La Transibérica e il rispetto per la fatica

Il cielo di Bilbao era impazzito il 14 agosto, come a prendere a schiaffi chiunque vi si trovasse sotto: pioggia fitta, vento, nuvole nere e sole. Bruno Ferraro era lì per partire per la Transibérica, gara di ultracycling attraverso la penisola iberica. Qualche mese prima, Bruno si era rotto la clavicola cadendo in bicicletta e, quel giorno, si accontentava di partire perché aveva temuto di non arrivare proprio sotto le bizze di quel cielo che fissa l'oceano.

La partenza è alle ventuno nella piazza del museo Guggenheim. Ad attendere gli iscritti circa tremila chilometri. Al dislivello si prova a non pensare, fa quasi paura. «Mi è sempre piaciuto guardarmi attorno - racconta Bruno - e non ci ho mai rinunciato anche quando ho gareggiato. Credo sia uno spreco, se si ha la fortuna di pedalare». Così di Bilbao ritorna subito la parte vecchia della città e il fiume che l'attraversa. Di ogni passaggio in un luogo, Bruno ha custodito qualcosa in più della fatica.

 

Devono trascorrere ben ventidue ore per arrivare al Mont Caro, a sud della Catalogna. «La vegetazione si dirada e l'ossigeno viene meno. La cima è a 1.441 metri, ma potresti pensare di essere a oltre duemila metri». Fa caldo e le falesie che si stagliano ai fianchi di Ferraro accrescono la sensazione di soffocamento. La scelta, però, è chiara: «Ho deciso che non mi sarei mai fermato a dormire prima di una salita. Meglio partire in pianura al mattino e faticare di più la sera». A Ordesa, la luce del tramonto rimpalla sui minerali delle rocce e confonde. «L'ultimo tratto era su terra, ghiaia. Ricordava il Colle delle Finestre. L'aria era quella dei Pirenei, le gambe iniziavano a chiedere tregua».

Il Deserto di Bardenas Reales arriva a mezzogiorno del giorno seguente. «In Spagna l'escursione termica è molto elevata. Di notte si sta bene e al mattino l'afa è tollerabile, qualche tempo dopo sarebbe stato impossibile pedalare in mezzo a quelle guglie di sabbia e argilla che ti seccano la gola solo a guardarle». Dopo Albarracìn, “un borgo toscano trapiantato in Spagna”, Bruno arriva alla Sierra De Guadarrama. «Avevo prenotato una camera a Segovia: sono arrivato dopo la mezzanotte e sette ore a pedalare all'insù, dovevo dormire. Prima di ripartire ho fatto un giro nel centro di Segovia, circa venti minuti». Verso il confine portoghese, si sale a Peña de Francia. «Sembrava il Mont Ventoux. C'era solo la luna a rischiarare i contorni di un monastero in cima. Pedalare di notte è una scoperta».
Bruno fa rifornimento dalle stazioni di servizio e dai benzinai, solo tramezzini: per un giorno ne servono quattro. «Bastava il sapore del formaggio di capra per darmi coraggio o il profumo dei pomodori accanto alla fesa di tacchino per risollevarmi il morale. In avventure di questo tipo scopri che basta ben poco». Da lì non manca molto. El Morredero “è un trampolino pronto per lanciare una navicella nello spazio”, la salita più dura che Ferraro abbia mai visto. «Rampe da togliere il fiato e pochi tornanti. Ho abbassato la testa per non vedere. Dall'altro versante, le ombre delle pale eoliche che si accostavano alla luna sembravano quasi la sceneggiatura di un film di fantascienza».

I laghi di Covadonga, in Asturia, sono l'ultimo sforzo, prima di tornare a scendere verso Bilbao. «Il primo cartello lo si vede a ottanta chilometri dalla città: è un'illusione. I continui saliscendi sono velenosissimi. Ero quarto, dietro di me c'era Simon de Schutter ma ormai non poteva più riprendermi. Non mi sembrava vero». Sono passati più di sette giorni, è domenica 22 agosto. A vincere è Ulrich Bartholomos, un ragazzo che sorride anche quando è stremato.

