UCI e Gravel, ne parliamo con Enough

L'annuncio UCI, riguardante la creazione di una nuova serie gravel e di un campionato mondiale apposito, ha aperto un interessante dibattito nell'ambiente. Abbiamo scambiato qualche impressione con Federico Damiani, una delle anime del team Enough, che in Italia è velocemente diventato un riferimento nel settore: «Sono tematiche complesse in cui la lucidità di analisi è fondamentale. Prima di farsi un'idea specifica di ciò che potrebbe accadere, bisognerebbe conoscere in maniera accurata quello che l'UCI vorrà fare e a oggi questo non lo sa nessuno. La speranza è che venga salvaguardato il clima di condivisione e festa che, soprattutto qui in Europa, è alla base del mondo gravel. Nessuno, anche ai vertici, però ha detto che questo non avverrà». Damiani pone l'accento su un tema importante: si parla spesso di spirito e disciplina gravel, ma il termine gravel racchiude un insieme di cose talmente diverse da non potersi semplificare così. «È una disciplina così vasta da non essere una disciplina: credo che se questo avverrà, sarà sul modello americano, gare più veloci su fondo sterrato. In Europa, invece, abbiamo gare più lunghe e basate anche molto sulla fruizione del paesaggio, che si avvicinano di più al mondo ultracycling. Basta fare un confronto fra Unbound Gravel e Badlands».

Le gare lunghe, specifica Damiani, sono, in fondo, un modo diverso di viaggiare: «Di solito nel viaggio scegli tu dove andare, come e quando, riservandoti anche di rimandare. In queste gare invece è il mondo a “capitarti” addosso e tu lo vivi in quel momento».

Un indizio che propende per il modello americano è il fatto che, a quanto pare, sarà prevista una vera e propria Gravel Fondo Series per le qualificazioni agli eventi più importanti. «Qui i punti sono due. Il primo è capire in che relazione saranno questi eventi con il calendario gravel che conosciamo. Di certo, se i nomi maggiormente rappresentativi non dovessero partecipare a queste gare, il potenziale Campione del Mondo in carica sarà parzialmente delegittimato. Il secondo, invece, concerne il fatto che chi partecipa a questi eventi anche per il paesaggio e i luoghi che vede, e sono moltissimi, farà più fatica a dedicare un intero fine settimana a una gara che in realtà da questo punto di vista non offre nulla». A questo proposito gli fa eco Mattia De Marchi, recente vincitore di Badlands: «Dovremo essere noi bravi a raccontare alle persone che, qualunque sia la decisione presa, nella visione della bicicletta e del ciclismo non cambierà nulla: già adesso ci sono persone che hanno una maggiore propensione agonistica e altre che invece vogliono solo godersi il momento».

Già, perché tanto De Marchi quanto Damiani sono concordi sul dire che nessuna scelta UCI potrà mai cambiare ciò che il gravel significa per ciascuno. «Crediamo sia sbagliato togliere l'aspetto di festa e scambio dalle gare gravel, però non bisogna nemmeno demonizzare la parte di agonismo che c'è. Quella c'è in tutte le circostanze della vita, non si può fingere di non vederla». Mattia De Marchi continua: «Mantenere le relazioni è molto semplice: basterebbe dormire tutti nello stesso villaggio e preservare i momenti di convivialità. Evitare che ad un certo punto ci sia un fuggi fuggi ognuno nella propria camera di albergo perché “si deve gareggiare”. Se lo si farà, questa scelta potrà anche avere buoni effetti». Il vincitore di Badlands si riferisce alla possibilità che più professionisti si avvicinino a questo mondo, soprattutto coloro che soffrono l'eccessiva competitività, le rinunce e le pressioni. «Saranno pochi, magari, ma di certo qualcuno ci sarà e questo sarà il modo per raccontare un ciclismo diverso, per far capire che può esserci». Del resto, come Federico Damiani spiega bene: «Il mondo gravel non è più un mondo di nicchia e ovviamente crescendo ha iniziato a suscitare interessi commerciali. Peter Stetina ha detto che si sarebbe dovuti per forza arrivare a questo punto. Non so se “per forza”, ma che ci si sarebbe arrivati era prevedibile».

Di fronte a ciò che accade, allora, la domanda migliore che ci si possa fare è come leggerlo per trasformarlo in una opportunità. «Se si avvicinassero sempre più media? Se anche la televisione provasse a raccontare una gara in Kenya, ad esempio? Forse non in diretta, ma in leggera differita. Un sacco di persone seguono i nostri tracciati sulle mappe interattive - continua De Marchi - proviamo a pensare a cosa potrebbe voler dire seguire le immagini televisive. Non tanto per la cronaca, per raccontare il prima e il dopo. Per raccontare gli ultimi ancora più dei primi: è in loro che le persone si immedesimano».

