Come cristalli

Sembrerebbe sabbia, vista dall’alto. Magari di qualche spiaggia a ridosso del mare del Nord. Sono cristalli di neve, invece, a Vermiglio, in Val di Sole. Qualcuno racconta che ognuno abbia una forma particolare, diversa dagli altri, come le impronte digitali umane. Non ti aspetteresti biciclette da cross qui.
Se qualche giorno fa, vi avessimo raccontato la storia di Fem Van Empel, certamente vi sarebbe tornata in mente, vedendola davanti dall’inizio. Questa ragazza che giocava a calcio e provava qualunque ruolo perché le interessava correre, insistere. Il calcio l’ha lasciato perché ha capito che non tutti in campo davano il loro meglio, che c’era chi si risparmiava. Ha preso la bicicletta perché lì dipendeva tutto da lei. È stata una delle poche a riuscire, qualche volta, a saltare gli ostacoli in sella, senza scendere.
Non è facile con queste canaline che si formano tra la neve farinosa: c’è il rischio siano ghiacciate, puoi sprofondare, di certo sbandi, ne esci sbilenca, quasi scomposta, la prospettiva futurista di un corpo umano. Il sole qui arriva per poco tempo, il resto è ombra e luce biancastra che imbroglia.
Marianne Vos è quella di sempre, anche se ha un incidente meccanico e una scivolata che sembra impedirle di ritornare su Van Empel proprio dopo una rimonta incredibile.
Un brutto presagio come un malinconico tramonto, il sole che se ne va, poco dopo le due del pomeriggio. Dietro si continua a prendere la bici in spalla e rincorrere. Dopo cinque giri sembra di sentire il fiato che finisce e l’aria fredda che dalla bocca spalancata gela la trachea, si impossessa del respiro.
Vos e Van Empel arriverebbero allo sprint se non fosse per la neve o forse per un paletto in una curva che Vos non vede e frana a terra. Sembra infinito anche il tempo per rialzarsi qui, invece sono pochi secondi, quasi di agonia, perché scivoli e perché sai che l’altra se ne va.
Van Empel, a soli diciannove anni, vince davanti a colei che ha vinto tutto. Seguono Vos e Rochette, Eva Lechner è quarta, Alice Maria Arzuffi settima, Silvia Persico decima. C’è chi dice che Van Empel, dopo ciò che ha fatto, meritava la vittoria e chi sostiene che per quello che ha fatto Vos oggi è un peccato sia finita così. Forse sono vere entrambe le cose, com’è vero che, comunque vada, vince uno solo, giusto o meno che sia. Basta poco per una ciclista, dura e fragile come cristallo di neve.

