Siena declina l'attesa della Strade Bianche

Se non avessimo già saputo che questi, a Siena, sono giorni particolari, lo avremmo capito quando, scendendo da un treno giunto in stazione con diversi minuti di ritardo, un ragazzo, mentre fissavamo la sua bici con tanto di bagagli fissati alla bell'e meglio, ha detto a qualcuno lì vicino: «Manca sempre meno». Certo non ha parlato di Strade Bianche ma a cos'altro poteva riferirsi?
Il fatto è che Siena è una città in attesa e se ne accorgerebbe chiunque. C'è qualcosa di strano nell'aria: quel guardarsi in giro con aria di cercare un ciclista , un'ammiraglia o un bus. Nei bar del centro un signore ci dice che è un'attesa particolare perché si rinnova ogni anno. Non a caso la parola che usa è appuntamento: «Credo sia parte di ciò per cui gli altri ci conoscono. Una sorta di parola chiave per capire di che città stai parlando. Di Siena si possono dire tante cose, però, quando qualcuno sa che vieni da Siena di solito ti chiede: "E il Palio?". Dopo poco tempo, segue: "E la Strade Bianche?"». Ci dice che succede perché ogni anno, più o meno nella stessa data, le persone sanno cosa accadrà qui intorno.

L'attesa dicevamo. Quella per cui ci si volta attenti al passaggio di ogni bicicletta. In certi casi capisci lontano un miglio che non si tratta di ciclisti professionisti, ma meglio controllare, non si sa mai. Perché, poi, anche i ciclisti in queste vie del centro si comportano come un pedalatore qualunque. A tratti devono zigzagare tra la gente e allora senti “op-op-op-op" che è poi un modo internazionale di segnalare il proprio arrivo. Potrebbero dire qualcosa nella propria lingua, sarebbe intuitivo il significato, invece dicono così e qualcosa significherà. Succede spesso, succederà anche domani.

Ma non solo per questo i ciclisti sono come tutti gli altri. Un fruttivendolo racconta di quando tempo fa, qualcuno si fermò da lui a prendere qualche mela. Capiamo che non è appassionato di ciclismo, non ricorda il nome e nemmeno la squadra, ma ricorda benissimo di quelle mele «lasciate ai ciclisti della Strade Bianche». Come se queste persone avessero bisogno di sentirsi utili per i ciclisti che attraversano le loro città.

Aspettare ripetevamo. Come tutti coloro che si affacciano dai vari accessi di Piazza del Campo, danno un occhio e, se non scorgono nessuno, proseguono sulle strade a lato. Pensate il ciclismo cosa combina: si può anche aspettare a passare in Piazza del Campo per cercare qualcosa che ha a che vedere con la bicicletta. Anche se è presto, anche se non si può ancora vedere molto. Arrivano appassionati, lasciano la bicicletta appoggiata al muro, magari già sporca di terra e si siedono a bere una birra. Qualcuno parla in una lingua che non conosciamo ma ci suona familiare: qualche domanda e scopriamo che è fiammingo.

Ci sono sempre tutte le finestre che si affacciano e quei vetri da cui, ogni tanto, qualcuno guarda fuori e indugia, per esempio per quel signore con una bici d'epoca e un sigaro in bocca che intravediamo qualche secondo e poi scompare.

Per chi è in Piazza del Campo aspettare è aspettare un suono, un rumore, l'insieme delle voci «che quando c'è tanta gente non senti nemmeno la tua voce, puoi sgolarti come ad un concerto». Ci dicono così. L'attesa è diversa, ma neanche tanto, sugli sterrati, dove è un aereo nel cielo a far presagire l'arrivo del gruppo. Presagire sì, perché con quella terra che si alza avresti dei dubbi. Qualcuno ci dice che si aspetta "la nuvola" che altro non è se non l'insieme dei ciclisti.

L'appartenenza la senti quando ti dicono che sono andati a vedere qualche sterrato per intuirne le condizioni o quando li senti al bar parlare del tempo di sabato, quasi fossero loro a dover correre. Invece stanno solo aspettando. «Cos'è l'attesa?» chiediamo a una ragazza in tenuta da ciclista.
«Quella cosa per cui non vedi l'ora che arrivi la gara, ma, poi, ripensandoci speri serva ancora molto tempo perché, se arriva, finisce tutto». Questa è la voce del verbo aspettare in un giovedì pomeriggio, a Siena.


Le strane volate del Nord

Quando si parla di "inventare", di solito, nel ciclismo, ci si riferisce alle fughe o alle vittorie nelle tappe di montagna. La volata, lo sprint, almeno idealmente, è qualcosa che ha più a che fare con la programmazione che con l'invenzione. Marta Bastianelli ed Emma Norsgaard, però, a tale proposito, potrebbero ben precisare qualcosa dopo le vittorie rispettivamente alla Omloop van het Hageland, domenica, e a Le Samyn Dames nel pomeriggio di oggi.