Il mondo cambia e Federico Damiani fa notare che ciò che avviene ora nel gravel è già avvenuto nella mountain bike senza tutte queste discussioni: «Non mi risulta che ci siano persone che si domandano se sia corretto oppure no disputare una gara di cross country. Il punto è sempre il come. Penso alle regole: è del tutto ovvio che delle regole servano, ovunque non solo nel gravel. Ad oggi si rispettano anche tante regole non scritte, per esempio in alcuni eventi, fermarsi tutti assieme ai ristori e poi ripartire. Se ci saranno tante regole scritte, dubito che qualcuno rispetterà quelle non scritte. Anche perché il livello cresce sempre».
Detto che in ogni scelta è lecito seguire anche una logica commerciale, l'importante è che non ci si limiti esclusivamente a quella. «Si può parlare con i brand, ma è necessario parlare anche con gli atleti o gli organizzatori degli eventi e questo, purtroppo, al momento non è stato fatto. Speriamo che l’UCI lo faccia presto» si augurano Federico e Mattia.

Il giudizio è, quindi, sospeso almeno fino a quando non ne sapremo di più.


Il colombre e l'iride

Chissà che aspetto avrebbe oggi il Colombre di Dino Buzzati. Chissà se proprio oggi Stefano Roi sceglierebbe di andargli incontro, magari proprio verso il Mare del Nord. Il Colombre, questo essere marino tra colori e ombre, è, poi, il futuro e dal futuro non puoi scappare.
Ellen Van Dijk, su quella sedia, in attesa della conclusione delle avversarie, dopo un tempo talmente assurdo da costringerla a tenersi i muscoli con le mani dopo l'arrivo, fasci tremanti esauriti dalla posizione innaturale della cronometro, ha visto il Colombre in faccia. "Sedersi qui è terribile, non puoi fare niente. Devi solo aspettare ma sai che il momento del verdetto arriverà". Dopo l'Europeo, in linea, il Mondiale, a cronometro, per lei che col futuro è da sempre schietta. "Non potrei mai mettermi solo al servizio di un'altra atleta perché vincere mi piace. Ma non riuscirei nemmeno a essere sempre la solista, perché il gioco di squadra mi affascina".
Marlen Reusser, medaglia d'argento, ha sempre creduto in se stessa e quando le chiedono se ha mai immaginato di ottenere i risultati di questi tempi, lascia da parte la falsa modestia: forse non li immaginava così, ma di certo ci sperava, altrimenti non si sarebbe nemmeno messa in sella. Dritta, lineare, perfetta in sella quasi a prendersi gioco del vento che si insinua tra le strade e ti deride. Nel suo futuro ha timore di diventare una di quelle atlete che vince tanto, ma sa solo vincere, che non si gode nulla e di conseguenza è sempre altrove, col pensiero e l'ambizione.
Amber Neben quel libro di Buzzati sembra averlo letto, come un avvertimento. Ben quarantasei anni, la statunitense ha corso la cronometro dopo che poche settimane fa, a causa di uno scontro con un’auto in allenamento, si è fratturata il bacino. Il suo futuro, in bicicletta almeno, è arrivato e quando arriva il futuro lasci da parte tanti dubbi, tante insicurezze, perché, forse solo lì, capisci che il problema non è il Colombre ma il tuo sfuggirgli, quello che ti porta a non vivere. Aveva voglia di una grande prova Neben, di dare tutto. Lo ha fatto e non è passata inosservata.
Dall'altra parte del tempo, ci sono Elena Pirrone e Vittoria Guazzini che a Bruges sono andate per provare, per continuare a crescere e, magari, per avere buone sensazioni. Non erano le favorite per la vittoria, ma non abbiamo fretta. Elena ha raccontato più volte che è stato il ciclismo a renderla la donna sicura che è oggi. Vittoria, che stamattina era stranamente silenziosa, andava a vedere le gare mentre Van Dijk già vinceva. C'è tempo. C'è futuro e il futuro, si sa, arriva sempre. Loro, con la presenza, hanno provato ad andargli incontro e il Colombre, sullo sfondo del Mare del Nord, ha lasciato spazio all'orizzonte.


