Aspettando Patagonia Alvento

Ci sarà da attendere ancora per vivere Patagonia Alvento, ma anche nell'attesa c'è qualcosa di speciale. «Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca epistolare e quando ero adolescente- ci racconta Willy Mulonia- al ritorno da scuola, trovavo le lettere a me indirizzate nella cucina dei miei genitori, sul tavolo. Le prendevo, le portavo in camera, non le aprivo subito. Aspettavo ore, qualche volta giorni. Nell'attesa c'è tutto ciò che vivrai, la fantasia, i timori e anche la felicità. Quando partiremo per la Patagonia, sarà come aprire una di quelle lettere». Le norme entrate in vigore nel nostro paese il 25 ottobre non consentono, a causa della pandemia, di viaggiare verso l'Argentina, a meno che si tratti di motivi di lavoro. Il 15 dicembre il governo le rivedrà e deciderà se cambiare qualcosa ma decidere questa volta è stata soprattutto una questione di rispetto. «Ci spiace rimandare di un anno questo viaggio, non avremmo mai voluto, ma, ad un certo punto, devi prenderti la responsabilità di decidere, anche se fa male. Non potevamo tenere tutti gli iscritti col dubbio fino a metà dicembre, non sarebbe stato corretto. Patagonia Alvento si svolgerà, con le stesse date, nel 2022. Abbiamo scelto, sofferto, ma ora sappiamo dove guardare».

Willy Mulonia ha voluto parlare personalmente con gli iscritti, ha voluto spiegare loro cosa stava accadendo: anche questo rientra nella correttezza, nella fiducia a cui Willy tiene da sempre. «Mi hanno ascoltato e hanno capito. Avrebbero potuto cancellare il viaggio, farci altre richieste, invece no. Si sono fidati quando ho detto loro che in Patagonia ci andremo e ci andremo assieme, solo più tardi. Mi hanno solo fatto una domanda: “Nel frattempo non possiamo fare nulla? Perché non ci accompagni in qualche luogo mentre aspettiamo?”. Willy Mulonia ci aveva già pensato, un progetto era lì, pronto. Si chiama Al-Ándalus Bikepacking Light ed è un viaggio attraverso l'Andalusia, partendo da Granada, un viaggio che inizierà a gennaio, dal 2 al 9, per cui ci sono ancora alcuni posti disponibili.

«Da Granada ci dirigeremo verso il cuore dell'Andalusia e poi verso i deserti di Gorafe e Tabernas, luoghi spettacolari. Gli stessi scenari dell’ultima Badlands. Se qualcuno si ritrovasse lì senza saperlo, penserebbe di essere dall'altra parte del mondo. In realtà bastano un paio d'ore di volo e c'è tutta la possibilità di emozionarsi». Dalla cultura secolare delle città, ai luoghi dei film Western di Sergio Leone, sino alle grotte in pietra in cui vivono le famiglie nei pressi del Gorafe. «Ci sono stato questa estate, è affascinante. La temperatura resta costante a sedici gradi, in inverno e in estate. C'è qualcosa in quelle grotte, si dorme benissimo. Una tranquillità rara». Sarà bello e soprattutto sarà un'opportunità perché il viaggio è una cosa seria, una cosa per cui essere pronti. «Bisogna conoscere e conoscersi. Non devi essere solamente tu ad attraversare la Patagonia, deve essere la Patagonia ad entrarti dentro e ad attraversarti. Non è facile, per viverlo bisogna riscoprire l'animo del viaggiatore, non quello del turista. Un viaggio che cambia perché ti cambia. Lui cambia il suo significato, tu torni a casa diverso perché hai capito. In Andalusia proverò a spiegare questo a chi sarà con me».

Per questo Willy non chiede quasi mai a chi torna da un viaggio se gli sia piaciuto, chiede le emozioni che ha provato. Perché dire “è stato bello” non basta, perché la bellezza è soggettiva, anche le emozioni lo sono, però tutti riescono a intuirle, a immaginarle, chiunque si trovi davanti una persona emozionata lo capisce. A gennaio accadrà questo: «L'animo del viaggiatore ha a che vedere con lo scoprire, l'emozionarsi, con l'imparare a non aver paura dell'ignoto, di ciò che non conosciamo. Sarò guida ma non nel senso che tutti intendiamo, non parlerò di dati, numeri e nomi. A essere sincero non parlerò nemmeno più di tanto. Darò alle persone la possibilità di aprirsi e tirare fuori ciò che hanno già dentro. In quel momento sarò lì, ad ascoltare. Sarò un co-pilota». Willy Mulonia risponderà a tutte le persone che gli scriveranno per chiedere informazioni, ma il suo ruolo cambierà. All'inizio sarà consulente, assistente, per aiutare i viaggiatori a preparare la bicicletta o a prenotare un volo, poi diventerà mentore, consigliere, qualcuno che, attraverso la situazione creatasi, porrà domande e aiuterà a cercare risposte già presenti. Solo nascoste.
Ci sarà l'entusiasmo della partenza, la curiosità della conoscenza, il fascino della Spagna e dei suoi angoli più suggestivi, la meraviglia del viaggio che ritorna dopo tanto tempo e quella dell'attesa di un altro viaggio, dietro l'angolo. Soprattutto ci sarà la voglia di scoprire ciò che sta dentro per riuscire a guardare ciò che sta fuori.


Psicologia e ciclismo: la parola a Elisabetta Borgia

 

«Agli atleti dico sempre che devono prendersi il permesso di levare la maschera che la loro quotidianità impone. Deve esserci almeno una persona in squadra con cui, anche solo per un'ora al giorno, essere se stessi e a cui dire ciò che provano, ciò che non va. Perché no, nemmeno i ciclisti sono superuomini con una vita perfetta e sempre al massimo. Talvolta, però, sembra lo si pretenda». Sarà questa una delle prime cose che Elisabetta Borgia dirà agli atleti di Trek-Segafredo, squadra che affiancherà dal prossimo anno.

«Scegliamo noi cosa raccontare agli altri. Dopo un allenamento estenuante in pista puoi mostrare sui social la realtà della tua fatica oppure puoi fingere che non sia successo nulla. Forse dovremmo iniziare a mostrare maggiormente quella fatica e anche qualche debolezza se vogliamo raccontare la verità. Altrimenti continueremo a diffondere l'immagine fittizia tipica dei social che vogliono tutte le persone senza problemi e spensierate. Questo fa male a tutti». Elisabetta Borgia pensa al ciclismo femminile e a quanto un racconto di questo tipo potrebbe permettere alla gente di conoscere e apprezzare sempre più l'impegno delle atlete.