Le loro non sono state volate classiche, forse non avrebbero nemmeno potuto esserlo sulle strade del nord. Lì la programmazione lascia spazio all'istinto, al fiuto, che ben si accorda col vento che spesso spazza quelle strade. Bastianelli aveva pensato di controllare la gara attraverso la sua squadra, lo aveva anche dichiarato alla partenza. Poi il suo dorsale, il 91, è comparso nel folto gruppo delle attaccanti di giornata e qualcuno è rimasto sorpreso. Ha sicuramente fatto molto l'esperienza, la percezione che quella fosse la fuga buona, che controllare sarebbe stato più rischioso che provare a entrarci. Che, se vuoi la volata, da quelle parti devi guadagnartela. La volata a ranghi ristretti, se arriva ed è già successo nelle due gare prese in considerazione, è una costruzione ad istinto dove la squadra fa indubbiamente molto, ma il momento giusto devi capirlo tu e non temere di disfare ogni tattica.

Guardate la Movistar di Emma Norsgaard oggi a Le Samyn. Ha controllato la gara quasi tutto il giorno, almeno fino a che è diventata incontrollabile. In gergo si dice "essere sparsi uno per cantone"; bene le atlete a quel punto erano davvero sparse una per cantone ed in quei momenti l'energia diventa miraggio. Grace Brown, ad esempio, che ripresa da Alice Barnes proprio mentre sembrava al culmine delle energie non ha più potuto resistere e ha perso contatto inesorabilmente.

Quando le energie si fanno miraggio, rischi l'errore. Norsgaard non aveva più compagne di squadra a pilotarla nel finale, mentre Van Anrooij e Guazzini passavano il drappo rosso dell'ultimo chilometro in testa.
E qui una parentesi è doverosa: vedere Vittoria Guazzini lì davanti fa molto piacere, soprattutto dopo l'infortunio dello scorso autunno alla Roubaix. Anche lei lucida, anche lei non cede alla danza dei miraggi. Dopo uno sforza notevole con l'attacco del finale, come il gruppo sta per rientrare cerca di partire, di lanciare la propria volata. Che è anche per lei uno sprint inventato, strano, anomalo.

Vince Norsgaard che ha controllato da sola il gruppetto delle inseguitrici, ha battezzato la ruota di Copponi, ha aspettato ed è partita. Di quella danza dei miraggi e delle energie è vittima proprio Copponi, che, partendo, in sostanza, le tira la volata, ma anche questo è nel conto, anche questo fa parte di quell’insieme di caratteristiche e di fiuto che fanno una velocista. Essere nel posto giusto, al momento giusto anche se già potresti pensare di aver perso. Chiara Consonni ci è andata vicino, ma nulla da fare.
Bastianelli e Norsgaard, modalità diverse, stesso risultato. Facendo buon viso a cattivo gioco, tenendo a bada, forse, anche l'indole delle ruote veloci, un'indole nervosa, che scalcia, e usandola nel migliore dei modi. Perché, al nord, la velocità è soprattutto imprevedibilità.


Anima e farfalla

Si rischia di essere ripetitivi quando si parla di Annemiek van Vleuten, sarà perché anche lei è ripetitiva, nel suo continuare a sorprendere, nel suo sublimare uno stato di grazia che non conosce età. Per chi scrive è semplice scrivere di van Vleuten, perché improvvisa sulla parte, quella della campionessa. Incredibile nel suo aggiungere sempre qualcosa che neppure il miglior sceneggiatore potrebbe prevedere, ma che nessun regista può mettere in discussione perché spiazza e attrae.

Non era difficile prevedere un'olandese a braccia levate sul traguardo di Ninove. Non serviva chissà che immaginazione per pensare a van Vleuten. Ci raccontano di bar delle Fiandre con lavagne in ardesia e gesso per provare a prevedere chi vince sui muri e chissà quanti hanno scritto Annemiek van Vleuten. Nemmeno era difficile pensare che avrebbe vinto dominando, ma il suo dominio è una costante che non spegne la fantasia, è la declinazione di un verbo greco che fatica a restare in mente. Di quelle parole che in greco antico vogliono dire anima e farfalla, tutto e il contrario di tutto.

Quando van Vleuten parte, al Bosberg, ha tutta l'aria di chi si è stufata delle scaramucce delle colleghe e se ne va quasi con un "adesso vi faccio vedere io come si fa". Solo Demi Vollering riesce a tenerle la ruota ed è talmente incollata a quella ruota che, se solo l'inquadratura si schiaccia, quasi scompare dietro la sagoma di van Vleuten.
Significa sfidare il tuo essere atleta stare dietro a van Vleuten, farsi bruciare dall'acido lattico. Anche perché van Vleuten non molla di un centimetro. Sono in due ma lei prosegue come fosse sola, tira, tira, tira. Qualunque materiale sottoposto a tanto sforzo esploderebbe, si lacererebbe, fosse un elastico o una fionda. Non i suoi muscoli.