Foto: Giacomo Podetti


Il valore del lavoro: intervista a Matej Mohorič

Nel paese in cui è cresciuto Matej Mohorič in Slovenia ci saranno state trenta case, non di più. La sua famiglia aveva una fattoria e lui aiutava i suoi genitori: «Avevamo maiali, pecore e galline. Gli animali non hanno giorni di riposo e c’era sempre da lavorare. In estate avevamo anche l’erba da tagliare». Quando parla di lavoro, Matej ha in mente quei giorni: «Non ci si poteva sottrarre a ciò che c’era da fare e se dovevamo andare in stalla non c’erano storie da raccontare. Cercare scuse è solo fatica mentale in più. Oggi, se ho quattro ore di allenamento da fare, le faccio senza titubare perché il dovere è dovere».
Quando non aiutava in famiglia, andava nei boschi insieme agli amici e con la mountain bike si divertiva a saltare i tronchi d’albero che trovava. Era divertente, per questo a casa ha più di sette biciclette: una per ogni specialità. L’unico rimpianto? «Ogni giorno vorrei provarle tutte, fare un tratto di strada con ciascuna, ma non è possibile». L’attenzione è sempre molta: per non esagerare, per rimanere lucidi. «Certo, voglio vincere, come ogni ciclista, e quando vinco mi emoziono, non dimentico, però, che il ciclismo è soprattutto il mio lavoro. Un lavoro che mi piace ma sempre un lavoro. La mia vita non cambierà di certo se invece di vincere venti gare ne vincerò quaranta. A sessant’anni non sarà questo a fare la differenza. Bisogna averlo chiaro».
Ed è questo lavoro a diventare sempre più difficile con il passare degli anni. Perché da giovani si vuole migliorare, si ha tutto da imparare e la spinta è molta, quando inizi a realizzarti tutto cambia. «Siccome hai raggiunto un livello alto ti viene chiesto di mantenerlo e se possibile di migliorare ancora. È sempre più difficile. Quando hai una famiglia diventa ancora più complesso perché partire per mesi e mesi e lasciare tutti a casa non è poi così bello come può esserlo da ragazzo».
«Noi non vinciamo solo per noi stessi. Vinciamo per tutte le persone che ci guardano e che magari vedendo quella vittoria possono cambiare qualcosa nella propria vita o anche solo essere contente per qualche istante. Vinciamo per le persone del nostro staff che non possono vincere» è qualcosa di cui Mohorič si è reso conto dopo la vittoria delle due tappe al Tour de France. Ricordarsi questo serve soprattutto in inverno quando le gare sembrano lontane e la motivazione può diminuire. «Se non ti alleni bene adesso, a luglio non sarai in forma e quando le persone ti aspetteranno tu non potrai fare nulla. Se non ho molta voglia, penso a questo».
Poi c’è ciò che bisognerebbe cambiare nel ciclismo e non sarebbe così difficile, in fondo. Per esempio, la sicurezza: «Noi non corriamo su piste e le strade non sono pensate per i ciclisti. Sono progettate per le auto con strettoie e rotonde per rallentarle. Duecento ciclisti a tutta velocità trovano ovvie difficoltà a transitare». Mohorič ha le idee chiare: come evolve la società, deve evolvere il ciclismo, magari cambiare regole. «Penso a una neutralizzazione anticipata nelle tappe di pianura, magari a dieci chilometri dal traguardo. Sarebbe più bello per il pubblico che vedrebbe passare gli uomini di classifica staccati, in tutta tranquillità e più sicuro per tutti».
Proprio per cambiare, per migliorare, nei giorni scorsi, Mohorič ha presentato la sua Fondazione, dedicata soprattutto ai giovani perché da loro parte tutto. «Al ciclismo sloveno un grosso apporto viene proprio dai giovani, dalla categoria juniores. È giusto esaltarli come enfant prodige, quando è il caso, ma prima di tutto bisogna affiancarli e aiutarli a crescere. Essere disposti a investire su di loro. Penseremo anche ai bambini, proveremo a metterli in bicicletta, a raccontare anche a loro cosa può essere una bicicletta. A spiegarlo alle loro famiglie».
Ciò che ha vissuto in bicicletta, Mohorič lo racconterà volentieri soprattutto «se lo vorranno, perché chi ti chiede di raccontare è predisposto ad ascoltare» e ascoltare è importante. Lui, per esempio, ha passato molto tempo ad ascoltare Damiano Caruso, a guardare la meticolosità del suo essere professionista e per Caruso questi sacrifici hanno pagato. Con Colbrelli ha invece condiviso le classiche: «Ha un motore enorme, chissà quanto avrebbe potuto vincere. Quest’anno, al Tour, era sempre al posto giusto, spesso sfortunato. Quando vincevamo era contento per noi, io però scorgevo quella voglia, quella fame nel suo modo di fare. Sono contento per il suo momento».
I progetti di Mohorič, invece, sono concreti. Come le pietre del Fiandre o lo scatto di un dente sulla catena sul Poggio alla Sanremo. Come la canicola estiva sulle strade di Francia al Tour, dove la Bahrain vuole da sempre fare bene. La condizione c’è, la voglia non è mai mancata. E per ogni cosa che non andrà ci sarà il lavoro, quello che Mohorič ha imparato in quei pomeriggi di ragazzo e ha custodito come valore.


Il prato ricrescerà o di Arnaud Démare

Non è stato un anno facile per Arnaud Démare. Lo ricordiamo a Tignes, nella nona tappa del Tour de France, mentre saliva la rampa finale ben oltre il tempo massimo. «Ci sono anni in cui gira tutto bene, altri in cui non funziona nulla. È frustrante, non sai più come rimediare, ma è così. Continuo a dare il massimo, posso solo fare questo». Aveva confidato all'arrivo, prima di tornare a casa appena dopo una settimana di Tour de France.

Demoralizzato, ma non completamente sfiduciato anche durante la Vuelta. Un episodio lo aiutava: nel 2018 riuscì a vincere una tappa al Tour de France e fino alla settimana prima stava malissimo. Quando le cose vanno male ti aggrappi a tutto, anche perché nel ciclismo può succedere di tutto, ma, soprattutto per un velocista, quando la vittoria non arriva, c'è poco da fare mancano tutte le certezze. Anche pensare a uno sprint è difficile e dubiti di cose che hai sempre fatto con apparente facilità. Lo sapevano in tanti, lo sapeva la sua famiglia.