Borgia spiega da anni queste cose, i primi corsi in Federazione li ha tenuti nel 2013 e in quei giorni si è resa conto di una spiacevole realtà. «Molti direttori sportivi venivano a questi corsi e non ascoltavano quasi nulla, facevano altro. Erano figli dei loro tempi, tempi in cui chi aveva bisogno di un supporto psicologico era un debole o un folle. Tempi in cui non si diceva di andare dallo psicologo per timore del giudizio, forse ce ne si vergognava anche. Dovevi trovare persone sensibili al tema per essere ascoltata». Se oggi la realtà è diversa, è anche perché nel tempo la pressione ha continuato a crescere, a dismisura. L'atleta è iperstimolato. Quando si parla di performance in realtà si parla di diversi fattori da tenere sotto controllo: l'allenamento, i battiti, la posizione, l'alimentazione e così via. «Se non riesci a dare una priorità e a gestire ogni aspetto, diventa impossibile. Molti ragazzi non sanno staccare, non sanno recuperare, non programmano nemmeno il recupero. Oppure, se lo fanno, si sentono in colpa perché, magari, alla sera del giorno di stacco vanno su Strava e vedono che il loro rivale ha fatto sei ore di allenamento». Il timore risiede nel giudizio e anche questo è amplificato: dai media, ai social, ai tifosi e alle persone che si incontrano per strada. Elisabetta Borgia è stata ciclista e ha smesso proprio perché, ad un certo punto, si è resa conto che non sarebbe potuta arrivare dove voleva. Una consapevolezza difficile da raggiungere, ma essenziale. «Attraverso la specializzazione estrema si portano i giovani a credere che sia necessario essere sempre i numeri uno in ciò che si fa. Ai giovani, invece, bisognerebbe anzitutto dire che ci sono delle cose che non si possono cambiare e vanno accettate per quello che sono: alcuni nostri limiti ad esempio. Un conto è voler vincere, altro conto è capire che ci sono aspetti su cui devi lavorare per migliorare, per crescere. È possibile lavorare solo su se stessi per cui, quando abbiamo raggiunto il meglio di ciò che siamo capaci di fare, abbiamo già vinto. Ognuno fa il proprio lavoro: la squadra chiede vittorie, com’è giusto che sia, io come psicologa dello sport spiego questo. Sono due aspetti che devono andare di pari passo ed integrarsi».

In realtà, la sua è una figura abbastanza nuova nello sport e nel ciclismo. In Italia, poi, su questo tema si fa molta confusione. «Manca una regolamentazione specifica. Per fare questo lavoro serve una laurea triennale specialistica e una specializzazione in psicologia dello sport. Chissà perché, però, continuiamo a confondere psicologo e mental coach. Il rischio è elevato. Si può essere mental coach anche attraverso corsi di qualche giornata, ma di certo non si ha la preparazione per trattare certi aspetti. L'effetto placebo esiste e può fare in modo che momentaneamente l'atleta rimuova il malessere: il punto è che se non viene trattato adeguatamente tornerà fuori, perché non si è agito sulla causa. Apro una parentesi: lavoro anche in una comunità di recupero per tossicodipendenti, affrontiamo problemi importanti e ne siamo coscienti. Perché dobbiamo pensare che nello sport, invece, sia tutto all'acqua di rose?». Borgia cita dati: il CIO ha un'equipe che si occupa di seguire la parte mentale dello sportivo, la ricerca dice che atleti ad alto livello hanno una maggiore percentuale di problematiche di questo tipo, non si può far finta di non sentire. «Prendiamo i disturbi alimentari in donne nella fascia 14-17 anni: le sportive ne soffrono in tassi più alti. Per una donna è più facile perdere mezzo chilo di peso che aumentare in watt e a forza di lodare la magrezza come soluzione ad ogni problematica si è giunti a questo punto. Ho parlato recentemente con Paolo Sangalli, il nuovo D.S. della nazionale femminile su strada e mi ha confermato l'intenzione di fare dei corsi in tal proposito per le ragazze junior».

Gran Piemonte 2021 - 105th Edition - Rocca Canavese - Borgosesia 168 km - 07/10/2021 - Jacopo Mosca (ITA - Trek - Segafredo) - Antonio Tiberi (ITA - Trek - Segafredo)photo Luca Bettini/BettiniPhoto©2021

L'integrazione in squadra sarà lenta e avverrà, in primis, attraverso la partecipazione ai ritiri, ma Borgia precisa: «Nessuno sarà obbligato a parlare con me. Alcuni ragazzi potrebbero non volersi aprire ed è giusto così. È un meccanismo di difesa naturale perché la figura dello psicologo può risultare scomoda. Farò dei colloqui conoscitivi, ma soprattutto starò con la squadra. Il primo passo per essere accettati è la presenza, se vedono che sei lì sanno che comprendi i sacrifici e la fatica che questa vita comporta. Il mio passato da ciclista mi aiuta ad essere credibile in ciò che suggerisco, per esempio quando parlo di giudizio». Borgia sottolinea che gli aspetti da considerare sono tre: concentrazione, recupero e bolla di fiducia. «La concentrazione si allena: dai tutto in quel momento avendo la testa solo lì, poi stacchi, non ci pensi più e nella tua realtà ti circondi di una bolla di persone di cui ti fidi con cui non devi fingere». Anche perché la pressione si insinua in meccanismi impensabili: alcuni atleti vivono con pressione anche le foto o le storie da postare per gli sponsor e bisogna saperlo.

«Comunicare vuol dire sapere chi ti trovi di fronte e come puoi parlargli. Al termine di una gara andata male ci saranno ragazzi o ragazze con cui lo sprone verrà da un rimprovero e altri con cui il rimprovero non servirà a nulla e li porterà solo ad avere più dubbi e a chiudersi in se stessi. Se vedrò situazioni di questo tipo ne parlerò con i direttori sportivi. A volte basta una caduta e il corridore entra in una fase negativa». In molti casi, il ruolo di Elisabetta Borgia sarà di mediazione. «Può capitare che un componente dello staff, un meccanico ad esempio, a fine stagione sia nervoso per via della stanchezza e del tempo lontano da casa. Alcuni atleti non ne risentono, altri captano questo nervosismo e tutto si ripercuote sull'ambiente di squadra». Nel caso di un altro tipo di comunicazione, quella mediatica, Borgia non se la sente di dire nulla ai media, perché fanno il proprio lavoro, quello che può chiedere è maggiore attenzione per l'aspetto personale.