C'è una morale particolare in questi uomini della fatica. Justinas Leveika, lituano, arriva terzo e a Bruno dice subito che senza quelle due ore di sonno in più lo avrebbe ripreso. «Gli ho detto che rispetto la fatica e che non lo avrei mai superato a così poco dal traguardo. Mi sarei accostato al suo fanalino e saremmo arrivati assieme. Terzo o quarto non cambia nulla, il rispetto, invece, fa sempre la differenza».
Bruno, stasera, atterrerà in Italia e tornerà a guardarsi in giro, con calma, serenità, cercando di ricordare ogni dettaglio. In fondo, è questo a contare.

Foto: Transiberica


Marco Villa guarda già a Parigi

«Forse l'idea di dover affrontare i detentori del record del mondo ha fatto tremare le gambe anche alla Danimarca» scherza Marco Villa, CT della nazionale azzurra su pista. Spiega così la medaglia d'oro olimpica nell'inseguimento, dopo cinque anni a dimostrare il valore del lavoro fatto. Villa, da uomo di sport, sa bene che la concretizzazione, in questi casi vale quanto la fantasia. «Nelle prove degli ultimi giorni i tempi delle nostre avversarie erano migliori, non so se sia stata tattica. La Danimarca, poi, negli ultimi due anni aveva quasi sempre fatto meglio di noi». Se dei timori potevano esserci, al quartetto sono sempre arrivati stimoli, risposte e razionalizzazioni. «Vero che i danesi si sono praticamente riportati sugli inglesi in semifinale, altrettanto vero, però, che hanno potuto sfruttare la scia. Lo stesso discorso vale per le qualifiche: molte squadre hanno avuto il vantaggio di potersi basare su dei tempi di riferimento. Ai ragazzi ho detto questo la sera prima».
Marco Villa ha da sempre le idee chiare: le analisi, per essere utili, vanno fatte prima. «In partenza eravamo in vantaggio e non era un caso: sulle nostre tabelle era previsto. Sapevamo che avremmo potuto perdere qualcosa nel finale. Uno era il punto: dovevamo restare dai sette ai nove decimi, perché quei tempi sono nelle gambe di Ganna». Poi gli azzurri hanno festeggiato come chi ha avuto ragione a discapito dei momenti difficili. «La caduta di Lamon durante le qualificazioni a queste Olimpiadi è stato uno dei momenti più difficili, oltre alla pandemia. Si è sempre in tanti e i posti sono pochi. Saremmo stati pronti anche lo scorso anno, lo abbiamo dimostrato».
Villa spiega, razionalizza, chiarisce e soprattutto chiede. «Dopo lo scratch a Elia Viviani ho detto solo: “Elia, cosa sta succedendo?”. Mi ha detto che le gambe c'erano, la testa no. Era stato irriconoscibile. La risposta se l'è data da solo, io non posso entrare nella sua testa o nelle sue gambe. La tempo race non è mai stata la sua gara, ha fatto un'eliminazione stupenda e una grande corsa a punti». Per questo il bronzo di Tokyo vale come l'oro di Rio, perché viene da un periodo difficile. Per questo, se parla di madison, il CT è certo che la coppia Viviani-Consonni abbia molto da dire. «Simone quella mattina non stava bene e una gara di sessanta chilometri non puoi improvvisarla. Sulla base delle circostanze non puoi costruire un'analisi per il futuro. Succede e basta».
Intanto, via verso Parigi 2024. «Il gruppo è rodato con uomini di esperienza, allo stesso tempo ho dimostrato che la strada per i giovani è sempre aperta. Si guardi Milan. È uno stimolo per loro e anche per gli altri perché se non si danno da fare sono sopravanzati». Ora basta chiacchiere, a Parigi mancano solo tre anni.


