L'altra faccia di Primož Roglič

Come Chris Froome, anche Primož Roglič ha iniziato a suscitare le simpatie dei tifosi quando si è mostrato nel suo lato più vulnerabile, quello più umano che sportivo, quello che, per molto tempo, era quasi rimasto nascosto dietro l'apparenza del campione che, pur arrivando tardi al ciclismo, stravolge ogni pronostico e vince. Non che l'avesse chiesto Roglič, se l'era ritrovato addosso quel pregiudizio, il suo carattere poi, a tratti freddo, imperscrutabile, aveva fatto il resto.

Le persone, però, si scoprono quando le cose vanno male e nel caso degli sportivi questo vale ancora di più. Perché, quando resti lì a osservare qualcuno che non vince, che anzi si stacca, patisce e arriva al traguardo a minuti dai primi, stai cercando qualcosa che va oltre il gesto atletico. Roglič, nel dolore fisico e psicologico delle cadute (lo ricordiamo tutti all'ultimo Tour de France), ha notato come lo guardavano i tifosi, ammirati e stupiti, quasi non si aspettassero questa umiltà della sofferenza. «Non sono un Terminator del ciclismo, non sono così» ha recentemente dichiarato in un'intervista a Cyclingnews.

E noi vogliamo ribadirlo proprio oggi: lo sloveno è un uomo e un ciclista forte, ma non tanto o non solo perché vince. Forte perché in ogni problema che gli si pone davanti cerca l'opportunità o la soluzione, senza lamentele. Se possibile in silenzio perché è da sempre convinto che gli esseri umani abbiano la possibilità di cambiare ciò che li circonda con i fatti; le parole e la visibilità sono invece un di più. Dice che in molti, arrivati al ciclismo da altri sport, hanno dovuto imparare i fondamentali di un nuovo sport, lui ha dovuto imparare a soffrire.

«Tornerò al Tour de France - spiega - per provare a vincerlo, ma non finirà il mondo neppure se lo perderò. Sarò sereno con i risultati che avrò ottenuto». Forse ha sempre pensato così, forse ha imparato a pensare così dopo la pandemia, quella che, a suo avviso, ha ricordato a tutti come si debba provare a vivere e a lui che prima di tutto desidera essere felice.
Dopo la caduta al Tour non poteva fare molto, era evidente a chiunque lo vedesse e a lui in primis. Per questo non trova particolari meriti nell'aver saputo fermarsi e aspettare, perché per un ciclista e forse per un uomo era l'unica cosa da fare, a meno di lasciarsi andare all’auto-commiserazione. Ha ripreso ad allenarsi non molto tempo prima delle Olimpiadi di Tokyo e in ogni viaggio sul pullman della squadra in Giappone ha avuto crampi e dolore al muscolo piriforme, nella zona del plesso sacrale. Dall'hotel alla partenza delle prove, alcune volte, ci sono tre ore di trasferimento, una tortura per Roglič che non riesce nemmeno a pensare a cosa possa essere una prova contro il tempo in quelle condizioni.

Il dolore, quello fisico, però questa volta lo sorprende perché, proprio prima della gara olimpica a cronometro, sta bene, sembra non avere più nulla. Si va a prendere l'oro, poche settimane prima di conquistare la Vuelta a Espana, una gara a lui più che mai congeniale in cui è al terzo successo consecutivo.
In questo percorso di ripresa dall’infortunio un grazie Roglič lo dice anche all’altro grande talento sloveno, Tadej Pogačar, nonostante un certo dualismo, forse più mediatico che reale di cui si parla spesso, perché con i suoi risultati lo spinge ad essere la miglior versione di se stesso e lo convince, ancora di più, a non fermarsi perché in definitiva l’importante nella vita, come nello sport, è continuare a tentare di migliorarsi.


La filosofia di Marlen Reusser

Marlen Reusser è felice, ma, in realtà, la felicità non le interessa nemmeno più di tanto. È capitato anche alla trentenne svizzera di sentirsi infelice, nonostante il ciclismo e le vittorie: andava tutto bene, ma il morale era a terra. Non c'è alcuna difficoltà ad ammetterlo. «Non è obbligatorio essere felici. Puoi esserlo oppure no» ha raccontanto in un’intervista a Procycling. «L'importante è che tu impari a conoscerti, a sentire il tuo corpo e a capirlo. Una volta che lo hai imparato ti servirà in ogni circostanza, in qualunque lavoro, io lo sto imparando correndo in bicicletta». Questo ragionamento l'ha sempre aiutata nella sua prova prediletta: la cronometro.

Nel tempo, molti le hanno chiesto quale sia il suo approccio mentale alla cronometro e lei ha sempre risposto che non c'è una regola, semplicemente perché la nostra mente fa ragionamenti nuovi e ci sottopone una realtà diversa ogni giorno, quindi è inutile proporsi di vedere le cose in un determinato modo, perché quel giorno potresti non riuscirci. Quando ti sveglierai, saprai chi sei in quel momento e con quello dovrai fare i conti. Regola aurea visti i risultati di Reusser contro il tempo nel 2021: argento alle Olimpiadi di Tokyo, oro agli Europei di Trento e ancora argento ai Mondiali delle Fiandre.

Marlen Reusser approda relativamente tardi al ciclismo professionistico, a causa di un infortunio. All'inizio, forse, nemmeno le piace molto pedalare, però le viene facile, estremamente facile così qualcuno le suggerisce di provare a farlo come lavoro. Oggi dice che, se non ha mai mollato, è solo perché, in fondo, le cose che non le piacevano del ciclismo erano meno di quelle che le piacevano, per esempio quello stato costante di imprevedibilità, la possibilità di conoscere luoghi e persone e, qualche volta, di sentirsi meglio perché sai che qualcuno è interessato a te, anche se fai fatica, piove e fa freddo.

Probabilmente, proprio per questa facilità innata, anche se non lo ha mai detto, Reusser ha sempre creduto alla possibilità di fare bene nel ciclismo. «Può sembrare arrogante dirlo, ma non lo è. Puoi avere tutto il talento che vuoi, ma per emergere devi lavorare sodo e io l’ho fatto. Mi sono posta degli obietti e mi sono impegnata al massimo per raggiungerli: prima o poi i risultati dovevano arrivare». Una delle più grosse difficoltà è stata riuscire a stare in gruppo nelle gare su strada, quelle in cui se non hai qualcuno che ti aiuta, di cui ti fidi e che si fida di te, difficilmente riesci a fare bene perché stare nella pancia del gruppo è davvero difficile. Lei ha imparato provandoci, con una tranquillità di fondo, però: «Se non ci fossi riuscita, probabilmente avrei smesso di gareggiare su strada. Che senso ha continuare a fare una cosa che non ti diverte?».