Sul traguardo della Parigi-Tours, quest’anno, c'era suo padre Josuè. Arnaud ha raccontato più volte che papà è sempre andato a trovarlo alle gare, sin da giovanissimo, e mentre tutti gli altri genitori gridavano e si esaltavano, lui stava lì, tranquillo, a guardare. Qualche settimana fa è successo lo stesso, proprio mentre Démare, dopo tempo, tornava alla vittoria sul Viale di Grammont, dove ha trionfato Richard Virenque, idolo dei francesi, soprattutto dove l'ultimo francese trionfò quindici anni fa: era Frédéric Guesdon, oggi direttore sportivo dell'atleta della Groupama FDJ.
«Sono stati mesi difficili - ha spiegato a "L'Èquipe"- è stata una stagione difficile, grazie alla mia famiglia, però, ci ho sempre creduto ed ecco il risultato». Ritorna la famiglia, ritorna il ringraziamento alla famiglia e alla moglie Morgane, come primo pensiero, proprio da lui che sull'importanza della famiglia non ha mai avuto dubbi nemmeno nelle stagioni prospere e qualche parola per i propri familiari l'ha sempre avuta perché «la famiglia è fondamentale, sempre».

Pensare che quando, nel 2018, la corsa fu rinnovata e vennero inseriti tratti di sterrato e di pavé, Démare si mostrò stizzito, dichiarò di preferire il percorso classico e che sarebbe stato giusto mantenere quello. Invece proprio Tours gli ha riconsegnato la vittoria, in modo quasi rocambolesco, all'ultima gara della stagione, dopo aver inseguito a lungo la fuga di giornata e aver ricucito solo ai cinquecento metri dall'arrivo su Bonnamour e Stuyven. Proprio a Stuyven aveva pensato nei chilometri precedenti: a quanto fosse difficile andarlo a riprendere e anche solo provare a giocarsi la vittoria. Poi l'asso nella manica, il coniglio dal cilindro, il rapportone o semplicemente la classe dei velocisti e la vittoria.


Il fuoco di Evie Richards

Al secondo giro dei Campionati del Mondo di Cross Country-Mountain Bike, Evie Richards avrebbe potuto andare in crisi. Sarebbe bastato ascoltare quella voce che la annunciava in seconda posizione, dietro a Pauline Ferrand Prevot. Richards non vedeva già più la rivale e questa distanza avrebbe potuto metterla in crisi. Se solo avesse ascoltato quella voce. Invece l’ha sentita, certo, ma non l’ha ascoltata. C’è una sottile differenza.
«Normalmente avrei iniziato a pensare che ormai era finita - ha raccontato a Cyclingweekly - e avrei iniziato ad accusare la stanchezza. Questa volta ho fatto la mia gara, mi sono detta: “Se la riprendo, la riprendo. Altrimenti va bene così”». È importante il fatto che Richards abbia ripreso Ferrand Prevot e abbia vinto la maglia iridata, ma ancora più importante è il racconto di questa debolezza su cui spesso si è confrontata con la sua psicologa. Il coraggio di parlare delle proprie paure e delle proprie delusioni.
Una è abbastanza recente: l’Olimpiade di Tokyo. Quando Richards ha saputo che sarebbe stata rimandata al 2021, è stata delusa, ma anche fiduciosa perché c’era più tempo per lavorare. In quei giorni di attesa, però, si è sfinita, facendo di tutto, dai lavori in casa, appena comprata, a un allenamento molto rigido, al punto di non riuscire quasi più a scendere le scale. Qualcuno, vedendola, glielo ha chiesto: “Ma cosa ti stai facendo? Perché?”. Aveva bisogno dell’umidità e del fango per ritrovare se stessa.
Forse anche per questo, all’Olimpiade è arrivata stanca, distrutta mentalmente prima che fisicamente, e quando gareggi in queste condizioni in mountain bike, dice Evie Richards, sai che cadrai. Così è successo e ha concluso in settima posizione.
Poteva essere un sogno rovinato perché aveva sempre desiderato di andare alle Olimpiadi, fin da ragazza. Poteva ma non è stato così. Quando Richards è arrivata al ciclismo non aveva quasi mai visto una gara, non sapeva come fosse fatta una bici, dove mettere le mani in caso di foratura o di incidente meccanico, eppure, a soli venticinque anni, è diventata campionessa del mondo. Non si butta via tutto per una sconfitta perché, col tempo, Richards ha capito che la sconfitta non tocca il valore di una donna o di un’atleta. Accade e passa, come le vittorie, in fondo.
Sua madre le invia un messaggio prima di ogni gara. Non sappiamo cosa le avesse detto prima dell’Olimpiade, forse qualcosa che ha a che vedere con il cogliere ogni occasione per imparare ed essere felici anche se impari da sconfitto. Sì, perché ancora oggi Richards è orgogliosa del risultato di Tom Pidcock, suo connazionale, ed è certa che se ha vinto il mondiale è anche perché ha visto lui gareggiare e ha avuto la pazienza di guardare e imparare, nonostante si sentisse triste e scoraggiata. Anche prima del Mondiale sua madre le ha mandato un messaggio “Il cielo sopra di me, la terra sotto di me, il fuoco dentro di me” e ci viene da pensare che avesse visto bene dentro Evie perché, nonostante le sconfitte e le delusioni, quel fuoco non era ancora spento e aveva solo bisogno di nuova legna da ardere.