In tutto questo, Borgia evidenzia l'importanza del lavoro con i giovani per tutelare la tridimensionalità della loro vita, qualcosa che si va a perdere quando si trattano ragazzi di quindici anni come professionisti affermati. «Si saltano troppi step, dandoli per scontati, salvo poi parlare di carriere brevi o di calo dei risultati. Il ciclismo è identità e se a quell'età non hai alle spalle una famiglia ragionevole, la prima cosa a mancare è l'istruzione, la scuola. Il rischio è di arrivare a trent'anni senza conoscere, senza conoscersi. A quel punto si può far poco perché le persone faticano a cambiare abitudini consolidate. Bisogna lavorare prima, mentre tutto è in costruzione, in formazione».


Da sola verso l'oceano

Il viaggio di Noemi Giraudo, in bicicletta, verso l'oceano, ha a che vedere col tempo. Il tempo che sentiva di sprecare, che sentiva non appartenerle più. «Passavo le mie giornate chiusa in quattro mura a lavorare, guardavo il cielo fuori dalla finestra e non capivo cosa stessi facendo. Dopo tanto tempo ho lasciato un lavoro in cui non mi ritrovavo più, una decisione difficile, sofferta, sentivo il bisogno di andare via. Negli ultimi tempi facevo fatica anche ad alzare la cornetta del telefono per prendere un appuntamento». Quando ha scelto di caricare le sue borse su una bicicletta e partire verso Arcachon, verso le Dune du Pilat, si è chiesta da cosa stesse scappando. Non ha detto nulla a nessuno, tranne che ai familiari più stretti perché temeva di non arrivare; tutti sapevano che stava partendo, quasi nessuno che pensava all'oceano. «A ventisette anni non avevo mai trovato il tempo per vedere l'oceano e mi sembrava uno spreco. È stato bello sedersi alla scrivania e programmare questo viaggio. Mi è tornato in mente il primo viaggio in bicicletta che avevo fatto anni fa in Sardegna. Ero tornata piena di autostima e mi ero promessa che avrei fatto viaggi simili almeno una volta all'anno. Sono passati cinque anni e nessun viaggio. Fa riflettere».

Quattordici giorni, circa 1.100 chilometri, da Boves, in Piemonte, attraverso la Francia, da sola, con una tenda e diverse borse. Qualche timore solo la notte prima di partire, poi tutto è stato naturale. «Molti mi hanno fermato per strada e quando ho spiegato dove stavo andando mi hanno chiesto se non avessi paura, da sola, essendo donna. Mi sono arrabbiata più volte perché le donne hanno paura quanto gli uomini, sanno stare da sole e fare fatica. Io non avevo paura». Nemmeno il quarto giorno quando, vicino a Valence, il vento era così forte che la bicicletta non voleva proprio andare avanti. «Papà al telefono mi ha suggerito di prendere un treno e avvicinarmi così all'oceano. Non ci ho pensato nemmeno un minuto. Mi serviva quella fatica». La fatica, in questo viaggio in bicicletta, era leggera, non pesava. Nonostante l'autunno, gli abiti pesanti e il rischio di trovare brutto tempo, prima sulle Alpi e poi a plateau de l'Aubrac. Proprio qui, mentre la salita finisce e la strada spiana, Noemi vive uno dei momenti più belli: «Un'aquila ha volato per un attimo sopra la mia testa. In quel momento ho pensato a cosa sia la bicicletta. Questo mezzo che ti permette di viaggiare a piedi sollevati da terra».

L'oceano è la destinazione finale, ma Noemi non ci pensa molto durante il viaggio. «Volevo stare in quei luoghi e in quel tempo. Sono convinta che crescendo abbiamo perso la capacità di vivere ciò che ci accade. Ci proiettiamo avanti o indietro e non vediamo ciò che ci passa sotto il naso». Questo è un problema, anche se ciò che abbiamo davanti è noioso. In questo viaggio, la noia è arrivata nelle lande: 129 chilometri di rettilinei, tra i pini marittimi. Devi cercare un punto e focalizzarti su quello, altrimenti non pedali più.
Passano i campeggi, le tende e anche qualche casa. Warmshowers, un'applicazione attraverso cui viaggiatori mettono a disposizione la propria casa per altri viaggiatori, le fa conoscere una famiglia francese che la ospita una sera. «A cena a parlare dei loro viaggi, delle nostre lingue e di dove stessi andando. Ero a casa loro ma mi hanno fatto sentire a casa mia». Come quella serata trascorsa con ragazzi che stavano percorrendo la parte francese del cammino di Santiago, mentre fuori c'erano meno sei gradi e un tempo da lupi. «Ho scoperto Le Puy en Velay, ma soprattutto ho capito l'enorme potere che abbiamo nelle mani: far sentire qualcuno a casa, l'ospitalità».

E ancora i saluti «perché anche la vecchietta che sta chiudendo la porta di casa ti saluta quando ti vede» e le strade di campagna. «Avrò percorso due chilometri con un'auto alle mie spalle, una stradina strettissima dove era impossibile superarmi. Temevo mi suonasse il clacson. Invece no, ha atteso, senza fretta. La Francia è piena di ciclabili, le strade sono vissute in funzione della bicicletta, gli automobilisti mettono la freccia a destra per segnalare il ciclista».

Infine gli ultimi sessantacinque chilometri fatti tutti d'un fiato e l'uscita dalla foresta. «L'oceano appare all'ultimo e il vento oceanico è talmente forte da spingerti indietro». Noemi sale su quella duna, guarda l'acqua e telefona a sua madre. Quello che ha pensato davanti all'Oceano è difficile da raccontare perché, in fondo, appartiene solo a lei. Qualcosa da dire, però, c'è. Per esempio, dell'autostima che torna quando ti accorgi che andare via non vuol sempre dire scappare, vuol dire solo trovare un nuovo modo di vivere le cose. Quello che abbiamo il dovere di fare tutti quando la vita ci scappa dalle mani. «Potrei dire che un viaggio così lo consiglio a tutti. In realtà dico di pensarci perché ti mette alla prova, resti solo e rischi di stare peggio. A me la solitudine fa bene, non so ad altri. Quello che consiglio a tutti è di ritrovare il tempo per se stessi».


Ian Boswell, come tagli in un tronco d'acero

Il Vermont non poteva che essere casa per Ian Boswell. Da anni, ormai, Boswell abita in una casa rurale, fra i boschi del nord est degli Stati Uniti. Sono stati quei boschi e quelle strade sterrate a dargli il coraggio di dire basta al ciclismo professionistico, nel 2020, dopo il terribile incidente che lo coinvolse alla Tirreno Adriatico dell'anno precedente. Da quel giorno, molte cose che prima sembravano facili sono diventate complesse, parlare con più persone nello stesso momento stancante, ha bisogno di scrivere gli impegni della giornata per restare concentrato e di indossare particolari occhiali per leggere. La commozione cerebrale riportata nella caduta ha causato danni permanenti: Boswell non riesce più a stare in mezzo al traffico e, quando vede qualche gara in televisione, teme la velocità, le cadute. Da quel giorno non è il ragazzo che tutti credono di conoscere, magari solo perché lo hanno visto alzare al cielo le braccia impolverate dalla ghiaia alla Unbound Gravel 2021, solo perché lo hanno visto domare quei chilometri di strade sterrate con apparente facilità.