Il viaggio di Luis Ángel

Luis Ángel Maté ci scrive intorno a mezzogiorno: «Sono a casa con il bambino e sta dormendo. Vi scrivo più tardi, così non lo svegliamo». Passano pochi minuti e a squillare è il nostro telefono.
Luis sa bene che vogliamo parlare de “La Vuelta de la Vuelta" ovvero del suo ritorno in Andalusia in bicicletta da Santiago de Compostela, luogo di conclusione della Vuelta e meta di pellegrinaggio per molte famiglie. Ci sono voluti sei giorni e poco più di mille chilometri. Nel frattempo, Luis è tornato a respirare.
«Eravamo alla Parigi-Nizza, dopo una tappa stressante, al traguardo c'era la solita folle corsa alle borracce, ai massaggiatori e ai pullman. Le nostre corse non finiscono al traguardo, bisogna saperlo. Sfrecciai accanto a Michele Scarponi e lui mi richiamò: “Luis, fermati”. Michele mi fissò e prese un forte respiro invitandomi a fare lo stesso. Scoppiammo a ridere, però, come spesso accadeva con lui, dietro la battuta c'era una profonda serietà. Mi invitò a prendermi il tempo di respirare, almeno all'arrivo. Non siamo abituati a farlo». Da quel giorno, Luis ci ha pensato spesso e, soprattutto, ci ha pensato quando ha immaginato questo ritorno in bicicletta da Santiago de Compostela.
«Se guardassi solo al mio lavoro, non riconoscerei più la bicicletta, non saprei più perché l'ho scelta e perché, ancora oggi, quando qualcuno mi dice che la bicicletta è il mio lavoro rispondo che è molto di più». Per un professionista il ciclismo diventa stress, watt da sviluppare, allenamenti, grammi da perdere, pasti contati e ansia di controllare sulla bilancia che il peso non sia aumentato. Luis Ángel non può adeguarsi a questa idea, per questo ha progettato questo viaggio. «Voglio raccontare alle persone una storia diversa. Voglio dire che la bicicletta è il primo mezzo di emancipazione di un bambino, che in bicicletta hai il diritto di avere tempo per guardarti attorno e vedere ciò che ti circonda, che è un modo di vivere, incontrare persone e comunicare. Tutte le informazioni e l'attenzione alla performance di cui il ciclismo si è circondato hanno aiutato a formare altri campioni, ma siamo certi che non ci si perda più di quanto si guadagni? Noi non ci rendiamo nemmeno conto di dove siamo».
Maté ne è certo. Ha attraversato tutta la Spagna e sa descriverne i minimi dettagli: dal verde e dall'umidità della Galizia e del nord del Portogallo, al clima mediterraneo del sud della Spagna. Il percorso, Luis l'ha studiato nei dettagli, prima di partire: «Normalmente quando viaggiamo scegliamo il percorso più comodo o più veloce per andare da un punto all'altro. In questo modo mi sono allontanato dalle strade conosciute e ho percorso stradine nascoste, spesso deserte perché nemmeno la gente del posto, presa dalla quotidianità, sa che esistono. Ci sono monumenti e viste rare».
E poi la possibilità di fermarsi a un bar e raccontare al barista da dove si viene e dove si sta andando. Di pranzare e cenare senza fretta o di visitare un piccolo negozio locale. Di vedere ragazzi e ragazze che in Portogallo cercano strade nuove da percorrere. Qualche volta di chiacchierare con un contadino. «Ho capito che è proprio vero: tutto quello che ho, me lo ha dato la bicicletta. Non il ciclismo, non il mio lavoro, la bicicletta pura e semplice attraverso cui sto imparando a conoscere il mondo e anche me stesso».
Luis ha viaggiato con Antonio Ortiz, ex professionista di Mountain Bike e suo amico da tempo. «Quando fatichi senti la necessità di avere vicino qualcuno che ti conosca e ti capisca. Qualcuno con cui parlare di tutto o di niente alla sera». Magari insieme a qualcuno che hai appena conosciuto perché la bicicletta è anche un mezzo di socializzazione. «Non importa che tu parta da solo o con amici. Lungo la strada conoscerai persone e storie». E, ci viene da dire, la vera ricchezza sta tutta qui.