Dal Lago di Como alla Via della Seta in bicicletta

Dario Piasini ricorda bene il giorno in cui sorprese suo padre ad osservarlo di nascosto mentre giocava a calcio. «Sono nato nel 1950 e in quegli anni, subito dopo la guerra, lo sport non aveva lo spazio che ha oggi. Mio padre temeva portassi via del tempo allo studio o al lavoro così restava indifferente, però lo vedevo che di nascosto veniva alle partite. Credo che, in fondo, fosse felice». Il giorno in cui molti anni dopo gli hanno proposto di andare da Como a Pechino in bicicletta ha accettato senza pensarci troppo perché con lo sport è sempre stato in debito. «Non avevo più la potenza dei giovani, ma la voglia di conoscere e di mettermi alla prova era la stessa. L'età è spesso un ostacolo mentale».
È il 2005: 14000 chilometri, dal lago alla Via della Seta, quindici ciclisti e tre furgoni. «Se foravamo cambiavamo la ruota, non avevamo nemmeno la camera d'aria. Siamo partiti il 25 aprile, ci sono voluti quattro mesi». Ogni giorno una tappa, pochi giorni di riposo e un traguardo fisso. «Non ho mai avuto dubbi. Chi ha l'opportunità di viaggiare in questo modo è un privilegiato. Non è stato tutto facile: nel deserto non c'erano telefoni, mezzi di comunicazione, bastava una peritonite per lasciarci la pelle». Un medico li avverte: «Dal punto di vista ciclistico non avrete problemi, a livello psicologico invece sarete logorati, la tensione e il nervosismo vi porteranno a litigare per sciocchezze». Piasini queste discussioni le ricorda, come ricorda le lezioni di storia e geografia del professor Corbellini e le confessioni di quelle sere.
«Ci siamo detti cose che non avremmo detto a nessuno: ci liberavamo delle tensioni e delle preoccupazioni di casa, del lavoro. La fatica ti porta a capire». Si scordano facili pregiudizi: a Teheran inizialmente si fanno foto di nascosto, temendo il giudizio della popolazione, poi si scopre che proprio gli abitanti non vedono l'ora di farsi fotografare con questi avventurieri. «Se viaggi per sport, senza mettere in ballo idee politiche o religiose, troverai persone pronte ad accoglierti e aiutarti ovunque» chiosa Piasini.
Dalla Costa Dalmata a Samarcanda, al Kirghizistan e alla sua capitale che ricorda la Valtellina, dalla foto sul confine con i militari cinesi e le guide kazake, alle oasi verdi e al Fiume Giallo, a monasteri e Buddha dormienti, sino all'ingresso a Pechino, scortati dalla polizia. «Ho mangiato scorpioni e bacarozzi fritti e non erano neanche male. Solo ogni tanto ci concedevamo la pasta con la bottarga, visto che un ragazzo sardo aveva messo nel camion quattro chili di bottarga fresca alla partenza».
All'arrivo si vuole tornare ma dispiace perché quel mondo parallelo si sta esaurendo e nella vita di ogni giorno certe sensazioni non si ritrovano più. «Se chiudo gli occhi, rivedo tutto. Capita, ma è ancora presto. Sento di avere la forza per altre avventure. Verrà il giorno in cui dedicarsi al ricordo, ora voglio vivere».


Quello che Ten Dam ha imparato

Laurens Ten Dam ha corso diciassette anni nel professionismo, eppure ha conosciuto davvero la bicicletta solo qualche settimana fa, quando è arrivato secondo nella Unbound Gravel, duecento miglia unsupported intorno a Emporia.
«Prima di partire per Gravel Locos ho detto a Ted King che doveva essere pazzo a correre a tre settimane dalla rottura della clavicola - spiega a Cyclingnews - Giusto un paio d'ore per capire come tutto fosse diverso».
In realtà, che questo fosse un altro volto del ciclismo, l'ha visto appena ha forato e ha dovuto sistemare da solo la ruota. «Sei abituato a chiedere aiuto ma sei da solo e per ripartire devi arrangiarti».
In Kansas un ragazzo è andato a bussare a una fattoria per chiedere una pompa per gonfiare una ruota, l'olandese l'ha guardato stupito: «Credi possano aiutarti? Quante pompe vuoi che possiedano?». Nel mentre si sfidava con Ian Boswell per il primo posto. «Seccato per il secondo posto, ma ringrazio la bicicletta per tutte le avventure che mi fa vivere e le persone che mi fa conoscere».
Ten Dam vorrebbe raccontare tutte le storie dei folli che corrono queste gare. «Posso raccontare a mio padre cosa ho fatto, però non potrà mai saperlo davvero se non lo proverà. Porterò qui i miei amici: saranno in fondo al gruppo e arriveranno ultimi, ma vivranno questa esperienza e torneranno felici».