Undici chilometri in testa per van Vleuten, undici chilometri a ruota per Demi Vollering. Non le chiede cambi sino all'ultimo, anche perché la faccia parla per lei, Vollering non ha la sua stessa brillantezza, non può dare cambi. Deve restare lì e tentare di superarla in volata perché è più veloce e perché, in teoria, dopo quello sforzo chiunque perderebbe. Chiunque tranne lei.
La declinazione diversa, la variante, l'anima e la farfalla assieme, sono in van Vleuten. Che all'ultimo chilometro ha la lucidità di far passare davanti Vollering, una lucidità spietata, una mente sopraffina nonostante la fatica. Si fa sfilare, sta a ruota, e poi parte. Nonostante l'ultima curva, una volata lunga, difficile, contro chi, a bocce ferme, è più veloce. Quattrocento metri per tornare a superare Vollering, per tornare davanti e vincere. Bello, senza dubbi. Crudele, senza dubbi.

Finisce così. Van Vleuten che gioisce da una parte, Vollering disperata dall'altra, a tratti accartocciata sul manubrio, consolata da chi passa. E tutti gli altri lì, a guardare, dopo troppo tempo. Il ciclismo non era mai andato via, ieri, però, è tornato. Sembra impossibile, una contraddizione, un controsenso. Non lo è. Si può dire anima e dire farfalla allo stesso tempo. Ricordatevelo.


Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco...

Diciamoci la verità: Domenico Pozzovivo avrebbe anche potuto essere stanco. Sarebbe stato anche umano, troppo umano per dirla con Nietzsche. Non sono, invece, così umane quelle undici viti e quella placca che i medici usarono per sistemargli la gamba dopo l'incidente allo Stelvio, nel 2014, quando un gatto gli attraversò la strada in allenamento. Non sono umani tutti gli incidenti che ne hanno martoriato il corpo, spesso prima dei grandi appuntamenti, talvolta all'interno degli stessi. E nonostante tutto Pozzovivo è finito per ben sei volte fra i primi dieci del Giro d'Italia, per due volte quinto. Ha vinto a Lago Laceno, quella montagna sfuggita al Pirata nel 1998.

Quando Qhubeka ha annunciato la chiusura, Domenico Pozzovivo, senza, avrebbe potuto essere stanco, a trentanove anni, di tutto ciò che era già successo. Dei momenti di paura che il ciclismo gli ha lasciato addosso: al Giro d'Italia 2015, con quel volto sbattuto a terra, quegli attimi di terrore. Solo tre anni fa quando sembrava che un'auto in allenamento avesse messo fine a tutto. Persino lo scorso anno, quando ad Ascoli, al Giro d'Italia, si è dovuto fermare perché quelle ossa, quei muscoli, ne avevano già viste troppe e una caduta lo aveva ancora messo in ginocchio.

Avrebbe potuto e invece ha continuato ad allenarsi come se la squadra l'avesse e non era sicuro di trovarla. Sapeva solo che un ciclista vuole essere libero di concludere la carriera quando decide lui, uno sberleffo dritto in faccia alla sfortuna. Tempo fa, un tifoso ci disse che amava Pozzovivo perché "non sembra un ciclista". Abbiamo capito che parlava della sua semplicità, del suo essere sempre contento o del suo mostrarsi contento per poi risolvere da solo i problemi, anche quelli che sembrano troppo grossi. Come essere senza squadra a quasi quarant'anni.

Poi è arrivata l’Intermarché e Pozzovivo era pronto. A trentanove anni potrebbe ancora prendersi sulle spalle la squadra al Giro d'Italia. Non sono promesse vane, basta aver guardato la seconda tappa della Vuelta a Andalucia, quella vinta da Alessandro Covi davanti a Miguel Ángel López e Iván Ramiro Sosa, sul primo arrivo in salita. Domenico Pozzovivo "ha la gamba" come si dice in gergo. Ottavo, ottavo dopo l'inverno che ha trascorso, ottavo sul suo terreno. Aveva sempre detto di crederci, dopo quasi ogni incidente e anche dopo essere rimasto senza squadra. Ma dirlo è anche facile. Pozzovivo lo ha fatto e ieri è stato un antipasto, il cui significato si vede bene guardando indietro, per una volta. Quando Pozzovivo avrebbe potuto essere stanco, invece non lo era. Questo è il punto.