«All'inizio - spiega in un'intervista a Cyclist UK- accettavo le cadute come rischio del mestiere. Mi dicevo che io ero questa cosa qui e che ero disposto a mettere in conto le cadute, persino la morte. Quando sono caduto, avrei subito voluto tornare in sella, non pensavo ad altro». Ma la realtà ritorna. I primi allenamenti dopo la riabilitazione sono impossibili, Boswell ha bisogno di fermarsi, la fatica è esasperata. Come un'incisione nel tronco di uno dei tanti aceri della terra di cui Boswell è diventato figlio. Così annuncia il ritiro, dice che tornerà in quei boschi, che sente il bisogno di scoprire quelle strade sterrate fuori da casa. Forse avrebbe dovuto credere più in se stesso durante la sua carriera, avrebbe dovuto credere al bambino che era e che sognava, un giorno, di andare al Tour de France ma anche diventare adulti ha un prezzo da pagare. Orgoglioso di aver corso in Sky, di aver vinto e anche di aver mollato.

«Bisogna imparare a lasciare che il corpo sia la nostra guida. È difficile» dice oggi. Perché chi sa delle incisioni nei tronchi d'acero del Vermont, sa anche che da quei tagli si ricava lo sciroppo d'acero. C'è qualcosa da salvare anche nei tagli, anche se Ian Boswell non è più l'uomo di prima e tanti ragionamenti, forse, un tempo non li avrebbe nemmeno fatti. Oggi li fa, mentre taglia la legna e prepara i ciocchi che finiranno nel camino per l'inverno che verrà. «Ci sono molti atleti che percorrono la stretta linea di confine tra velocità e cadute: io non ho più il desiderio di correre quel rischio». Le gare di gravel, quelle che ha scelto per ripartire, lo fanno sentire sicuro perché raramente si finisce nella pancia del gruppo, spesso si arriva da soli, non ci sono volate, non c'è quella velocità e quello sfiorarsi di equilibristi senza rete. «Sono più lunghe, forse più faticose, ma il problema non è la fatica. Non sento più il bisogno di andare come un dannato a tutti costi. Se mi sento insicuro, se ho paura, so che posso frenare, rallentare. Mi prendo questo permesso».

Nonostante ciò, continua ad allenarsi, a correre, a progettare e anche a vincere. Il 5 giugno del 2021 ha superato Lawrence Ten Dam, bruciando tutta l'energia che aveva in corpo nel finale della Unbound Gravel, a Emporia, in Kansas. Ha gridato solo “Yeah”, una liberazione e una conferma. Perché capire, non significa rinunciare.
Già, perché anche il dolore ha un confine da non superare. Oltre quel limite, soffrire non ha alcun senso. Diventa pericoloso. Anche gli aceri con meno di quarant'anni non vengono incisi. C'è una ragione, c'è la ragione da seguire. Se Ian Boswell dovesse cadere ancora, se dovesse picchiare male la testa, i rischi per lui sarebbero ben peggiori di quelli che sta affrontando: potrebbe non risalire più in sella e questo no, non avrebbe proprio alcun senso. «Una volta non me ne accorgevo, ora vedo tutti i piccoli rischi che ci sono sulla strada. Il mio cervello si rifiuta di far finta di niente». Per questo Ian Boswell sa di aver fatto la scelta giusta.

Foto: account IG unboundgravel


Muretti Madness

La storia di Muretti Madness è in realtà la storia di quattro ragazzi, studenti di Architettura all'Università di Firenze. Ce la racconta Matteo Pierattini, ancora in studio, a progettare, a sera. «Eravamo tutti appassionati di ciclismo, ma, come abbiamo iniziato a lavorare, il tempo per pedalare scarseggiava. Non volevamo rinunciarci, così siamo andati sui muri attorno a Firenze. Lì pedali un paio d'ore e ti sembra di aver fatto tutto il pomeriggio in bicicletta». Muretti Madness è proprio questo, un elogio alla lucida follia di chi, un sabato di ottobre, percorre 120 chilometri attraverso quelle mura, 25 muretti, più di 3500 metri di dislivello, circa otto ore in bicicletta, senza alcuna ricompensa. «Se ci pensi, la fatica del ciclismo è totalmente irrazionale. Se ti chiedessi chi te lo fa fare, rinunceresti. La fatica degli eventi come Muretti Madness è forse la più bella perché non vuole nulla in cambio». Pierattini se l'è chiesto: «Se mi avessero proposto una cosa di questo tipo, l'avrei fatta? Sì, ho noleggiato un furgone e ho viaggiato quindici ore in piena notte per andare in Belgio a vedere le Classiche del Nord. L'avrei fatta».
Perché Muretti Madness è un evento, non è una gara, non c'è competizione. Nato otto anni fa, quando appuntamenti così erano rari, con un'idea precisa: pedalare duro, “pedalare tosto”, come dice Matteo con un'inconfondibile cadenza toscana, assieme ad altri che condividono qualcosa con te. «Una visione del mondo, della fatica. Se si ascoltassero le voci degli iscritti, non si sentirebbe mai parlare di watt, potenza o velocità. Li senti commentare il percorso o i paesaggi. Li senti raccontarsi storie e problemi, perché condividere la fatica ti dà questa fiducia. Siamo partiti in dieci, quasi un gruppo di amici, quest'anno settecento persone hanno pedalato sui muretti. C'è una magia in questo». Matteo sostiene che questo segreto risieda nella bellezza, perché fai fatica volentieri se sai che qualcosa di bello ti aspetta.

«Sono i paesaggi e anche i muri. Queste stradine strette, meravigliose, che certe volte non sono conosciute nemmeno dai fiorentini. Ho girato molto per scoprirle, luoghi come Monteripaldi e la vecchia Fiesolana vengono da quei giri. Perché la Muretti l'abbiamo inventata, ma, soprattutto, abbiamo continuato a pedalarla ogni anno. A viverla da dentro».
La festa finale, come i ristori, è studiata attraverso questa bellezza. Si scelgono locali dall'aspetto famigliare, gestiti da qualcuno che conosca il ciclismo, che sappia che persone sono i ciclisti. Ai ristori c'è cibo genuino: un panino col prosciutto o con la marmellata, una torta fatta in casa. «Nutri il corpo, le gambe, ma anche la testa, che può liberarsi per qualche istante di tutte le difficoltà che ciascuno fronteggia». Dicono che Muretti Madness sia un piccolo Fiandre e in un certo senso il paragone è inevitabile, Matteo, però, aggiunge qualcosa. «Molte di quelle stradine sono quelle su cui Ginettaccio Bartali si allenava, affacciate su Firenze. Ho immenso rispetto per il Fiandre, affetto, anche. Ci sono dei punti in comune, ma restano cose diverse. Dovremmo imparare ad essere orgogliosi di ciò che facciamo, che creiamo, senza doverlo per forza paragonare ad altro. In Italia c'è una grande cultura ciclistica».