Acqua e sapone

Il 13 luglio, Francesco Lamon era appena tornato da Montichiari, quando si è unito alla sua squadra, Biesse Arvedi. «Quella sera era contentissimo» spiega il diesse Marco Milesi. «Da giorni facevano tempi pazzeschi, mi disse: "Possiamo fare il record del mondo"». Detto, fatto: record e medaglia d’oro nell’inseguimento a squadre. Lui, ragazzo semplice ma consapevole. «Ogni volta mi chiede cosa può fare per la squadra nelle gare in linea. C’è chi cerca di mettersi in mostra, lui è sempre a disposizione».
Una volta Lamon si è ritrovato in fuga, Milesi gli chiede sorpreso spiegazioni. Lamon lo spiazza e lo fa sorridere: «Sono capitato qui ma non voglio restarci, questi vanno fortissimo. Per favore, metti i ragazzi a tirare». Marco Milesi scherza: «Quando corrono loro, Montichiari trema». Sa bene che non è stato facile, come lo sanno i genitori di Lamon.
Hanno raccontato di aver fuso i motori di tre auto per seguirlo nelle gare. Suo padre, tecnico in ospedale, ieri mattina, ha chiesto qualche minuto di pausa per vedere la prova. Era il suo compleanno, pensate che regalo.
Francesco ha ventisette anni e dai propri compagni di squadra è visto come un esempio.
«Agli allenamenti arrivava davvero stanchissimo- prosegue Milesi- non gli si poteva chiedere altro. A primavera, poi, la tensione per le convocazioni era terribile». Il duro lavoro paga e questa ne è la dimostrazione. «Lo chiamerò per fargli i complimenti. Sono certo che questo oro gli darà molto, Lamon, però, resterà il ragazzo acqua e sapone che conosciamo tutti».


Essere donna

Se si chiede a Laura Kenny come gestire una carriera impegnativa essendo madri, lei risponde che il segreto è di non farsi mai convincere a fare ciò che non si vorrebbe fare. «Devi tornare quando vuoi tu. All'inizio non volevo lasciare Albie e se non vuoi lasciare tuo figlio, non devi sentirti obbligata dalla società» ha detto in un'intervista. Ora Albie ha quasi quattro anni e lei, stamani, a Tokyo ha fatto segnare il secondo tempo nell'inseguimento a squadre con la Gran Bretagna. Kenny alle Olimpiadi ha vinto l'oro in ogni gara a cui ha partecipato e punta a ripetersi per un record storico.

«Non penso al record - spiega a Velonews - ma a fare il mio dovere e a vincere. Ho sempre fatto così». Kenny, parlando di se stessa, parla di tutte le donne con famiglia: per fare bene in sella, o in qualunque lavoro, alle donne serva fiducia, cosa che spesso manca. Lei con quella fiducia rompe gli schemi. «L'inseguimento a squadre è la disciplina a cui come Gran Bretagna ci dedichiamo di più. Perché non facciamo lo stesso con le altre?». Il cambiamento è avvenuto grazie a Monica Greenwood, la nuova allenatrice.

Laura Kenny ha iniziato ad andare in bici con sua madre che voleva perdere peso e a suo figlio Albie non ha mai chiesto nulla del ciclismo: vuole solo che abbia ricordi felici dell'infanzia come li ha lei. Ha rischiato di non essere a Tokyo, e domani, comunque vada, farà un altro passo nella storia di questo sport.