La lezione di Mattia De Marchi a Badlands

Pochi giorni dopo Badlands, a Rimini, un ragazzo ha avvicinato Mattia De Marchi solo per dirgli che gli sarebbe piaciuto essere come lui. «Gli ho risposto che poteva farlo: avrebbe dovuto solo allenare la mente più che il fisico ma poteva fare tutto ciò che avevo fatto io. Molte persone si fanno intimorire dall'idea di non essere all'altezza; sono sciocchezze. Un viaggio come questo lo consiglierei a chiunque. Non come ciclista, come uomo». De Marchi è certo che la sua vittoria in terra di Spagna, i 750 chilometri percorsi in 43 ore e 30 minuti siano solo una parte del racconto che Badlands merita. «Per esempio, vorrei raccontare che mi mangio ancora le mani per i tratti percorsi di notte, perché avrei voluto vedere quei paesaggi e giuro che ci tornerò. Non solo: potrei dire del rammarico che ho per essermi perso anche la paura del vuoto, le vertigini che ho da sempre, in un sottile tratto di deserto a precipizio nel nulla. Sono andato così veloce perché non me ne sono reso conto, altrimenti probabilmente mi sarei attaccato alla roccia per diversi minuti. È il prezzo da pagare per aver vinto».
Ora che è trascorso qualche giorno dal suo arrivo a Granada si rende conto di quanto Badlands sia stata la gara che non immaginava. Una gara assurda che a pochi chilometri dal centro ti porta in un deserto, poi in una palude e ancora in un deserto, fino al mare e di nuovo alla città. Una gara che ti fa scoprire la Spagna nascosta, quella silenziosa, dai contorni mai visti. «Immaginavo Girona o Barcellona e ad ogni curva mi chiedevo: e adesso dove finiremo? Discese tecniche, sterrati, salite ripide e chilometri nel nulla». Dopo tante gare, la gara in cui ha sconfitto una delle sue fobie: pedalare da solo la prima notte di una corsa. «Non so perché, l'idea mi ha sempre terrorizzato. Al tramonto ero a ruota di Sebastian, un ragazzo tedesco. Ero tranquillo, quando lui ha iniziato a staccarsi. Pur di non restare solo, l'ho anche aspettato: non arrivava. Non è stato facile ma ci sono riuscito. Ho superato una paura che altrimenti non avrei mai superato».
Il segreto, in fondo, non è così complesso. Mattia De Marchi lo dice a tutti, ciclisti e non: nei momenti difficili bisogna ricordarsi sempre che succederà qualcosa che cambierà la situazione. A lui è accaduto l'ultima notte. «Avrei dovuto arrivare intorno all'una, in realtà sono arrivato dopo le cinque. A un certo punto non volevo più pedalare, ero talmente stanco da non sentirmela più. Ha cambiato tutto un messaggio di Federico Damiani, compagno in Enough Cycling. Sono bastate poche parole rivolte al gruppo di Enough: “Guardate cosa sta facendo Mattia! Ci vorrà tempo prima di capire la grandezza di quello che ha realizzato”. È tornato il coraggio, è tornata la forza per pedalare».
Quella forza che è anche piacere. Mattia ne parlava pochi giorni fa con Alessandro De Marchi, suo cugino. «Alessandro ha ancora tanta fame, perché nessuno gli ha mai regalato nulla. Forse anche per questo ha capito che bisogna imparare a godersi la bicicletta senza aver sempre e solo la testa sulle tabelle. Altrimenti ti stanchi, ti stufi e smetti. I professionisti devono capire che liberare la testa fa bene come allenare il fisico». Anche a Mattia De Marchi capita di non aver voglia di allenarsi, allora prende la bicicletta da gravel e va sugli sterrati, nei boschi: basta staccare per qualche ora dalle strade d'asfalto, dalle auto e ci si rigenera. In autunno ha programmato un viaggio di due giorni proprio con Alessandro. «Ho provato anche a portare dei giovani ciclisti con me. Tornano a vedere il mondo e si stupiscono, così faccio notare che quelle cose ci sono sempre state, erano loro a non avere occhi per guardarle».
Anche per questo Mattia si sente fortunato, lui che ha sempre voluto essere un esempio e ci è riuscito. «Nelle fasi finali di Badlands ero rimasto senza cibo, aspettavo di arrivare in un paese per recuperare qualcosa. Ad un certo punto, in fondo a una strada bianca, noto un furgone rosso e una famiglia che mi chiama. Mi avevano preparato un panino e dell'acqua fresca. Avrò perso qualche minuto ma ho voluto fermarmi con loro. Capisci? In Spagna, qualcuno teneva così tanto a incontrarmi che è venuto a cercarmi in gara. È stupendo». Sì, perché come dice Mattia De Marchi, alla fine, tutto torna.


La responsabilità di Anna

Non era facile fare quello che ha fatto Anna van der Breggen. I più diranno che i campioni sono capaci di questo: certo, ma resta difficile. Rinunciare ai Campionati Europei di Trento e alla prova a cronometro mondiale perché non al top della forma, all'ultima stagione da professionista, è un gesto che richiede una responsabilità che, talvolta, sotto la pressione di chi sei e di chi tutti si aspettano tu sia, rischia di sfuggire. Se poi fai parte di quella macchina da guerra che è la nazionale olandese ancora di più.