Le paure di un ciclista

Accadono molte cose all'inizio di una discesa. Mantelline, fogli di giornale e posizioni aerodinamiche sono visibili a tutti, poi c'è quel che non si vede. Cosa pensa un ciclista mentre inizia a scendere? In gruppo dicono che, in realtà, la discesa è qualcosa di irrazionale e per questo può incutere timore. Irrazionale perché normalmente è l'uomo ad avere il controllo del mezzo, della bicicletta, in quel caso invece quel controllo è fragile. Normalmente l'uomo accelera, spinge anche a fatica per far girare quelle ruote, quei pedali, in discesa bisogna frenare per rallentare una rincorsa automatica della bicicletta. Le discese possono fare paura e serve molto lavoro per risalire la china di quel blocco, di quando il corridore frena solo, non vuole più andare avanti, ha paura di lasciarsi andare.
Pierre Latour sta facendo questo lavoro perché dopo la caduta in discesa del 2019, in allenamento, quella che gli costò la frattura di entrambi gli arti superiori, le discese sono diventate un problema. Tra l'altro, nel suo caso, il problema fu causato da una buca del manto stradale e questo essere senza controllo lo terrorizza ancor più: «Come si fa a fidarsi nel mollare i freni quando non sai cosa c'è dietro la curva?». Anche perché, in discesa, non puoi frenare di colpo e in ogni caso la frenata ha un tempo prima di bloccare il mezzo. Quando parla di discese, Latour non è più lo stesso e noi possiamo solo immaginare cosa gli si smuova dentro mentre vede video di downhill che dovrebbero aiutarlo a migliorarsi. Alla fine ha capito che la sua paura è in parte lì, sulla strada che scende e in parte altrove. Perché le cadute in discesa sono rovinose, si rischia di perdere la stagione e lui, a fine stagione, quando non ha più nulla da perdere va meglio, si sente più libero.
In TotalEnergies stanno provando a invertire il meccanismo classico attraverso cui Latour ha affrontato le discese, ovvero quello di mettersi davanti al gruppo, per fare in modo di poter frenare senza staccarsi del tutto. Negli anni scorsi, Latour aveva anche i compagni a proteggerlo in discesa perché lo spaventava anche lo spostamento d'aria causato dal passaggio di un atleta che ti sorpassa a tutta. Perché nelle paure fa tanto il ricordo del male, del dolore fisico e psicologico, e quel ricordo esaspera tutto, anche se il corridore che ti sorpassa è distante: tu lo vedi vicino, attaccato, addosso. Perdi lucidità e, alla fine, realizzi ciò che temi: o ti fermi o cadi davvero.
E gli altri? Cosa fanno gli altri? Le persone che hai vicino, lo staff, anche i compagni, forse. Da lì iniziano ad arrivare i consigli, tutti in buona fede, assolutamente. Ma è anche questa la difficoltà di un corridore, quella che, nel caso di Latour si innesca all'inizio di una discesa: «Chi ascolto? Qual è il consiglio giusto?». Ci sono regole generali, poi c'è la soggettività, ciò che è giusto per te, per la tua singola paura, per il corridore che sei.
A Calpe, negli scorsi giorni, Latour ha ripetuto varie volte la stessa discesa, con i compagni a controllare che non passassero auto e l'allenatore a "dirigerlo". Poche persone a dargli consigli, perché è meglio così. Una tranquillità simulata che gli ha permesso di essere sereno conoscendo ciò che c'era dietro la curva, che gli ha permesso di trovare calma e serenità da affiancare al ricordo negativo e poi di passare oltre. Già, perché sarà questo il prossimo passo: evitare di anticipare il plotone in testa, stare lì in mezzo, correndo anche il rischio, sentendo anche la paura, evitando però di tirare i freni perché non è vero che un ciclista non può avere paura delle discese. È, però, vero che un ciclista non può permettersi di non affrontare discese e da quando prende coscienza della paura ha il dovere di lavorarci. Per arrivare a valle.
C'è anche questo in un ciclista in vetta a una montagna, c'è anche questo nella posizione di un ciclista mentre si butta in discesa. Ci si può chiedere quale paura o quale coraggio lo porti lì, perché in lui ci sono le paure di un corridore, di ogni corridore.