La Reusser ha le idee chiare, per prossimo ha voluto fortemente l'approdo in Sd-Worx, una squadra di campionesse. Ma fra loro non c'è rivalità, bensì apprezzamento. «Non credo sia un bene che in una squadra ci sia un solo campione e tante seconde linee che gli girano attorno. Non mi piacerebbe neppure se la campionessa fossi io. Per avere la possibilità di correre al meglio ogni gara occorre che tutta la squadra sia di alto livello».

Per il futuro, Reusser ragiona come per la felicità. Arriverà comunque e non ha nemmeno senso farsi tante domande. Lei è dottoressa e prima di dedicarsi al ciclismo lavorava in ospedale, è appassionata di politica e le piace impegnarsi per aiutare gli altri. Il ciclismo, per Reusser, è fatto di traguardi, ma la vita porta tante cose e fra quelle bisogna scegliere. Così, se è vero che vorrebbe vincere un titolo mondiale a cronometro, è anche certa di non voler invecchiare nel ciclismo: «Annemiek van Vleuten ha trentotto anni, Mavi Garcia trentasette. Non credo che continuerò così a lungo. Voglio fare molte altre cose nella vita, ho ancora troppe cose da imparare».


La normalità di Geraint Thomas

Ricordiamo tutti il volto di Geraint Thomas ai microfoni, al termine del Tour de France 2018. Un pianto liberatorio e quelle parole ripetute: «Non ci posso credere, ho vinto il Tour. Non è vero». Non riusciva nemmeno a parlare il britannico, eppure, al giornalista che gli chiese se quella fosse l'emozione più importante di tutta la sua vita, rispose subito, senza indugiare un secondo. «No, l'emozione più grande della mia vita è stata il mio matrimonio, andare verso l'altare con mia moglie. Non si possono paragonare queste cose». Già, ogni cosa al posto giusto, col giusto valore. Tempo dopo, quasi si scusò per quelle lacrime: «È imbarazzante piangere davanti alle telecamere, ma in quel momento mi stavo rendendo conto di cosa avevo fatto».
Da quel momento, le cose non sono più andate come Thomas avrebbe sperato, forse creduto. Una storia di cadute e sfortuna. Fu lui stesso, dopo la caduta al Tour dell'anno successivo a parlare di frustrazione, a dire che non c'era una spiegazione per quella caduta e questo peggiorava le cose. Lì il danno fu poco e Thomas finì in seconda posizione la Grande Boucle. Come il podio di Parigi, però, nei ricordi resta l'assurda caduta nella tappa dell'Etna al Giro d'Italia 2020. Assurda per le modalità, cadde a causa di una borraccia, assurda per l'esito: arrivò al traguardo con più di dodici minuti di ritardo fra lo stupore di tutti e le critiche che iniziavano a muoversi. Perché uno dei candidati per la vittoria finale pagava dazio già nella prima tappa di montagna? Aveva una frattura del bacino, Thomas. Scalò l'Etna così.

E ancora cadute, frustrazione e delusione. Geraint Thomas ha saputo anche ridere, scherzarci su, quasi ad anestetizzare l'amarezza. Per esempio quest'anno, quando al Giro di Romandia è caduto a cinquanta metri dal traguardo. Se non bastasse aver vinto il Tour de France per parlare di un campione, basterebbe questa ironia. Difficile, soprattutto quando tutti chiedono, aspettano, giudicano. Quando, forse anche tu, inizi a non capire più che ti sta succedendo.

A Cyclingweekly, Thomas ha raccontato che l'inizio di questa stagione è stato forse uno dei migliori inizi di sempre. Nonostante tutto. «Non sono diventato un ciclista mediocre, all'improvviso» ha detto ed ha ragione. Per le caratteristiche atletiche e anche per come parla, per come si racconta e per le idee che continua a mettere in campo nonostante tutto vada storto. «Continuerò a impegnarmi e a buttarmi nella mischia per vincere, perché ora conta solo vincere, tornare a vincere. Poi tornerò ai Grandi Giri, non solo però. In fondo ho sempre avuto stagioni con lo stesso programma in tutti gli anni di carriera, ho voglia di cose fresche, di cambiare, di mettermi alla prova su altri percorsi».

E questa spensieratezza preservata a colpire e a farlo restare in sella. Nei gesti e nelle parole, come in Watts Occurring, il podcast che Geraint Thomas gestisce con il compagno di team Luke Rowe. «Raccontiamo di noi. Certe volte ridiamo anche e prendiamo in giro qualcuno, solo per divertimento. Inizialmente non ci riflettevo, adesso invece ci penso perché le nostre parole le sentono tutti e non sai mai come vengono interpretate».
Thomas che a inizio carriera, lo ha raccontato spesso, avrebbe desiderato vincere ogni corsa, su strada, su pista, oggi ha capito che bisogna saper scegliere. Saper scegliere e continuare a lavorare sodo. Con grande impegno, ma anche con grande serenità e perché no con la giusta dose di leggerezza.


Team Novo Nordisk, un esempio per cambiare le cose

Le persone che attendono la discesa dal bus dei corridori del Team Novo Nordisk hanno un motivo in più per aspettare. Un padre, in attesa degli atleti con suo figlio Marco, ragazzo diabetico appassionato di ciclismo, ce lo disse qualche tempo fa: «Ai figli puoi dire di tutto e possono anche crederti, penso, però, che solo dimostrare faccia la differenza. Qualunque genitore direbbe al proprio figlio che, nonostante il diabete, può fare tutto ciò che vuole nella vita. I genitori lo dicono spesso, per questo accade che i figli non ci credano più e pensino sia una consolazione. Marco deve crederci perché ha visto in prima persona, non perché glielo ha detto papà». Il bus era lì, a pochi metri.

I ciclisti del team Novo Nordisk, all'apparenza, hanno solo una caratteristica in comune: sono affetti da diabete. In realtà, c'è più di qualcosa ad accomunarli. Per esempio, tutti respingono un certo modo di approcciarsi alla malattia, al diabete, ma in realtà a qualunque malattia. Andrea Peron, diabetico dall'età di sedici anni, lo ha ripetuto più volte. «Non mi è mai piaciuto piangermi addosso. Perché non è bello e soprattutto perché non serve a nulla. La realtà del diabete non si cambia così». Non lo dice per dire Peron. Ha fatto fatica a passare professionista perché alcune squadre gli hanno chiuso la porta in faccia, senza apparente motivo, a parte il fatto di essere diabetico. Ci è stato male ma ha sempre detto che quella è una forma di ignoranza. Non puoi farci molto, però, puoi lavorare per smentirla. Anche qui: è questione di fatti, perché alle parole si può non credere, però, se una cosa succede, non puoi negarla. Quel giorno, ai bus, il papà di Marco voleva dirci proprio questo. Chi ha a che fare con una qualunque malattia ne è consapevole.