«Correre una cronometro è qualcosa che puoi fare solo se sei al 100% concentrata sull’obiettivo e con una grande motivazione. Una motivazione che io non ho più perché mi sento già molto soddisfatta per le cronometro che ho corso nella mia carriera e mi sono posta degli obiettivi diversi per questi Mondiali: per la mia ultima volta voglio essere io ad aiutare le ragazze che in questi anni hanno sempre corso per me, per aiutarmi a raggiungere i miei traguardi» van der Breggen lo ha spiegato sui suoi canali social proprio negli scorsi giorni.
Van der Breggen, lo aveva raccontato in un’intervista a Velonews qualche mese fa, già da tempo meditava sulla possibilità di ritirarsi dalle corse per allargare la famiglia: «È stato molto confortante vedere l’esempio di atlete come Marta Bastianelli e Lizzie Deignan, che sono tornate a correre dopo aver avuto un figlio. Per gli uomini questo tipo di problema non si pone: possono tranquillamente portare avanti la loro carriera da professionisti e avere dei figli. Per noi donne si tratta di una questione molto importante, qualcosa che ti cambia la vita. Certo si può sempre pensare di tornare a correre, dopo aver avuto un bambino, ma occorre avere una grande motivazione per farlo. In questo momento per me il desiderio di maternità, soprattutto considerando che mio marito è di nove anni più vecchio di me, è il fattore determinante per cui ho deciso di ritirarmi dal ciclismo professionistico».

Il suo obiettivo, appena scesa di sella, sarà quello di aiutare a crescere una nuova generazione di cicliste, infatti Anna vorrebbe salire in ammiraglia come direttore sportivo nel Team SD Worx, la squadra con cui corre ormai da cinque anni. Anche se in realtà la van der Breggen pare già ragionare da direttore sportivo in corsa, basterebbe vedere il lavoro che ha fatto quest'anno alla Liegi-Bastogne-Liegi per Demi Vollering che poi ha vinto quella Liegi. Nessuno spazio per il protagonismo anche in quell'ultima volta.

Apparentemente timida, indecifrabile, non ha mai temuto di sbilanciarsi parlando di ciclismo. Tempo fa ha placato gli entusiasmi per Cherie Pridham, prima direttore sportivo donna nel WorldTour maschile. Non perché non apprezzi Pridham ma perché ritiene che uomini e donne abbiano competenze e capacità diverse e sia un errore esaltare qualcuno solo sulla base del sesso. Così Pridham non è speciale perché donna, lo è perché competente e perché smentisce quella voce, tipicamente maschilista, secondo cui le donne non capirebbero di ciclismo o di sport. Ed è proprio perché le donne di sport capiscono che auspicano un continuo mescolarsi di competenze e di persone, uomini o donne che siano, nel ciclismo, per vederlo crescere forte.

Foto: Bettini


Per tornare in sella

Per Tom Dumoulin non ci voleva, ma la strada non guarda in faccia a nessuno. Qualche giorno fa, un incidente mentre era in allenamento sulle Ardenne ha messo a repentaglio il proseguimento della stagione che per la farfalla di Maastricht sembra davvero terminata qui.

Siamo certi che la frattura al polso, che pure è la causa dell'infrangersi degli obiettivi di fine stagione, dopo che un automobilista l’ha investito, sia, in fondo, il minore dei problemi per Dumoulin che sin da subito si è mostrato molto deluso. «Ero appena tornato, non ci voleva» ha detto e qui dentro c'è già tutto ciò che non serve dire ma che è necessario capire, soprattutto in un mondo come quello sportivo che richiede freneticamente risultati. Il dolore vero è essere nuovamente fermi, bloccati.

A gennaio, Tom Dumoulin aveva scelto di fermarsi a tempo indeterminato «per scrollarsi una zavorra dalle spalle, per capire cosa effettivamente volesse, per scoprire chi fosse davvero l’uomo Dumoulin» spogliato della maschera di campione e di ciclista esemplare. Era tornato con i suoi tempi, in punta di piedi. Era tornato soprattutto a osservare il ciclismo da bordo strada come un tifoso qualunque prima di tornare a far girare i pedali, quasi gli servisse avere una visione d'insieme del proprio sport, quella che si perde quando si è a tutta, concentrati sulla linea d'arrivo. Gli era servito, se è vero che, al rientro, al Tour de Suisse, a giugno, aveva ben figurato e, poco dopo, aveva vinto il titolo nazionale a cronometro.

Mesi in cui tutto era sospeso, perché non basta tornare, bisogna esserne convinti e quando c'è di mezzo la passione, quella che porta un ciclista a scegliere il proprio mestiere, si può sbagliare, si può tornare per paura, non per volontà. Poi il progetto Tokyo 2020 e quell'argento che vale oro. Abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo quando l'abbiamo sentito dire: «Ho avuto seri dubbi, ma ora so che voglio continuare: penso ancora che il ciclismo sia uno sport molto bello». Perché il ciclismo ha bisogno di persone come Dumoulin.