Dirsi la verità a qualunque costo: intervista a Giovanni Lonardi

Giovanni Lonardi si augura di ricordare per molto tempo la vittoria alla Clàssica Comunitat Valenciana a fine gennaio. Tra l'altro, in quella gara, Lonardi non avrebbe nemmeno dovuto esserci ed è stato convocato pochi giorni prima per sostituire un compagno. A inizio stagione le sue gambe hanno sempre girato bene, il punto è che quella sensazione di serenità che lascia la vittoria rischia di svanire presto se non ci si ripete e questo è un problema.
Non è stato un anno facile l'ultimo per Giovanni, per questo ha scelto di cambiare squadra e di passare dalla Bardiani alla Eolo-Kometa. Qualcosa si era rotto dopo la mancata convocazione al Giro d'Italia, uno dei traguardi più importanti per una Professional. Cambiare non gli piace, se sta bene, anzi, è abbastanza abitudinario ma, a venticinque anni, è certo che se le cose non vanno bisogna assumersi la responsabilità di cambiare. Sempre quei venticinque anni lo hanno portato a riflettere sulla sincerità nel proprio lavoro: «Non correre un Giro d'Italia fa male soprattutto quando sai che avresti avuto la forma per partire. Da corridore è difficile ammettere che non si è pronti e chiedere al direttore sportivo di scegliere un altro. Davanti a quell'occasione si diventa egoisti. Penso sia fondamentale trovare quel coraggio, anche se pesa, e far notare al direttore sportivo ciò che magari non ha notato, anche se significa rinunciare a una tappa importante della stagione».
Giovanni Lonardi ha cambiato, sarebbe potuta andare male, invece è ripartito col botto. Ammette che serve coraggio per scegliere perché non sai mai come andrà, ma non vuole porre l'accento su questo aspetto perché «nella vita normale è tutto più difficile. Io ho cambiato ma faccio comunque il ciclista, ci sono persone che lasciano il proprio lavoro e devono reinventarsi in ruoli di cui non conoscono nulla». Il suo ruolo, ad oggi, è quello di velocista, non puro però. Quella gamba veloce di cui è dotato fa la differenza soprattutto in percorsi mossi, quando lo sprint è in un gruppo ristretto. La vittoria che glielo ha fatto capire a Forlì, nel 2018, al Giro Under23. Di strada ne ha fatta molta da quel giorno, assegnando sempre maggior valore al lavoro, perché da ragazzo gli capitava di prendere alla leggera qualche allenamento. Poi si cresce e si matura.
Per questo, se guarda avanti, Lonardi si lascia più possibilità: «Magari resterò velocista, magari scoprirò che sarei più utile come ultimo uomo. Ma non è detto, potrebbe essere necessario migliorare in salita. Bisogna essere pronti a cambiare, essere agili in questo senso». Per intanto, continua a provare il treno che deve guidarlo in volata, sicuro del fatto che per quanto si provi, la vera prova è la gara perché ci sono situazioni non simulabili in allenamento.
Crede che la sicurezza stradale sia un punto su cui ognuno ha il dovere di lavorare, perché le cose non sono ancora cambiate. Del ciclismo gli piacciono molti aspetti, viaggiare ad esempio, ma, da quando è diventato un lavoro, qualcosa è cambiato: «Una vittoria ti lascia molto più di ciò che ti tolgono i sacrifici. Per mettere il bilancio in pari bisogna anche vincere. Capita il giorno in cui sei contento anche solo di allenarti e questo vuol dire molto, però, in una carriera, di giorni ce ne sono tanti e uscire in allenamento non è sempre così piacevole. Soprattutto se ti alleni e i risultati non arrivano».
È giovane e, in un modo o nell'altro, si sente vicino a quei ragazzi che alla sua età devono smettere e ricominciare da capo. Lui non ha mai pensato a cosa avrebbe fatto se non avesse fatto il ciclista, ma il suo realismo gli impone di pensare a cosa avrebbe fatto se non avesse trovato una squadra o se dovesse trovarsi in una situazione simile. «Siamo troppo giovani per avere già da parte qualcosa che ci permetta di aspettare a cercare un lavoro. Non sono per restare attaccato a tutti i costi al ciclismo: fino a quando ci sono le possibilità per farlo e farlo in un certo modo sono contento di essere ciclista. Se non fosse capitato avrei cercato un altro lavoro, senza troppi rimpianti. Dobbiamo avere il coraggio di dirci chiaramente quando non è il caso di insistere. Si tratta di onestà con se stessi».