Omar Di Felice e la Race Across France

Omar Di Felice ha compiuto quarant'anni il 21 luglio, giusto pochi giorni di partire per la Race Across France, 2500 chilometri di pedalata unsupported sulle strade transalpine. «È un compleanno particolare: molte cose cambiano, tu con loro e ti chiedi come sarà il tuo futuro. In Francia cercavo una risposta». Di Felice, l'anno scorso, è arrivato secondo in questa gara e da quel momento ha iniziato a pensare a come avrebbe potuto fare per vincerla. «Avevo corso in maniera conservativa e ho perso con un ritardo di sole due ore, nulla in una gara di ultracycling. Soprattutto, però, non conoscevo bene il mio primo avversario».

Omar ha studiato i suoi rivali e ne ha tracciato i profili: ha visto coloro che di notte hanno maggiore bisogno di recuperare, coloro che non dormono quasi mai, i ritmi gara e le medie. «Io ho bisogno di dormire almeno tre ore a notte, al chiuso, i miei avversari lo sanno. I microsonni, invece, tendo a lasciarli per la parte conclusiva di gare di questa lunghezza per non stressare il corpo. La privazione del sonno è la più antica fra le torture medievali, se non ti regoli bene, ti distruggi».

Già, perché il corpo e la mente sono sempre in un intreccio stretto. «Sono partito a tutta per imporre il ritmo e far capire che avrebbero dovuto temermi. Il punto era uscire dalle Alpi in testa: sono i cambi di tempo in quelle circostanze a definire le posizioni. Gli ultimi giorni sono stati i più importanti e i più difficili: ho logorato mentalmente uno dei principali rivali, fino al suo ritiro, ma quando ero in testa da solo faticavo a trovare le motivazioni per continuare a faticare. Il rilassamento ti frega». Ogni sera un rifornimento in una boulangerie per le ore notturne in cui la crisi è in agguato. «Restare senza cibo è terribile, perdi ore su ore. Anche l'idratazione è fondamentale di notte perché il nostro fisico la richiede anche in questa circostanza». Omar ha vinto: cinque giorni, otto ore e quarantanove minuti e il gradino più alto del podio. Una liberazione.

«Ho capito che la mente può supplire a qualunque limite del corpo. Nel ciclismo moderno, se smetti di vincere, tutti credono tu non valga più nulla. Non è così. La realtà è che, iniziando sempre più presto, si rischia di essere considerati finiti già in giovane età. È un rischio soprattutto per chi non regge queste pressioni e queste tensioni».

Se oggi Omar Di Felice pensa agli anni che passeranno non ha timore. «Verrà il giorno in cui le cose cambieranno e non sarà certo il mio non volerlo accettare a modificare la realtà dei fatti. Credo che sia la predisposizione l'importante. Ho sempre pedalato per scoprire, per imparare e conoscere. Continuerò a farlo a qualunque età, cambieranno i modi, non la sostanza».


Fragili titani

Nella notte in cui, in Italia, arrivano le parole di Simone Biles, ginnasta ritiratasi dalla gara a squadre dopo un volteggio sbagliato per «demoni che tormentano la mente e fanno smettere di amare il proprio lavoro», a Tokyo è il giorno dei titani dalle spalle larghe e dalle posizioni plastiche che sfidano il tempo. Giganti che sopportano il fardello del vento che divora: per qualche istante sembrano illusionisti in un'altra dimensione.

Illusione, appunto. Roglič non dimentica che, circa un anno fa, ha perso un Tour de France all'ultima giornata, il mondo gli è crollato addosso e lì anche le spalle da titano hanno ceduto, sbriciolate. Ricorda una sera a Pontivy e l'amarezza di una domenica mattina in cui ha detto basta. Qualche giorno dopo era su una sedia, fuori da un camper, con una birra in mano. Perché il coraggio di fermarsi si misura nella serenità con cui sai che ripartirai e che c'è qualcosa che conta di più. Roglič ora ha una medaglia d'oro al collo al termine di una prova mostruosa, e a chi gli dirà che è nell'Olimpo dei migliori potrà raccontare che anche i titani un giorno si sono fermati.