Per questo Matteo Pierattini augura a Muretti Madness di durare nel tempo e di diventare qualcosa di permanente. «Sarà un percorso che inizieremo dal prossimo anno, innanzitutto a livello legale. Vorremmo che questi tracciati restassero permanenti e fossero punti di visita per coloro che passano da Firenze. In un certo senso un dono a Firenze e a chi, come noi, ha voglia di fare fatica in bicicletta, ma non ha molto tempo». Ogni anno, i ragazzi di Muretti Madness cercano un muro nuovo, una strada mai esplorata e lo fanno per chi arriva da lontano. «Ci sono persone che partono da Milano, da Bergamo o dalla Sicilia, che viaggiano in treno la notte del venerdì, dormono tre ore e poi pedalano. Abbiamo il dovere di dare qualcosa a chi arriva qui dopo tanti chilometri e magari torna ogni anno. Noi abbiamo scelto di portarli a vedere un posto nuovo, un luogo in cui non erano mai stati». C'è il pacco gara, magliette e cappellini, l'avventura e la voglia di vedere le persone felici.

Durante la pandemia, Muretti Madness si è svolta nella sua versione diffusa, in modo da non creare assembramenti, non rinunciando ad andare in bicicletta. «Ci spiaceva rinunciare e le persone hanno capito. Sono venute in tante, hanno visto l'atmosfera serena, tranquilla di queste vie. Qualcuno lo abbiamo incrociato ed era felice. Credo basti dire questo». In otto anni, sono cambiate tante cose. Alcuni di quei ragazzi della facoltà di Architettura hanno avuto figli, Matteo stesso ha una bambina e non vede l'ora di farle conoscere Muretti Madness. «Quest'anno sarebbe potuta venire con noi, ma aveva la febbre, una brutta bronchite. La porterò presto. Anche questo è bello, vedere che questa avventura che ci è scoppiata fra le mani continua e resta salda fra tutto ciò che cambia. Ha preso una fetta importante delle nostre vite. È cresciuta e ci ha cresciuti. Perché da quei muretti abbiamo imparato tanto e continuiamo a imparare».


«Vi ricordate da dove siamo partiti?» Intervista a Diego Bragato

«Vi ricordate da dove siamo partiti?», è questa la prima cosa che ha detto Filippo Ganna ai suoi compagni, dopo essere sceso dal podio dell’inseguimento a squadre.

Diego Bragato, preparatore degli azzurri dell'Italpista, ricorda bene quella serata in taxi, in Messico, dopo una prova di Coppa del Mondo in cui l'Italia non era entrata nelle prime otto. Accanto a lui c'era Liam Bertazzo: «Gli dissi che continuando a lavorare così saremmo andati lontano, mi guardò e: “Ma va! Dove vuoi che andiamo”. Ne abbiamo parlato l'altra sera».

Bragato lo ammette: all'inizio ci credevano solo i tecnici, la squadra sognava, ma la concretezza dei numeri era unicamente nelle mani dei preparatori. «Guardavamo gli altri quartetti e ci chiedevamo come facessero ad andare così veloci. I test, però, parlavano chiaro: avevamo i 1400-1600 watt che servivano per fare un buon lancio e anche i 500 watt che servivano per gestire una buona prova. Era solo questione di lavorarci, anno dopo anno perché risultati del genere li costruisci solo negli anni. Prima si parlava di qualche decimo di miglioramento, oggi si parla dell'Italia ai vertici alle Olimpiadi e ai Mondiali».

Diego Bragato sostiene che la marcia in più degli azzurri sia quella di essersi sempre sentiti tutti sulla stessa barca, anche quando le cose non andavano. «Marco Villa ha fatto sentire tutti parte integrante di questo gruppo. Nessuno si è mai sentito ai margini. Tutti i ragazzi sanno di contare. Spesso ci andiamo a scontrare con nazioni che si dedicano interamente alla pista, i nostri atleti, invece, sono atleti che vengono dall'attività su strada, come Ganna, Viviani, Consonni e lo stesso Milan. Questo accresce il valore dei risultati».

A Roubaix, non c'era troppa pressione, ma l'idea era chiara a tutti: «Non ce lo siamo detti apertamente, ma era evidente, che nessun risultato, tranne la vittoria, avrebbe potuto soddisfarci». Per questo, prima della finale con la Francia, Marco Villa ha chiamato a colloquio i ragazzi del quartetto. «La semifinale con la Gran Bretagna era filata anche troppo liscia. Intendiamoci: abbiamo fatto tutto quello che dovevamo fare, una prestazione ottimale. Solo che abbiamo vinto facilmente e, quando succede così, c'è sempre il rischio di rilassarsi. Villa ha ribadito che bisognava mantenere la stessa pressione, la stessa tensione contro la Francia». La Francia, tra l'altro, non aveva partecipato agli Europei, per preparare al meglio i Mondiali in casa. «Abbiamo stilato una tabella molto esigente. Sapevamo che la loro grinta avrebbe potuto metterci in difficoltà all'inizio, ma eravamo altrettanto certi che non avrebbero potuto reggere quel ritmo per tutta la gara. Ad un certo punto avrebbero ceduto e noi avremmo aumentato. E poi noi, alla fine, avevamo Ganna». Al posto di Lamon, che ha disputato le qualifiche, ha gareggiato Bertazzo: «Perché lo meritava avendo visto le Olimpiadi da bordo pista e perché era pronto. Le scelte di Villa sono sempre date da requisiti esclusivamente prestazionali. Per questo i ragazzi le accettano. Hanno visto dove possono portare».

