesso vento, di giro in giro, era arrivato sopra al Ventoux, all’Osservatorio, in un giorno di luglio al Tour de France. Lì, Blanchard, nome quasi omaggio al bianco lunare di lassù, era salito con amici. Le loro biciclette le trovavi quasi aggrovigliate in un angolo. Sulla sue spalle una sacca, una borsa. “Il mezzo per andare dove vuoi e un sacchetto con le poche cose per poterci restare”. Nello zaino di qualcuno lì vicino dei vecchi giornali.
“A cosa vi servono?”
“Guardiamo le foto e cerchiamo i punti esatti in cui sono scattati i ciclisti per cui abbiamo tifato”.
Roba da matti, verrebbe da dire. Soprattutto con quella polvere che entra negli occhi e li fa bruciare. Loro, però, hanno continuato e a giudicare dall’entusiasmo qualche punto devono averlo trovato. Poi hanno visto van Aert e non c’era più bisogno di cercare nulla.
Perché servono le visioni e servono i ricordi.
Ferruccio, un attempato tifoso di Colbrelli, incontrato mentre mangiavamo una piadina al Campionato Italiano ci disse che, da ragazzino, andava al cantiere dove lavorava suo papà a vedere il mestiere dei muratori e quando tutti gli dicevano che stare lì, sotto al sole o al gelo, gli avrebbe fatto male, lui rispondeva che suo papà era cresciuto in strada, suo nonno anche e chissà indietro nel tempo quanti altri. Forse avevano qualche ruga in più, ma erano felici e lui voleva diventare come loro. Colbrelli che, dopo tanti tentativi, ha vinto ciò che ha vinto, è come Ferruccio. E noi, che su quelle strade abbiamo sempre avuto il gusto di tornare, non siamo poi tanto diversi.
Il coming out nel mondo dello sport: ne abbiamo parlato con Elisabetta Borgia
Le dichiarazioni di Irma Testa, pugile ventitreenne, medaglia di bronzo a Tokyo, in seguito al coming out di qualche settimana fa, hanno fatto molto parlare nel mondo dello sport.
Noi abbiamo voluto parlarne con Elisabetta Borgia, psicologa clinica e dello sport a stretto contatto con il mondo del ciclismo, per avere un suo punto di vista sulle difficoltà che, purtroppo ancora oggi, permangono nel parlare apertamente del proprio orientamento sessuale, in particolare in ambito sportivo.
«L’omosessualità - esordisce la Dott.ssa Borgia - c’è sempre stata e sempre ci sarà, non è un fatto nuovo. Ciò che è cambiato nel tempo è il modo di percepirla da parte della società. Già solo il fatto che queste dichiarazioni facciano parlare rende evidente come, ancora oggi, permanga un canone che la società considera comune e di cui l’omosessualità non fa parte. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di parlarne».
Oggi l’omosessualità è considerata uno stato esistenziale come molti altri e il gesto di uno sportivo importante che la dichiara apre alla possibilità. «È un bene che sportivi di rilievo facciano questo gesto perché si tratta di un messaggio lanciato alle persone più giovani, a chi si sente più debole e non ha il coraggio di vivere allo scoperto la propria sessualità. Un gesto di ispirazione. È come dire: “Si può dirlo, si può ammetterlo”. Questo, però, apre la via a tutta un’altra serie di considerazioni». Le considerazioni di cui parla Elisabetta Borgia sono quelle relative, in primis, all’accettazione personale di questo stato esistenziale.
«Se non si accetta personalmente, si è maggiormente esposti alle ferite che possono venire dal mondo esterno. Sempre e soprattutto in alcuni mondi, per esempio il ciclismo che è un piccolo universo, fortemente predisposto alla condivisione, alla comunione di spazi e tempi. Fare coming out senza una completa accettazione di se stessi può essere pericoloso, in quanto poi si rischia di non essere in grado di reggere ciò che accade perché, purtroppo, per sbagliato che sia, non si può sapere come le persone reagiscono, cosa dicono. Accettarsi vuol dire mettersi, almeno parzialmente, al riparo da quelle ferite».