Sulle maglie dei ragazzi c'è scritto “changing diabetes” che è un invito, una speranza e una possibilità. Perché gli incontri fuori dai bus fanno la differenza anche per i corridori. Diversi fra loro lo testimoniano: «Un conto è sentirsi incitare, applaudire, magari firmare un cappellino o una maglietta. Vedere che qualcuno viene a chiederti consiglio sul diabete, a dirti le proprie difficoltà e a chiederti come fai, è diverso. È molto di più». Con gli anni, la tecnologia ha cambiato quasi tutto, gli atleti possono avere dati sulla loro glicemia anche in corsa, più spesso è una sensazione ad aiutarli, capiscono quando qualcosa non va, anche senza controllare un numero.

L'annata appena trascorsa non è stata una delle più facili per il Team Novo Nordisk. Il leader della squadra americana, Charles Planet, ha preso ben due volte il Covid, sviluppando un problema ai polmoni che lo ha tenuto lontano dalle gare per metà stagione. La differenza, invece, nell'anno nuovo, potrebbe farla il talento di Matyáš Kopecký: diciottesimo al Campionato del Mondo juniores, il ragazzo della Repubblica Ceca promette davvero bene.

A Velonews il co-fondatore del team Phil Southerland ha raccontanto il senso dell’aver creato un team di atleti affetti da diabete di tipo 1: «Vogliamo rappresentare un esempio concreto per i bambini affetti da diabete, vogliamo che guardino i nostri ragazzi correre e sappiano che possono ottenere tutto ciò che sognano. Voglio che i miei ragazzi si divertano perché quando si divertono corrono bene e, quando corrono bene, cambiano il mondo, una persona alla volta». Così che ci siano sempre meno porte chiuse in faccia, perché le persone credano a questa possibilità. Ma soprattutto affinché ci creda chiunque sia affetto da diabete. Perché, se ne sei consapevole tu, le barriere dell'ignoranza le abbatti giorno dopo giorno.


Aspettando Patagonia Alvento

Ci sarà da attendere ancora per vivere Patagonia Alvento, ma anche nell'attesa c'è qualcosa di speciale. «Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca epistolare e quando ero adolescente- ci racconta Willy Mulonia- al ritorno da scuola, trovavo le lettere a me indirizzate nella cucina dei miei genitori, sul tavolo. Le prendevo, le portavo in camera, non le aprivo subito. Aspettavo ore, qualche volta giorni. Nell'attesa c'è tutto ciò che vivrai, la fantasia, i timori e anche la felicità. Quando partiremo per la Patagonia, sarà come aprire una di quelle lettere». Le norme entrate in vigore nel nostro paese il 25 ottobre non consentono, a causa della pandemia, di viaggiare verso l'Argentina, a meno che si tratti di motivi di lavoro. Il 15 dicembre il governo le rivedrà e deciderà se cambiare qualcosa ma decidere questa volta è stata soprattutto una questione di rispetto. «Ci spiace rimandare di un anno questo viaggio, non avremmo mai voluto, ma, ad un certo punto, devi prenderti la responsabilità di decidere, anche se fa male. Non potevamo tenere tutti gli iscritti col dubbio fino a metà dicembre, non sarebbe stato corretto. Patagonia Alvento si svolgerà, con le stesse date, nel 2022. Abbiamo scelto, sofferto, ma ora sappiamo dove guardare».

Willy Mulonia ha voluto parlare personalmente con gli iscritti, ha voluto spiegare loro cosa stava accadendo: anche questo rientra nella correttezza, nella fiducia a cui Willy tiene da sempre. «Mi hanno ascoltato e hanno capito. Avrebbero potuto cancellare il viaggio, farci altre richieste, invece no. Si sono fidati quando ho detto loro che in Patagonia ci andremo e ci andremo assieme, solo più tardi. Mi hanno solo fatto una domanda: “Nel frattempo non possiamo fare nulla? Perché non ci accompagni in qualche luogo mentre aspettiamo?”. Willy Mulonia ci aveva già pensato, un progetto era lì, pronto. Si chiama Al-Ándalus Bikepacking Light ed è un viaggio attraverso l'Andalusia, partendo da Granada, un viaggio che inizierà a gennaio, dal 2 al 9, per cui ci sono ancora alcuni posti disponibili.

«Da Granada ci dirigeremo verso il cuore dell'Andalusia e poi verso i deserti di Gorafe e Tabernas, luoghi spettacolari. Gli stessi scenari dell’ultima Badlands. Se qualcuno si ritrovasse lì senza saperlo, penserebbe di essere dall'altra parte del mondo. In realtà bastano un paio d'ore di volo e c'è tutta la possibilità di emozionarsi». Dalla cultura secolare delle città, ai luoghi dei film Western di Sergio Leone, sino alle grotte in pietra in cui vivono le famiglie nei pressi del Gorafe. «Ci sono stato questa estate, è affascinante. La temperatura resta costante a sedici gradi, in inverno e in estate. C'è qualcosa in quelle grotte, si dorme benissimo. Una tranquillità rara». Sarà bello e soprattutto sarà un'opportunità perché il viaggio è una cosa seria, una cosa per cui essere pronti. «Bisogna conoscere e conoscersi. Non devi essere solamente tu ad attraversare la Patagonia, deve essere la Patagonia ad entrarti dentro e ad attraversarti. Non è facile, per viverlo bisogna riscoprire l'animo del viaggiatore, non quello del turista. Un viaggio che cambia perché ti cambia. Lui cambia il suo significato, tu torni a casa diverso perché hai capito. In Andalusia proverò a spiegare questo a chi sarà con me».