Insieme a loro, la dedizione al lavoro di Simone Consonni, «Un ragazzo che sta crescendo sempre più, uno di quelli su cui puoi fare sicuro affidamento perché è schietto: se dice di essere pronto, dà tutto» e la freschezza di Jonathan Milan. «È il più giovane, come pensieri, come età, come atteggiamenti. Osserva sempre Ganna, lo segue e cerca di imitarlo, di imparare da lui. Filippo scherza su questa cosa, però la apprezza e prova a insegnargli tutto ciò che sa. Senza troppe parole, solo mostrandogli come fare. Nell'inseguimento individuale, Ganna era in finale per il bronzo, Milan per l'oro, avrebbero potuto essere avversari, eppure fino all'ultimo Filippo lo ha affiancato dandogli alcuni suggerimenti». Proprio quella finale per il terzo posto, a detta di Bragato, sarà molto utile a Ganna. «Ha mostrato professionalità fino all'ultimo, mentalmente era stanco, forse era anche una gara di troppo dopo la sua stagione, eppure ha dato tutto. I primi giri della semifinale sono stati un incidente di percorso, Ganna va più veloce anche in allenamento. È venuta fuori la sua umanità, è bello così». Nel post gara, Filippo Ganna ha parlato con Bragato: «Facile lottare per la maglia iridata, io lotto per il bronzo che è l'unica medaglia che mi manca. A parte gli scherzi: o esco di qui a piedi o con il record del mondo». Diego Bragato è restato ammirato dalla sua prova: «Avesse finito la finale, avrebbe frantumato il record del mondo. Secondo me, è partito anche troppo veloce».

Dall'altro versante, Marco Villa parlava con Milan: «Era entusiasta, sentiva, però, il peso di essere nella finale in cui tutti aspettavano Ganna. A bordo pista lo abbiamo applaudito. Marco glielo ha detto subito: “Comunque vada, devi essere fiero di ciò che hai fatto”».

Quando sabato sono scesi in pista Consonni e Scartezzini per la madison, Villa non c'era, e a bordo pista era appostato Bragato. La prima evidenza è rassicurante: Consonni e Morkøv, Italia e Danimarca, sono i più forti. L'Italia, però, non si monta la testa: fa una gara intelligente, guadagna punti agli sprint, guadagna due giri e «A posteriori, per un cambio sbagliato, non ci siamo giocati l'oro». Bragato va subito da Consonni a fine gara: «Questa è la dimostrazione evidente che non siamo da oro solo nel quartetto, possiamo essere a quel livello in qualunque disciplina, se continuiamo a lavorare». Il rammarico c'è, soprattutto per Scartezzini perché «Per come ha lavorato avrebbe meritato anche lui una maglia iridata. Michele sa che serve pazienza, il suo idolo è Viviani: quanto tempo ha aspettato Elia?».

Con Viviani, Bragato ha un rapporto particolare. Il veronese è stato il primo a volerlo come preparatore, anche su strada, quando Diego era giovanissimo e questa fiducia, per Bragato, ha voluto dire molto. La fiducia di Viviani ha, poi, portato la fiducia dell'intero gruppo. «La gamba c'era. I risultati di Scratch e Tempo Race, nell'Omnium lo testimoniano. Però Elia non era tranquillo, da questo sono venuti alcuni errori tecnico-tattici, per esempio quello che lo ha portato a sbagliare nell'eliminazione. Quella è stata la scossa per andarsi a prendere il podio. Nella corsa a punti, abbiamo visto il vero Viviani che, in queste prove, resta uno dei primi tre al mondo».

Bragato, sabato sera, lo affianca all'uscita del velodromo: «L'eliminazione di domani non sarà una gara singola per noi, sarà una continuazione della prova di oggi. Riparti da qui. Gli alti e bassi ci sono stati e li hai superati, ora puoi prenderti quella maglia iridata». Glielo ha ripetuto più volte, Bragato. Anche la mattina a colazione. Oggi, tuttavia, ha la certezza che anche un altro passaggio sia stato fondamentale: "Mentre Elia faceva i rulli, c'erano Scartezzini e Consonni che si stavano prendendo l'argento. Vederli lottare così lo ha aiutato. Vedere il gruppo di cui è capitano giocarsela così gli ha dato forza».

Bragato conosce sin troppo bene Viviani, sa che ha bisogno di tranquillità. Così prima della gara torna a parlarci: «Elia Viviani resta un campione qualunque cosa accada adesso. Fallo per te, Elia. Solo per te e per nessun altro. Vai a prenderti quella maglia perché te la meriti». Il finale lo sappiamo tutti. «Gli ultimi due anni sono stati difficili per Viviani. Quando le Olimpiadi sono state rimandate, ha sofferto molto. Sapevamo a cosa stavamo lavorando, ma dovevamo aspettare. “Abbi pazienza- gli dicevo- farai una grande Olimpiade e torneranno anche le vittorie su strada”. È successo proprio così».


Le azzurre ai Mondiali di Roubaix

Vogliamo parlarvi di storia, mentre i Mondiali di Roubaix si sono avviati alla conclusione. Anzi, per la precisione, vogliamo parlarvi di storia e di storie.
Solo poche ore fa, Elisa Balsamo ha riscritto la sua storia personale nella disciplina dell'Omnium. Non era facile dopo l'Olimpiade, dopo quella caduta spaventosa nelle fasi conclusive dello scratch all'Izu Velodrome. Se ci pensiamo, rivediamo la bicicletta dell'egiziana Zayed Ahmed che le passa letteralmente sopra, mentre lei sbatte su quel legno a oltre 55 chilometri orari. Poco il danno a livello fisico, ma quella caduta ha fatto male alla ragazza di Cuneo. Ha fatto male perché l'Olimpiade era attesa, da tanto. Ce lo ha confidato un pomeriggio di febbraio, seduti al centro del velodromo di Montichiari e, si sa, più attendi, più desideri, più la delusione fa male. Così male che, tornata da Tokyo, Elisa non voleva più parlare di bicicletta, di ciclismo. Così male che, forse, nemmeno la vittoria al Mondiale delle Fiandre aveva ricucito quello strappo.
Emotiva, Elisa Balsamo. Quello stato per cui senti tutto più forte, emozioni, delusioni, felicità ma anche tristezza. Lo ha detto al termine della gara. "Dovevo superare la caduta di Tokyo. Questa medaglia è importante". Ancora di più proprio per il suo carattere che avrebbe potuto bloccarla, forse, invece è stata la spinta in più. Perché ogni cosa ha due facce, anche l'emotività. La sua si è trasformata in freddezza: quando avrebbe potuto giocarsi lo sprint con Archibald nell'eliminazione, invece ha accettato il secondo posto e ha continuato a rosicchiare punti alle avversarie. Quando c'è stata una caduta a pochi centimetri da lei ed è riuscita a tenere lontano quel ricordo, salda, ora più che mai. Persino quando Kopecki le ha soffiato l'argento a pochi giri dal termine. Avrebbe potuto innervosirsi e commettere qualche errore, invece no. Elisa Balsamo conosce la sua storia e sa che va bene così. Va bene il bronzo.
Martina Alzini, Chiara Consonni, Elisa Balsamo e Martina Fidanza conoscono anche la storia. Quella del ciclismo, quella che di tanti piccoli episodi si disinteressa, quella che parla per albi d'oro, statistiche e podi. Non quella che preferiamo, perché senza le storie, quelle singole, la storia sarebbe monca. Per questo sanno di aver fatto qualcosa di grande, qualcosa che viene da lontano, qualcosa che è testimoniato dalla storia e dalle storie. Dalla loro giovane età, dall'incredulità e anche dalla delusione che per qualche attimo ha occupato il loro volto dopo la finale dell'inseguimento con la Germania. Dopo l'argento. E anche quella delusione, del tutto momentanea, è da salvaguardare, perché le porterà a far meglio e meglio dell'argento c'è solo l'oro. Qualche anno fa sarebbe stata utopia, ora parliamo di tempi. Di una finale raggiunta con 4'11''978 contro la Gran Bretagna. Di una finale storica, del nostro miglior risultato in una rassegna iridata che resterà nella storia, quella grande, quella che tutti conoscono.
In quella piccola, invece, assieme al timore di Elisa Balsamo, resteranno le parole tra Chiara Consonni ed il fratello Simone, per farsi coraggio, perché per lei era una prima volta assoluta. Resteranno gli occhi lucidi di Martina Alzini che è riuscita anche a scherzare: "No, mi deve essere entrato qualcosa negli occhi". E Martina Fidanza che scrutava ogni centimetro del podio, quasi a memorizzarlo. Tutti ci auguriamo di ricordarci anche di questo quando fra qualche anno le elogeremo, sul tetto di mondo. Perché sarà anche questo a contare. Oltre all'argento e al bronzo che abbiamo festeggiato in questi Mondiali.