Van Aert e il primo amore

Può sembrare scontato parlare di maschere di fango in una gara di ciclocross ma non si può fare altrimenti. Almeno oggi, almeno per il Superprestige di Boom dove Wout van Aert è tornato ad assaggiare il fango. Talmente tanto da sembrare quasi sabbie mobili che assorbono le ruote, che ti trascinano a fondo, perché non si limitano a farti cadere, a immergerti nella terra, ma ti assorbono, quasi a lasciare un’impronta, uno stampo da cui è difficile uscire. Prede nella tela del ragno, sono così oggi gli atleti.

Van Aert aveva parlato a “L’Èquipe” in questi giorni. Aveva detto che gli faceva piacere tornare e sperava facesse freddo e ci fosse il classico fango belga. Che a una gara di ciclocross è come l’odore di umido e il profumo di patatine fritte che evapora. Essenza dell’inverno e delle nebbie.

Un assolo quello di van Aert, proprio dopo la scivolata di Toon Aerts, prima della sua scivolata e della rincorsa con la bici in mano, alzata da terra per sfuggire all’attrito, al risucchio. Solo stamani i quotidiani ricordavano i tempi in cui i giovani van Aert e van der Poel duellavano nel cross, quasi con una lieve nostalgia. Che è voglia di ritorno, infatti van Aert torna e tutti se ne accorgono.

Ha raccontato che quando ha scelto di dedicarsi alla strada molti suoi tifosi del cross non l’hanno presa bene, quasi un abbandono. Ma lui non voleva questo: «Avevo già vinto diversi titoli, uno in più non cambiava nulla se non avessi provato la strada». E sulla strada ha messo la stessa grinta che serve per uscire indenni da quei sentieri melmosi. Riguardate la Sanremo del 2020 o il Ventoux al Tour 2021, fra le altre cose e sentirete ciò di cui parliamo. Quella scossa che ha che fare con il modo in cui si batte e, spesso, vince. Qualcosa di primordiale.

Oggi ha fatto lo stesso, davanti a Toon Aerts e Van der Haar, Iserbyt quarto, Pidcock settimo. E non è finita qui perché dicembre è una vigilia continua, non solo di feste. «Se dovesse arrivare il giorno- ha aggiunto- in cui mi mettessero nella condizione di scegliere tra cross e strada, sceglierò. Ma sarà un colpo al cuore perché il ciclocross è il primo amore e credo sia compatibile con l’attività su strada. Fino ad allora in inverno tornerò nel fango». Basta nostalgia. Si vive il presente.


La prima volta della BORA-hansgrohe alla Cape EPic

Quando, qualche settimana fa, Lennard Kämna e Ben Zwiehoff, atleti del team Bora-Hansgrohe, sono partiti per il Sud Africa, per la diciassettesima edizione della Cape Epic non l’hanno detto quasi a nessuno. A frenarli, forse, lo spirito competitivo, sviluppato nel loro percorso nel ciclismo professionistico su strada. Non si erano preparati per questa gara e qui pensare di competere ad alti livelli senza un’adeguata forma fisica è praticamente impossibile visti i 700 chilometri e i più di 16.000 metri di dislivello suddivisi in sette tappe, nell'arcigno Western Cape del Sud Africa. Due partecipanti per ogni squadra e l’obbligo per ciascuno dei due di completare la corsa.

«Chi vuole vincere - spiega Ben Zwiehoff - si prepara tutto l’anno per questa gara, è totalizzante, non puoi affidarti all’improvvisazione. Ho corso in mountain bike, so cosa significa. Sono venuto qui per provare e anche per ritrovare una mia vecchia passione». Il punto, probabilmente, è proprio trovare la capacità per raccontare questo divertimento spensierato da parte di chi abbina da sempre ciclismo e risultati. «È una sensazione strana - prosegue Kämna - perché noi viviamo la competizione e quindi la scorgiamo ovunque. Riuscivamo a vedere la competizione fra gli altri ma allo stesso tempo eravamo sereni, pensavamo solo a goderci il momento. È strano».