Per questo Willy non chiede quasi mai a chi torna da un viaggio se gli sia piaciuto, chiede le emozioni che ha provato. Perché dire “è stato bello” non basta, perché la bellezza è soggettiva, anche le emozioni lo sono, però tutti riescono a intuirle, a immaginarle, chiunque si trovi davanti una persona emozionata lo capisce. A gennaio accadrà questo: «L'animo del viaggiatore ha a che vedere con lo scoprire, l'emozionarsi, con l'imparare a non aver paura dell'ignoto, di ciò che non conosciamo. Sarò guida ma non nel senso che tutti intendiamo, non parlerò di dati, numeri e nomi. A essere sincero non parlerò nemmeno più di tanto. Darò alle persone la possibilità di aprirsi e tirare fuori ciò che hanno già dentro. In quel momento sarò lì, ad ascoltare. Sarò un co-pilota». Willy Mulonia risponderà a tutte le persone che gli scriveranno per chiedere informazioni, ma il suo ruolo cambierà. All'inizio sarà consulente, assistente, per aiutare i viaggiatori a preparare la bicicletta o a prenotare un volo, poi diventerà mentore, consigliere, qualcuno che, attraverso la situazione creatasi, porrà domande e aiuterà a cercare risposte già presenti. Solo nascoste.
Ci sarà l'entusiasmo della partenza, la curiosità della conoscenza, il fascino della Spagna e dei suoi angoli più suggestivi, la meraviglia del viaggio che ritorna dopo tanto tempo e quella dell'attesa di un altro viaggio, dietro l'angolo. Soprattutto ci sarà la voglia di scoprire ciò che sta dentro per riuscire a guardare ciò che sta fuori.


Psicologia e ciclismo: la parola a Elisabetta Borgia

 

«Agli atleti dico sempre che devono prendersi il permesso di levare la maschera che la loro quotidianità impone. Deve esserci almeno una persona in squadra con cui, anche solo per un'ora al giorno, essere se stessi e a cui dire ciò che provano, ciò che non va. Perché no, nemmeno i ciclisti sono superuomini con una vita perfetta e sempre al massimo. Talvolta, però, sembra lo si pretenda». Sarà questa una delle prime cose che Elisabetta Borgia dirà agli atleti di Trek-Segafredo, squadra che affiancherà dal prossimo anno.

«Scegliamo noi cosa raccontare agli altri. Dopo un allenamento estenuante in pista puoi mostrare sui social la realtà della tua fatica oppure puoi fingere che non sia successo nulla. Forse dovremmo iniziare a mostrare maggiormente quella fatica e anche qualche debolezza se vogliamo raccontare la verità. Altrimenti continueremo a diffondere l'immagine fittizia tipica dei social che vogliono tutte le persone senza problemi e spensierate. Questo fa male a tutti». Elisabetta Borgia pensa al ciclismo femminile e a quanto un racconto di questo tipo potrebbe permettere alla gente di conoscere e apprezzare sempre più l'impegno delle atlete.

Borgia spiega da anni queste cose, i primi corsi in Federazione li ha tenuti nel 2013 e in quei giorni si è resa conto di una spiacevole realtà. «Molti direttori sportivi venivano a questi corsi e non ascoltavano quasi nulla, facevano altro. Erano figli dei loro tempi, tempi in cui chi aveva bisogno di un supporto psicologico era un debole o un folle. Tempi in cui non si diceva di andare dallo psicologo per timore del giudizio, forse ce ne si vergognava anche. Dovevi trovare persone sensibili al tema per essere ascoltata». Se oggi la realtà è diversa, è anche perché nel tempo la pressione ha continuato a crescere, a dismisura. L'atleta è iperstimolato. Quando si parla di performance in realtà si parla di diversi fattori da tenere sotto controllo: l'allenamento, i battiti, la posizione, l'alimentazione e così via. «Se non riesci a dare una priorità e a gestire ogni aspetto, diventa impossibile. Molti ragazzi non sanno staccare, non sanno recuperare, non programmano nemmeno il recupero. Oppure, se lo fanno, si sentono in colpa perché, magari, alla sera del giorno di stacco vanno su Strava e vedono che il loro rivale ha fatto sei ore di allenamento». Il timore risiede nel giudizio e anche questo è amplificato: dai media, ai social, ai tifosi e alle persone che si incontrano per strada. Elisabetta Borgia è stata ciclista e ha smesso proprio perché, ad un certo punto, si è resa conto che non sarebbe potuta arrivare dove voleva. Una consapevolezza difficile da raggiungere, ma essenziale. «Attraverso la specializzazione estrema si portano i giovani a credere che sia necessario essere sempre i numeri uno in ciò che si fa. Ai giovani, invece, bisognerebbe anzitutto dire che ci sono delle cose che non si possono cambiare e vanno accettate per quello che sono: alcuni nostri limiti ad esempio. Un conto è voler vincere, altro conto è capire che ci sono aspetti su cui devi lavorare per migliorare, per crescere. È possibile lavorare solo su se stessi per cui, quando abbiamo raggiunto il meglio di ciò che siamo capaci di fare, abbiamo già vinto. Ognuno fa il proprio lavoro: la squadra chiede vittorie, com’è giusto che sia, io come psicologa dello sport spiego questo. Sono due aspetti che devono andare di pari passo ed integrarsi».

In realtà, la sua è una figura abbastanza nuova nello sport e nel ciclismo. In Italia, poi, su questo tema si fa molta confusione. «Manca una regolamentazione specifica. Per fare questo lavoro serve una laurea triennale specialistica e una specializzazione in psicologia dello sport. Chissà perché, però, continuiamo a confondere psicologo e mental coach. Il rischio è elevato. Si può essere mental coach anche attraverso corsi di qualche giornata, ma di certo non si ha la preparazione per trattare certi aspetti. L'effetto placebo esiste e può fare in modo che momentaneamente l'atleta rimuova il malessere: il punto è che se non viene trattato adeguatamente tornerà fuori, perché non si è agito sulla causa. Apro una parentesi: lavoro anche in una comunità di recupero per tossicodipendenti, affrontiamo problemi importanti e ne siamo coscienti. Perché dobbiamo pensare che nello sport, invece, sia tutto all'acqua di rose?». Borgia cita dati: il CIO ha un'equipe che si occupa di seguire la parte mentale dello sportivo, la ricerca dice che atleti ad alto livello hanno una maggiore percentuale di problematiche di questo tipo, non si può far finta di non sentire. «Prendiamo i disturbi alimentari in donne nella fascia 14-17 anni: le sportive ne soffrono in tassi più alti. Per una donna è più facile perdere mezzo chilo di peso che aumentare in watt e a forza di lodare la magrezza come soluzione ad ogni problematica si è giunti a questo punto. Ho parlato recentemente con Paolo Sangalli, il nuovo D.S. della nazionale femminile su strada e mi ha confermato l'intenzione di fare dei corsi in tal proposito per le ragazze junior».