Si vince così, nonostante tutto

Cosa hanno fatto Simone Consonni e Michele Scartezzini nella Madison? È una domanda, ma anche un’affermazione. Ce lo chiediamo e lo ripetiamo da diversi minuti. Una prova entusiasmante coronata dalla medaglia d'argento, dietro la Danimarca di due colossi dell'americana, Michael Morkov e Lasse Normann Hansen, e davanti al Belgio di Kenny De Ketele e Robbie Ghys. I nostri due azzurri l'hanno fatta a nazioni altrettanto quotate come Francia e Gran Bretagna. L'hanno fatta anche alla sfortuna, perché la domenica pomeriggio non era iniziata al meglio.

Michele Scartezzini era caduto a terra a pochi giri dalla partenza e ci aveva messo del tempo per tornare in sella. Solo Consonni a girare in pista, a tutta, con gli occhi ovunque e la mente a cosa avrebbe potuto essersi fatto Scartezzini. Il primo respiro di sollievo è stato al suo ritorno in pista, il secondo quando l'abbiamo visto buttarsi negli sprint e lanciare Consonni nei cambi.

Il terzo respiro è felicità. Perché se dopo un inizio di questo tipo si ha la grinta di andare a fare lo sprint e vincerlo vuol dire che, alla fine, non è davvero accaduto nulla. C'è di più: perché la Madison di solito era terreno per la coppia Viviani-Consonni, una coppia rodata, dalla pista e anche dalla squadra che i due hanno condiviso negli ultimi anni. Non era scontato che con Scartezzini il meccanismo funzionasse. È accaduto, a riprova del fatto che c'è una formula vincente in questa nazionale che va oltre i successi: è il gruppo. Scartezzini lo disse in tempi non sospetti: "L'importante è che a Tokyo vadano i migliori. Il resto non conta".

Tenacia, resistenza e astuzia in una miscellanea esplosiva. Come esplosivo è il gesto del cambio, quella mano che prende e rilancia. Gesto di assenso e di equilibrismo, perché le sbandate sono all'ordine di ogni secondo, di ogni vibrazione d'aria. Scartezzini e Consonni che vanno in caccia per guadagnare il giro e prendere venti punti, Scartezzini e Consonni che non vogliono lasciare nulla a Roubaix, così rallentano prima di rientrare, vincono lo sprint e poi chiudono sul gruppo. Primi in classifica, sempre nel vivo della corsa, di una corsa più che mai viva, che sembra addormentarsi qualche istante e poi si risveglia con la suspence che la pista impone, soprattutto quando è sfida di eccellenze.

Il secondo posto è tutto da guadagnare perché si lotta su ogni centimetro. Scartezzini e Consonni sudati, stanchi, con l'acido lattico fin sopra i capelli, che digrignano talmente forte i denti da arrossire di dolore. Scartezzini e Consonni che sulla scia della Danimarca si prendono un altro giro e vanno a sprintare sul finale. Un finale sospeso, come sospesa è la pista, luogo in cui rette e angoli lasciano spazio a linee e curve. La curva, il momento della paura, della perdita di equilibrio, del cambio, talvolta del sorpasso per questi funamboli dei pedali.

Scartezzini e Consonni che salvaguardano il secondo posto. Consonni che a Tokyo aveva avuto problemi prima di questa gara, si era parlato di ansia, di panico. Non stava bene, ma volle scendere in pista. Come andò, lo ricordano tutti. Da oggi, ricorderemo meglio com'è andata questo pomeriggio. Nonostante la caduta, nonostante i ricordi, nonostante la coppia non fosse la solita. Forse proprio per questo. Perché gli esseri umani inseguono la perfezione nei velodromi, ma sanno bene che è utopia. Si migliora, si insiste e poi si vince. Si vince così, nonostante tutto.