Veniva dal Tour del Benelux in cui era tornato a mettersi in mostra in buone condizioni di forma. Questa caduta non gli permetterà di partecipare alle gare di fine stagione e al Mondiale, gare in cui sperava, ma siamo certi che lo restituirà al suo mondo ancora più forte. Perché a cadere, sia realmente che metaforicamente, si impara col tempo. Come a medicarsi le ferite e ripartire. Tom Dumoulin ha imparato e oggi è certo di una cosa: tutte le cadute gli hanno solo insegnato come rialzarsi. Per tornare in piedi, anzi in sella.
Foto: Bettini


Il morso del Cobra

Lasciatecelo dire: vedere Sonny Colbrelli correre come ha corso oggi, a pochi giorni dagli Europei in Trentino, lascia spazio all'immaginazione. E poco conta che si tratti soltanto del Benelux Tour, dovremmo tornare a entusiasmarci senza fare le pulci a ogni emozione.

Sonny Colbrelli solletica l'immaginazione come ogni ciclista che parte da solo in fuga quando al traguardo mancano ancora molti chilometri e gli altri si stanno studiando. Come ogni "uomo da solo al comando". La sua maglia è verde, bianca e rossa, avrebbe detto molti anni fa Mario Ferretti. Noi lo abbiamo pensato, ve lo diciamo.

Il Cobra che parte ai cinquanta chilometri dall'arrivo di Houffalize insieme al compagno Mohorič e allo svizzero Hirschi e forse potrebbe anche starsene tranquillo e sfruttare la superiorità numerica per portare a casa il risultato. Invece no, si volta verso il compagno di squadra e gli dice: "Uno scatto per uno e lo stacchiamo". Gioco di logoramento.

Lo svizzero non riesce a reggere la frustata di Colbrelli che, ai venticinque dal traguardo, sceglie la solitudine e saluta la compagnia. Hirschi subisce il gioco di Mohorič, un perfetto alleato del fuggiasco: dapprima rallenta il ritmo, provoca, innervosisce, poi, al rientro del gruppetto guidato da Tom Dumoulin rompe i cambi e favorisce l'assolo. Un assolo sudato, senza un attimo di tregua, col cuore in gola, perché dopo venticinque chilometri di fuga vuoi vincere.

"Non avevo mai fatto qualcosa di simile in vita mia. Me lo ricorderò sempre. Spero solo di recuperare per domani". Fra meno di ventiquattro ore avremo la risposta, ma non è ciò che più ci interessa. Già, perché quando Colbrelli decide di inventare non si ferma molto facilmente e giornate così possono solo contribuire ad accrescere l'immaginazione.
La sua e la nostra, perché tra pochi giorni c'è l'Europeo. Non dimentichiamolo.


Andrea ha scelto la libertà

Quel giorno di venticinque anni fa, alla stazione di Monza, Andrea Pusateri scappò dalle mani della madre mentre stava transitando un treno. Aveva solo tre anni e nell'impatto perse entrambi gli arti inferiori, sua madre diede la propria vita per salvarlo. Solo il tempestivo intervento dei medici ha permesso ad Andrea di recuperare la gamba sinistra. Mesi di ospedale e poi il ritorno a casa, dai nonni che l'hanno cresciuto. «Mi hanno insegnato che nella vita bisogna essere felici perché solo la felicità rende liberi. La libertà vera non esiste quando sei triste, deluso o arrabbiato. Devi essere felice per scovarla». Andrea ricorda bene che tanto i nonni quanto lo zio cercarono da subito di avvicinarlo allo sport e oggi capisce perché.

«Le discipline paralimpiche di fine anni ‘90 avevano quasi nulla a che vedere con quelle odierne. Portavano, però, la consapevolezza che nello sport gli ostacoli vanno superati e che non ottieni quello che desideri se non con la tua fatica e il tuo sudore, il tuo talento e il tuo merito». Una consapevolezza che si fa strada col tempo e si espande in ogni scelta. Andrea assiste alle gare in bicicletta di un amico: la bicicletta gli piace, ciò che fa il suo amico lo affascina e non capisce perché non possa riuscire anche a lui ad andare in bicicletta. Ripensandoci oggi ha chiaro come tutte le scelte più importanti della sua vita siano nate così, da un «perché non posso farcela anche io?».

Quella bicicletta nel tempo è diventata un lavoro, ma è alle origini che si spiega tutto. «Ho subito pensato che su una bicicletta, in un gruppo, succede come succede nella vita. Puoi avere tante persone accanto a te, amici o meno, ma, se non sei tu a decidere di salvarti, di concederti una possibilità, nessuno può fare qualcosa per te. Nemmeno la tua squadra, che è poi la tua famiglia, tutte le persone che vorrebbero aiutarti. Senza il tuo permesso, senza il tuo primo passo, non possono fare nulla». Allenamenti su allenamenti, nel 2008 la prima gara a Varese, e, nel 2014, con la prima medaglia in Coppa Europa, la sensazione di avercela fatta.