Gran Piemonte 2021 - 105th Edition - Rocca Canavese - Borgosesia 168 km - 07/10/2021 - Jacopo Mosca (ITA - Trek - Segafredo) - Antonio Tiberi (ITA - Trek - Segafredo)photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2021

L'integrazione in squadra sarà lenta e avverrà, in primis, attraverso la partecipazione ai ritiri, ma Borgia precisa: «Nessuno sarà obbligato a parlare con me. Alcuni ragazzi potrebbero non volersi aprire ed è giusto così. È un meccanismo di difesa naturale perché la figura dello psicologo può risultare scomoda. Farò dei colloqui conoscitivi, ma soprattutto starò con la squadra. Il primo passo per essere accettati è la presenza, se vedono che sei lì sanno che comprendi i sacrifici e la fatica che questa vita comporta. Il mio passato da ciclista mi aiuta ad essere credibile in ciò che suggerisco, per esempio quando parlo di giudizio». Borgia sottolinea che gli aspetti da considerare sono tre: concentrazione, recupero e bolla di fiducia. «La concentrazione si allena: dai tutto in quel momento avendo la testa solo lì, poi stacchi, non ci pensi più e nella tua realtà ti circondi di una bolla di persone di cui ti fidi con cui non devi fingere». Anche perché la pressione si insinua in meccanismi impensabili: alcuni atleti vivono con pressione anche le foto o le storie da postare per gli sponsor e bisogna saperlo.

«Comunicare vuol dire sapere chi ti trovi di fronte e come puoi parlargli. Al termine di una gara andata male ci saranno ragazzi o ragazze con cui lo sprone verrà da un rimprovero e altri con cui il rimprovero non servirà a nulla e li porterà solo ad avere più dubbi e a chiudersi in se stessi. Se vedrò situazioni di questo tipo ne parlerò con i direttori sportivi. A volte basta una caduta e il corridore entra in una fase negativa». In molti casi, il ruolo di Elisabetta Borgia sarà di mediazione. «Può capitare che un componente dello staff, un meccanico ad esempio, a fine stagione sia nervoso per via della stanchezza e del tempo lontano da casa. Alcuni atleti non ne risentono, altri captano questo nervosismo e tutto si ripercuote sull'ambiente di squadra». Nel caso di un altro tipo di comunicazione, quella mediatica, Borgia non se la sente di dire nulla ai media, perché fanno il proprio lavoro, quello che può chiedere è maggiore attenzione per l'aspetto personale.

In tutto questo, Borgia evidenzia l'importanza del lavoro con i giovani per tutelare la tridimensionalità della loro vita, qualcosa che si va a perdere quando si trattano ragazzi di quindici anni come professionisti affermati. «Si saltano troppi step, dandoli per scontati, salvo poi parlare di carriere brevi o di calo dei risultati. Il ciclismo è identità e se a quell'età non hai alle spalle una famiglia ragionevole, la prima cosa a mancare è l'istruzione, la scuola. Il rischio è di arrivare a trent'anni senza conoscere, senza conoscersi. A quel punto si può far poco perché le persone faticano a cambiare abitudini consolidate. Bisogna lavorare prima, mentre tutto è in costruzione, in formazione».


Da sola verso l'oceano

Il viaggio di Noemi Giraudo, in bicicletta, verso l'oceano, ha a che vedere col tempo. Il tempo che sentiva di sprecare, che sentiva non appartenerle più. «Passavo le mie giornate chiusa in quattro mura a lavorare, guardavo il cielo fuori dalla finestra e non capivo cosa stessi facendo. Dopo tanto tempo ho lasciato un lavoro in cui non mi ritrovavo più, una decisione difficile, sofferta, sentivo il bisogno di andare via. Negli ultimi tempi facevo fatica anche ad alzare la cornetta del telefono per prendere un appuntamento». Quando ha scelto di caricare le sue borse su una bicicletta e partire verso Arcachon, verso le Dune du Pilat, si è chiesta da cosa stesse scappando. Non ha detto nulla a nessuno, tranne che ai familiari più stretti perché temeva di non arrivare; tutti sapevano che stava partendo, quasi nessuno che pensava all'oceano. «A ventisette anni non avevo mai trovato il tempo per vedere l'oceano e mi sembrava uno spreco. È stato bello sedersi alla scrivania e programmare questo viaggio. Mi è tornato in mente il primo viaggio in bicicletta che avevo fatto anni fa in Sardegna. Ero tornata piena di autostima e mi ero promessa che avrei fatto viaggi simili almeno una volta all'anno. Sono passati cinque anni e nessun viaggio. Fa riflettere».

Quattordici giorni, circa 1.100 chilometri, da Boves, in Piemonte, attraverso la Francia, da sola, con una tenda e diverse borse. Qualche timore solo la notte prima di partire, poi tutto è stato naturale. «Molti mi hanno fermato per strada e quando ho spiegato dove stavo andando mi hanno chiesto se non avessi paura, da sola, essendo donna. Mi sono arrabbiata più volte perché le donne hanno paura quanto gli uomini, sanno stare da sole e fare fatica. Io non avevo paura». Nemmeno il quarto giorno quando, vicino a Valence, il vento era così forte che la bicicletta non voleva proprio andare avanti. «Papà al telefono mi ha suggerito di prendere un treno e avvicinarmi così all'oceano. Non ci ho pensato nemmeno un minuto. Mi serviva quella fatica». La fatica, in questo viaggio in bicicletta, era leggera, non pesava. Nonostante l'autunno, gli abiti pesanti e il rischio di trovare brutto tempo, prima sulle Alpi e poi a plateau de l'Aubrac. Proprio qui, mentre la salita finisce e la strada spiana, Noemi vive uno dei momenti più belli: «Un'aquila ha volato per un attimo sopra la mia testa. In quel momento ho pensato a cosa sia la bicicletta. Questo mezzo che ti permette di viaggiare a piedi sollevati da terra».

L'oceano è la destinazione finale, ma Noemi non ci pensa molto durante il viaggio. «Volevo stare in quei luoghi e in quel tempo. Sono convinta che crescendo abbiamo perso la capacità di vivere ciò che ci accade. Ci proiettiamo avanti o indietro e non vediamo ciò che ci passa sotto il naso». Questo è un problema, anche se ciò che abbiamo davanti è noioso. In questo viaggio, la noia è arrivata nelle lande: 129 chilometri di rettilinei, tra i pini marittimi. Devi cercare un punto e focalizzarti su quello, altrimenti non pedali più.
Passano i campeggi, le tende e anche qualche casa. Warmshowers, un'applicazione attraverso cui viaggiatori mettono a disposizione la propria casa per altri viaggiatori, le fa conoscere una famiglia francese che la ospita una sera. «A cena a parlare dei loro viaggi, delle nostre lingue e di dove stessi andando. Ero a casa loro ma mi hanno fatto sentire a casa mia». Come quella serata trascorsa con ragazzi che stavano percorrendo la parte francese del cammino di Santiago, mentre fuori c'erano meno sei gradi e un tempo da lupi. «Ho scoperto Le Puy en Velay, ma soprattutto ho capito l'enorme potere che abbiamo nelle mani: far sentire qualcuno a casa, l'ospitalità».