Annemiek van Vleuten ha la stessa medaglia al collo. Lei che ha vinto l'impossibile ma non ha mai voluto essere un'eroina. Quando, l'anno scorso, si è presentata al mondiale di Imola con un tutore dopo la frattura al polso al Giro Rosa, ha parlato chiaro. «Correre così è una merda. Non sono un esempio per nessuno. Non tutte le fratture al polso sono uguali e non per tutte sarebbe possibile. I medici mi hanno detto che non rischio perché il mio polso è più forte di prima. Per questo sono partita». Inutile aggiungere altro.

Tom Dumoulin, solo poco tempo fa, ha avuto la stessa forza di Simone Biles perché la pressione era troppa e lui, che ha vinto molto sin da giovane, solo un uomo. Dal ciclismo è tornato a bordo strada e poi, con i propri tempi, degli uomini non dei titani, è tornato in sella. Oggi è argento a Tokyo. Rohan Dennis qualche tempo fa disse che, per quanto sia bello vincere, fra quarant'anni non penserà alle vittorie come a una delle dieci cose migliori della propria vita. Crediamo lo direbbe anche oggi, forse anche a Simone Biles.

Vale per Wout van Aert che, da favorito, ha dovuto accontentarsi di un piazzamento. Chi era più titano di lui che al Tour aveva spianato il Ventoux, dominato il tempo per poi ubriacarsi di velocità come un proiettile lanciato? Eppure. Come per Filippo Ganna che fra pochi giorni è atteso dalla pista e a quella deve pensare. Vale per Simone Biles a cui oggi pensano tutti, mentre è chiamata a «scrollarsi dalle spalle il peso del mondo». Perché, sì, gli sportivi e i ciclisti sono titani, ma fragili.


Come osate toglierci l'utopia

Un giorno, Gianfranco Mascia, giornalista e scrittore, ha chiesto ad alcuni ragazzi cosa significasse secondo loro il titolo del suo libro, quel “Come osate” pronunciato da Greta Thunberg. Qualcuno ha detto: «Vuol dire: Come osate toglierci l'utopia? Come osate non provarci nemmeno e dirci che il mondo che immaginiamo non è possibile?». In quel momento Mascia ha avuto la consapevolezza di aver fatto bene ad allenarsi un mese e poi partire in bicicletta per il Clima Tour: ventitré città e quindici giorni in giro per l'Italia a incontrare persone, per parlare di quel libro, di clima, di ecologia e di futuro. «Servono le piazze, serve l'incontro e lo scambio di idee per conoscersi e capire. La bicicletta non è solo un mezzo di trasporto, è un mezzo di comunicazione».
Gianfranco ha conosciuto quel giardiniere di ottant'anni, figlio di un innestatore, che vent'anni fa ha deciso di smettere di irrorare pesticidi alle piante e si è convertito al biologico «perché parte di un ecosistema che non lo avrebbe più sopportato».
Ha visto mariti che aspettavano mogli e fidanzate che aspettavano fidanzati affaticati in salita e sulla sua bicicletta a pedalata assistita ha fatto posto a nuove consapevolezze. «Sono cresciuto in Romagna, ma da tempo non percorrevo più la riva di un fiume, non guardavo più la natura con quello sguardo. Quando mi chiedono perché è necessario cambiare direzione, racconto anche questo e poi chiedo: perché no? Che c'è di male?» Perché Mascia può spiegarlo bene. «Se andiamo verso l'ecologia non perdiamo nulla. Nessuno ci perde, tutti guadagniamo qualcosa. Stiamo meglio e sta meglio il pianeta. È così illogico non provare. Avevano ragione quei ragazzi».
Non ci si prova perché manca un'intelligenza collettiva che agisca di conseguenza e ognuno va per la sua via. Così non si prova nemmeno a immedesimarsi nelle scelte degli altri. «I camionisti che mi sfioravano lungo il percorso non pensavano minimamente a come potessi sentirmi, protetti da quel gigantesco involucro che rende forti. Un esempio fra i tanti. Questo vale anche per il clima e per lo scontro generazionale che il dibattito scatena. I giovani che si battono per l'ambiente lo fanno perché hanno ascoltato gli scienziati, perché sanno che è necessario. Fra sei anni e mezzo non finirà il mondo, ma, se il surriscaldamento globale si alzerà più di un grado e mezzo, ci sarà un punto di non ritorno e bisognerà limitarsi ad azioni di mitigazione. I ragazzi ci rimproverano di non avere ascoltato prima la scienza. I risultati si vedono tutti i giorni: i disastri e gli allagamenti ne sono una triste testimonianza».
Mascia lo dice forte e chiaro: «Siamo solo fortunati a non essere noi i diretti interessati di questi fatti, un giorno, però, potrebbe capitarci. Poteva capitare a me, mentre pedalavo per qualche città». A Gianfranco Mascia piace raccontare il linguaggio della bicicletta: «Quel linguaggio fatto di conoscenze spontanee, fra persone che non si conoscono, non si sono mai viste e forse non si rivedranno più, ma si fermano per strada a parlare come fossero amici di infanzia. Tutto è nel modo in cui leggiamo la realtà. Non ci si priva della macchina, si ha in regalo la bicicletta con tutte le sue infinite possibilità».