Questione di attimi, di illusioni perdute e ritrovate. Solo un anno dopo, mentre si allena, Andrea cade e sbatte violentemente la testa per terra. Un'altra corsa contro il tempo, una settimana di coma farmacologico e tutte quelle voci, quelle che per qualche attimo rischiano di farti credere che questa volta è davvero finita. Quasi che la tua storia, fino a quel momento, sia stata troppo bella per essere vera. Raccontatelo ad altri, non ad Andrea che tre mesi dopo, a Maniago, vince la Coppa del Mondo. «Non posso raccontarti quello che ho provato, posso dirti che quella felicità non l'ho mai più provata e mai più la proverò probabilmente. È la felicità di quando capisci che tutto ciò che ti avevano detto è vero, che, se vuoi, puoi farcela. Quasi sempre».
Proprio perché ha toccato con mano la felicità di cui parlavano i nonni, Andrea non accetta altro. Nel 2019 ha lasciato il ciclismo per dedicarsi all'Ironman. «Molte cose sono cambiate, migliorate, certamente. Ma il mondo del paraciclismo è un mondo che non può andare avanti così. Eravamo considerati sportivi di serie D, non so di chi sia la colpa, probabilmente di più persone e tutti dovremmo fare qualcosa per cambiare». Con la disabilità ha sempre avuto un rapporto sereno, forse anche per il suo carattere: ama ridere, scherzare e del giudizio degli altri si disinteressa. «Ogni persona è diversa e deve vivere la disabilità come crede. Il ciclismo, lo sport, possono aiutarti a tirare fuori quella parte di te che in certe situazioni resta schiacciata dagli eventi».

Tutto in una cornice relativa perché così è la vita, spiega sorridendo. Andrea lo ha capito guardando i suoi due cani: «Mi hanno cambiato perché ho visto che le cose che davvero contano sono poche. Certe volte, immersi nella quotidianità, ce lo scordiamo e finiamo per vivere male. Anche lo sport è una parte della vita e tale deve restare, senza esasperazioni».


La felicità diversa dei fratelli Hayter

Al Tour of Norway, qualcosa è scattato nella mente di Leo Hayter. Classe 2001, team Dsm, fratello minore di Ethan, giovane talentuoso di casa Ineos Granadiers, Leo ha a lungo patito, silenziosamente, la scelta di mollare tutto per dedicarsi allo sport, come se nella vita non ci fosse nient'altro. Un lungo processo di accettazione, per ritrovare la felicità di pedalare. Il 21 agosto, l’ha scritto su suo account Twitter: «La giornata di oggi mi ha ricordato perché lo faccio. Finalmente ho avuto la sensazione di gareggiare e non solo di essere un’appendice della corsa. È la prima volta che mi succede dal 2019».

Ethan e Leo hanno condiviso ogni cosa sin da ragazzini. Fin da quel pomeriggio in cui i genitori li accompagnarono a un centro estivo nei pressi di un Velodromo: una scelta casuale per permettere ai ragazzi di divertirsi e tornare al lavoro. Ethan aveva già la fisionomia di un ciclista, Leo no e, a dire il vero, nemmeno gli interessava. Racconterà anni dopo che, fino a quel momento, tutti i pomeriggi della sua infanzia li trascorreva sul divano, mangiando e giocando alla play station. Non aveva il fisico da ciclista, tanto meno la mentalità. Avrebbe solo voluto essere un ragazzo qualunque.

Una scelta non scelta che dopo qualche anno inizia a portare i primi risultati. Leo Hayter vince la prima corsa da junior, ad Assen, e subito pensa ad un colpo di fortuna. «Ho sempre creduto che, se non fossi arrivato da solo, non avrei mai vinto nulla. Sarebbe stato un gioco da ragazzi per chiunque battermi» spiega a The British Continental. È lui il primo a non credere nelle proprie possibilità, forse perché non ha la grinta che serve per primeggiare, forse perché le persone al suo fianco non ci credono. Nella British Cycling Junior Academy, fino a quel momento, per tutti, è “il fratello minore di Ethan”. Quest’etichetta pare non infastidirlo e lui stesso ammette che Ethan ha capacità superiori alle sue, ma le scelte di vita, spesso più delle parole, rivelano davvero ciò che sentiamo.

Tutto inizia da un volo per partecipare a un training camp con il Team Sunweb: Leo mangia qualcosa e subito dopo inizia a stare male. Ciò che sembrava non interessargli diventa importante: vuole dimostrare di valere e non dice nulla di quel malessere. Fa due giorni di prova mangiando solo pane scondito e si sente in forma, in salita pedala come non mai. Scelta scellerata: nel suo fisico c'è qualcosa che non va, solo qualche settimana dopo, in un allenamento, cadrà a terra completamente svuotato.