Il focus della dottoressa Borgia va proprio sul ciclismo e sulle modalità con cui si vive. «Un gregario che lavora per il proprio capitano ha, e aggiungerei deve avere, una confidenza e un feeling maggiore rispetto a quello che esiste fra colleghi in qualunque altro lavoro. Questo, da un lato, dovrebbe portare a una maggiore facilità nella comprensione di ciò che vive l’altra persona, dall’altro, però, espone a problematiche importanti in quanto tutti abbiamo timore del giudizio, in particolare da parte delle persone con cui abbiamo più rapporti. Nel ciclismo è molto difficile separare la sfera personale da quella lavorativa».
Nel ciclismo questo fatto è inevitabile e si estende a più fattispecie: partendo dal rapporto privilegiato fra compagni e arrivando alla condivisione di circa duecento giorni in giro per il mondo, delle camere di albergo. «Capite benissimo che il rischio di esporsi a battute e giudizi, per come va la società di oggi, c’è e ha un peso rilevante. Scegliere di esporsi vuol dire assumersene le conseguenze e fare i conti con ciò che la tua realtà lavorativa, e non, ti porta. Non è un caso che Irma Testa abbia deciso di parlarne solo dopo la medaglia olimpica, come a ricercare una sicurezza prima, una forza che le consentisse di essere veramente libera».
Borgia considera questa dichiarazione come la fase finale di un’elaborazione di un conflitto interno, un processo di accettazione intimo e consapevole. «Sai perché certe cose ci fanno star male più di altre? Certe affermazioni di persone ci feriscono in maniera particolare? Perché alcune “fanno risuonare” certe parti intime, alcuni “nervi scoperti” in tutti i campi della nostra vita. Ad esempio, capita che qualche atleta rimanga molto male per un commento di un tifoso particolarmente offensivo, ad esempio “sei un corridore finito”: ecco, questa affermazione avrà spazio nel corridore se, forse, intimamente ogni tanto questo pensiero o questo interrogativo gli è balenato nei momenti di difficoltà, se invece è un atleta sicuro di se stesso non subirà un condizionamento così forte. Questo avviene anche per quanto riguarda l’orientamento sessuale: se si è sicuri e tranquilli rispetto a questa sfera, se si è consapevoli di non essere sbagliati, ogni affermazione offensiva e discriminatoria, che chiaramente va perseguita, non avrà un potere deflagrante così forte».
Maggiori difficoltà sussistono nel ciclismo maschile rispetto a quello femminile in cui questa realtà è, invece, più accettata. «Dipende dalla caratterizzazione che la società offre di un determinato ruolo. Nell’arte, nello spettacolo, in alcuni casi è più semplice vivere la propria omosessualità in quanto non c’è quel machismo che nello sport abbiamo. Il ciclista deve essere perfetto, forte, senza macchia e senza paura e l’omosessualità, nello stereotipo della società, non si abbina a questo. Quando qualcuno dice: “È uno sport da uomini” inconsciamente fa riferimento a questa caratterizzazione. E pensare che, a livello di personalità, è la donna a essere maggiormente predisposta al sacrificio e alla fatica».
È il peso degli stereotipi e dei pregiudizi che la società si porta dietro da sempre. «Forse i nostri figli si troveranno a vivere una realtà differente e saranno in grado di sconfiggerli. Io sono positiva rispetto a questa cosa, il processo è iniziato ed inizia a farsi strada la predisposizione ad una visione diversa. Questi bambini cresceranno in un mondo dove inizia a entrare nell’immaginario collettivo la possibilità che la famiglia possa essere felice anche se con due uomini o due donne e dove anche i giocattoli, le fiabe e le pubblicità televisive prendono in considerazione la vera forma del mondo».
Foto: ASO / Alex BROADWAY