La disobbedienza di Anna Kiesenhofer

Quando Anna Kiesenhofer è partita insieme ad un'altra manciata di atlete subito dopo il via, nessuno le avrebbe dato una possibilità. Forse in quel momento era anche giusto, perché la storia della fuga impossibile è copione tanto seducente quanto conosciuto e in parte scontato.
Quando Anna Kiesenhofer è partita insieme ad Anna Plichta e Omer Shapira e poi da sola, sapeva che fuggire nel ciclismo ha un significato diverso da quello che ha in ogni altra circostanza di vita. Chi fugge ha coraggio, forse anche incoscienza. Lo sapeva da quel giorno del 2016 sul Mont Ventoux, quando vinse mentre tutti dicevano che l'avrebbero ripresa. Lei che praticava duathlon e triathlon e nel ciclismo non sarebbe mai arrivata, non fosse stato per un infortunio.
Quando, poi, è andata via da sola, tutti abbiamo iniziato a pensare che forse aveva fatto bene a dedicarsi al ciclismo, in parte a discapito della matematica e della fisica. Lei ci ha pensato prima. Lo testimonia quel pianto a singhiozzi a terra, dopo il traguardo, quel pianto senza fiato perché di fiato Anna non ne aveva davvero più quando è diventata campionessa olimpica.
Qualche giorno fa ha ringraziato tutti coloro che hanno sempre creduto in lei, ma soprattutto coloro che in lei non hanno mai creduto «perché- ha detto Kiesenhofer, che nel nome riecheggia una sciatrice più che una ciclista- se sono arrivata a Tokyo è anche per dimostrare a costoro che si sbagliavano».
Dietro Annemiek van Vleuten è argento e Elisa Longo Borghini bronzo. L'olandese che da quella caduta di Rio ha imparato la relatività del ciclismo, concetto di fisica, forse non a caso, e l'italiana che nel finale ha fatto quello per cui corre, sorprendere, stupire, non lasciare spazio allo scontato. Si fossero mosse prima cosa sarebbe successo? Chissà cosa sarebbe accaduto se il gruppo avesse capito prima che la troppa sicurezza di se stessi è il più grosso rischio.
Invece c'è la storia di Kiesenhofer che è tempo, numeri e relatività. Che è matematica e fisica, quella dei distacchi e della bicicletta, ma anche istinto e irrazionalità. Che somiglia a quella che vi abbiamo raccontato della prima donna che scalò il Monte Fuji senza permesso e ci riuscì. Anna Kiesenhofer ha disobbedito a ogni sorta di pregiudizio o legge non scritta e ha dimostrato di aver ragione, come sanno fare tutti coloro che devono lottare per ciò che vogliono, come sa fare una ciclista in fuga, come spesso deve fare una donna.