E ancora i saluti «perché anche la vecchietta che sta chiudendo la porta di casa ti saluta quando ti vede» e le strade di campagna. «Avrò percorso due chilometri con un'auto alle mie spalle, una stradina strettissima dove era impossibile superarmi. Temevo mi suonasse il clacson. Invece no, ha atteso, senza fretta. La Francia è piena di ciclabili, le strade sono vissute in funzione della bicicletta, gli automobilisti mettono la freccia a destra per segnalare il ciclista».

Infine gli ultimi sessantacinque chilometri fatti tutti d'un fiato e l'uscita dalla foresta. «L'oceano appare all'ultimo e il vento oceanico è talmente forte da spingerti indietro». Noemi sale su quella duna, guarda l'acqua e telefona a sua madre. Quello che ha pensato davanti all'Oceano è difficile da raccontare perché, in fondo, appartiene solo a lei. Qualcosa da dire, però, c'è. Per esempio, dell'autostima che torna quando ti accorgi che andare via non vuol sempre dire scappare, vuol dire solo trovare un nuovo modo di vivere le cose. Quello che abbiamo il dovere di fare tutti quando la vita ci scappa dalle mani. «Potrei dire che un viaggio così lo consiglio a tutti. In realtà dico di pensarci perché ti mette alla prova, resti solo e rischi di stare peggio. A me la solitudine fa bene, non so ad altri. Quello che consiglio a tutti è di ritrovare il tempo per se stessi».


Ian Boswell, come tagli in un tronco d'acero

Il Vermont non poteva che essere casa per Ian Boswell. Da anni, ormai, Boswell abita in una casa rurale, fra i boschi del nord est degli Stati Uniti. Sono stati quei boschi e quelle strade sterrate a dargli il coraggio di dire basta al ciclismo professionistico, nel 2020, dopo il terribile incidente che lo coinvolse alla Tirreno Adriatico dell'anno precedente. Da quel giorno, molte cose che prima sembravano facili sono diventate complesse, parlare con più persone nello stesso momento stancante, ha bisogno di scrivere gli impegni della giornata per restare concentrato e di indossare particolari occhiali per leggere. La commozione cerebrale riportata nella caduta ha causato danni permanenti: Boswell non riesce più a stare in mezzo al traffico e, quando vede qualche gara in televisione, teme la velocità, le cadute. Da quel giorno non è il ragazzo che tutti credono di conoscere, magari solo perché lo hanno visto alzare al cielo le braccia impolverate dalla ghiaia alla Unbound Gravel 2021, solo perché lo hanno visto domare quei chilometri di strade sterrate con apparente facilità.

«All'inizio - spiega in un'intervista a Cyclist UK- accettavo le cadute come rischio del mestiere. Mi dicevo che io ero questa cosa qui e che ero disposto a mettere in conto le cadute, persino la morte. Quando sono caduto, avrei subito voluto tornare in sella, non pensavo ad altro». Ma la realtà ritorna. I primi allenamenti dopo la riabilitazione sono impossibili, Boswell ha bisogno di fermarsi, la fatica è esasperata. Come un'incisione nel tronco di uno dei tanti aceri della terra di cui Boswell è diventato figlio. Così annuncia il ritiro, dice che tornerà in quei boschi, che sente il bisogno di scoprire quelle strade sterrate fuori da casa. Forse avrebbe dovuto credere più in se stesso durante la sua carriera, avrebbe dovuto credere al bambino che era e che sognava, un giorno, di andare al Tour de France ma anche diventare adulti ha un prezzo da pagare. Orgoglioso di aver corso in Sky, di aver vinto e anche di aver mollato.

«Bisogna imparare a lasciare che il corpo sia la nostra guida. È difficile» dice oggi. Perché chi sa delle incisioni nei tronchi d'acero del Vermont, sa anche che da quei tagli si ricava lo sciroppo d'acero. C'è qualcosa da salvare anche nei tagli, anche se Ian Boswell non è più l'uomo di prima e tanti ragionamenti, forse, un tempo non li avrebbe nemmeno fatti. Oggi li fa, mentre taglia la legna e prepara i ciocchi che finiranno nel camino per l'inverno che verrà. «Ci sono molti atleti che percorrono la stretta linea di confine tra velocità e cadute: io non ho più il desiderio di correre quel rischio». Le gare di gravel, quelle che ha scelto per ripartire, lo fanno sentire sicuro perché raramente si finisce nella pancia del gruppo, spesso si arriva da soli, non ci sono volate, non c'è quella velocità e quello sfiorarsi di equilibristi senza rete. «Sono più lunghe, forse più faticose, ma il problema non è la fatica. Non sento più il bisogno di andare come un dannato a tutti costi. Se mi sento insicuro, se ho paura, so che posso frenare, rallentare. Mi prendo questo permesso».

Nonostante ciò, continua ad allenarsi, a correre, a progettare e anche a vincere. Il 5 giugno del 2021 ha superato Lawrence Ten Dam, bruciando tutta l'energia che aveva in corpo nel finale della Unbound Gravel, a Emporia, in Kansas. Ha gridato solo “Yeah”, una liberazione e una conferma. Perché capire, non significa rinunciare.
Già, perché anche il dolore ha un confine da non superare. Oltre quel limite, soffrire non ha alcun senso. Diventa pericoloso. Anche gli aceri con meno di quarant'anni non vengono incisi. C'è una ragione, c'è la ragione da seguire. Se Ian Boswell dovesse cadere ancora, se dovesse picchiare male la testa, i rischi per lui sarebbero ben peggiori di quelli che sta affrontando: potrebbe non risalire più in sella e questo no, non avrebbe proprio alcun senso. «Una volta non me ne accorgevo, ora vedo tutti i piccoli rischi che ci sono sulla strada. Il mio cervello si rifiuta di far finta di niente». Per questo Ian Boswell sa di aver fatto la scelta giusta.