Nel mezzo catene montuose gigantesche, dirupi vertiginosi, foreste selvagge, vigneti intatti, coste da togliere il fiato e città sconosciute ai turisti. Ma anche, e soprattutto, per gli atleti la polvere riarsa dal sole delle strade, le rocce delle salite e le insidie delle discese, per non parlare degli attraversamenti dei corsi d’acqua.
Dopo il primo giorno, Kämna è stanchissimo, vorrebbe arrivare alla fine ma, per come si sente, non riesce nemmeno a immaginare altri giorni così. «Mi faceva male ovunque, non ero abituato a tutti questi su e giù. Il segreto è avere la pazienza di aspettare il giorno successivo e provare a ripartire». Al mattino va meglio, riparte e proprio perché non ha nulla da perdere si gode il momento, il paesaggio. Nonostante il mal tempo e quella polvere che diventa maschera, che ricopre il viso e, seccandosi, quasi pietrifica la pelle.

A vincere, per la cronaca, sono Jordan Sarrou e Matthew Beers, concludere la corsa, però, non ha a che vedere con il numero del tempo o del piazzamento, bensì con la possibilità di mostrare qualcosa di nuovo nel suo genere. Che cos’è il ciclismo? Kämna e Zwiehoff rispondono. «Di certo il ciclismo non è solo il ciclismo su strada. Ci sono molte forme di ciclismo e altrettanti modi di viverlo. È sempre ciclismo, ma declinato in una maniera diversa».

Per Kämna, in fondo, è qualcosa che ha a che vedere con l’apertura mentale, senza il bisogno di incasellare sempre tutto in specifiche categorie che finiscono poi per limitare. Divertirsi può bastare. Per Zwiehoff è qualcosa che riguarda il volto dolce e gentile dell’Africa, la sua accoglienza e le sue possibilità. Per entrambi è solo e semplicemente ciclismo.


Il record del mondo di Christoph Strasser

Cosa può significare stare ventiquattro ore in sella a una bicicletta? Cosa senti dopo dieci o venti ore a pedalare? Fin dove arriva l'acido lattico e quanto tira ogni singola fibra dei muscoli? Qual è la linea di confine tra il piacere, il dolore e la resistenza? Christoph Strasser, trentotto anni, tra il 16 e il 17 luglio, presso la base aerea di Hinterstoisser a Zeltweg, in Austria, è stato raggomitolato su una bicicletta per ben ventiquattro ore, sotto una pioggia battente, ed ha percorso 1026,2 chilometri alla media di 42,75 km/h, stabilendo il nuovo record mondiale. Strasser è stato il primo ad andare oltre i 1.000 chilometri in questa prova. E non si fa per dire, perché, a conti fatti, Strasser ha davvero pedalato 24 ore, solo due minuti di inattività, quelli del cambio gomme.
Strasser non è nuovo a prove di questo tipo. Dopo aver corso la Race Across America, nel 2011, aveva provato a stabilire il nuovo record del mondo di distanza nelle 24 ore a Berlino in Germania e ce l'aveva fatta, ma non era del tutto soddisfatto perché non aveva raggiunto il suo obiettivo, all'epoca 900 chilometri. Era tornato a provarlo in pista, in Svizzera, per avere le condizioni ottimali, e c'era riuscito, per la seconda volta: 941 chilometri, sempre, però, lontano dai mille. Ma c'era il suo allenatore a dire che era possibile andare oltre ai mille chilometri e che lui era l'uomo giusto per farlo.
Quel giorno di luglio era tranquillo, perché il suo tentativo ufficiale sarebbe stato mesi dopo, in Colorado, in fin dei conti quella era solo una prova per verificare a che punto fosse la sua preparazione. Le prime ore sono sempre le più difficili perché la posizione aerodinamica che sei obbligato a tenere per aumentare la velocità crea dolore ovunque; Christoph lo sa, dopo le prime due ore andrà meglio, bisogna proseguire e tentare di non pensarci: «Quante volte può capitare qualcosa del genere nella vita di un atleta? Quando pensi di mollare devi ricordarti che potrebbe non succedere più, perché certe possibilità non ritornano».
Anche il circuito sembra fatto apposta per portare fuori velocità: pianeggiante, 7,58 chilometri a tornata, curve veloci. La parte più difficile è forse quella più affascinante: “pedalare attraverso la notte” come dice lui. Non c'è particolare segnaletica e talvolta, nelle curve, le ruote vanno a toccare la parte di brecciolino a bordo strada. E Strasser si mangia le mani: «Perderai trenta secondi per volta ma è molto fastidioso». Quanti metri potevano starci in quei secondi?
La pioggia che cade è come il tempo. Quando le gocce si fanno più dense, più fitte, pensi di non farcela, poi l'acqua rallenta e tu riprendi a sperare. Solo alla fine è diverso, perché come il traguardo si avvicina quasi non senti più la pioggia e quel tuo body inzuppato che ti rallenta, che pesa come non mai. Non puoi mangiare, così tutto l'apporto energetico lo trai da ciò che bevi. E continui, senza pensare, spingendo solo sui pedali.
«Quando ho passato le ventitré ore ero sfinito, ma come ho oltrepassato i mille chilometri tutto ha lasciato spazio alla felicità». Il luogo è particolare perché a pochi chilometri da lì c'è il posto in cui Strasser ha provato il primo record sulle ventiquattro ore, soli, si fa per dire, 400 chilometri, l'inizio di tutto. Un cerchio che si chiude o che si apre e fa spazio a tutto ciò che può ancora accadere. Ad attenderlo ci sono circa trecento persone che restano lì nonostante la pioggia in una pazza giornata d'estate. Lui arriva, scende di bici, guarda verso il cielo, quasi a sciacquarsi il viso dal sudore con quell'acqua. Sorride e scherza: «Dopo questa giornata, penso che abbandonerò il ciclismo». Strasser ce l'ha fatta, il suo allenatore, tanti anni fa, aveva ragione.