Il coraggio e l'orgoglio: essere paraciclisti

La nazionale di paraciclismo sta cambiando ed è di questo cambiamento che vogliamo parlare. I paraciclisti conoscono bene ogni sfumatura del verbo cambiare perché, se sono lì, è proprio perché qualcosa, nelle loro vite, è cambiato.
Claudia Cretti, ad esempio, ci ha detto che all’inizio non avrebbe voluto far parte del paraciclismo, che, quando dei ragazzi l’hanno invitata a provare, non ha capito perché lo chiedessero proprio a lei, a lei che aveva subito un trauma cranico in un incidente. Anche Claudia è cambiata, per quello che è successo, per le scelte che ha fatto e per quello che ha accettato. Così oggi non ha dubbi quando dice: «Sono una paraciclista». Ha visto diversamente la disabilità, ha visto diversamente i limiti.
Il cambiamento della nazionale non è poi molto diverso. Rino De Candido, nuovo Commissario Tecnico, sostiene che questi atleti hanno una capacità rara di affrontare i problemi e arrivare a una soluzione. Per questo nel primo incontro ha detto: “Tutto quello che dovete fare è sapere chiedere. Se avete bisogno di qualcosa, se avete un problema, sono qui per quello”. Perché anche chi ha imparato a cavarsela da solo, nonostante tutto, ha bisogno di aiuto. Claudia Cretti ricorda che, l’anno scorso, si trovava spaesata di fronte a questi allenamenti da gestire da sola, senza alcuna indicazione: «Nel professionismo ero guidata in ogni dettaglio, mi sono chiesta perchè qui non accadesse. Le altre nazionali, Inghilterra, Canada, Usa, hanno sempre ragionato in termini diversi: i paraciclisti sono atleti e in quanti atleti vanno seguiti».
Nel primo ritiro, pochi giorni fa, si è lavorato in pista, sulla partenza da fermi, sull’agilità, anche sui dettagli minori, quei pochi millimetri della sella in più o in meno. De Candido ha parlato con ciascuno e ad ognuno ha fatto un discorso diverso basato su ciò che ciascuno è. Questo è il senso della fiducia di cui Cretti ci racconta: «Ha visto ciò che già funziona e ciò che è da cambiare. Mi ha detto chiaramente che tutto sta nella testa e nella decisione di fidarsi. Voglio fare ciò che dice De Candido». Ascoltare, guardare, accettare e mettere in pratica. A questo sono serviti i test sul ciclomulino a cui la nazionale di paraciclismo non era abituata.
La nuova nazionale sarà più squadra perché ci saranno dei ruoli, perché essere a tutta dall’inizio della stagione alla fine, oltre ad essere controproducente, non ha senso. I momenti di stacco, di scarico, sono importanti quanto i picchi. De Candido ha parlato di armonia perché in squadra non ci sono rivalità: ognuno deve mettere a disposizione il meglio che ha e il tuo meglio è importante come quello dell’altro. Anche se sembra piccola cosa, anche se fatichi a crederlo così importante.
Francesca Porcellato ha tutto nelle braccia, quelle braccia che sono passate dall’atletica, allo sci di fondo e poi alla bicicletta, ma quando ha incontrato la prima volta Claudia glielo ha detto: «Le tue gambe sono forti come le mie braccia». E già qui c’è tutto, a cominciare dalla volontà di guardare la parte sana e salva della realtà, l’unica che permette di guardare al futuro. Anche le diverse età della nazionale sono un punto di forza perché età significa esperienza. Michele Pittacolo ha avuto la stessa problematica di Claudia, ma avendo più anni sa cose che Cretti deve ancora scoprire, così gliele dice, gliele racconta.
Poi c’è la nuova linfa, quella senza cui non c’è futuro. La nazionale vorrebbe inserire altri giovani, più giovani, se possibile. Anche chi non ha mai vestito la maglia azzurra. Perché necessari per la nazionale, ma soprattutto per loro, per quanto può aiutarli. È questa l’idea di Claudia Cretti: «Come me ci saranno tanti altri ragazzi col desiderio di fare sport ad alti livelli che pensano di non potere, di non riuscire. Che magari non vogliono fare paraciclismo. Dare un segnale a questi ragazzi è importante perché si sta male quando si pensa di non avere una possibilità. Dare un segnale a questi ragazzi può cambiare ancora tanto».


Genitori e figli

A tutti sarà capitato di vedere il riso o la pasta che gli atleti mangiano al termine della gara, per recuperare. A noi, qualcuno fra i più giovani, nelle categorie minori, ha raccontato la dedizione con cui la madre sceglieva il contenitore per mettere quella pasta. Di quella cucina con l’acqua a bollire al mattino alle quattro, quando si sarebbe potuto preparare tutto anche la sera prima, ma “già è quasi scondita, almeno mangiala fresca”. E ancora, la difficoltà per chi non è abituato, di preparare qualcosa di adatto a pranzo o a cena, anche in settimana, lontano dalle gare. Delle madri e dei padri che provano, sbagliano, chiedono e riprovano.
Altri ci hanno parlato dei viaggi che i genitori fanno. Magari per andare in Puglia il sabato e tornare la domenica, partendo dalla Lombardia o dal Piemonte, per accompagnare i figli alla gara. Di quei genitori che in settimana tornano tardi dal lavoro, ma una domanda su com’è andato l’allenamento la fanno sempre e, se quel giorno “la gamba non girava”, cercano argomenti per spiegarti che devi continuare, che domani andrà meglio. Tanto che non immagini neppure i problemi che hanno sul lavoro, perché in quel preciso momento non contano più, contano i tuoi problemi. E il camper non si compra per andare in vacanza, si compra per accompagnare i figli alle corse, perché possano viaggiare più comodi, perché possano avere tutto a disposizione.
Potremmo raccontare di quei figli che, nel fuori stagione, hanno cercato qualche lavoro da fare per aiutare e aiutarsi. Perché iniziare a pedalare vuol dire scegliere di investire su stessi, ma, non nascondiamoci, soprattutto all’inizio vuol dire anche spendere molto per avere l’attrezzatura giusta, perché anche quello conta. Parliamo di biciclette, parliamo di tubolari. Parliamo di genitori che chiedono ai figli di non farsi remore, di chiedere ciò che serve, di comprare il meglio che serve, perché, anche ci fossero sacrifici da fare, si fanno volentieri. Sono figli che, spesso, crescono prima, perché lontani da casa devono fare tutto da soli. Perché l’età adulta in realtà non è un’età ma un modo di essere o di vedere le cose e se fai una certa strada quel modo lo acquisisci presto. Forse anche troppo presto, dice qualche genitore.
E ancora ci sono le bende e i cerotti da controllare a sera, da togliere delicatamente per non fare troppo male. Di quelle ferite si inizia a chiedere da bambini e non si finisce mai perché i genitori si ricordano quasi sempre dov’è quel taglio o quella botta. Ci sono le immagini in televisione che i genitori vorrebbero sempre vedere ma di cui hanno anche paura perché “se succede qualcosa, siamo distanti”.
A loro non interessa non poter far nulla, a loro interessa essere lì, da qualche parte. Accanto al medico che ti visita o al tavolo della colazione mentre quella pasta, così presto, fatica ad andare giù. Vicini. Genitori e figli.