Tutta la determinazione di Elia Viviani

Probabilmente non è stato un Omnium perfetto per Elia Viviani. Il valore di quella medaglia di bronzo è tutto in questa affermazione. Certamente non lo è stato se pensiamo che, alla vigilia della corsa a punti, ultima delle quattro prove previste, la sua posizione era più complicata di quanto ci si potesse aspettare. Eppure, la partenza era stata buona: terzo nello scratch, solo ottavo nella tempo race che abbiamo capito essere la prova più ostica per il veronese, Elia era quarto prima dell'eliminazione, perfettamente in linea con le aspettative di medaglia.
Ma l'imprevisto è una tappa ineliminabile nella vita di ogni sportivo e i fuoriclasse sono coloro che riescono a fronteggiarlo al meglio, senza alibi, senza scuse. Lo abbiamo detto più volte: basta poco per essere eliminati, l'eliminazione è una gara che tesse tranelli e li nasconde fra le pieghe del gruppo. Per Elia il tranello scatta per una questione di posizionamento, non di gambe, non di mancanza di condizione. Certo, non è Ethan Hayter che si mette in testa al gruppo e lo trascina per tutti i giri. Ma nessuno glielo chiede. Se la pista è diventata ciò che è diventata per l'Italia, è anche merito suo e di quell'oro a Rio, ormai cinque anni fa. Quasi inumano il britannico, per la forza e la freddezza che lo fa spostare a quattro giri dal termine, accettando un'eliminazione anticipata, che a molti sembra uno spreco, a lui la scelta più intelligente, tanto ha forza nelle gambe. Ma torniamo ad Elia.
Il segreto è lasciarsi un varco per poter sprintare liberamente sulla linea ed evitare di transitare per ultimo. Elia non può farlo perché è chiuso, imbottigliato. Non è padrone del proprio destino, deciso dagli altri che accelerano e lo superano, eliminandolo. Quelle bici, poi, non hanno freni. Solo nono. Ci si poteva aspettare di più? Certamente. Serve qualcosa di eccezionale per tornare sul podio, qualcosa che a tutti sembra lontano. Basterebbe pensare a Tokyo e a come si è preso quel bronzo che rischiava di essere argento. Ma di fronte alle difficoltà tendiamo a scordarci di ciò che è già accaduto. Forse perché non lo crediamo più possibile, forse perché temiamo la smentita o, più banalmente, perché non crederci è più facile che crederci.
È la determinazione che fa la differenza per Viviani. Chi vede quella determinazione si pregusta l'attesa. Non si può sapere se andrà come tutti si augurano. La certezza è che Elia Viviani proverà qualcosa. Lo ha sempre fatto nella sua carriera. Forse a Tokyo stava per rinunciarci e allora serviva Villa. "Cosa sta succedendo, Elia?" e Viviani ha ritrovato le risposte che da tempo non si dava più. Anche ieri Villa gli avrà detto qualcosa, non molto, perché non serve, ci ha confessato il tecnico. Avere fiducia, invece, è indispensabile: intendeva questo Ganna quando ha ringraziato il tecnico per averci creduto anche quando le finali si vedevano da casa, sul divano. Pazienza se qualcuno, nella notte, ha rubato venti biciclette agli azzurri, non ne sapeva niente di fiducia e comprensione, è inutile stare a spiegare.
Villa ci crede, Viviani ci crede. Quando un corridore parte all'attacco nella corsa a punti e conquista un giro, si usa dire che va in caccia. Non ce ne intendiamo di caccia, sappiamo che è anche mimetismo, silenzio, soprattutto attesa. Questa è la corsa a punti di Viviani, che dapprima si vede poco, appare e scompare. Sempre di più, fino a quando battezza la ruota giusta e parte. E quando parte non c'è nulla di diverso da cinque anni fa, siamo tutti ai bordi di quel velodromo, a voltare la testa come bambini increduli quando riprende il gruppo e torna in zona podio oppure quando, a due giri dal termine, si prende la posizione migliore per la volata e sono gli altri a faticare a tenere la sua velocità. Qualche secondo e la certezza: il portoghese Leitão non ha fatto punti, Viviani è bronzo. Ancora sul podio. Ancora nell'omnium.
Hayter è imprendibile, vince per questioni di matematica, ancora prima di vincere. Aaron Gate no e senza quell'errore nell'eliminazione Viviani poteva essere argento. Non crediamo sia questo a fare la differenza. A fare la differenza è il fatto che, ancora una volta, Elia ha dimostrato che fino all'ultimo si può cambiare qualcosa. È vero, non crederci è più facile. Crederci, però, fa la differenza. La fa preferire ciò che può cambiare qualcosa a ciò che lascia tutto uguale. Per questo ci sono i ciclisti, per questo ci sono le biciclette. Per cambiare.


La crescita e l'orgoglio

La giornata era iniziata con una mezza delusione perché, diciamocelo, ci aspettavamo Filippo Ganna in finale per l'inseguimento individuale. Magari in una finale tutta italiana con Jonathan Milan, ve la immaginate? Ma, alla fine cosa puoi dire a Ganna? Qualcosa si può dire: non toccategli l'orgoglio per quella finale mancata, perché si inventerà qualcosa di assurdo. E assurdo, parlando di Ganna, significa incredibile, bello. Basta guardare la prestazione che ha tirato fuori nella finale per il bronzo. Ha raggiunto Claudio Imhof, ha vinto e avrebbe tirato dritto per ribadire che stamattina è stato un errore ma lui, su quei tempi, non si batte. È stato fermato dalla giuria, mentre i compagni al centro della pista invitavano il pubblico alla standing ovation, altrimenti chissà che tempo avrebbe realizzato. Non ufficiale certo, ma è una gran bella risposta. Della classe nemmeno parliamo perché sarebbe scontato.
Erano in attesa Ashton Lambie e Jonathan Milan. Trenta anni contro ventuno, Usa contro Italia, Nebraska contro Friuli Venezia Giulia. I baffoni americani contro i 194 centimetri del ragazzo di Buja. Quei baffi che sembrano uno scherzo all'aerodinamica, quei centimetri che sembrano inconciliabili con l'armonia che Milan mostra su quella sella mentre spinge sul parquet.
I tempi parlavano chiaro: Lambie era favorito. Ex meccanico di biciclette, l'americano, che a forza di averle fra le mani si è deciso a provarle. Era partito con la gravel, poi ha provato la pista. Dalla polvere al velluto del velodromo, lisciato dopo ogni impatto che potrebbe rovinarne la superficie. Si prende la scala per lisciare il legno, perché l'inclinazione è tanta, perché a piedi non sali.
Milan è lì. Ieri ha lanciato il quartetto, oggi si è lanciato, forse anche troppo veloce nelle fasi iniziali. Villa glielo ha detto subito. È rimasto lì, perdeva qualche centesimo ma non naufragava, denti stretti, saldo in sella. Si è scomposto solo nel finale, quando ormai Lambie era lanciato verso l'oro. Si potrebbe dire che ha perso l'oro, vogliamo dire che ha vinto l'argento. Non era facile. Non era facile perché c'era Lambie, non era facile nemmeno a livello psicologico essersi guadagnati quel posto, sostenere la tensione di quella finale in cui tutti aspettavano Ganna. Alla fine, però, è così che si cresce: affrontando ciò che sembra più grande di te e che momentaneamente, magari, lo è anche. Lanciandosi nel velodromo e portando a casa l'argento mondiale.
Ashton Lambie sorride sotto i baffi, si avvolge nella bandiera americana. Ad agosto, in altura, aveva frantumato il record sui quattro chilometri, scendendo sotto il muro dei quattro minuti. C'è qualcosa in sospeso con Ganna, una sfida lanciata. Come, dopo oggi, c'è qualcosa in sospeso con Milan e chissà che nei prossimi anni la sfida non si ripeta e sia Milan a spuntarla. C'è la fantasia di una finale italiana e che bello sarebbe. Ci sono un argento e un bronzo in più nel medagliere ma non finisce qui. Nei velodromi, ogni sfida è un preambolo di altro che verrà, una motivazione, un pungolo di quelli per costruire qualcosa di migliore. E se le premesse sono queste...