Julian Alaphilippe, il gusto del ciclismo

Quando pedala, Julian Alaphilippe cerca il piacere. L’ha sempre cercato e, nel tempo, ha capito dove trovarlo. Ben oltre il programma di allenamenti e gare, rigido e dettagliato, predisposto dalla squadra, che si ripete di giorno in giorno, di anno in anno: «Faccio le stesse cose ogni giorno e questo, alla fine, non ti procura piacere. Il piacere - ha raccontato a Vélo Magazine - lo ricerco nelle cose semplici: una pedalata da solo, un bel ricordo, un traguardo da raggiungere».
È stata una scoperta per il due volte Campione del Mondo perché Julian non è sempre stato così. All’inizio pensava solo a migliorarsi, a nuove vittorie sempre più importanti. Quell’indole gli ha permesso di essere il corridore che è oggi, ma adesso basta. Continua a mettere il medesimo impegno, ma si scrolla dalle spalle la pressione dell’essere sempre il migliore e così, sollevato, ammette: «Alla fine, è vero, la salute è l’unica cosa che conta, il resto passa in secondo piano».
Sì, perché quell’indole rischia di far commettere errori, di metterti fretta, costringendoti a forzare i tempi per rientrare da un infortunio, di farti male. Da questo, si è salvato perché ottimista di natura e perché il ciclismo gli ha insegnato la pazienza: «I momenti brutti sono molti di più di quelli belli. Ma basta un momento bello per fartene sopportare molti brutti. Per giorni come quello di Lovanio, al Campionato del Mondo, si può sopportare molto».
Ha avuto timore di lasciare quella maglia, una sorta di malinconia, di nostalgia anticipata e se ci ripensa rivede gli errori che ha fatto con quella maglia addosso. Per esempio, nello sprint perso con van Aert al Giro di Gran Bretagna, per la fretta di vincere con la maglia iridata sulle spalle. Da quei momenti si impara e la lezione è l’unica cosa che deve restare perché, vada come vada, l’atleta ha il dovere di ripartire da zero, eliminando le giustificazioni ma anche la tentazione di assaporare i successi, sedendosi sugli allori. Da un lato la caduta al Fiandre 2020, dall’altro le vittorie al Tour de France o alla Freccia Vallone.
Non vuole confronti fra le stagioni passate, perché non hanno senso e perché ogni anno è diverso. La costante è il coraggio di fare scelte anche difficili: «Non è stato facile non partecipare ai Giochi Olimpici dopo il Tour, ma non sarei stato in forma per il Mondiale se fossi andato in Giappone. Devi porti un traguardo e mentalizzarti su quello».
La nascita di Nino, suo figlio, gli ha cambiato la vita «come cambia la vita a chiunque la nascita di un bambino», la perdita del padre è un forte dolore da sciogliere nel tempo. Il francese tiene ai ricordi e dice che un buon ricordo vale quasi quanto una vittoria. Per il 2022, Alaphilippe punterà alle gare delle Ardenne e lo farà con la lucidità di chi sa ciò che può fare, sacrificherà il Fiandre per la Liegi: essere in forma per entrambe è molto difficile. Con quella maglia proverà semplicemente a vivere ciò che gli accade, ad assaporarlo, con ancor più voglia di vincere e meno paura di perdere.