L'avventura di Velzna Trail

Chi parteciperà a Velzna Trail, il 23 aprile, dovrà provare a sentirsi parte della natura, a guardarsi da fuori e a vedere quanto una bicicletta che scorre su una strada sterrata stia bene in quella natura. Marco, Simone e Nicola l’hanno pensata così. Velzna è l’antico nome etrusco di Orvieto e quest’esperienza ha molto a che vedere con Orvieto: «Si parte e si arriva lì- ci dice Simone- ma in realtà c’è di più. Orvieto è questa essenzialità, quella della natura, del paesaggio, di una rupe scoscesa o di una strada romana per arrivare al mare. Quando esci di casa e senti che non ti manca nulla, magari c’è poco ma tutto l’essenziale».

Forse anche Amatrice era così, forse per questo qualcuno nel fine settimana prendeva la moto e ci andava. Lo ha fatto anche Simone e quel giorno Amatrice gli era piaciuta. Oggi, dopo il terremoto, Amatrice è l’insieme di tutto ciò che manca. Di chi manca. Amatrice è assenza. Marco ad Amatrice ha perso Matteo, suo fratello, che quel giorno era lì con Barbara, sua moglie. Di quel ragazzo è rimasta la bicicletta e Marco pedala su quei pedali, siede su quella sella. Simone ci racconta che vedere quella bici ancora per la città smuove qualcosa dentro. Marco e i suoi genitori hanno trasformato quel dolore, non hanno lasciato che li rovinasse, che li incattivisse. Come Matteo che, quando non riusciva più a pedalare a causa dei morsi dell’acido lattico in bici, non se la prendeva quasi mai: «È bello lo stesso. Certo, senza dolore sarebbe meglio. Ma guarda che bel paesaggio».

Velzna Trail cerca lo stesso sguardo. «Certe volte- prosegue Simone- quando pedalo sulle strade antiche, penso che non ce le meritiamo. Perché non ne abbiamo avuto cura. Per cambiare qualcosa, dovremmo iniziare a guardare ciò che c’è sempre stato e a dirci che è bello anche se non lo avevamo mai notato. È un obbligo morale nei confronti del passato». Così sarà bello arrivare al mare con quelle mountain Bike o quelle bici gravel e andare nella casa sul mare di Nicola per un buon ristoro. Ognuno fa quello che può per Velzna Trail e sa che basta, purché sia genuino, purché sia vero. Basta anche un solo tramezzino. Andare in bicicletta, in fondo, è cercare questa semplicità e magari trovare altro.
Nicola, ad esempio. Che viene dalla Sicilia e la prima volta che si è presentato all’Argentario per una pedalata era coperto come fosse inverno, nonostante ci fossero venti gradi. Poi ha scoperto quelle strade e ne è diventato una sorta di custode e immagina spesso strade nuove da visitare. Ha disegnato lui Velzna Trail e chi vuole fare un giro in bicicletta gli telefona e gli chiede se quella strada è stata riaperta o se c’è una via nuova, mai vista, per arrivare là.

«Quando si sente troppo forte, gli ricordiamo quel primo giorno» scherza Simone. In realtà però passare da quelle strade servirà anche a questo, a tornare a sentirsi piccoli rispetto a ciò che c’è attorno. Da Orvieto verso il Tirreno, poi Volsinii, Bolsena e ancora Orvieto, un percorso ad anello per permettere a chiunque di scegliere dove e quando fermarsi, per dire a chiunque che il tempo, quel giorno, non conta più di tanto. Il raccolto andrà all’Associazione 3.36, come l’ora di quel terremoto, per Matteo, per Barbara e per la ricerca per la Fibrosi Cistica.
«Quando pedali accanto a una rupe capisci chi sei, in realtà. La bicicletta ti riporta l’umiltà». Anche per quanto si fa fatica perché «quelle strade non tengono minimamente conto della pendenza. Chissà, forse agli antichi non interessava. Se volevano andare da un punto all’altro, ci andavano a prescindere». E a quella fatica non si può dare un significato, ognuno darà il proprio, ciò che conta è darsi una ragione per farla. Magari guardarsi attorno, mentre non ce la fai più, e dire: «Ma guarda che bel paesaggio».