Per guarire serve tempo, ma quei giorni hanno cambiato qualcosa in Leo. Ha la certezza di volere qualcosa in più e sa che nell'Accademia britannica sarà condannato a restare “il fratello minore di Ethan”. Sa di non avere il fisico ideale per lavorare in pista e dice ai genitori di voler passare nel team Dsm. Difficile convincerli, come se quel figlio fosse sempre troppo giovane per decidere in autonomia, come se la sua strada dovesse essere per forza quella di Ethan, come se il suo fosse un destino già scritto. Ma per la prima volta Leo Hayter sceglie la strada che davvero desidera e improvvisamente non è più solo “il fratello minore di Ethan”.

Non è mai stato facile e mai lo sarà, anche se la Coppi e Bartali corsa assieme dai due fratelli ha risvegliato l'entusiasmo del pubblico e degli addetti ai lavori, come le storie a lieto fine. Quella di Leo e Ethan Hayter non è una storia a lieto fine perché, forse, le storie a lieto fine come tutti le immaginiamo nemmeno esistono. Nemmeno quando Ethan vince il Tour of Norway e Leo ritrova se stesso. La storia dei fratelli Hayter è la storia di chi ha capito che non bisogna credere a chi cerca di convincerci che se non siamo i primi non valiamo nulla. Non è vero per lo sport e, soprattutto, non è vero per la vita. Non hanno senso i paragoni o i confronti perché siamo completamente diversi, anche da un fratello, e nessuno può cambiare questa realtà. Ma la felicità se ne frega dei confronti e arriva lo stesso. Chiedetelo a Leo Hayter.

Foto: Bettini


Il decalogo di Magnus Cort

Ai 350 metri dalla vetta del muro di Valdepeñas de Jaén, Magnus Cort Nielsen ha avuto ancora una volta la certezza di non essere uno dei tanti. Proprio mentre il mondo gli crollava addosso e la gravità sembrava la più bizzarra delle leggi. Magnus, dopo una giornata in fuga, contro tutto e tutti, era un corpo trascinato verso il basso, incapace di fare la più normale delle cose in sella a una bicicletta: andare avanti. A destra, poi a sinistra e di nuovo a destra per non cadere a terra. Lo sorpassano Roglič e Mas, lo sorpassano López e Haig, lo sorpassano ventiquattro corridori e passano quarantanove secondi prima che arrivi in vetta. Lo speaker inizia a incitarlo, lo stesso fa la gente. Un mondo che si capovolge e ti riempie di lividi quando sei il più vulnerabile e non te lo meriteresti. «È ingiusto» direbbero i più.
Magnus Cort ha imparato da troppi anni che imprecare è inutile. Da quell'isola aspra quasi quanto una strada che sale. A Bornholm, quarantamila anime, nel mar Baltico, c'era posto solo per l'immaginazione. La stessa che ha convinto il danese ad andarsene a sedici anni per fare il mestiere del ciclista.

Veloce, certo, non a caso vorrebbe somigliare a Peter Sagan, ma non solo. A Magnus piace complicarsi la vita e, col tempo, ha avuto la certezza che le migliori possibilità provengano proprio da lì. «Forse in condizioni normali non posso battere i migliori, ma esistono anche la pioggia, il freddo e il vento...». Quasi una provocazione, come le fughe dell'uomo del nord. Ha vinto tappe alla Vuelta, la corsa degli scalatori: quest'anno persino all'Alto de Cullera, proprio mentre Roglič lo stava raggiungendo, una settimana fa. «Ai 150 metri ho temuto, per fortuna non mi ha ripreso». Parole che sembrano quasi uno sberleffo a sentirle oggi.
Orica, Astana e Education First, senza rincorse, rispettando lo scorrere del tempo che riconosce la fatica, il sacrificio. Poi, nei momenti liberi, si prende una tenda, gli sci, si imballa la bicicletta e si parte in spedizione sui Pirenei. Oppure si torna a Bornholm, dalla famiglia, e si va in campeggio. Magnus Cort ha un decalogo di regole: usa solamente ciò che hai, impara una cosa semplice alla volta, rispetta le regole, non portare mai due cose uguali, quando fa notte guarda un film sotto le stelle e riposati su un materassino che hai già provato a casa. Soprattutto non partire mai con scarpe che tu non abbia già indossato: in mezzo al bosco non potrai cambiarle.
Ha in mente una spedizione sul Kilimangiaro e vorrebbe fare bene alle Classiche del Nord. Ci riuscirà? Chissà. Di certo Magnus Cort è riuscito a inventarsi una vita neanche lontanamente immaginabile. Per questo è Alvento, come chi vede ciò che manca e, invece di lamentarsi, lo inventa.

Foto: Jered Gruber