L'empatia di un direttore sportivo: intervista a Enrico Gasparotto

«Come atleti si è abituati a considerare la propria prova ed il proprio interesse, un direttore sportivo ha un quadro più ampio da considerare. Essere bilanciati è fondamentale; la prima prova per me sarà proprio l’acquisizione di questa capacità». Non è passato molto tempo dal suo annuncio fra i direttori sportivi della Bora-Hansgrohe per la prossima stagione ed Enrico Gasparotto riflette ogni giorno su quello che sarà il suo compito. L’esperienza fra le squadre Continental è importante ma nel World Tour cambia quasi tutto. «Se dovessi riuscire a instaurare il clima di armonia a cui punto fra tutto lo staff, i corridori e me stesso, umanamente sarei già contento. Quando ti ritrovi a prendere decisioni, ad essere l’unico responsabile di venti persone durante le trasferte, non puoi fare tutti felici ma questo è il prezzo del decidere. Devi, però, fare in modo che ciò non influisca sull’armonia e la serenità del gruppo». In quest’ottica il ragionamento va a toccare un meccanismo che in realtà riguarda anche la vita di tutti i giorni.

«Tutti vogliamo vincere, essere i migliori e ottenere risultati, il punto è che siamo inseriti in un’organizzazione e ciò comporta anche delle rinunce personali a favore del gruppo. Il cammino di un ragazzo, giovane e meno giovane, verso il successo deve passare da qui. Bisogna sapere che la rinuncia personale a favore del gruppo è fondamentale talvolta. L’egoismo non fa bene». Gasparotto sorride e ripensa al corridore che è stato, alle scelte che ha fatto e alla sua indole. «Io questi errori li ho fatti. Ero un testardo, spesso concentrato sui miei risultati e basta. Ho sbagliato diverse volte e, forse, anche per questo sono la persona giusta per parlare di questo ai ragazzi. Con alcuni mi scontrerò di sicuro perché capire queste cose, da giovani, in un ambiente di alto livello e dalle forti ambizioni personali è difficile».

Enrico Gasparotto è consapevole dei propri errori ma è altrettanto consapevole che ha avuto la fortuna e il tempo per comprenderli e magari porvi rimedio. «Col ciclismo di oggi quel tempo non c’è più, vorrei lo capissero questo i ragazzi. La velocità del mondo di oggi è tale per cui è sempre più difficile porre rimedio agli errori. Certe cose vanno capite subito, altrimenti è tardi». Se ha accettato l’incarico in Bora è stato anche perché si è parlato del tempo: «Sono sempre meno gli ambienti in cui si comprende che dopo i cambiamenti serve tempo per fare in modo che tutto funzioni. Bisogna lavorare sodo, ma anche concedersi il tempo che serve».

Giro d'Italia 2019 - 102nd Edition - 14th stage Saint Vincent - Courmayeur 131 km - 25/05/2019 - Marco Marcato (ITA - UAE - Team Emirates) - photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2019

La parola chiave è fiducia, qualcosa per cui si lavora già da adesso. Gasparotto sta andando a casa dei vari ragazzi che non conosce o che conosce poco, per parlare e, soprattutto, per ascoltare. «Credo che nella vita riesca bene chi ha la capacità di ascoltare tutti. È difficile perché basta poco, una giornata storta, per dimenticarsi di ascoltare gli altri. Se non ascolti, non conosci e se non conosci non puoi capire». Già perché a casa dei ragazzi non si parla solo di ciclismo: qualunque esperienza personale, qualunque problema degli anni trascorsi può influire su ciò che sarà e Gasparotto ha necessità di capire tutto questo.

«Si tende a ridurre tutto a numeri e i numeri sono importanti, però un direttore sportivo ha necessità di conoscere gli uomini che ha di fronte. Di essere loro amico, nel rispetto dei ruoli. In questo senso basta guardare Davide Bramati: i successi che ottiene sono spesso frutto dell’empatia che instaura. Abbiamo suddiviso la squadra in vari gruppi con cui ciascun direttore sportivo lavorerà, in modo da intensificare questa conoscenza, questo rapporto». Lo stress e la tensione saranno l’altra chiave di volta, saperli affrontare la possibile soluzione del problema. «Essere un corridore che ha smesso da poco può essere un vantaggio o uno svantaggio. Anche qui dovrò essere bravo a pesare le cose: se non riuscirò a togliermi la veste da corridore per indossare quella da direttore sportivo, sarà un problema. Se la veste da direttore sportivo mi farà scordare ciò che si prova da corridori sarà un problema altrettanto grosso».