Foto: account IG unboundgravel


Muretti Madness

La storia di Muretti Madness è in realtà la storia di quattro ragazzi, studenti di Architettura all'Università di Firenze. Ce la racconta Matteo Pierattini, ancora in studio, a progettare, a sera. «Eravamo tutti appassionati di ciclismo, ma, come abbiamo iniziato a lavorare, il tempo per pedalare scarseggiava. Non volevamo rinunciarci, così siamo andati sui muri attorno a Firenze. Lì pedali un paio d'ore e ti sembra di aver fatto tutto il pomeriggio in bicicletta». Muretti Madness è proprio questo, un elogio alla lucida follia di chi, un sabato di ottobre, percorre 120 chilometri attraverso quelle mura, 25 muretti, più di 3500 metri di dislivello, circa otto ore in bicicletta, senza alcuna ricompensa. «Se ci pensi, la fatica del ciclismo è totalmente irrazionale. Se ti chiedessi chi te lo fa fare, rinunceresti. La fatica degli eventi come Muretti Madness è forse la più bella perché non vuole nulla in cambio». Pierattini se l'è chiesto: «Se mi avessero proposto una cosa di questo tipo, l'avrei fatta? Sì, ho noleggiato un furgone e ho viaggiato quindici ore in piena notte per andare in Belgio a vedere le Classiche del Nord. L'avrei fatta».
Perché Muretti Madness è un evento, non è una gara, non c'è competizione. Nato otto anni fa, quando appuntamenti così erano rari, con un'idea precisa: pedalare duro, “pedalare tosto”, come dice Matteo con un'inconfondibile cadenza toscana, assieme ad altri che condividono qualcosa con te. «Una visione del mondo, della fatica. Se si ascoltassero le voci degli iscritti, non si sentirebbe mai parlare di watt, potenza o velocità. Li senti commentare il percorso o i paesaggi. Li senti raccontarsi storie e problemi, perché condividere la fatica ti dà questa fiducia. Siamo partiti in dieci, quasi un gruppo di amici, quest'anno settecento persone hanno pedalato sui muretti. C'è una magia in questo». Matteo sostiene che questo segreto risieda nella bellezza, perché fai fatica volentieri se sai che qualcosa di bello ti aspetta.

«Sono i paesaggi e anche i muri. Queste stradine strette, meravigliose, che certe volte non sono conosciute nemmeno dai fiorentini. Ho girato molto per scoprirle, luoghi come Monteripaldi e la vecchia Fiesolana vengono da quei giri. Perché la Muretti l'abbiamo inventata, ma, soprattutto, abbiamo continuato a pedalarla ogni anno. A viverla da dentro».
La festa finale, come i ristori, è studiata attraverso questa bellezza. Si scelgono locali dall'aspetto famigliare, gestiti da qualcuno che conosca il ciclismo, che sappia che persone sono i ciclisti. Ai ristori c'è cibo genuino: un panino col prosciutto o con la marmellata, una torta fatta in casa. «Nutri il corpo, le gambe, ma anche la testa, che può liberarsi per qualche istante di tutte le difficoltà che ciascuno fronteggia». Dicono che Muretti Madness sia un piccolo Fiandre e in un certo senso il paragone è inevitabile, Matteo, però, aggiunge qualcosa. «Molte di quelle stradine sono quelle su cui Ginettaccio Bartali si allenava, affacciate su Firenze. Ho immenso rispetto per il Fiandre, affetto, anche. Ci sono dei punti in comune, ma restano cose diverse. Dovremmo imparare ad essere orgogliosi di ciò che facciamo, che creiamo, senza doverlo per forza paragonare ad altro. In Italia c'è una grande cultura ciclistica».

Per questo Matteo Pierattini augura a Muretti Madness di durare nel tempo e di diventare qualcosa di permanente. «Sarà un percorso che inizieremo dal prossimo anno, innanzitutto a livello legale. Vorremmo che questi tracciati restassero permanenti e fossero punti di visita per coloro che passano da Firenze. In un certo senso un dono a Firenze e a chi, come noi, ha voglia di fare fatica in bicicletta, ma non ha molto tempo». Ogni anno, i ragazzi di Muretti Madness cercano un muro nuovo, una strada mai esplorata e lo fanno per chi arriva da lontano. «Ci sono persone che partono da Milano, da Bergamo o dalla Sicilia, che viaggiano in treno la notte del venerdì, dormono tre ore e poi pedalano. Abbiamo il dovere di dare qualcosa a chi arriva qui dopo tanti chilometri e magari torna ogni anno. Noi abbiamo scelto di portarli a vedere un posto nuovo, un luogo in cui non erano mai stati». C'è il pacco gara, magliette e cappellini, l'avventura e la voglia di vedere le persone felici.

Durante la pandemia, Muretti Madness si è svolta nella sua versione diffusa, in modo da non creare assembramenti, non rinunciando ad andare in bicicletta. «Ci spiaceva rinunciare e le persone hanno capito. Sono venute in tante, hanno visto l'atmosfera serena, tranquilla di queste vie. Qualcuno lo abbiamo incrociato ed era felice. Credo basti dire questo». In otto anni, sono cambiate tante cose. Alcuni di quei ragazzi della facoltà di Architettura hanno avuto figli, Matteo stesso ha una bambina e non vede l'ora di farle conoscere Muretti Madness. «Quest'anno sarebbe potuta venire con noi, ma aveva la febbre, una brutta bronchite. La porterò presto. Anche questo è bello, vedere che questa avventura che ci è scoppiata fra le mani continua e resta salda fra tutto ciò che cambia. Ha preso una fetta importante delle nostre vite. È cresciuta e ci ha cresciuti. Perché da quei muretti abbiamo imparato tanto e continuiamo a imparare».


«Vi ricordate da dove siamo partiti?» Intervista a Diego Bragato

«Vi ricordate da dove siamo partiti?», è questa la prima cosa che ha detto Filippo Ganna ai suoi compagni, dopo essere sceso dal podio dell’inseguimento a squadre.

Diego Bragato, preparatore degli azzurri dell'Italpista, ricorda bene quella serata in taxi, in Messico, dopo una prova di Coppa del Mondo in cui l'Italia non era entrata nelle prime otto. Accanto a lui c'era Liam Bertazzo: «Gli dissi che continuando a lavorare così saremmo andati lontano, mi guardò e: “Ma va! Dove vuoi che andiamo”. Ne abbiamo parlato l'altra sera».

Bragato lo ammette: all'inizio ci credevano solo i tecnici, la squadra sognava, ma la concretezza dei numeri era unicamente nelle mani dei preparatori. «Guardavamo gli altri quartetti e ci chiedevamo come facessero ad andare così veloci. I test, però, parlavano chiaro: avevamo i 1400-1600 watt che servivano per fare un buon lancio e anche i 500 watt che servivano per gestire una buona prova. Era solo questione di lavorarci, anno dopo anno perché risultati del genere li costruisci solo negli anni. Prima si parlava di qualche decimo di miglioramento, oggi si parla dell'Italia ai vertici alle Olimpiadi e ai Mondiali».

Diego Bragato sostiene che la marcia in più degli azzurri sia quella di essersi sempre sentiti tutti sulla stessa barca, anche quando le cose non andavano. «Marco Villa ha fatto sentire tutti parte integrante di questo gruppo. Nessuno si è mai sentito ai margini. Tutti i ragazzi sanno di contare. Spesso ci andiamo a scontrare con nazioni che si dedicano interamente alla pista, i nostri atleti, invece, sono atleti che vengono dall'attività su strada, come Ganna, Viviani, Consonni e lo stesso Milan. Questo accresce il valore dei risultati».