I segreti di un meccanico: intervista a Giuseppe Archetti

Nonostante la sua esperienza più che trentennale, una delle prime cose che sottolinea Giuseppe Archetti, meccanico UAE Team Emirates, è l’importanza dei ruoli e del loro rispetto. Quando qualche corridore gli chiede di intervenire sulla sua bicicletta, Archetti pone una differenziazione a seconda che si tratti di posizione e millimetri di variazione di sella o manubrio oppure di altre questioni più complesse: «Per piccoli ritocchi sulla posizione o sulla calibrazione della sella, intervengo io. Ci si lavora col tempo e talvolta è anche un aspetto psicologico. Su altre questioni credo non sia giusto agire da solo. Quando si toccano i pedali, più larghi, più lunghi, la sella, il materiale o altri aspetti, penso che il meccanico non debba agire se non dopo un’attenta discussione con lo staff». Squadra significa anche specializzazione. Se si è squadra, bisogna esserlo sempre.
In quest’ottica Archetti ha imparato a dire no e, con l’età, dire no è diventato più semplice. Non solo, con il passare del tempo è aumentata la pazienza e la capacità di spiegare perché, in quella circostanza, non si può fare ciò che il corridore richiede. Da giovani, spesso, non si considera l’importanza di motivare la decisione, talvolta non la si saprebbe neppure motivare. «Nelle categorie minori le scelte sono più fluide, i contratti meno stringenti. Lì, si accontenta anche più facilmente l’atleta. Certe volte il corridore è abituato con una determinata sella e vorrebbe avere sempre quella. Se non è possibile, devi dirlo chiaramente ma devi anche spiegargli che stai lavorando per fornire una sella che si adatti alle sue esigenze, devi fargli capire che nonostante il no tu lo hai ascoltato. Devi dirgli la verità. Così gli spiegherai che la larghezza è simile, che il punto d’appoggio è lo stesso e che il biomeccanico ha lavorato perché la posizione non cambi».
Archetti sostiene che questo aiuti la fiducia perché l’atleta deve fidarsi del meccanico e tanto più riterrà esaurienti le spiegazioni, più si fiderà.
L’inverno, poi, è il periodo dei trasferimenti degli atleti, da una squadra all’altra, e anche qui le cose sono cambiate. Quando Archetti ha iniziato, gli atleti portavano la loro bicicletta precedente al nuovo meccanico e questo segnava tutte le misure da riportare su quella nuova. Oggi il tutto si svolge tramite un dialogo maggiore tra i diversi meccanici. «Una volta i corridori avevano un gruppo diverso di meccanici a seconda delle gare che facevano, grandi giri o classiche, ad esempio, oggi si usa meno». Negli atleti non è cambiato molto: c’è sempre chi ha una sensibilità maggiore e chi minore, chi studia questi aspetti e chi no, di sicuro, però, si hanno già materiali migliori sin dalle categorie giovanili.
La bicicletta, invece, è cambiata nettamente. Archetti pensa al cambio: «Ricordo le mani degli atleti quando c’era il cambio a frizione: certe volte arrivavano al traguardo con le mani talmente gelate che non riuscivano più a cambiare per il freddo o per la terra che bloccava il filo. L’elettronica ha rivoluzionato il nostro lavoro e di certo ha agevolato gli atleti».
Quando le cose non vanno, ancora oggi, talvolta, si va dal meccanico e si sostiene che il problema sia lì, in qualche suo errore. Archetti ascolta, lascia passare il momento di crisi ma, poi, dice chiaramente la sua: «Ho sempre parlato chiaro e con l’età lo faccio ancora di più. Il passare del tempo ti toglie la paura del giudizio: abbiamo a che fare con ragazzi giovani che spesso hanno già tutto, è nostro dovere spiegare il valore dell’aspettare, dell’umiltà». A questo proposito, Archetti pensa a Tadej Pogacar, l’ultimo dei grandi campioni, con cui sta lavorando.
«In trentacinque anni non ho mai visto uno come lui. Un ragazzo acqua e sapone nonostante i due Tour de France vinti. Certe volte le cose non vanno neanche per lui ma non ha mai cercato nessuno a cui dare la colpa. Tadej è anche abituato ai no, quando mi chiede qualcosa e non posso aiutarlo non dice nulla, se non “se non puoi, va bene così”». Di quei momenti difficili, sa qualcosa anche Archetti che, dopo tante considerazioni tecniche, si lascia andare a un pensiero personale sulla gestione di questi momenti mentre si è a contatto con gli altri.
Nel 2016, quando parte per le Olimpiadi di Rio, Archetti è senza un contratto per la stagione successiva, al ritorno potrebbe essere senza lavoro. Per qualche tempo, deluso dall’ambiente, pensa anche di lasciare e di cambiare lavoro. Non lo farà. «È stata l’unica volta, poi ho ripreso. Anche in quei giorni, però, le cose sono restate separate: quando sei in una squadra non puoi permetterti di lasciare che i tuoi problemi influiscano sul lavoro che fai. I campi sono da tenere separati, gli altri non devono scontare le tue difficoltà, vale anche per gli atleti: quando le cose non vanno ce ne si assume la responsabilità, senza scaricare colpe». Questione di ruoli e di rispetto: parole che Giuseppe Archetti conosce molto bene.