Appena ha saputo del proprio incarico ha parlato con Bramati e con Franco Cattai, colui che l’ha messo in bici e che in dialetto veneto gli ha insegnato ciò che oggi sa. In Bora sarà a stretto contatto con Rolf Aldag, professionista che stima e con cui si confronta abitualmente, però il fatto di trovarsi in un ambiente nuovo, in cui molti non lo conoscono è uno stimolo in più: «Dove nessuno ti conosce, sai che sarai valutato per ciò che farai e non per ciò che hai fatto. È difficile perché riparti da capo e hai tutto da dimostrare. Da atleta ho cambiato molte squadre e mi è successo spesso. La crescita passa da lì, non puoi migliorare se non sei disposto a lasciare da parte un poco di tranquillità e di comfort».


L'impegno per l'ambiente di Michael "Rusty" Woods

Michael Woods da ragazzo correva a piedi, non è nato sportivamente nel ciclismo e forse proprio questo gli ha sempre reso evidenti problemi che a occhi abituati all'ambiente possono sfuggire. Il canadese dell'Israel Start-Up Nation si chiede da tempo se davvero non si possa far nulla per ridurre l'inquinamento che il ciclismo professionistico genera. «Sono sempre stato disilluso su questo tema, sono sincero. Ogni anno riceviamo tanti prodotti dagli sponsor, tutti imballati nella plastica: bisogna cambiare» ha detto a Procycling. Woods ha deciso che si presenterà sul bus della sua squadra con una scodella e una forchetta e i suoi pranzi li farà così. Qualche giovane lo stimerà, altri lo prenderanno in giro, a lui non interessa. Chi vuole cambiare deve avere il coraggio di disinteressarsi di queste cose. La squadra gli ha assicurato che anche i veicoli cambieranno: due saranno elettrici, i restanti ibridi plug-in.
L'idea è quella di ridurre l'impatto che ogni uomo ha sull'ambiente. Woods è un ciclista e può cercare di cambiare il ciclismo, ad altri, ognuno nella propria professione, il tentativo di portare avanti questa idea. Nessuno può cambiare da solo la situazione globale, ognuno, però, può cambiare la propria e non è poco. Secondo il suo calcolo, nel 2019, la sua impronta a livello di carbonio è stata di 60 tonnellate di CO2 , circa tre volte quella di una persona media ad Andorra. «Quando sei completamente concentrato sulla tua attività è difficile rendersene conto, lo capisco bene. Da quando sono diventato padre, però, la mia consapevolezza dell'ambiente è cresciuta. Tutti dovremmo rifletterci perché ridurre il proprio impatto ambientale dovrebbe rientrare nella normalità delle cose, non rappresentare un gesto straordinario».
Con il ciclismo Woods ha ragionato in maniera diversa, rispetto a quanto aveva fatto da ragazzo con la corsa. Da ragazzino si era dedicato anima e corpo al mezzofondo, per migliorare e tentare di entrare nell’Olimpo dei più forti, una ‘ossessione’ che aveva finito per logorarlo fisicamente, procurandogli due fratture da sovraccarico al piede sinistro, che lo avevano costretto a cambiare sport. Col ciclismo ha sempre ragionato diversamente. A trentacinque anni, dopo otto anni di professionismo, si è domandato se nella sua carriera avrebbe potuto ottenere di più; forse sì o forse sarebbe scoppiato e, come con la corsa, avrebbe dovuto abbandonare il ciclismo. «Non siamo tutti Michael Jordan. Lui era il migliore, un fenomeno. Pensava solo al basket, viveva per il basket. C'è chi è capace di vivere così e chi ha bisogno di un altro approccio. Non c'è nulla di male» ha raccontato, più di una volta. Ci saranno un paio di gare in meno nel suo palmarès ma è felice e questo gli basta. Con quella serenità, vorrebbe stare in gruppo almeno altri tre anni. Nel frattempo, la sua famiglia continuerà a viaggiare con lui, a imparare le lingue, a vedere il mondo e quindi a conoscerlo.
In fondo, è sempre questione di conoscenza per la propria carriera come per l'ambiente. Michael Woods stesso non sapeva molte cose, era convinto di avere uno stile di vita buono, si sentiva tranquillo con la sua coscienza. Poi ha capito che si poteva migliorare e che, in fondo, non serviva neanche molto: mangiare meno carne, fare attenzione ai rifiuti, comprare prodotti locali e magari andare ad acquistarli in bicicletta. Perché, tra le tante cose, questa è da conoscere assolutamente: il mondo si cambia solo passo dopo passo.