A Roubaix, non c'era troppa pressione, ma l'idea era chiara a tutti: «Non ce lo siamo detti apertamente, ma era evidente, che nessun risultato, tranne la vittoria, avrebbe potuto soddisfarci». Per questo, prima della finale con la Francia, Marco Villa ha chiamato a colloquio i ragazzi del quartetto. «La semifinale con la Gran Bretagna era filata anche troppo liscia. Intendiamoci: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, una prestazione ottimale. Solo che abbiamo vinto facilmente e, quando succede così, c'è sempre il rischio di rilassarsi. Villa ha ribadito che bisognava mantenere la stessa pressione, la stessa tensione contro la Francia». La Francia, tra l'altro, non aveva partecipato agli Europei, per preparare al meglio i Mondiali in casa. «Abbiamo stilato una tabella molto esigente. Sapevamo che la loro grinta avrebbe potuto metterci in difficoltà all'inizio, ma eravamo altrettanto certi che non avrebbero potuto reggere quel ritmo per tutta la gara. Ad un certo punto avrebbero ceduto e noi avremmo aumentato. E poi noi, alla fine, avevamo Ganna». Al posto di Lamon, che ha disputato le qualifiche, ha gareggiato Bertazzo: «Perché lo meritava avendo visto le Olimpiadi da bordo pista e perché era pronto. Le scelte di Villa sono sempre date da requisiti esclusivamente prestazionali. Per questo i ragazzi le accettano. Hanno visto dove possono portare».

Insieme a loro, la dedizione al lavoro di Simone Consonni, «Un ragazzo che sta crescendo sempre più, uno di quelli su cui puoi fare sicuro affidamento perché è schietto: se dice di essere pronto, dà tutto» e la freschezza di Jonathan Milan. «È il più giovane, come pensieri, come età, come atteggiamenti. Osserva sempre Ganna, lo segue e cerca di imitarlo, di imparare da lui. Filippo scherza su questa cosa, però la apprezza e prova a insegnargli tutto ciò che sa. Senza troppe parole, solo mostrandogli come fare. Nell'inseguimento individuale, Ganna era in finale per il bronzo, Milan per l'oro, avrebbero potuto essere avversari, eppure fino all'ultimo Filippo lo ha affiancato dandogli alcuni suggerimenti». Proprio quella finale per il terzo posto, a detta di Bragato, sarà molto utile a Ganna. «Ha mostrato professionalità fino all'ultimo, mentalmente era stanco, forse era anche una gara di troppo dopo la sua stagione, eppure ha dato tutto. I primi giri della semifinale sono stati un incidente di percorso, Ganna va più veloce anche in allenamento. È venuta fuori la sua umanità, è bello così». Nel post gara, Filippo Ganna ha parlato con Bragato: «Facile lottare per la maglia iridata, io lotto per il bronzo che è l'unica medaglia che mi manca. A parte gli scherzi: o esco di qui a piedi o con il record del mondo». Diego Bragato è restato ammirato dalla sua prova: «Avesse finito la finale, avrebbe frantumato il record del mondo. Secondo me, è partito anche troppo veloce».

Dall'altro versante, Marco Villa parlava con Milan: «Era entusiasta, sentiva, però, il peso di essere nella finale in cui tutti aspettavano Ganna. A bordo pista lo abbiamo applaudito. Marco glielo ha detto subito: “Comunque vada, devi essere fiero di ciò che hai fatto”».

Quando sabato sono scesi in pista Consonni e Scartezzini per la madison, Villa non c'era, e a bordo pista era appostato Bragato. La prima evidenza è rassicurante: Consonni e Morkøv, Italia e Danimarca, sono i più forti. L'Italia, però, non si monta la testa: fa una gara intelligente, guadagna punti agli sprint, guadagna due giri e «A posteriori, per un cambio sbagliato, non ci siamo giocati l'oro». Bragato va subito da Consonni a fine gara: «Questa è la dimostrazione evidente che non siamo da oro solo nel quartetto, possiamo essere a quel livello in qualunque disciplina, se continuiamo a lavorare». Il rammarico c'è, soprattutto per Scartezzini perché «Per come ha lavorato avrebbe meritato anche lui una maglia iridata. Michele sa che serve pazienza, il suo idolo è Viviani: quanto tempo ha aspettato Elia?».

Con Viviani, Bragato ha un rapporto particolare. Il veronese è stato il primo a volerlo come preparatore, anche su strada, quando Diego era giovanissimo e questa fiducia, per Bragato, ha voluto dire molto. La fiducia di Viviani ha, poi, portato la fiducia dell'intero gruppo. «La gamba c'era. I risultati di Scratch e Tempo Race, nell'Omnium lo testimoniano. Però Elia non era tranquillo, da questo sono venuti alcuni errori tecnico-tattici, per esempio quello che lo ha portato a sbagliare nell'eliminazione. Quella è stata la scossa per andarsi a prendere il podio. Nella corsa a punti, abbiamo visto il vero Viviani che, in queste prove, resta uno dei primi tre al mondo».

Bragato, sabato sera, lo affianca all'uscita del velodromo: «L'eliminazione di domani non sarà una gara singola per noi, sarà una continuazione della prova di oggi. Riparti da qui. Gli alti e bassi ci sono stati e li hai superati, ora puoi prenderti quella maglia iridata». Glielo ha ripetuto più volte, Bragato. Anche la mattina a colazione. Oggi, tuttavia, ha la certezza che anche un altro passaggio sia stato fondamentale: "Mentre Elia faceva i rulli, c'erano Scartezzini e Consonni che si stavano prendendo l'argento. Vederli lottare così lo ha aiutato. Vedere il gruppo di cui è capitano giocarsela così gli ha dato forza».

Bragato conosce sin troppo bene Viviani, sa che ha bisogno di tranquillità. Così prima della gara torna a parlarci: «Elia Viviani resta un campione qualunque cosa accada adesso. Fallo per te, Elia. Solo per te e per nessun altro. Vai a prenderti quella maglia perché te la meriti». Il finale lo sappiamo tutti. «Gli ultimi due anni sono stati difficili per Viviani. Quando le Olimpiadi sono state rimandate, ha sofferto molto. Sapevamo a cosa stavamo lavorando, ma dovevamo aspettare. “Abbi pazienza- gli dicevo- farai una grande Olimpiade e torneranno anche le vittorie su strada”. È successo proprio così».